EAN– European Astrosky Network n . 21 / 20 15 Webzine gratuita www.eanweb.com [email protected] © EAN 2015 ASTRONOMIA & INFORMAZIONE ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Webzine gratuita: ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Luogo di pubblicazione: Questo numero della webzine “Astronomia Nova” è pubblicata a Medolla (MO) in Via A. Gramsci 7, in data 05 febbraio 2016 Pagina 3 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 n . 21 / 20 15 Webzine gratuita www.eanweb.com [email protected] © EAN 2015 INDICE Editoriale a cura della Redazione p. 05 C. Ruscica, KM3NeT, un Telescopio sottomarino per neutrini p. 06 G. Pappa, Le comete SOHO, cosa sono e come scoprirle p. 11 S. Masiero, R. Claudi, Metodi che usi, pianeti che trovi p. 20 M. Cardaci, Corsi e ricorsi del Sole p. 33 G. Pappa, Fotometeore p. 40 C. Ruscica, METI, il dibattito sui messaggi interstellari p. 48 S. Covino, Quando l'Italia aspirava alle stelle p. 55 M. Dho, Gimbal, una testa tuttofare p. 59 A. Villa, 2015-216: transiti di pianeti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano (prima parte) p. 66 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival della Luce 2015 p. 78 R. Calanca, recensione: “L’esplorazione delle comete. Da Halley A Rosetta” di Cesare Guaita p. 98 Pagina 4 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 REDAZIONE Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected] Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected] Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected] Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected] Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected] SPONSOR PROGETTI EAN ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 5 EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN Finalmente riprendiamo la pubblicazione di Astronomia Nova ! La webzine ha molti estimatori e può contare su di un gruppo di autori davvero bravi: allora dove sta il problema? Perché non usciamo con regolarità? La risposta è purtroppo semplice: nonostante alcune condizioni sicuramente favorevoli, ve ne sono altre che penalizzano fortemente la gestione della webzine e la sua preparazione “materiale”. Ci riferiamo soprattutto al TEMPO, entità impalpabile ma assolutamente essenziale…; è infatti la disponibilità di tempo che i componenti della Redazione possono dedicare per editare la rivista, ad essere sempre troppo poco. Ce ne scusiamo con i lettori che ci seguono ormai da alcuni anni, augurandoci che questo numero, uscito in ritardo, sia, almeno, di piacevole lettura. In effetti, ci sono numerosi articoli che crediamo possano interessare i nostri lettori; nel seguito ne citiamo alcuni. Corrado Ruscica ne ha ben due: il primo riguarda il telescopio sottomarino per lo studio dei neutrini, un grande progetto europeo di ricerca che ha una delle sue basi principali in Sicilia. L’altro articolo esamina il dibattito sui messaggi interstellari per cercare il contatto con eventuali altre civiltà della Galassia. Sabrina Masiero e Riccardo Claudi, astronomi INAF, trattano un argomento di grande attualità nella ricerca astronomica di punta: i metodi per rilevare pianeti extrasolari. Oggi i pianeti conosciuti (dopo un’esclalation ventennale, è infatti nel 2015 che si celebra il primo ventennio della scoperta di 51 Peg, il primo pianeta extrasolare scoperto) sono dell’ordine di un paio di migliaia, ed il loro numero cresce quasi esponenzialmente. Quali sono i metodi che ci consentono di aggiungerne sempre di nuovi? Sabrina e Riccardo li espongono in modo chiaro ed esaustivo. Anche i due articoli del giovane Giuseppe Pappa vertono su argomenti capaci di coinvolgere non solo gli appassionati. Il primo articolo esplora il mondo delle comete SOHO e fornisce utili indicazioni per cercarle nell’immenso archivio di immagini prodotto da questo straordinario osservatorio spaziale. Il secondo articolo costituisce un’ampia raccolta di “fotometeore” , ovvero, eventi luminosi che si possono osservare nell'atmosfera o sulla superficie terrestre. Il campionario di questi fenomeni, illustrato da Giuseppe, è davvero ampio ed affascinante! Anche l’articolo di Alberto Villa sulle osservazioni di transiti di pianeti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano è davvero apprezzabile, dimostrando che è possibile ottenere eccellenti risultati, in un settore all’avanguardia dell’astrofisica di oggi, anche per gli astrofili che siano seriamente impegnati e determinati. Terminiamo questa rassegna, assolutamente non esaustiva (abbiamo tralasciato di parlare di altri articoli che potrete scoprire e leggere, “sfogliando” le quasi cento pagine di questo numero della webzine) con un rapido cenno al Festival della Luce di Bondeno, in provincia di Ferrara, un’iniziativa alla quale EANweb ha dato il suo apporto di idee e di spirito organizzativo. Nei tre giorni del festival ben 23 relatori si sono succeduti sul palco, dimostrando ancora una volta che la cultura, scientifica, umanistica e tecnologica, è ben viva e presente in Italia. E’ stato il nostro contributo all’Anno della Luce che si è concluso proprio in questi giorni. BUONA LETTURA! LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte Pagina 6 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, KM3NET KM3NET, UN TELESCOPIO SOTTOMARINO PER NEUTRINI Corrado Ruscica [email protected] Abstract È un telescopio per lo studio dei neutrini cosmici di alta energia che sarà situato all’interno di una struttura sottomarina del volume di alcuni chilometri cubi, a 3500 metri nelle profondità del Mar Mediterraneo, allo scopo di identificare le sorgenti astrofisiche dei raggi cosmici e dell’antimateria. Lo strumento permetterà di studiare i fenomeni esplosivi e più energetici dell’Universo, quali i lampi gamma, le esplosioni e le collisioni stellari, e potrà essere utilizzato come potente strumento di ricerca per l’enigmatica materia scura. Costituito da decine di migliaia di “occhi” elettronici, KM3NeT sarà in grado di identificare la debole scia luminosa prodotta in mare dalle rare interazioni dei neutrini di origine astrofisica con l’acqua. La struttura ospiterà inoltre una serie di strumenti che permetteranno agli scienziati che si occupano di Scienze del Mare e della Terra di monitorare l’ambiente marino a lungo termine fino a profondità di alcuni chilometri. Si tratta di un progetto che coinvolge l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), numerose Università Italiane e Istituti di ricerca di dieci Paesi Europei, che sono riuniti nel Consorzio KM3NeT. Messaggeri del cosmo I neutrini sono particelle elusive, sfuggenti, direi quasi misteriose, tra le più affascinanti studiate dai fisici delle particelle. Essi appartengono alla famiglia dei leptoni, cioè quelle particelle che assieme agli elettroni, ai muoni, ai tauoni e ai rispettivi neutrini fanno parte della materia ordinaria. L’esistenza del neutrino venne postulata nel 1930 da Wolfgang Pauli ma la scoperta arrivò 26 anni più tardi. Anche per i neutrini c’è un po’ di Italia, dato che il termine fu coniato da Enrico Fermi come diminutivo del neutrone, una particella molto più pesante che assieme al protone costituisce l’atomo. Una delle peculiarità di queste particelle riguarda la loro massa che risulta estremamente piccola, così come è C. Ruscica, KM3NET ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 7 Immagine tratta dal sito: www.laperfettaletizia.com/2013/05/neutrini-che-trasformisti.html stato dimostrato da alcuni esperimenti che suggeriscono dei valori da centomila ad un milione di volte inferiori rispetto alla massa dell’elettrone. Nell’ambito della ricerca sui neutrini è stato scoperto ad esempio che essi “oscillano”, cioè cambiano le loro proprietà, dette tecnicamente “sapori”, con il passare del tempo. Questo fenomeno non solo permette di risolvere alcuni problemi legati alla loro origine ma soprattutto implica che la loro massa non sia nulla. Possiamo dire che assieme ai fotoni e ai raggi cosmici di alta energia, i neutrini rappresentano una sorta di “messaggeri cosmici” e perciò ci permettono di esplorare le regioni più remote dell’Universo fornendoci preziose informazioni sui vari fenomeni astrofisici. Dato che queste particelle sono così sfuggenti, come fanno i fisici a catturarle? Per rivelare i neutrini, gli scienziati devono costruire delle apparecchiature costituite da enormi quantità di materiale (come ad esempio i rivelatori al cloro, al gallio, all’acqua pura o pesante) che sono posti sottoterra in modo da schermare la radiazione cosmica. A causa del loro elevato potere penetrante occorrerebbe un muro di piombo di spessore pari ad un anno-luce per bloccare almeno metà dei neutrini che attraversano la materia. Mi ricordo di un particolare evento che accadde mentre frequentavo il secondo anno del corso di Laurea in Astronomia all’Università di Bologna e cioè l’esplosione della supernova 1987A. La notizia fece il giro del mondo e la comunità scientifica fu impegnata per diverse settimane a raccogliere dati preziosi che confermarono una previsione teorica. In altre parole, quando una stella esplode, gran parte della sua energia viene irradiata nello spazio sotto forma di neutrini di cui è possibile registrare il flusso che arriva sui rivelatori a Terra. Insomma, si trattava della prima prova sperimentale legata ad un fenomeno di natura astrofisica a supporto della teoria. Invece, più di recente abbiamo assistito ad un fatto curioso: nel 2011, i ricercatori di un altro esperimento, chiamato OPERA, affermarono di aver trovato un’anomalia nella misura della velocità dei neutrini che sembrava essere superiore a quella della luce. La teoria della relatività di Einstein sembrava essere messa in discussione ma circa un anno dopo, una analisi più attenta dei dati fece rientrare, per così dire, l’allarme: quella anomalia era dovuta alla presenza di errori sistematici nell’apparato sperimentale. Dai neutrini gli scienziati si aspettano un grande contributo al progresso delle conoscenze astrofisiche e cosmologiche. Pagina 8 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, KM3NET Schema dei vari processi che avvengono durante lo sviluppo di uno sciame atmosferico prodotto da un raggio cosmico (crediti: CERN). I moderni osservatori astrofisici e i rivelatori di raggi cosmici permettono di studiare l’Universo in tutto lo spettro elettromagnetico, dalle onde radio fino ai raggi gamma. Tuttavia, l’Universo è sostanzialmente opaco sia alla radiazione gamma di energia maggiore di 1000 miliardi di eV sia ai raggi cosmici di energia estrema, un fatto che preclude l’osservazione alle alte energie delle potenti sorgenti extragalattiche. Da qui deriva il grande interesse per lo studio dei neutrini astrofisici poiché sono gli unici messaggeri cosmici che, non avendo carica ed essendo dotati di massa piccolissima, sono in grado di percorrere grandi distanze senza che la loro traiettoria venga deviata dai campi magnetici e senza interagire con la materia. I neutrini, prodotti dalle stesse sorgenti dei raggi cosmici, potrebbero permetterci quindi di individuarle in modo univoco: mentre i raggi cosmici sono deflessi dai campi magnetici e giungono sulla Terra in modo sostanzialmente isotropo, i neutrini percorrono indisturbati enormi distanze, conservando intatta l’informazione sulla loro sorgente. KM3NeT, inoltre, potrà individuare quelle regioni della nostra galassia nelle quali l’antimateria “pesante” può accumularsi per attrazione gravitazionale e annichilirsi, trasformandosi così in neutrini. Il primo obiettivo dello strumento KM3NeT sarà la rivelazione dei neutrini di alta energia di origine cosmica (ARCA). Lo sforzo scientifico a livello mondiale è concentrato in tre centri di ricerca: l’esperimento IceCube (al Polo Sud), GVD (presso il lago Baikal) e KM3NeT (nel Mar Mediterraneo). Il successo della costruzione del rivelatore ANTARES (sempre nel Mar Mediterraneo) ha dimostrato proprio la fattibilità della realizzazione di strumenti sottomarini per lo studio dei neutrini L'IceCube Neutrino Detector è un rivelatore di neutrini costruito presso un’installazione scientifica nel Polo Sud, immergendo nel ghiaccio antartico, ad una profondità che varia tra i 1.450m e i 2.450m, dei rivelatori a geometria sferica nei quali sono alloggiati dei fotomoltiplicatori; tali sensori sono disposti in pozzi verticali di sessanta moduli ognuno. http://icecube.wisc.edu/ C. Ruscica, KM3NET ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 9 Ettore Majorana (1906 – 1938 (morte presunta) o in località ignota dopo il 1959) è stato un fisico italiano le cui opere più importanti hanno riguardato la fisica nucleare e la meccanica quantistica relativistica, con particolari applicazioni nella teoria dei neutrini. In fisica delle particelle un fermione di Majorana è una particella che è anche la propria antiparticella. Il neutrino potrebbe essere un fermione di Majorana e ciò renderebbe possibile il doppio decadimento beta senza neutrini. Esperimenti alla ricerca di tale decadimento sono in corso. Il secondo obiettivo di KM3NeT sarà la determinazione della massa dei neutrini (ORCA). Il problema gerarchico relativo alla massa dei neutrini, assieme a quello della violazione della simmetria caricaparità e ad una possibile natura dei neutrini (di tipo particelle di Majorana), rappresenta un punto cruciale del modello standard della fisica delle particelle. Con il rivelatore ORCA sarà possibile determinare la massa dei neutrini utilizzando il fenomeno dell’oscillazione nell’atmosfera terrestre. Inoltre, ORCA sarà sensibile alla rivelazione di eventuali particelle meno massive di materia scura (attraverso eventuali processi di annichilazione che avvengono all'interno del Sole dove la materia scura rimarrebbe "intrappolata") e alla composizione della struttura interna della Terra (attraverso la tomografia neutrinica). Mille ‘leghe’ ottiche sotto il mare La struttura marina, attualmente in fase di costruzione, sarà posizionata al largo di Capo Passero ad una profondità di 3500 metri nel Mar Ionio. Il telescopio marino, denominato con la sigla KM3NeT (leggasi “chilometro cubo”), occuperà un volume di diversi chilometri cubi e sarà costituito da una rete di migliaia di sensori ottici che avranno lo scopo di raccogliere nelle profondità marine la debole luce prodotta dalle particelle cariche, tipicamente muoni, a seguito delle interazioni tra i neutrini e l’acqua. I sensori ottici saranno installati su alcune centinaia di strutture meccaniche alte circa 1 km, anco- Il doppio decadimento beta (DBD) è un decadimento radioattivo raro in cui un nucleo decade in un altro con stesso numero di massa. Il doppio decadimento beta può essere interpretato come il verificarsi di due decadimenti beta contemporanei. Qualora neutrino ed antineutrino non fossero particelle realmente distinte, sarebbe possibile osservare un doppio decadimento beta senza emissione di neutrini. rate a 3500 m di profondità sul fondo marino e tenute in posizione verticale da boe di profondità. Una rete di cavi sottomarini permetterà di fornire direttamente l’alimentazione elettrica da terra. I dati registrati dal telescopio saranno inviati verso riva tramite fibre ottiche, in tempo reale. L’enorme massa del rivelatore, stiamo parlando di qualche migliaia di miliardi di chili, è dovuta da un lato, al flusso relativamente debole dei neutrini cosmici di alta energia e, dall’altro, alla loro debole interazione con la materia. Tuttavia, gli strumenti saranno in grado di operare in sicurezza sotto il limite di profondità dove arriva la luce solare, che è di circa 1000 metri. Infatti, a queste profondità, il rivelatore può ancora essere illuminato dalla cosiddetta “luce Cerenkov” (cioè radiazione elettromagnetica emessa dal materiale quando le sue molecole vengono polarizzate da una particella carica in moto che lo attraversa) dovuta ai muoni prodotti nei raggi cosmici secondari appena emergono nell’atmosfera terrestre (se ne calcolano circa 10 miliardi per chilometro quadrato all’anno). Pagina 10 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, KM3NET Alla collaborazione internazionale partecipano Cipro, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Regno Unito, Romania, Spagna. La collaborazione italiana, finanziata e guidata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e da numerose Università (Bari, Bologna, Catania, Genova, Napoli, Roma La Sapienza), ha condotto la fase preparatoria del progetto Europeo KM3NeT. Inoltre sotto la sigla INFN “Nemo” (Neutrino Mediterranean Observatory) la collaborazione conduce dal 1998 un’intensa attività di ricerca per lo studio del sito abissale di Capo Passero e lo sviluppo delle tecnologie sottomarine per la costruzione del rivelatore. Il prototipo di un modulo del telescopio KM3NeT mentre viene trasportato da Malta ad una distanza di 100 Km al largo di Portopalo di Capo Passero. L’architettura del telescopio è ottimizzata per osservare i segnali dei neutrini di alta energia (maggiore di 1 TeV = mille miliardi di elettron-Volt), provenienti dalle sorgenti astrofisiche caratterizzate da fenomeni esplosivi, sia di origine galattica come i resti di supernova, sia di origine extragalattica come i nuclei galattici attivi e i cosiddetti lampi gamma. Il Mediterraneo sembra essere un posto ideale per un osservatorio di questo tipo anche perché è fornito di acqua dalle eccellenti proprietà ottiche alle giuste profondità. Inoltre, bisogna ricordare che la posizione del laboratorio è stata scelta per fare da complemento alle osservazioni di un altro telescopio, chiamato IceCube, che si trova al Polo Sud. KM3NeT avrà il compito di monitorare gran parte del disco della Via Lattea, incluso il centro galattico, che risulta meno visibile dal Polo Sud. Infine, lo strumento sarà in parte utilizzato per lo studio della materia scura e sarà dotato anche di strumenti destinati alle scienze terrestri e oceaniche, per il monitoraggio in tempo reale e a lungo termine degli ambienti marini fino a profondità di qualche chilometro. Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce attività di divulgazione scientifica attraverso articoli e conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia alla fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo", "Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro -edizioni . G. Pappa, Comete SOHO ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 11 LE COMETE SOHO, COSA SONO E COME SCOPRIRLE Giuseppe Pappa http://giuseppepappa.altervista.org FIG. 1: La straordinaria sequenza di immagini della cometa C/2004 F4 (Bradfield) passata nel campo di vista del coronografo LASCO C3 di SOHO tra il 16 ed il 20 aprile 2004. L’astronomia è una scienza che offre una tale varietà di fenomeni e di oggetti da lasciarci sbalorditi, ma anche ampiamente soddisfatti per i risultati osservativi che si possono conseguire, certamente impensabili fino a pochi decenni fa. Ne hanno di che essere appagati gli astronomi non professionisti, per le loro scoperte di innumerevoli oggetti celesti: asteroidi, supernove, comete, stelle variabili..., scoperte che sempre più spesso non si fanno più al telescopio, bensì di fronte allo schermo del PC. Ad offrire questa straordinaria opportunità ci hanno pensato la NASA e l’ESA che, grazie all’Osservatorio solare SOHO, http://sohowww.nascom.nasa.gov/, fig. 2, hanno permesso, a diverse decine di astrofili, tra i quali anche lo scrivente, di scoprire comete semplicemente esaminando le immagini realizzate dall’Osservatorio SOHO e distribuite sul web in tempo reale. FIG. 2: Il Solar and Heliospheric Observatory (spesso abbreviato in SOHO) è un telescopio spaziale lanciato alla fine del 1995 per studiare il Sole. È un progetto congiunto dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e della NASA. SOHO orbita a 1,5 milioni di km dalla Terra, su di un ellisse che ha in uno dei fuochi il punto lagrangiano L1. Ciò consente a SOHO di mantenere una posizione costante relativamente a Terra e Sole. Il telescopio SOHO studia molti aspetti del Sole con i suoi 12 strumenti scientifici, ognuno dei quali è in grado di osservare indipendentemente il Sole o parti di esso. In particolare, con GOLF (Global Oscillations at Low Frequencies) misura la velocità e la variazione del disco solare per analizzare il nucleo solare; con VIRGO (Variability of Solar Irradiance) studia le oscillazioni del disco solare e a bassa risoluzione, e via così con gli altri strumenti di bordo. Pagina 12 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Comete SOHO FIG. 3: Schema dei tre sistemi ottici LASCO C1, C2, C3, (uno degli undici strumenti che compongono l’Osservatorio SOHO) ognuno munito di coronagrafo, che registrano immagini in luce bianca della corona solare, con campi di vista rispettivamente da 1,1 a 3 raggi solari (LASCO C1); da 1,5 a 6 raggi solari (LASCO C2) e da 3,5 a 30 raggi solari (LASCO C3). Crediti: http://lasco-www.nrl.navy.mil/ Il dispositivo che però maggiormente interessa i cacciatori di comete è LASCO (Large Angle and Spectrometric COronagraph), fig. 3, principalmente dedicato allo studio della corona del Sole e del vento solare. E’ con questi strumenti, C2 e C3, che sono state scoperte la maggior parte delle comete, tra le quali le due spettacolari comete che si schiantarono sul Sole nel 1997. Tipologia delle comete scoperte da SOHO La stragrande maggioranza delle comete scoperte da SOHO appartengono alle comete radenti “Kreutz”, dal nome dell'astronomo tedesco Heinrich Kreutz (18541907), che per primo dimostrò la loro origine comune. Esse sono caratterizzate da orbite che le portano estremamente vicine al Sole durante il passaggio al perielio. Si ritiene che questa famiglia sia composta dai frammenti di un'unica grande cometa che si frammentò intorno al 2000 a.C. Molti dei membri di questa famiglia sono diventati grandi comete, occasionalmente anche visibili in pieno giorno vicino al Sole. La più recente di queste è stata la Cometa Ikeya-Seki nel 1965, probabilmente la più lumi- nosa dell'ultimo millennio. Finora, dalle immagini di SOHO, è stato possibile scoprire più di 2500 comete e, di queste, l’83% sono di tipo “Kreutz”. Le rimanenti appartengono ad altri gruppi: “Kracht” (dal nome dell’astrofilo tedesco Rainer Kracht), “Meyer” (dal tedesco Maik Meyer) e “Mardsen” (dall’astronomo britannico Brian Marsden, 1937-2010, che fu a lungo direttore del Minor Planet Center). I diversi gruppi si differenziano per le loro “traiettorie” all’interno del campo inquadrato da SOHO. Nelle figg. 4 e 5, una serie di immagini realizzate da LASCO C2 e C3 ci mostrano una caratteristica rilevante del comportamento delle comete “Kreutz”. Queste, da gennaio fino a giugno, hanno un percorso in direzione del Sole che si sposta dal settore di sinistra verso quello di destra. In seguito, da agosto a dicembre, la rotta si inverte. Statisticamente si è visto che i mesi più prolifici sono maggio-giugno e novembre-dicembre. Nel 1967 Brian Marsden cercò di individuare la cometa progenitrice del gruppo "Kreutz". Le comete del gruppo presentano un'inclinazione orbitale praticamente identi- G. Pappa, Comete SOHO ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 13 FIG. 4: Il percorso di avvicinamento al Sole delle comete “Kreutz”, in queste immagini di LASCO C2, varia nel corso dei mesi, in senso antiorario da gennaio ad agosto, che si inverte poi, in senso orario, da settembre a dicembre. Il numero di comete “Kreutz” è statisticamente più elevato tra aprile-maggio e in novembre. ca di circa 144° e valori molto simili di longitudine del perielio, intorno a 280-282°, ma sembrano anche appartenere a due gruppi distinti, con i rimanenti elementi orbitali solo leggermente differenti tra loro. Ciò implica quindi che la famiglia “Kreutz” è il risultato di frammentazioni successive non avvenute a un solo perielio. La maggior parte delle comete scoperte da SOHO sembrano appartenere al sottogruppo I di "Kreutz". Si pensa che la distinzione in due sottogruppi indichi che questi risultano da due comete genitrici, a loro volta parte di un'unica cometa che si è frammentata in un’epoca imprecisata, forse un paio di millenni fa. Un’ipotesi abbastanza fantasiosa è che essa potrebbe essere stata la cometa osservata da Aristotele e da Eforo di Cuma nel 371 a.C.; quest'ultimo affermò di averla vista spezzarsi in due. FIG. 5: In queste immagini prodotte da LASCO C3, dove è raffigurato il comportamento del Gruppo “Kreutz”, mostra, nei pressi del disco solare un punto “luminoso barrato”: siamo in presenza di un transito di un pianeta, Mercurio. Una curiosità è che SOHO, durante l’anno, può riprendere i transiti degli otto pianeti del sistema solare e degli asteroidi più luminosi, Vesta e Cerere. Il sito web SOHO fornisce un elenco dei transiti visibili nel corso dell’anno: http:// sungrazer.nrl.navy.mil/ index.php?p=transits/transits Pagina 14 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Comete SOHO FIG. 6: In questa eccezionale immagine ottenuta con LASCO C3 il 15 maggio 2000, nel campo dello strumento troviamo ben quattro pianeti, Mercurio, Saturno, Giove e Venere, oltre alla Pleiadi. Sembra assai più probabile che la progenitrice giusta sia da cercare tra le comete che arrivarono tra il terzo e quinto secolo della nostra era (in particolare, le comete del 214, 426 e 467); si dovette trattare di un oggetto molto grande, forse di oltre 100 km di diametro. Per confronto, il nucleo della Cometa Hale-Bopp era di circa 40 km. Il gruppo “Meyer”, scoperto dall’astrofilo tedesco Mayk Meyer (fig. 7), a marzo di quest’anno, era composto da 181 comete di piccole dimensioni e magnitudini comprese tra la 6 e la 8. Esse, perciò, sono di solito visibili nella camera LASCO C2 e, solo in alcuni casi, anche con la camera C3. La traiettoria delle comete di questo gruppo è indicata nelle immagini di figura 8: si spostano nel corso dei mesi da sinistra verso destra. La cometa periodica 96P/Machholz ha probabilmente dato origine al gruppo "Marsden", che prende il nome dell'astronomo britannico Brian Marsden, deceduto nel 2010 (fig. 9). Il gruppo ha un periodo di circa 5 anni. Il loro percorso, nelle immagini di figura 10, è da sinistra verso destra tra ottobre e febbraio e percorso inverso nei mesi tra marzo e settembre. L’orbita visibile si spoFIG. 7: Mayk Meyer, astrofilo tedesco, scopritore di decine di comete SOHO e del gruppo di comete che porta il suo nome. sta in questi casi dal basso verso l’alto cosi come possiamo vedere nelle immagini sopra elencate. Le comete fino ad oggi scoperte, appartenenti a questo gruppo, sono 34. La 96P/Machholz appartiene alla famiglia della cometa di Halley ed è stata scoperta da Donald Machholz il 12 maggio 1986. È stata ripresa da LASCO C2 e C3 nel 1996, nel 2002 (fig. 11) e nel 2007. Anche il gruppo "Kracht" sembra legato alla periodica 96P/Machholz, avendo infatti un periodo di rivoluzione pressoché identico. Esso fu scoperto dal tedesco Rainer G. Pappa, Comete SOHO ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 15 FIG. 8: Traiettoria delle comete del gruppo “Meyer” tra gennaio e novembre. Kracht (fig. 12), uno dei più prolifici scopritori di comete SOHO. Fino ad oggi si conoscono 37 comete appartenenti a questo gruppo (fig. 13). Ad esse si aggiungono altre 4 comete facenti parte della famiglia "Kracht 2", caratterizzate da un periodo di circa 4 anni. Oltre alle famiglie sopra citate, vi sono comete definite “non-group comets” che, sporadicamente, possono essere visibili in qualsiasi porzione del campo inquadrato dagli strumenti di SOHO. Come si scoprono le comete SOHO Per scoprire comete SOHO sono necessari un computer ed una connessione veloce al web, per poter scaricare le immagini. Alla pagina http:// sohowww.nascom.nasa.gov/data/realtime-images.html, fig. 14 vengono caricate in tempo reale le immagini che la sonda invia verso la Terra. Ogni immagine è contrassegnata dalla data e dall'ora in Tempo Universale. Selezioniamo dall’elenco il tipo di strumento (ad esempio LASCO C2) e il numero di immagini da investigare e, FIG. 9: Brian G. Marsden (1937-2010), astronomo britannico, a lungo direttore del Minor Planet Center. una volta salvate sul nostro disco fisso, possiamo iniziare la ricerca. Una tecnica semplice, usata normalmente per la ricerca di qualsiasi corpo celeste in moto, è il blinkering: cioè confrontare due immagini successive e cercare gli eventuali spostamenti di un oggetto nel campo. FIG. 10: Traiettorie delle comete del “Gruppo Marsden” Pagina 16 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Comete SOHO FIG. 11: La cometa 96P/Macholz ripresa da SOHO l’8 gennaio 2002. FIG. 12: Rainer Kracht ha scoperto, fino ad oggi, 255 comete SOHO ed ha dato il proprio nome ad una famiglia di comete. Nell’immagine di figura 15 abbiamo due comete riprese dalla camera C3. Sono le n°999 e n°1000. L’ultima di queste costituisce un traguardo importante, raggiunto dal nostro Toni Scarmato, il più attivo ricercatore italiano in questo genere di ricerca. Tra le immagini spesso capita di vedere degli oggetti che possono trarci in inganno: in realtà si tratta di artefatti delle immagini o di raggi cosmici. Questi artefatti, per fortuna, si vedono in una singola immagini ma, affinché possa essere convalidata la scoperta, la cometa deve es- sere ben visibile in almeno 3 immagini C2 consecutive e in almeno 4 consecutive in C3. Cosa fare in caso di scoperta Se, dopo aver scandagliato con attenzione le immagini, scartati gli eventuali raggi cosmici e gli artefatti si trova comunque riscontro, in almeno due immagini, di una sospetta cometa, dobbiamo seguire le indicazioni del format che ci propone il sito SOHO da utilizzare per inviare la segnalazione. FIG. 13: Traiettoria delle comete del Gruppo “Kracht” G. Pappa, Comete SOHO ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 17 FIG. 14: Schermata iniziale che permette di accedere alle immagini prodotte dai diversi strumenti SOHO. La pagina esplicativa ed il format vanno letti e compilati con grande attenzione: http:// sungrazer.nrl.navy.mil/index.php?p=cometform Un esempio del format da compilare è in figura 16. Dopo aver inviato le prime segnalazioni per ottenere il proprio nome nell’elenco, bisogna contattare Mr. Sungrazer ovvero Karl Battams, cioè colui che gestisce il sito sungrazer della sonda SOHO. Nell’icona potential comet si indichi che si sta segnalando una possibile nuova cometa. Qui sono presenti altre caselle, nelle quali si possono aggiungere altre posizioni della possibile cometa o cancellare la segnalazione che abbiamo inviato prima nel caso in cui, come spesso capita, non si tratti di una cometa. Nella casella “Time” si inserisce l’orario solo del post che si vuole cancellare, correggere o confermare su una cometa segnalata da un altro osservatore. La data viene riferita all’immagine mentre nella casella delle camere viene scelto il tipo di osservatorio LASCO utilizzato, ovvero il C2 o C3, e le dimensioni delle immagini. La posizione degli assi delle x e y viene segnalato nella casella successiva. Per quanto riguarda il modo di indicare la posizione dell’eventuale comete nell’immagine è bene ricordare che il formato più utilizzato e che da il maggior dettaglio è il 1024x1024. Ad esempio, per indicare la cometa, l’autore utilizza il programma Paint di Windows, ma è evidente che si può utilizzare qualsiasi programma grafico con riferimenti cartesiani. In questo caso indichiamo l’origine, mentre la cometa la si posiziona nell’immagine secondo una coppia di valori x,y. FIG. 15: le comete SOHO 999 e SOHO 1000, quest’ultima scoperta dall’italiano Toni Scarmato. Pagina 18 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Comete SOHO FIG. 16: Form da compilare per segnalare la possibile scoperta di una cometa SOHO. Questi valori vanno successivamente inseriti nelle caselle seguenti insieme al “frame time”, cioè l’orario dell’immagine che stiamo analizzando. La casella del gruppo della cometa a cui essa appartiene serve a identificare la cometa tra le famiglie precedentemente illustrate. Nell’immagine di fig. 17, ottenuta da LASCO C2, riporto l’immagine della mia prima cometa scoperta nel 2008 con la successiva conferma da parte di Rob Matson. FIG. 17: Contornata dal quadratino, la cometa scoperta dall’Autore nel 2008 in un immagine LASCO C2. Dopo la scoperta di questa cometa ne ho scoperta un’altra alla fine stesso mese di maggio 2008. Altre le ho segnalate con pochi istanti di ritardo, perdendo quindi, per un soffio, il diritto al riconoscimento. Nel corso degli anni ho avuto modo anche di confermare comete scoperte da altri osservatori e di aver creato la lista dei transiti dei corpi celesti nel 2013 e 2014. Non sono l’unico scopritore italiano di comete SOHO, ma sono l’ultimo in ordine cronologico, fra i 5 italiani che in totale hanno scoperto, fino ad ora, 38 comete. Ecco l’elenco: FIG. 18: L’astrofisico Toni Scarmato, l’italiano che ha scoperto il maggior numero di comete SOHO. G. Pappa, Comete SOHO ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 19 FIG. 19: Una straordinaria immagine della cometa C/2014 Q2 Lovejoy, scoperta da Terry Lovejoy e ripresa da Gerald Rheman in Namibia il 23 dicembre 2014 con un astrografo da 12”, f/3.6. Roberto Gorelli, che fu il primo scopritore di comete tra gli italiani, ne scoprì 2. Toni Scarmato, il più prolifico scopritore italiano di questo tipo di comete, con 25 scoperte all’attivo Michele Mazzucato, 6 comete scoperte Luciano Cane, 3 scoperte L’Autore, con 2 scoperte. Se diamo uno sguardo al resto del mondo, è doveroso citare il primo scopritore di una cometa sul web, il famoso astrofilo australiano Terry Lovejoy conosciuto anche per aver scoperto comete in modo più tradizionale, ossia con un telescopio. Diverse sue comete hanno dato spettacolo come la Sungrazer C/2011 W3 visibile nell’emisfero sud e, in questi mesi, l’ultima scoperta, la C/2014 Q2. Fig. 20: Terry Lovejoy, astrofilo australiano , scopritore, tra l’altro, della cometa periodica SOHO, P/2007 R5. Nel 2007 ha ricevuto l’Edgar Wilson Award. Lovejoy però è ricordato anche perché nel 1999 fu il primo a scoprire una cometa dalle immagini telematiche della sonda; dopo di lui quasi cento astrofili amatoriali si sono cimentati nella scoperta di queste comete, sparsi un po’ in tutto il globo. Fra i più noti voglio ricordare Maik Meyer e Rainer Kracht, dei quali abbiamo già parlato, in quanto scopritori di gruppi di comete SOHO. Poi, Michael Kusiak, Bo Zhou, Masanori Uchina e Hua Su che hanno scoperto diverse centinaia di comete. Una lista con tutti gli scopritori è qui: http://comethunter.lamost.org/SOHO/ rank.htm . In questo articolo ho voluto dare indicazioni semplici e concise su di un aspetto innovativo e non tradizionale per la ricerca delle comete che, in questi primi anni del nuovo millennio, ha dato grosse soddisfazioni a diversi astrofili, anche italiani, regalando loro spettacolari passaggi di comete luminose. Mi auguro che questo articolo possa costituire un utile stimolo per far crescere l’interesse intorno alle comete SOHO e che quindi la lista degli italiani, scopritori di comete, finalmente si allunghi... Giuseppe Pappa è nato a Catania nel 1987. Fin da giovanissimo si è appassionato di astronomia ed ora ha all’attivo la scoperta di 2 comete SOHO ed invia le sue osservazioni di comete a diversi siti astronomici internazionali. Negli ultimi anni ho affiancato alla passione per l’astronomia, quella per la fotografia, in particolare scatti di paesaggi e cielo che ho raccolto nella mia pagina web http://giuseppepappa.altervista.org . Giuseppe è disponibile a rispondere ad eventuali quesiti legati al contenuto di questo articolo; scrivetegli: [email protected] Pagina 20 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi METODO CHE USI, PIANETA CHE TROVI (prima parte) Sabrina Masiero e Riccardo Claudi [email protected] [email protected] Abstract Humans have long wondered whether other planetary systems exist around the billions of stars in our Galaxy. A generation ago, the idea of a planet orbiting a distant star was still in the realm of science fiction. But since the discovery of the first exoplanet orbiting a Sun-like star in 1995, we have found thousands of them, with the discoveries coming at a faster rate over time. Over the past few decades, researchers have developed a variety of techniques to spot the many planets outside our Solar System, often used in combination to confirm the initial discovery and learn more about the planet's characteristics. Here is an explanation of the direct methods used so far. FIG. 1: Questa viene considerata la prima immagine di un pianeta al di fuori del nostro Sistema Solare ottenuta nel 2005 dal Very Large Telescope dell'European Southern Observatory - ESO. 2M1207b è un pianeta con massa pari a cinque volte la massa di Giove a una distanza due volte quella di Nettuno dal Sole e che ruota attorno alla sua stella compagna, la nana bruna 2M1207. Il sistema è stato studiato a lungo con osservazioni aggiuntive, sempre al VLT, misurando il moto apparente della nana bruna e determinandone in modo accurato la posizione relativa del pianeta. Le osservazioni hanno portato a confermare che tale oggetto non è una stella di fondo ma risulta legato gravitazionalmente alla stella, per il fatto che non vi è alcun cambiamento nella posizione relativa tra i due oggetti su una scala temporale di un anno (che rappresenta il periodo di osservazione). Solo su periodi di tempo molto più lunghi sarebbe possibile vedere i due oggetti in orbita l'uno attorno all'altra, data la grande distanza relativa. Il sistema planetario si trova a 230 anni-luce di distanza nella costellazione dell'Idra. L'immagine è stata ottenuta da tre esposizioni nel vicino infrarosso (nelle bande H, K e L) con il NACO montato al Telescopio Yepun di 8,2 metri di diametro al presso l'Osservatorio Paranal dell'ESO in Cile. Crediti: ESO. Da sempre il genere umano si è chiesto se esistessero sistemi planetari attorno ai miliardi di stelle della nostra Galassia. Solo una generazione fa l’idea di un pianeta orbitante attorno ad una stella lontana era ancora fantascienza. Ma dalla scoperta del primo pianeta extrasolare attorno ad una stella di tipo solare nel 1995, di pianeti extrasolari ne abbiamo trovato a migliaia, e il loro numero aumenta sempre di più col passare del tempo. Nel corso degli ultimi decenni i ricercatori hanno sviluppato una serie di tecniche per individuarli, spesso utilizzate combinandole fra loro per confermarne la scoperta e per imparare di più sulle caratteristiche dei pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare. Qui di seguito una spiegazione dei metodi diretti utilizzati finora. Introduzione Un pianeta extrasolare (o esopianeta) è un pianeta che non appartiene al nostro Sistema Solare, ma orbita attorno a una stella diversa dal Sole. S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Perché è importante lo studio dei pianeti extrasolari? Vi è una duplice motivazione scientifica. Da una parte lo studio dei pianeti extrasolari mette alla prova i modelli teorici di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari in un gran numero di sistemi extrasolari. Dall'altra, permette di quantificare la frequenza di pianeti con condizioni fisiche atte a sostenere la vita. Oltre alla motivazione scientifica, vi è anche l'aspetto tecnologico: l'osservazione di pianeti extrasolari richiede un notevole sforzo di affinamento delle tecniche osservative in ambito astronomico (imaging, coronografia, spettroscopia ad alta risoluzione, fotometria, interferometria, e altre ancora). Fino al 1995, anno della scoperta del primo pianeta extra-solare attorno a una stella di tipo solare, non si conoscevano altri sistemi planetari al di là del nostro. Tale scoperta ha rivoluzionato la visione che si aveva di un universo largamente formato da stelle. Nell’ultimo ventennio, infatti, sono stati fatti notevoli progressi tecnologici e la ricerca, lo studio e quindi la caratterizzazione dei pianeti extrasolari sono diventati uno degli obiettivi principali in campo astronomico. Numerose missioni spaziali, tra le quali Kepler della NASA iniziata nel 2009, e missioni già in orbita (come GAIA dell’ESA) o le molteplici in programma nei prossimi anni tra cui CHEOPS e PLATO dell’ESA, TESS e JWST della NASA, potranno dare nuove risposte sulla caratterizzazione dei sistemi planetari al di fuori del nostro. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 21 FIG. 2: Una rappresentazione artistica di PLATOPlanetary Transits and Oscillations of Stars dell’ESAAgenzia Spaziale Europea, il cui lancio è in programma per il 2024. Tale missione cercherà Terre e SuperTerre nella zona abitabile della loro stella, che rappresenta la regione attorno alla stella dove l’acqua si trova allo stato liquido. CHEOPS-CHaracterising ExOPlanet Satellite il cui lancio è previsto per il 2017, è la prima missione dell’ESA dedicata alla ricerca di pianeti in transito davanti alla loro stella con fotometria di altissima precisione e la prima di una possibile classe di piccole missioni dell’ESA. CHEOPS farà un campionamento di un certo numero di stelle luminose vicine al Sole, già note per ospitare pianeti extrasolari, con lo scopo di caratterizzare meglio tali sistemi planetari. Anche TESSTransiting Exoplanet Survey Telescope della NASA, in programma per il 2017, andrà a caccia di pianeti che transitano davanti alla stella, in circa un milione e mezzo di stelle della nostra Galassia. Il JWST-James Webb Space Telescope della NASA, il cui lancio è previsto per il 2018, è un osservatorio orbitante con molti programmi scientifici fra cui la possibilità di osservare spettroscopicamente i pianeti in transito già noti, per analizzarne le nubi e le atmosfere. In particolare, il coronografo del JWST sarà in grado di attenuare l’alta luminosità proveniente dalla stella intorno a cui orbita il pianeta, e osservarne lo spettro in modo da stabilire o escludere l’esistenza di vita su quel dato esopianeta. Crediti: ESA. Uno degli obiettivi è quello di vedere per via diretta i pianeti, non solo i pianeti giganti, inadatti alla vita, ma anche quelli di taglia terrestre, e scoprire i segni dell’esistenza della vita sulla loro superficie. Un modo potrebbe essere quello di riconoscere la presenza di vegetazione sulla loro superficie in linea di principio, da un esame della luce che ci inviano. Siamo sicuri di una cosa. La ricerca di pianeti simili alla nostra Terra, come dimensioni e come giusta distanza dalla loro stella, con eventuali forme di vita come noi la conosciamo, è ancora estremamente lunga. Tale ricerca è fortemente legata alla domanda, ancora senza risposta, se vi sono altre forme di vita nell’universo. Certamente, l’eventuale scoperta di altre forme di vita al di fuori della Terra provocherebbe un profondo sconvolgimento della nostra attitudine verso il mondo. Ciò che affascina e spinge in avanti la ricerca è sicuramente la possibilità di trovare un pianeta simile alla nostra Terra, alla giusta distanza dalla sua stella e con l’acqua sulla sua superficie, in grado di ospitare una qualche forma di vita. Pagina 22 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Inizialmente il ritmo delle scoperte dei pianeti extrasolari è stato lento, ma negli ultimi anni ha conosciuto un grande aumento, passando dai 20 pianeti scoperti nel 2000 ai 189 nel 2011, fino ad arrivare a 850 nel 2014, come si vede nel grafico di figura 3. Fino ad oggi 1921 pianeti extrasolari sono stati confermati (fonte: www.exoplanet.eu ) e oltre 4175 candidati pianeti, secondo le stime della NASA (http:// exoplanetarchive.ipac.caltech.edu/index.html ), la maggior parte dei quali sono stati individuati dalla missione Kepler. Questi risultati hanno portato ad affermare che la formazione di sistemi planetari risulta un fenomeno strettamente legato alla formazione delle stelle e che la presenza di pianeti extrasolari è un fatto comune nell’universo. Infatti, l’osservazione di una grande quantità di sistemi planetari permette di iniziare a fare considerazioni di carattere statistico. I risultati più recenti portano ad affermare che quasi tutte le stelle ospitano pianeti. Abbiamo compreso, inoltre, come i modelli di formazione basati sull’osservazione del solo Sistema Solare fossero quanto meno parziali: i sistemi scoperti hanno caratteristiche molto diverse da quelle del Siste- ma Solare, tanto da richiedere un totale ripensamento dei modelli di formazione planetaria. Metodi per individuare i pianeti extrasolari Individuare pianeti extrasolari è sicuramente un processo complesso. In primo luogo, la luminosità del pianeta extrasolare è molto più debole di quella della stella. Il rapporto tra la luminosità della stella e quella del pianeta nel visibile è in media dell’ordine di 109 (la stella è un miliardo di volte più brillante) mentre è dell’ordine di 104 (la stella è diecimila volte più brillante) nell’infrarosso. Tale contrasto dipende dalle caratteristiche fisiche della stella e del pianeta e, naturalmente, dalla regione spettrale in cui vengono fatte le osservazioni. In secondo luogo, la distanza tra stella e pianeta è molto minore rispetto alla distanza tra il sistema binario stellapianeta e l’osservatore. La nostra tecnologia permette di osservare fino qualche centinaia di parsec (dove un parsec è pari a 206 265 unità astronomiche), mentre la distanza stella-pianeta extrasolare è dell’ordine al massimo di qualche decina di unità astronomiche. Fig. 3: Numero di pianeti extrasolari scoperti per anno dal 1988 ad oggi (settembre 2014). Il colore indica il metodo utilizzato per rilevarlo. Blu: velocità radiale; verde chiaro: metodo dei transiti; giallo scuro: astrometria; rosso scuro: direct imaging; microlensing: marrone chiaro. Crediti: Open Exoplanet Catalogue (2014-09-23). S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 23 FIG. 5: La missione K2 è l’estensione della Missione Kepler della NASA iniziata nel 2009 e interrotta nel maggio 2013 a causa di un guasto a una seconda delle quattro ruote di reazione di Kepler che aveva comportato l’impossibilità di uno stabile puntamento dell’oggetto da studiare. La prima ruota, quella di scorta, si era guastata nell’estate del 2012. K2 è stata approvata nel maggio 2014 con altri due anni di finanziamento per continuare la ricerca dei pianeti extrasolari e per nuove osservazioni relative allo studio di stelle giovani e vecchie in ammassi globulari oltre a galassie attive e supernove. La sonda Kepler in questa sua “seconda vita” viene mantenuta orientata in modo quasi parallelo al suo percorso orbitale intorno al Sole, un po’ fuori asse rispetto al piano dell’eclittica, il piano ideale su cui si muove il Sole. In questo modo K2 può mantenere una data porzione di cielo nel suo campo di vista per un intervallo di tempo fino a un massimo di 83 giorni; trascorso questo periodo, la sonda viene ripuntata in un’altra direzione di cielo per evitare che la luce del Sole finisca nel telescopio. Per bilanciare il telescopio in modo da renderlo sufficientemente stabile viene utilizzata la pressione dei fotoni provenienti dal Sole per continuare a cercare pianeti in transito davanti alla loro stella. La prima missione Kepler è stata un grande successo per la NASA: programmata per una durata di quattro anni, ha individuato oltre 4 200 candidati pianeti attorno ad altre stelle di cui 978 confermati. Crediti: NASA. Questo rende difficoltosa la misurazione della distanza angolare tra stella e pianeta. La separazione angolare tra stella e pianeta è così piccola che neppure i grandi telescopi professionali sono per ora in grado di risolvere il pianeta. Per esempio, il semiasse orbitale di Giove, 5,2 UA a 10 parsec di distanza (equivalente a 32,6 anniluce) verrebbe visto sotto un angolo di soli 0,5 secondi d’arco. Teoricamente, un telescopio professionale (per esempio con uno specchio di 4 m, o anche meno) potrebbe risolvere il pianeta, ma quest’ultimo verrebbe a trovarsi nell’ala della figura di diffrazione dello strumento, dove prevale il disturbo dei fotoni diffusi dalla microrugosità dello specchio, dai sostegni dello specchio secondario del telescopio, dalle variazioni di densità dell’aria e dai moti atmosferici lungo la linea di vista. Infine, la massa del pianeta extrasolare è molto piccola se rapportata a quella della stella e pertanto il moto della stella attorno al centro di massa del sistema è difficilmente rilevabile. Basti pensare che se il rapporto tra le due masse è pari a 1000, come si ha nel caso del Sole e di Giove, allora l’orbita, gli spostamenti e la velocità della stella saranno 1000 volte più piccoli rispetto a quelli del pianeta. La massa totale dei pianeti del nostro Sistema Solare rappresenta solo lo 0,2 percento della massa del Sole. Di conseguenza, le perturbazioni gravitazionali che il pianeta esercita sulla stella sono di piccola entità e quindi difficilmente rilevabili. Inoltre, durante il transito del pianeta l’attenuazione della luminosità della stella è proporzionale al quadrato del rapporto tra il raggio del pianeta e quello della stella. Pagina 24 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi FIG. 6: La stella HR 8799 è stata occultata al centro da un coronografo; intorno ad essa quattro pianeti in immagini riprese dai Telescopi Keck, e Gemini con l’uso di ottiche adattive nel novembre 2008. I tre pianeti, denominati HR 8799b, c, d erano stati fotografati ben undici anni prima, nel 1998, dall’Hubble Space Telescope, quando i ricercatori avevano analizzato, nel 2009, le immagini di HST suggerendo che lo stesso Telescopio poteva aver fotografato altri pianeti extrasolari non ancora individuati nelle immagini di archivio. Il quarto pianeta, denominato HR 8799e, fu scoperto sempre in modo diretto dai telescopi Keck due anni più tardi. Dei tre pianeti osservati da HST sono stati calcolati i periodi orbitali: HR 8799b, più esterno, ha un periodo orbitale di 460 anni; HR 8799c di 190 anni e HR 8799d di 100 anni. Nell'immagine, il sistema HR 8799 con il suo sistema di pianeti b, c, d, e indicati con i cerchi bianchi, nella bande 1,65 e 3,3 micron. Crediti: LBT, Andrew J. Skemer et al., First Light LBT AO Images of HR 8799 bcde at 1.65 and 3.3 Microns: New Discrepancies between Young Planets and Old Brown Dwarfs, arXiv:1203.2615. Pertanto, minore è tale rapporto e più difficile sarà rilevare il transito. Malgrado queste difficoltà, numerosi metodi sono stati sviluppati e che si possono suddividere in due classi fondamentali: I metodi diretti, che permettono di osservare direttamente il pianeta attraverso un sistema fotometrico o di registrare lo spettro della sua atmosfera. I metodi indiretti, che si basano sugli effetti che un eventuale pianeta genera sulla stella ospite. Questi possono a loro volta essere suddivisi in metodi dinamici, microlensing e metodi dei transiti. I metodi diretti A questa categoria appartengono tutti i metodi, spettroscopici e fotometrici, che permettono di osservare direttamente il pianeta o la sua atmosfera. La grossa difficoltà di questo tipo di osservazioni è l’estrema debolezza dell’emissione (ottica riflessa e/o infrarossa termica) del pianeta rispetto a quella della stella centrale. Un modo per ovviare è quello di scegliere opportunamente la banda di lunghezze d’onda dentro la quale ottimizza- re il sistema di osservazione. Infatti, grazie ai differenti valori del contrasto di luminosità tra un pianeta e la sua stella nelle diverse regioni dello spettro, si può riuscire a guadagnare anche 5 ordini di grandezza nel contrasto. Bisogna tener conto tuttavia anche degli effetti della diffusione della luce causati dalle parti meccaniche dello strumento (per esempio, i sostegni dello specchio secondario) e degli effetti indotti dai moti turbolenti dell’atmosfera che provocano piccole variazioni nelle traiettorie dei singoli fotoni. Il risultato è che la qualità ottica del telescopio, o come si dice in termini tecnici, la sua figura di diffrazione, viene degradata al punto che, anche con lo specchio primario delle dimensioni giuste, l’immagine del pianeta riprodotta nel piano focale risulterebbe confusa con i fotoni derivanti dalla stella. Sono perciò importanti tutti gli sforzi tecnici tendenti a migliorare le immagini sul piano focale del telescopio, correggendo o riducendo gli effetti di degrado indotti dalle sorgenti di luce diffusa e dall’atmosfera terrestre. L’ottica adattiva, applicata ai telescopi dai 3,5 metri in su, è una prima tecnica che permette di applicare un metodo diretto. Essa modifica direttamente il fronte d’onda della luce osservata. In particolare, con opportu- S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 25 FIG. 7: Confronto tra le immagini del sistema Gliese 229 riprese dal Telescopio riflettore di 1,5 m a Monte Palomar (sinistra) e dall’Hubble Space Telescope (destra). Queste immagini a falsi colori mostrano il primo oggetto più debole osservato orbitante attorno ad una stella diversa dal Sole, e la prima rilevazione di una nana bruna. La nana bruna Gliese 229 b è in orbita attorno alla stella Gliese 229 che si trova a circa 18 anni-luce di distanza da noi. La nana bruna ha una massa 20-50 volte quella di Giove ma ha un diametro che è confrontabile con il gigante gassoso del nostro Sistema Solare, quindi risulta estremamente densa. Crediti: California Institute of Technology, Pasadena, CA, e the Johns Hopkins University, Baltimore, MD; T. Nakajima e S. Kulkarni (CalTech), S. Durrance e D. Golimowski (JHU), NASA. ni sensori, viene misurata la forma del fronte d’onda (l’insieme delle traiettorie dei fotoni) della luce che ci giunge da una sorgente in modo da capire quanto e dove si discosti dalla forma ideale. A quel punto, utilizzando una batteria di pistoni comandati da un calcolatore, si applicano in tempo reale, da dietro, punto per punto, la pressione opportuna che modifica la forma dello specchio in modo tale che la forma del fronte d’onda riflesso si avvicini il più possibile a quella ideale. In definitiva, il fronte d’onda riflesso, corretto dal sistema d’ottica adattiva, risulterà molto prossimo, come forma alla superficie di una sfera, essendo state rimosse tutte o quasi le aberrazioni introdotte dalla turbolenza dell’atmosfera. Il risultato è la diminuzione del cerchio di confusione (l’immagine di una sorgente puntiforme) che viene a formarsi sul piano focale. A tal riguardo possiamo confrontare l’immagine del si- stema binario della stella Gliese 229 (fig. 7) presa nel vicino infrarosso con un riflettore di 1,5 m a Monte Palomar (sinistra) utilizzando un metodo di ottica adattiva e quella presa dall’HST- Hubble Space Telescope (a destra) . La stellina compagna è una nana bruna di una quarantina di masse gioviane. La risoluzione dell’HST è di gran lunga superiore anche per via del maggior diametro, ma soprattutto per il fatto che, essendo in orbita, elude le aberrazioni introdotte dall’atmosfera. Comunque, il risultato ottenuto con un piccolo strumento al suolo, cui è applicato un sistema di ottica adattiva, non è certo da disprezzare. Una seconda tecnica che permette di applicare un metodo diretto è la coronografia ottica, tecnica che blocca la luce della stella usando un particolare strumento chiamato coronografo. Tale strumento può essere posto internamente al telescopio oppure esternamente. Pagina 26 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi FIG. 8: Immagini nell’infrarosso del pianeta Beta Pictoris b ottenute nel 2003 (a sinistra), nel 2009 (in centro) e nel 2010 (a destra) che mostrano il moto del pianeta in un piano orbitale che è quasi visto di fronte per un osservatore terrestre. La stella madre si trova nella regione centrale, ma la sua luce è stata nascosta per evidenziare la presenza del pianeta (che ha una luce molto più debole). Beta Pictoris b, circa quattro volte il pianeta Giove, si trova a 63 anni-luce di distanza dal nostro Sistema Solare in orbita attorno alla stella Beta Pictoris, simile al nostro Sole ma molto più giovane, circa 12 milioni di anni (il nostro Sole per confronto ha 4,6 miliardi di anni). La stella è circondata da un enorme disco di materia, un sistema planetario giovane e molto attivo in cui gas e polvere sono prodotti dall’evaporazione delle comete e della collisione degli asteroidi. Quasi 500 le comete scoperte in orbita intorno alla stella Beta Pictoris, appartenenti a due famiglie distinte di esocomete: le esocomete più vecchie, che sono passate più di una volta vicino alla stella, e le esocomete più giovani, che derivano, probabilmente, dalla rottura recente di uno o più oggetti più grandi. Beta Pictoris b ha una velocità di rotazione di sole otto ore, molto più veloce dei pianeti del Sistema Solare. In particolare, il suo equatore si muove a quasi 100 000 chilometri all’ora. Per confronto, l’equatore di Giove si muove a una velocità di circa 47 000 chilometri all’ora, mentre la Terra a circa 1700 chilometri all’ora. L’orbita che descrive è a circa 8 volte la distanza Terra-Sole dalla stella madre, diventando così il pianeta extrasolare più vicino a una stella di cui sia stata ottenuta l’immagine in modo diretto. Si prevede che vi sia una piccola possibilità del transito del pianeta davanti alla sua stella alla fine del 2017. L’evento sarà visibile dalla Terra e sarà possibile fare misure molto accurate delle dimensioni del pianeta. Crediti: Lagrange, A.-M. et al. Science 329, 57–59 (2010) e Bonnefoy, M. et al. Astron. Astrophys. 528, L15 (2011). La seconda modalità è possibile solo dallo spazio, usando un primo veicolo come telescopio ed un secondo, posto a migliaia di chilometri di distanza dal primo, come coronografo. Con questo metodo si è individuato il pianeta Beta Pictoris b, attorno alla stella Beta Pictoris nell’ottobre 2008 (fig. 8). il pianeta Fomalhaut b, con un periodo di rivoluzione attorno alla propria stella Fomalhaut di 2000 anni, il più lungo finora conosciuto, è stato individuato, sempre con osservazioni coronografiche, dall’Hubble Space Telescope (fig. 9). Una terza tecnica che permette di applicare un metodo diretto è quella interferometrica, utile nel caso in cui la coronografia ottica diventa poco efficace, cioè nella banda infrarossa media (tra i 60 e i 20 micron). Così come il potere risolutivo di un telescopio migliora all’aumentare del suo diametro, allo stesso modo il potere risolutivo di un sistema interferometrico migliora quanto più aumenta la mutua distanza dei diversi telescopi. In un telescopio il potere risolutivo è dato dal rapporto tra il diametro effettivo e la lunghezza d’onda centrale della banda fotometrica di osservazione. In un sistema interferometrico è la distanza tra i telescopi (la base) che costituisce il diametro efficace del sistema e quindi determina il potere risolutivo. In questo caso, i fotoni emessi da una sorgente lontana vengono raccolti da due o più telescopi a grandissima distanza. I risultati vengono successivamente ricombinati per ottenere le figure di interferenza. La principale applicazione è quella definita “nulling interferometry” dove si elimina la luce proveniente dalla stella per concentrarsi su quella del pianeta. L’idea che sta alla base di questa applicazione è lo sfasamento nella luce che entra in uno dei telescopi generando un’interferenza distruttiva nell’elemento centrale, ossia la stella. Questo però non dovrebbe verificarsi per il pianeta extrasolare, se presente, in quanto la sua posizione sarà leggermente sfasata rispetto alla stella, permettendone l’individuazione. L’interferometria è di grande interesse nella caratterizzazione diretta di pianeti extrasolari. Per esempio, è un S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 27 FIG. 9: Questa immagine composita in falsi colori, presa con Hubble Space Telescope, mostra il moto orbitale del pianeta Fomalhaut b. Sulla base di queste osservazioni è stato calcolato un periodo orbitale di 2000 anni su un’orbita fortemente ellittica. Per i prossimi vent’anni il pianeta si troverà a transitare entro una regione di detriti disposti intorno alla stella. Se l’orbita del pianeta si trovasse sullo stesso piano di questo anello, le polveri, il ghiaccio e i detriti di tale anello potrebbero penetrare nell’atmosfera del pianeta dando vita a vari fenomeni. L’applicazione della tecnica interferometrica la si nota nel cerchio nero al centro dell’immagine che blocca la radiazione della stella, permettendo di evidenziare la luce riflessa dall’anello e dal pianeta. Le immagini sono state prese dallo Space Telescope Imaging Spectrograph nel 2010 e nel 2012. Crediti: NASA, ESA e P. Kalas/University of California, Berkeley e SETI Institute. metodo utile per escludere dei falsi positivi che sono un problema frequente nella ricerca compiuta dal Telescopio Spaziale Kepler. Vi possono essere, infatti, molti corpi che producono dei segnali di transito, e quindi una diminuzione della luminosità della luce della stella ma che non sono pianeti. Queste piccole eclissi che si evidenziano nella misurazione della luminosità nella curva di luce della stella potrebbero essere indicative della presenza di un pianeta che blocca la luce della sua stella. Tuttavia, in alcuni casi, delle stelle binarie potrebbero mimare perfettamente la stessa impronta nel segnale. E’ stato possibile portare a termine osservazioni interferometriche con il Precision Astronomical Visual Observations (PAVO) al Center for High Angular Resolution Astronomy (CHARA) Array del National Optical Astronomy Observatory (NOAO) per confermare la presenza di un pianeta attorno alla stella Kepler-21 (denominata anche HD179070). Il pianeta Kepler-21b è circa 1,6 volte il raggio della Terra e quasi 10 volte la massa della Terra. Orbitando intorno alla sua calda stella ogni 2,8 giorni, ha una distanza di sei milioni di chilometri, quasi 10 volte più vicino di quanto lo sia il pianeta Mercurio dal Sole. La temperatura superficiale di Kepler-21b si stima intorno a 1900 K, ossia circa 1630 °C . La stella madre, HD 179070, si trova a 352 anni-luce di distanza dalla Terra. E’ simile alla nostra stella, con una massa di 1,3 masse solari, un diametro di 1,9 volte il nostro Sole e la sua età, basata su modelli stellari, di 2,84 miliardi di anni. FINE PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO SEGNI DI VITA SU ALTRI PIANETI ZONA ABITABILE Il concetto di zona abitale considera la vita che utilizza la chimica del carbonio ed usa l’acqua come solvente per le reazioni chimiche come quella che ha una probabilità maggiore di originarsi e sopravvivere. La zona abitabile è, infatti, definita come la regione di spazio intorno ad una stella dove la temperatura superficiale di un pianeta roccioso con atmosfera è tale da mantenere l’acqua liquida. Il pianeta deve essere roccioso perché è necessario avere un’interfaccia solida tra l’interno del pianeta e l’atmosfera dove sia possibile raccogliere l’acqua liquida. Prima di entrare nel merito va fatta una considerazione generale. Il concetto di zona abitabile è solo un concetto di lavoro utile per la ricerca di vita in modo remoto (per esempio, l’analisi spettrale delle atmosfere dei pianeti). E’ sempre possibile l’esistenza di nicchie abitabili ben al di fuori della zona abitabile. Nel Sistema Solare, per esempio, il satellite di Giove, Europa, ha probabilmente un oceano sotto la coltre ghiacciata che ne caratterizza la superfice. Questo oceano potrebbe essere una nicchia di abitabilità al di fuori della zona abitabile del Sole. Il concetto fondamentale su cui si basa la definizione di zona abitabile è la diluizione della radiazione stellare con il quadrato della distanza. Il flusso (la quantità di energia nell’unità di tempo che incide sull’unità di area) ad una distanza d dalla stella è dato dalla relazione: Pagina 28 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Rappresentazione artistica della zona di abitabilità di un pianeta extrasolare. Crediti: Petigura/UC Berkeley, Howard/UHManoa, Marcy/UC Berkeley. dove L è l’energia totale emessa dalla stella nell’unità di tempo (potenza). Da questa definizione, supponendo che il pianeta si comporti parzialmente come un corpo nero (nota 1), è possibile definire la temperatura di equilibrio per valutare la quale occorre considerare la frazione di energia che incidendo sulla superfice del pianeta viene da questa riflessa (albedo, che si indica con la lettera A). La definizione di albedo sarebbe in realtà più complicata e comprenderebbe molti casi particolari legati alla geometria del corpo. In ogni caso l’albedo dipende essenzialmente dalle caratteristiche, sia geometriche che materiali, del corpo. Eguagliando la quantità di radiazione assorbita dal pianeta (Fa(1-A) RP2) a quella emessa dal pianeta in tutte le direzioni come se il pianeta fosse un corpo nero (STeq4), dove S è la superficie del pianeta (S=4RP2), possiamo ottenere il valore della temperatura di equilibrio del pianeta alla distanza a: 1/ 4 Fa 1 A Teq 4 La temperatura di equilibrio non è esattamente la temperatura che si ha alla superficie del pianeta ma è la temperatura sulla superficie di un pianeta privo di atmosfera alla distanza orbitale a. La temperatura alla superficie di un pianeta con atmosfera è regolata proprio da quest’ultima e dall’effetto serra che essa è in grado di mantenere. Per esempio, per quanto riguarda la Terra, la temperatura di equilibrio è di 255 K (circa 19°C) ma a causa della presenza dell’atmosfera e dell’effetto serra viene innalzata di circa 30°C rendendo la Terra abitabile (la temperatura media sulla superficie terrestre è di 288 K o +16°C). La presenza dell’atmosfera diventa perciò importante poiché permette di avere un effetto serra che mantiene la temperatura al di sopra del valore di congelamento dell’acqua. L’effetto serra è dovuto all’interazione tra la radiazione solare e l’atmosfera del pianeta. In altre parole, la radiazione proveniente dalla stella e che non viene riflessa dall’atmosfera viene assorbita dalla superficie del pianeta che si riscalda. La superficie del pianeta, riscaldandosi, aumenta la sua temperatura ed emette nella zona rossa e infrarossa dello spettro elettromagnetico. La radiazione rossa e infrarossa vengono assorbite dalle molecole di alcuni gas, quali l’anidride carbonica, il metano e il vapore acqueo, oltre che da altri gas prodotti dall’attività industriale umana presenti in atmosfera. Il risultato è un riscaldamento dell’atmosfera. S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 29 Il satellite di Giove, Europa, è un mondo ghiacciato. Sotto la sua superficie si ipotizza la presenza di un oceano. Crediti: Ted Stryk/Galileo Project/JPL/NASA. L’efficienza di questo fenomeno dipende dalla quantità di gas serra presenti nell’atmosfera che a sua volta è regolata dai processi di equilibrio tra la produzione dei gas serra (attività vulcanica, evaporazione, industrializzazione) e la loro rimozione dall’atmosfera (precipitazioni). Questi fenomeni sono detti “cicli di stabilizzazione del clima”. Sulla Terra il ciclo di stabilizzazione del clima principale è quello dei carbonati – silicati. La zona abitabile è quindi una corona sferica intorno alla stella la cui larghezza e distanza dipendono dalla luminosità della stella, da come essa evolve nel tempo e dalla composizione ed evoluzione dell’atmosfera del pianeta. Il limite interno di questa zona è la distanza a cui l’effetto serra è talmente efficiente nello scaldare l’atmosfera che tutta l’acqua presente sul pianeta evapora e lo strato invertente (lo strato atmosferico dove il vapore acqueo condensa, legata all’inversione nell’andamento della temperatura atmosferica con l’altitudine) raggiunge un’altitudine dove la radiazione stellare è in grado di ionizzare le molecole di acqua, separandole in idrogeno e ossigeno. L’idrogeno, essendo più leggero dell’ossigeno, sfugge l’attrazione gravitazionale del pianeta e si perde nello spazio. Il risultato netto è la perdita di acqua dal pianeta, come successe a Venere. Nel caso del Sistema Solare il limite interno di distanza dovuto alla perdita di acqua è a 0,95 UA (nota 2) . Il limite esterno è la distanza dalla stella a cui l’effetto serra fallisce nel riscaldare la superficie del pianeta al di sopra del punto di congelamento dell’acqua. Nel caso del Sistema Solare questa condizione è rappresentata da Marte e il limite di “massimo effetto serra” è a 1,67UA. Limiti simili possono essere definiti per tutte le stelle di tutti i tipi spettrali. Stelle più calde del Sole avranno la zona abitabile più esterna, mentre stelle più fredde l’avranno più interna. ********* Nota 1: Un corpo nero è un corpo che assorbe tutta l’energia incidente. La radiazione emessa da un corpo nero è detta radiazione di corpo nero e dipende dalla temperatura del corpo nero. Un corpo nero ad alta temperatura emette uno spettro di radiazione con il massimo di emissione nel blu – ultravioletto, mentre un corpo nero a bassa temperatura emette nella parte infrarossa dello spettro. Nota 2: 1 unità astronomica (UA) è pari a 1.4960x1011m LA SFIDA DELL’IMAGING DIRETTO Al contrario dei metodi indiretti, l’immagine diretta permette di avere in una sola osservazione, se il campo di vista dello strumento è grande abbastanza, l’immagine del sistema planetario. La situazione in realtà sembra semplice, ma non lo è affatto e, a complicarla, sono due cose fondamentali: la risoluzione angolare del telescopio e il contrasto di luminosità fra la stella e il pianeta. Pagina 30 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Anello di polvere intorno alla stella HR 4796A a 237 anni luce di distanza dalla Terra, osservato nell’infrarosso dallo strumento SPHERE (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch) montato al VLT-Very Large Telescope al Paranal, Cile. Per maggiori informazioni : Pianeta, prego sorrida! Media INAF: http://www.media.inaf.it/2014/01/17/ pianeta-prego-sorrida/ e Il lampione e la falena, Media INAF: http://www.media.inaf.it/2014/06/04/il-lampione-e-lafalena/ . Crediti: ESO. La prima è legata alla distanza della stella che vogliamo osservare, a quanto è prossimo ad essa il compagno di piccola massa che si vuole rilevare e al telescopio che si ha a disposizione per l’osservazione. Infatti, considerando un sistema Solare posto ad una distanza di 10 pc da un osservatore, se si vuole osservare Giove (5 UA dal Sole) occorre che il telescopio sia in grado di apprezzare una distanza angolare dal centro dell’immagine sul piano focale della stella di 5UA/10pc=0.5 arcsec. Un telescopio di classe 8 – 10 m avrebbe la potenzialità di risolvere il pianeta (ovvero la risoluzione angolare opportuna), ma trovandosi immerso all’interno dell’atmosfera si trova a combattere con il fenomeno del seeing che allarga la distribuzione dei fotoni sul piano focale. Sappiamo che esiste una soluzione a questo problema che è l’uso di moduli di ottica adattiva che correggono il fronte d’onda riportando l’immagine della stella a dimensioni molto vicine a quelle dell’immagine di diffrazione. Il problema è risolto? No, ora entra in ballo la grande diversità di emissione di energia luminosa tra il pianeta e la stella, detta contrasto di luminosità. Il contrasto di luminosità tra la stella e il compagno può essere dell’ordine di 10-6 per pianeti giganti con luminosità propria, cioè pianeti giovani che sono ancora nella fase di contrazione gravitazionale e all’inizio della sequenza di raffreddamento, ma può ar- rivare a valori più bassi come 10-8, 10-9 per pianeti freddi che ormai riflettono solo la luminosità della stella. Nel primo caso il contrasto sarà indipendente dalla distanza del pianeta dalla stella, mentre nel secondo caso, dipenderà inversamente dalla distanza. Con questi contrasti i compagni di piccola massa a distanze interessanti dalla stella centrale (al di sotto delle 20 UA) si perdono nel rumore dell’immagine della stella. Il problema e la sfida dell’immagine diretta è superare i limiti imposti da queste problematiche trovando tecniche che non solo permettano di sfruttare la risoluzione angolare dello strumento (moduli di ottica adattiva), ma anche di ridurre l’influenza dell’intensità del picco di luminosità dell’immagine della stella (coronografia) oltre che di rimuovere o controllare le fonti di rumore in modo da riuscire a visualizzare le zone più vicine alla stella stessa, senza però cancellare il segnale del compagno. In questo, l’uso di coronografi permette di ridurre il picco di luminosità dell’immagine stellare. Il problema è che per fare il loro lavoro comunque nascondono una porzione della parte più interna dell’immagine. Minore è questa porzione, più il coronografo ci permette di arrivare vicini alla stella. I coronografi non sono oggetti semplici da trattare perché il loro principio non si basa sui concetti dell’ottica geometrica, ma su quelli dell’ottica fisica. Comunque eliminato il picco di diffrazione non rimane che trovare un modo efficiente per rimuovere o controllare il piedistallo di rumore. Ogni sistema ottico, per quanto sia fatto bene, soffre oltre che del rumore dovuto alla statistica dei fotoni al rumore così detto delle “speckle”. Speckle è un termine inglese che denota la formazione diimmagini sul piano focale dovute all’interferenza fra due o più fotoni che arrivano allo stesso momento all’imboccatura del telescopio. Le speckle possono essere, oltre che di natura atmosferica, anche di natura strumentale causate da imperfezioni nel materiale delle ottiche o nel loro allineamento. L’intensità di queste immagini spurie può essere superiore al rumore statistico; la loro dimensione è dell’ordine delle dimensioni dell’immagine stessa. La loro eliminazione o il loro controllo prevede tecniche di osservazione e di riduzione dati che prendono il nome di “differential Imaging”, “speckle deconvolution”, “angular differential imaging” ecc. Queste tecniche si basano sulla caratteristica che le speckle hanno una dipendenza nota dalla lunghezza d’onda e che la loro posizione non cambia con la rotazione del campo di vista di un telescopio altazimutale. S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Finalmente, una volta eliminato questo rumore possiamo finalmente osservare il compagno nascosto. Quanto a fondo riusciamo a spingerci? La risposta risiede nella capacità di correzione dei moduli di ottica adattiva e nella tecnologia di costruzione dei coronografi. Quest’ultimi, riescono ormai ad arrivare a valori dell’angolo di lavoro interno (Inner Working Angle) minori di un decimo di secondo d’arco. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 31 Terra ed è classificata simultaneamente come una stella Doradus (variabile), Bootis (stella A di popolazione I povera di metalli) e Vega Like (che presenta un eccesso IR dovuto all’emissione di polvere circumstellare). L’età di questa stella è giovane ed è stata stabilita tenendo conto di una serie di argomentazioni che vanno dal moto della stella, dalla sua posizione nel diagramma colore magnitudine, alla età tipica delle stelle Doradus e Bootis e la massa del disco della stella stessa. Consi- Il sistema HR 8799 ripreso dal LBT-Large Binocular Telescope nell’ottobre 2011. Sono indicate con un cerchio verde le posizioni dei vari pianeti (b, c, d, e) del sistema. Crediti: LBT/Laird Close/University of Arizona. IL SISTEMA HR8799 Fino ad oggi sono stati osservati con il metodo dell’immagine diretta circa 50 pianeti extrasolari ma solo in due casi sono stati osservati sistemi multipli: Kepler 70 (b e c) e HR8799 (b, c, d ed e). Kepler 70 è un sistema con due super terre in orbita attorno a una stella che ha superato la fase di gigante rossa. Il sistema HR8799, è invece costituito da quattro pianeti giganti che risulta interessante perché, pur essendo i quattro pianeti ancor più massicci dei pianeti gassosi del nostro Sistema Solare, presentano un rapporto fra le masse e le separazioni orbitali con valori simili a quelli che si hanno per i pianeti giganti del Sistema Solare. La stella HR8799 (V342 Peg o HIP 114189) appartiene al tipo tipo spettrale A5 (stelle calde con T eff dell’ordine di circa 9500 K) di sequenza principale (classe di luminosità V), con una massa pari a circa 1,5 la massa del Sole e una luminosità un fattore 4,5 maggiore di quella solare. La stella è posta a 39,4 pc dalla derando tutto ciò si ottiene una stima di 60 miloni di anni con un intervallo di variabilità fra 30 e 160 milioni di anni. Il sistema HR8799 è stato osservato per la prima volta con l’ottica adattiva montata al Telescopio Keck e al Telescopio Gemini Nord, nella banda dell’infrarosso vicino. Con queste osservazioni si sono trovati tre compagni, b, c e d, con evidenza di moto comune con la stella. Due anni dopo, nel 2010, è stato scoperto il quarto pianeta, HR8799e, più vicino alla stella di quanto non lo fossero gli altri pianeti. Il contrasto fra la stella e i pianeti è dell’ordine di 10-5 che equivale a una differenza di magnitudine di 12. Questi pianeti sono abbastanza brillanti a causa della loro giovane età, in particolare per la sorgente interna di energia ancora attiva. La temperatura stimata dell’atmosfera si aggira intorno ai 1000 K. I semiassi maggiori dei quattro compagni di HR8799 sono compresi tra 14 e 67 UA. Le masse, stimate dall’età (nota 1) variano nell’intervallo fra 5 – 11 MJ per HR8799 b e tra 7 – 13 MJ per gli altri tre pianeti. I limiti di stabilità dinamica del sistema pongono le masse dei pianeti HR8799bcd al di sotto della massa limite del bruciamento del deuterio (13 MJ, separazione teorica tra corpi planetari e stellari) e il sistema è mantenuto stabile da interazioni risonanti fra i diversi pianeti. Per quanto riguarda la massa di HR8799e molto probabilmente, si trova alla fine bassa dell’intervallo di variazione delle sequenze di raffreddamento che rappresentano l’evoluzione temporale dei corpi planetari. Tutti e quattro i pianeti giganti sono collocati oltre la “snow line” (nota 2) (a circa 3 UA nel nostro Sistema Solare e a circa 6 UA per HR 8799). Fin dalle prime osservazioni si è visto che il sistema planetario, oltre alla presenza dei pianeti, era caratterizzato dalla presenza di tre componenti di disco di detriti. Pagina 32 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi Rappresentazione delle orbite dei pianeti del sistema HR 8799 con indicati i loro periodi in anni terrestri. Crediti: NASA, ESA e A. Feild (STScI). Parte scientifica: NASA, ESA e R. Soummer (STScI). Le orbite dei pianeti di HR 8799 con sovrapposte le orbite dei pianeti esterni del nostro sistema solare. Le tre componenti sono riconoscibili come una cintura di polvere calda (con temperature intorno ai 150 K) tra le 6 e le 10 UA (analoga della cintura degli asteroide del nostro Sistema Solare), seguita da una cintura larga di polvere fredda (a temperature dell’ordine dei 45 K) tra le 90 e le 300 UA, il cui limite interno è definito dall’interazione con il pianeta più esterno. Per ultimo è presente anche un alone esteso di piccoli grani a circa 1000 UA a cui viene fatto risalire l’eccesso infrarosso rilevato anche dal Telescopio orbitante infrarosso Spitzer. Lo scenario che si può estrapolare da questi elementi è che malgrado la stella sia molto diversa dal Sole (che è una G2V con una Teff intorno ai 5700 K) e abbia una evoluzione molto più veloce di quella della nostra stella, HR8799 mostra una architettura delle sue zone esterne simile a quella della zona esterna del nostro Sistema Solare. ********** Nota 1: Dall’età, infatti, si può ricostruire in quale momento della loro evoluzione o meglio della loro sequenza di raffreddamento si trovano e, valutandone la loro luminosità bolometrica dalla fotometria e dalla temperatura, dai modelli teorici si è in grado di risalire al valore della massa. Nota 2: Con il termine “snow line” (o linea del ghiaccio) si intende la distanza dalla stella centrale oltre la quale si ha una tempertura tale per cui si comincia la condensazione dei ghiacci. per il Sistema Solare è circa 3UA. Questa distanza dipende dalla stella, più è calda e luminosa più si pone distante. Riccardo Claudi si è laureato in Fisica presso l’università di Roma “La Sapienza” ed è ricercatore astronomo presso INAF Osservatorio Astronomico di Padova. E’ responsabile della collaborazione italiana a SPHERE; è stato responsabile e partecipa a GAPS (Global Architecture of Planetary Systems) e si occupa dello studio delle atmosfere di pianeti extrasolari. Tiene corsi di Planetologia Extrasolare presso le scuole di Dottorato in Fisica e Astronomia delle tre università di Roma e dell’università di Padova. Sabrina Masiero si è laureata e dottorata in Astronomia presso l’Università degli Studi di Padova. Attualmente si occupa della comunicazione del programma GAPS-Global Architecture of Planetary Systems con lo strumento HARPS -N montato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) per lo studio e la ricerca dei pianeti extrasolari presso l’INAFOsservatorio Astronomico di Padova e la Fundación Galileo Galilei-TNG a La Palma. E’ una degli autori del libro Astrokids - Avventure e scoperte nello Spazio, a cura di Laura Daricello e Stefano Sandrelli edito da Scienza Express, 2014. M. Cardaci, Corsi e ricorsi ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 33 CORSI E RICORSI DEL SOLE Massimo Cardaci [email protected] FIG. 1: L’astronomo cinese Gan De (IV secolo a.C.), fu il primo a riconoscere nelle macchie solari dei fenomeni che hanno origine sul disco del Sole. Nel precedente articolo (Astronomia Nova n. 20) abbiamo iniziato il percorso alla scoperta della storia che sta dietro lo studio delle macchie solari. Ora, è proprio della natura intrinsecamente curiosa dell’uomo che quando ci si trova di fronte a un nuovo fenomeno, subito ci si chieda: come si ripete? Lo posso prevedere? E’ stato sempre uguale? La storia delle risposte a queste domande è quanto affrontiamo nel seguito di questo articolo. Gli astronomi potevano scoprire qualche ciclicità nel Seicento (o prima)? Solo in Oriente, e in particolare in Cina, il fenomeno delle macchie sul Sole era stato annotato per secoli, offrendo la possibilità di ricavarne la ciclicità. Tuttavia, pur in possesso di un’ampia messe di osservazioni, gli astronomi orientali non rilevarono la periodicità del fenomeno. Un risultato significativo fu raggiunto dall’astronomo Gan De (fig. 1), autore del Trattato di Astrologia astronomica (IV secolo a.C.), che era certo che quelle macchie appartenessero al disco solare. In Occidente si ebbe questa certezza solamente duemila anni dopo, quando Galileo le osservò con il suo cannocchiale. Appena il fenomeno fu finalmente riconosciuto come reale, giusto il tempo di dipanare la matassa sulla sua posizione celeste di cui abbiamo parlato in precedenza, ed eccole lì che le quelle domande fecero capolino nella mente di tutti i ricercatori. Fig. 2: Il pittore Donato Creti (1671 - 1749), a partire dal 1711, dipinse la serie delle “Osservazioni astronomiche” su commissione del conte bolognese Luigi Marsili che ne volle fare dono al papa Clemente XI per convincerlo dell'importanza per la Chiesa di un osservatorio astronomico. Il dono permise di raggiungere lo scopo, poiché con il sostegno del pontefice venne inaugurato poco dopo, a Bologna, il primo osservatorio astronomico pubblico d'Italia. Ad assistere il pittore, dal punto di vista dell’accuratezza scientifica, venne chiamato Eustachio Manfredi che fece dipingere il Sole (nell'immagine qui a fianco) pressoché privo di macchie. Pagina 34 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 M. Cardaci, Corsi e ricorsi In effetti, il tempo perso a capire se le macchie erano satelliti, alieni o quant’altro, giocò probabilmente un brutto scherzo, perché di lì a poco quella che era una abbondanza di attività solare divenne periodo di carestia. Leggiamolo dal racconto di Eustachio Manfredi (16741739), primo direttore dell’Istituto delle Scienze di Bologna, che scriveva: “Abbiamo dopo quel tempo fatta più volte diligenza per vedere se altra novità ci apparisse sul Sole. Veramente egli pare che dopo i tempi del Galileo, e del P. Scheiner primi discopritori delle macchie solari, queste sempre in minor numero, e più di rado siansi lasciate vedere. Intorno al 1625 ne comparivano alle volte fin a 50 ad un tratto; e verso il mezzo del passato secolo straordinaria cosa venia riputata ove nessuna o poche ne avesse il Sole. Nei nostri tempi all’incontro straordinaria apparenza si giudica quando ne abbia pur una; come se cotesti spettacoli fossero consigliatamente mostri a quel secolo, che inventò lo strumento per discoprirli”. Egli si riferisce a quel periodo (1645-1715), noto come Minimo di Maunder, in cui le macchie furono scarsissime. Per un certo tempo si ritenne che un tale minimo fosse fittizio, ovvero semplicemente dovuto alla carenza di osservazioni, ma poi si scoprì, grazie a riscontri sull’ecosistema terrestre, che era reale: il Sole non aveva prodotto quasi più macchie! Manfredi, che assistette il grande pittore Donato Creti nella realizzazione della serie pittorica intitolata “Osservazioni astronomiche”, gli fece disegnare il Sole privo di macchie, così come gli era apparso a lungo in quegli anni (fig. 2). La Scoperta del Ciclo Undecennale Si dovette attendere un tal Christian Horrebow (17181776), astronomo danese, per iniziare ad avere il sentore che la produzione di macchie solari doveva avvenire con una ciclicità (fig. 3). Ma, c’è il classico “ma…” Il buon Christian, da fedele galileiano, ritenne che gli elementi in suo possesso (per noi una mole di dati impressionante) non fosse sufficiente per pubblicare il risultato, e così la sua giusta intuizione fu riscoperta, accedendo alle note che egli apponeva alle osservazioni, solo molto tempo dopo da Rudolf Wolf. Nel mezzo del cammino di questa storia s’inserì Samuel Heinrich Schwabe (1789-1875), il quale, appassionato da sempre di materie scientifiche, un bel giorno decise di comprarsi un piccolo telescopio rifrattore. Era il 1826. Forse il modo più efficace di riassumere il personaggio è quello fornitoci da Richard C. Carrington (1826-1875), nella veste di Presidente della Royal Society, quando gli venne assegnata la medaglia d’oro per gli studi effettuati sul Sole: “Dodici anni egli impiegò per raggiungere una personale certezza, altri sei per darne la sicurezza all’umanità e altri tredici ancora per convincere l’umanità stessa della sua scoperta”. Ma andiamo per ordine. Su suggerimento di un amico (guarda che possono combinare gli amici...), Schwabe puntò il suo piccolo rifrattore da un metro di focale e di pochi centimetri di diametro, verso il Sole, per seguire quel fenomeno un FIG. 3: Il grafico delle osservazioni dei gruppi mensili di macchie solari, osservate da Horrebow tra il 1761 ed il 1776, mostra chiaramente un periodo quasi - undecennale. Inizialmente, Heinrich Schwabe, decenni dopo, ne stimò una durata di dieci anni. M. Cardaci, Corsi e ricorsi FIG. 4: Il rifrattore Fraunhofer di 6 piedi di focale—183 centimetri - acquistato da Heinrich Schwabe nel 1826 ed installato sopra la sua abitazione a Dessau, in Sassonia — Anhalt. po’ trascurato che erano le Macchie Solari. Poiché la cosa lo interessava, si comprò un secondo telescopio, sempre rifrattore, ma questa volta da 183 cm di focale: inizia a essere qualcosa di serio (fig. 4). Da quel momento, con una metodicità e costanza straordinarie, egli iniziò a osservare il Sole tutti i giorni. Dopo 12 anni di osservazioni pubblicò i risultati sul periodico scientifico tedesco Astronomische Nachrichten. In essi risultava già evidente la periodicità di comparsa delle macchie, ma egli non vi aggiunse alcun commento. Scarsa, per non dire nulla, fu la risonanza di questa pubblicazione, nonostante l’importanza capitale della scoperta. Comunque, dato che neanche lui ne era pienamente convinto a causa del, a suo parere, corto periodo di osservazione, decise di continuare le osservazioni e pubblicare nuovamente qualcosa solo dopo aver raggiunto la certezza assoluta. Egli s’impegnò pertanto con la consueta serietà e costanza per altri 5 anni. Nel 1843 si decise, oramai certo, a scrivere nello stesso giornale un nuovo articolo sulla sua scoperta. Questa volta aggiunse esplicitamente, sebbene con molta modestia, ciò che i suoi conteggi gli avevano fatto scoprire: nell’attività solare vi era una periodicità circa TABELLA 1: Conteggio dei gruppi e delle macchie effettuato da Schwabe tra il 1826 e il 1843. Vi sono riportati anche i giorni senza macchie. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 35 undecennale. La maniera semplice ma efficiente in cui pubblicò i suoi risultati è meritevole di un particolare esame. Per ogni anno dal 1826 al 1843 Schwabe fornì, oltre al numero di gruppi presenti, anche il numero di giorni senza macchie e il numero di giorni in cui non fu possibile effettuare l’osservazione. I dati sono riportati nella tabella 1, estratta da Astronomische Nachrichten del 1844. Ma il nostro Heinrich non era famoso, e fu così che, nonostante le suggestive conclusioni, anche questa pubblicazione non ebbe la giusta risonanza, anzi non ne ebbe affatto. Ciò, se da una parte amareggiò Schwabe, che già intuiva l’importanza e veridicità della scoperta, dall’altra lo spinse a continuare ancora i suoi studi per trovate prove ancora più schiaccianti. Si giunse così al 1851, anno che segnò per lui il momento del giusto riconoscimento dei suoi 25 anni di assidue osservazioni. Infatti, in quell’anno, il noto astronomo e matematico Alexander Von Humboldt (1769-1859), nel terzo volume del suo celebre Cosmos, pubblicò la prima tabella di Schwabe, aggiornata però con i dati solari, non ancora pubblicati, che poté avere dallo stesso Schwabe, in via amichevole, fino a tutto il 1850; dati che confermavano ciò che l’astronomo aveva già ampiamente supposto. Pagina 36 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 M. Cardaci, Corsi e ricorsi Il commento del grande von Humboldt costituiva un riconoscimento che lo ripagava delle fatiche di oltre un quarto di secolo di osservazioni solari : “I numeri contenuti nella seguente tabella non lasciano alcun dubbio, almeno per l’epoca compresa tra il 1826 e il 1850, che le variazioni nel numero delle macchie solari si riproducono con periodi di circa 10 anni, cosicché i massimi cadono nel 1828, 1837, 1848 e i minimi nel 1833 e 1843. Non ho potuto raccogliere una serie continua di osservazioni anteriori, perciò non sarà affatto scartata l’ipotesi che la durata di questo periodo possa subire delle variazioni”. In seguito alla pubblicazione di Cosmos, improvvisamente il mondo scientifico si rese conto che una grande scoperta era stata fatta, scoperta che, sebbene intuita già ai tempi di Galileo e successivamente da Horrebow nel 1776, aveva dovuto aspettare il 1851 per avere un supporto adeguato di osservazioni. Finalmente il Sole aveva un ciclo riconosciuto nella produzione delle macchie solari. Ciclo sì, ma ogni quanto? Eh, si fa presto a dire: c’e’ un ciclo solare! Ben presto se ne accorsero tutti coloro che si cimentarono, dopo Schwabe, a studiare la novità. Sì, perché tra osservazioni inconfrontabili (per differenza di strumentazione impiegata, trasparenza del cielo, capacità visive e di registrazione degli osservatori - la fotografia doveva ancora essere inventata), periodi di minimo, e relativamente recente scoperta, capire quale fosse veramente la durata del ciclo delle macchie divenne un vero grattacapo. Ci pensò uno Svizzero a mettere un po’ d’ordine: Rudolf Wolf (1816-1893), fig. 5. Egli si pose il problema di come uniformare le osservazioni di macchie in modo da poterle rendere confrontabili. Pensa che ti ripensa, tirò fuori dal cilindro una relazione matematica tuttora utilizzata: i Numeri Relativi di Wolf. La formula in questione e stata, e continua a esserlo, di notevole importanza sia per i suoi studi che per quelli successivi. Infatti essa, permettendo di creare una scala numerica esprimente il grado di attività del Sole, rendeva e rende più facile scoprire eventuali altri cicli sia a periodo inferiore che superiore: R = K (f+10g) Fig. 5: Il rifrattore Fraunhofer di 80mm di diametro utilizzato all’Osservatorio di Zurigo da Rudolf Wolf per le sue ricerche solari. dove: R, Numero Relativo delle macchie solari, ovvero l’indice quantitativo dell’attività solare; K é il coefficiente correttivo che dipende solo dallo strumento usato; f sta per il numero totale di macchie osservate in quel giorno; g indica il numero di gruppi presenti contemporaneamente sul Sole nell’osservazione in questione. Una precisazione importante: oggi il coefficiente K non dipende più solo dallo strumento usato, ma anche dal seeing ovvero dalla trasparenza e calma atmosferica (peggiore è il seeing, maggiore è il valore del coefficiente) e dalle capacita visive dell’osservatore (K aumenta col diminuire dell’acutezza visiva e dell’attenzione media ai particolari). Grazie a questa formula, applicata ad una grande mole di dati, Wolf ricavò un periodo di 11,1 – 11,2 anni per il ciclo Solare. Ma non fu tutto: grazie ad essa egli scoprì anche l’andamento asimmetrico del ciclo, per cui il tempo di ascesa al massimo è inferiore a quello di discesa verso il minimo. Sembra che Wolf avesse già chiare le sue scoperte fin dal 1848 (o 1850 secondo altri): comunque esse furono pubblicate nelle Astronomische Nachrichten del 1852. Ci sono altri cicli? Grazie ai Numeri Relativi di Wolf, molti ricercatori iniziarono a studiare la periodicità solare, e in particolare cercarono se ci fossero altri cicli che si sovrapponevano a quello undecennale, e che ne potessero spiegare l’andamento variabile dell’intensità dei massimi. M. Cardaci, Corsi e ricorsi Tra i tanti che si cimentarono in questa doppia impresa (consolidare il periodo undecennale e trovare altri cicli) vorrei citare il nome di un personaggio di casa nostra, poco noto ai non addetti: Luigi Taffara (1881-1966) che lavorò a lungo all’Osservatorio di Catania. Nel 1929 pubblicò nelle Memorie della Società Astronomica Italiana un dettagliato studio dal titolo: L’Andamento dell’Attività solare dal 1877 al 1928. Qui raccolse, analizzò ed effettuò numerose riduzioni di una serie omogenea di osservazioni dirette e spettroscopiche, collezionate per 51 anni negli osservatori di Catania e Palermo. Da tutto questo lavoro egli ricavò un periodo medio del ciclo solare pari a 11,041 ± 1,17 anni. Tali ricerche interessarono molto l'astronomo americano G.E. Hale (1868-1938), fig. 6, grande esperto solare, che le confrontò con le proprie ottenendo una notevole convergenza di risultati. Ma Taffara, oltre a questo risultato, notò anche un altro aspetto notevole: "Un’altra particolarità interessante ... è che i massimi si presentano alternativamente più o meno accentuati, cosicché si potrebbe dire che fra due massimi accentuati corra un ciclo di 22 anni circa". Era un accenno a quel ciclo di 22 anni la cui scoperta fu ufficializzata anni dopo, quando fu rivelata la natura magnetica delle macchie. Ci pensarono proprio G.E. Hale e i suoi collaboratori a confermare l’ipotesi di Taffara. Essi avevano infatti notato che (in generale) le macchie presentano una polarità, e che questa polarità era differente (scambiata) nei due emisferi del Sole. Nel 1913, all’inizio del nuovo ciclo solare, Hale notò che era avvenuta un’inversione di quella polarità. La notizia fu pubblicata da Hale, F. Ellermann, S. Nicholson e A. Joy solo nel 1918 nell’Astrophysical Journal, quando il ciclo solare mostrò un numero sufficiente di macchie ASTRONOMIA NOVA n.21/2015 Pagina 37 FIG. 6: Ritratto di George Ellery Hale, fondò l’Osservatorio di Monte Wilson. Nel 1889 costruì il primo spettroeliografo e, nel 1908, scoprì i campi magnetici nelle macchie solari. per essere sicuri del fenomeno. Sette anni più tardi, grazie a una quantità di materiale ancora maggiore, l’inversione del campo fu confermata, e con essa la presenza di un ciclo del campo magnetico solare della durata di circa 22 anni (due cicli dell’attività solare). Cicli e spostamenti in latitudine Mentre alcuni studiosi si cimentavano nella ricerca spasmodica del “numero perfetto” per la durata del ciclo solare, altri posero la loro attenzione su altri fenomeni. quali la velocità di rotazione e la distribuzione delle zone di comparsa delle macchie, in funzione della latitudine. Uno dei primi e più importanti studiosi in materia fu Richard Christopher Carrington (1826-1875). H.W. Newton nel suo libro Il volto del Sole ci dà una sintesi del personaggio e della sua attività: “Richard Christopher Carrington fu il tipico astronomo non professionista dei tempi vittoriani, con sufficiente abilità, tempo e mezzi disponibili per gestire un piccolo osservatorio privato [fig. 7], che produceva osservazioni pari a quelle delle migliori medie professionali del tempo.” FIG. 7: Una stampa che raffigura l'Osservatorio di Red Hill, presso Reigate nel Surrey, di proprietà di R.C. Carrington; era dotato di due telescopi rifrattori dei costruttori inglesi Troughton e Simms; il maggiore era uno strumento per i passaggi di 12,7 cm di diametro, l'altro, un equatoriale di 12 cm di diametro. Nel 1853 Carrington decise di dedicare l'attività dell'Osservatorio a due imprese: l'osservazione diurna delle macchie solari e la produzione di un catalogo stellare delle regioni estreme del cielo settentrionale. Pagina 38 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 M. Cardaci, Corsi e ricorsi La mole di dati che egli collezionò, e la qualità dei suoi disegni furono straordinari. È interessante notare il metodo da lui inventato per ricavare con precisione le coordinate sul Sole delle macchie osservate. Non possedendo un micrometro per quantificarle, egli decise di utilizzare la deriva dell’immagine del Sole attraverso il campo visuale, quando il moto a orologeria veniva fermato. Per far ciò inserì al fuoco principale del suo telescopio due sottili asticelle d’oro incrociate inclinate a 45 gradi rispetto all’equatore celeste: quando l’immagine telescopica del Sole attraversava il campo, con un cronometro prendeva i tempi dei successivi passaggi, sulle righe formate dalle asticciole, del primo lembo del disco, delle singole macchie e quindi del secondo lembo. In base a tali tempi poi egli era in grado di dedurre prima le coordinate polari delle macchie (rispetto al punto nord del disco), e poi, da queste, le coordinate sferiche (latitudine e longitudine) delle macchie stesse. Queste osservazioni richiedevano una grande abilità, ma i valori ottenuti furono effettivamente paragonabili a quelli delle misurazioni moderne. Carrington scoprì così (era il 1858 o il 1859) che il Sole non ruota come un corpo rigido, e che la velocità di rotazione varia con la latitudine. Le sue misurazioni furono in seguito perfezionate e pubblicate nell’opera (1863) “Observations on the Spots on the Sun”, fig. 8. Fig. 8: Frontespizio del lavoro di Carrington sulle macchie solari. I risultati da lui trovati sono riportati nella tabella 2. In particolare, la terza colonna rappresenta una sorta di indice di affidabilità della misura, in quanto pesa il numero di eventi utilizzati per ricavarla, mentre l’ultima fornisce i valori di spostamento delle macchie durante la rotazione. Da quest’ultima colonna egli dedusse che le macchie comprese tra i 20° di latitudine Nord e Sud tendono a muoversi verso l’equatore con una velocità di 1’ o 2’ al giorno, e che, ma con moto più marcato, le macchie comprese tra 20° e 30° di latitudine sia Nord che Sud si dirigono verso i poli. Riguardo a questi spostamenti egli suggerisce che appaiono in qualche modo legati al ciclo di undici anni. Questi studi furono il preludio per la scoperta di un diverso tipo di ciclicità. Ma per questo dobbiamo lasciare Carrington e concentrarci su un altro personaggio: Gustav Friedrich Wilhelm Spörer (1822-1895), fig. 9. Mentre Carrington aveva scoperto che la fascia in cui le macchie compaiono ha delle variazioni di posizione durante il ciclo, variazioni non meglio precisate, egli non solo precisò tali movimenti, ma ne trasse anche una legge (Legge di Spörer), che e tuttora valida. La legge cui giunse dice cosi: “Nella fase di transizione tra il vecchio ciclo e il nuovo vi sono due regioni in cui TABELLA 2: Nuove e più precise misure di Carrington sul periodo di rotazione solare in funzione della latitudine. M. Cardaci, Corsi e ricorsi FIG. 9: Ritratto fotografico di Gu- stav Friedrich Wilhelm Spörer . compaiono le macchie: una, con le macchie del ciclo che va scomparendo, centrata sull’equatore solare; l’altra, con le macchie del nuovo ciclo, posta a 30°-35° di latitudine sia Nord che Sud. Questa fase finisce con la scomparsa della fascia equatoriale: il nuovo ciclo è iniziato. Col procedere del ciclo le due fasce si vanno progressivamente avvicinando all’equatore solare finchè, all’epoca del massimo, si estendono circa dai 7° ai 18° sia Nord che Sud. Si può facilmente notare come in questa fase le due fasce si siano notevolmente allargate. Nel successivo periodo di discesa verso il minimo di attività, che come abbiamo visto nei precedenti capitoli è più lenta dell’ascesa al massimo, si ha un ulteriore avvicinamento all’equatore e una diminuzione dell’estensione in latitudine delle fasce, fino a che, raggiunto il periodo immediatamente precedente a quello di transizione, ovvero il minimo, esse si uniscono a formare un’unica zona, centrata sull’equatore, di circa 10° di ampiezza. Quindi il processo ricomincia.” Conclusioni Con l’analisi e la scoperta delle prime periodicità e delle caratteristiche cicliche del fenomeno si erano poste le basi per una migliore teoria del fenomeno. Dall’armonizzazione delle misure alla scoperta della natura magnetica delle macchie, iniziavano a esserci degli sprazzi di comprensione. Passi fondamentali per arrivare a penetrare un po’ meglio questo fantastico evento solare. Molte altre sorprese tecniche e scientifiche ci aspettano, ma questa è un’altra storia, che vedremo prossimamente. ASTRONOMIA NOVA n.21/2015 Pagina 39 BOX: Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero? Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti dal titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”. Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle osservazioni pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle prime scoperte scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla nascita della moderna fisica solare all’influenza sull’ecosistema Terrestre. Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non per questo meno importanti, ci sono anche alcune “monografie”: Istituto delle Scienze di Bologna, Galilei e Scheiner, Secchi, Hale. Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi storici. I volumetti, frutto di numerosi anni di ricerca, sono in formato E-Pub, e sono venduti con ricavato interamente versato in beneficenza (www.edc-consulting.org – Sezione “Storia Macchie Solari” – da cui si possono anche liberamente scaricare le anteprime). Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati gli studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato nel mondo del lavoro dalla porta del terziario avanzato. Lavora attualmente come manager nel settore Spazio per una Multinazionale di Servizi. Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance Aziendali Etici (“La Terza Strada: una storia di Principi, Maestri e Cappellai”), un testo sul Time Management (“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una serie di 14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”) sulla storia della scoperta delle Macchie Solari. Ha anche scritto diversi articoli a tema management, tecnologia e sicurezza informatica. Si interessa di giardinaggio, cucina e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e da un costante impegno nel volontariato. Pagina 40 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Fotometeore LE FOTOMETEORE Giuseppe Pappa http://giuseppepappa.altervista.org FIG. 1: Giochi di luce sulle gocce d'acqua, polvere o cristalli di ghiaccio nell'atmosfera producono spettacoli visivi - arcobaleni, aloni, corone e molto altro. Alcuni effetti possono essere visti quasi ogni giorno, altri una volta sola nella vita. L'atmosfera che ci sovrasta e che condiziona la nostra vita, non solo quotidiana, è spesso ricca di fantasmagoriche nubi e presenta colori che si stemperano in mille sfumature, regalandoci così spettacoli affascinanti ai quali, spesso, purtroppo, non degniamo alcuna attenzione. E’ negli stati più bassi di questa massa d’aria, che chiamiamo troposfera, che si verificano i fenomeni di cui parleremo in questo articolo. Diamo però qualche ulteriore informazione generale. La troposfera contiene l'80% della massa gassosa totale ed il 99% del vapore acqueo. L'aria della troposfera è riscaldata dalla superficie terrestre ed ha una temperatura che diminuisce con l'altitudine fino ai circa −55 °C della tropopausa. L'aria degli strati più bassi, che tende a salire, genera grandi correnti convettive da cui hanno origine venti equatoriali costanti, il resto della circolazione atmosfe- rica e le perturbazioni atmosferiche. Il suo spessore è variabile a seconda della latitudine: ai poli è spessa mediamente 8 km mentre 20 km all'equatore. La pressione atmosferica decresce con l'altitudine secondo una legge in prima approssimazione esponenziale; oltre i 7– 8 km di quota la pressione è tanto bassa che non è più possibile respirare senza l'uso di maschere collegate a bombole di ossigeno. La parola troposfera deriva dal greco e significa "variazione, cambiamento" proprio perché all'interno di questa sfera si trovano tutti quei moti d'aria verticali e orizzontali che rimescolano l'atmosfera stessa e che caratterizzano il mutevole tempo atmosferico. Spesso nella troposfera si manifestano fenomeni luminosi con colorazioni inusuali, prodotti dalla rifrazione, riflessione e diffrazione della luce solare o lunare: le fotometeore (in inglese: atmospheric optics), fig. 1. G. Pappa, Fotometeore Secondo la terminologia astronomica, una meteora viene definita un meteoroide nel momento in cui sta solcando l’atmosfera del nostro pianeta. Per intenderci, si tratta delle “stelle cadenti”, che brillano lasciando una scia luminosa nel cielo, visibile di notte e causata dell’attrito provocato durante il passaggio violento negli strati dell’atmosfera. In ambito meteorologico, invece, con il termine meteora si intende, più in generale, un fenomeno, anche luminoso, che si manifesta nella libera atmosfera o sulla superficie terrestre. In questa categoria rientrano le fotometeore: l'arcobaleno, i miraggi, i pareli, l'“ombra della terra”, i “raggi anti crepuscolari”, ecc. In particolare, in questo articolo, documenteremo le fotometeore che si potrebbero vedere nel corso di una singola giornata (ovviamente fortunata dal punto di vista meteo!), dall'alba alla notte, tralasciando però di parlare delle aurore boreali, di solito invisibili alle nostre latitudini. Quando l’oscurità della notte volge al termine e le ultime stelle sono flebili lucciole nel cielo ed il chiarore dell’alba lentamente aumenta, potremmo vedere due o tre fotometeore. La direzione dell'osservazione è quella opposta al sorgere del sole, verso ovest: si tratta della “cintura di Venere” o “belt of Venus”, e della cosiddetta “ombra della Terra” o, in inglese, ”Earth shadow”. Entrambi i fenomeni sono visibili sia all’alba sia al tramonto. La "cintura di Venere", un banda rosata che si estende sopra l'orizzonte fino ad un'altezza di circa 10°-20°, è FIG. 2: Bella immagine della “cintura di Venere” che presenta un’accentuata tinta rosata e che sovrasta lo strato più scuro della “Earth shadow”. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 41 FIG. 3: Raggi anticrepuscolari che sembrano irradiarsi da un unico punto, l’antelio; in realtà i raggi sono tutti paralleli. prodotta dalla retrodiffusione della luce arrossata del Sole mentre sorge o tramonta. Spesso il bagliore è separato dall'orizzonte da uno strato di colore assai più scuro, noto come "segmento scuro", causato dall'ombra della Terra. In fig. 2 sono ben visibili entrambi i fenomeni: l’ombra della terra, la banda scura prossima all’orizzonte sovrastata dalla banda rosa, detta "cintura di Venere". All'alba, in direzione opposta al sorgere del sole, potremmo vedere anche i cosidetti “raggi anticrepuscolari”, fig. 3, un'insieme di striscie colorate parallele all'orizzonte e vicine ad esso, accompagnate generalmente da una colorazione del cielo violetto scuro o rossastra. La loro caratteristica è l’illusione per cui sembra che i raggi luminosi si irradino da un unico punto, mentre in realtà essi sono paralleli fra loro. Tutto ciò è dovuto ad un effetto ottico e il loro illusorio punto di irradiazione viene detto “antelio”. Il Sole sta sorgendo e, con esso, si rendono visibili altre fotometeore. Pochi istanti prima del suo sorgere potremmo vedere, (con molta fortuna!), una difficile fotometeora: il raggio verde o “green flash”. Poiché però il fenomeno risulta difficile da osservare, la sua descrizione la faremo più avanti, collocandolo tra quei fenomeni visibili al tramonto. A questo punto, se ci troveremo in un luogo aperto e senza ostacoli, il Sole potrà stupirci, come nella foto di fig. 4, in cui sembra emergere maestosamente dal mare. Pagina 42 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Fotometeore FIG. 4: Il sorgere del Sole. Continuando a levarsi sull’orizzonte, il Sole può essere oggetto di un'altra particolare fotometeora, il cosiddetto “Sole a omega”, così definito, appunto, per la sua somiglianza alla lettera greca “Ω”. Questa fotometeora può modificare talmente tanto l’aspetto sferico del sole da storcerne la forma quasi a farlo assomigliare ad un vaso etrusco, come ben si vede nelle foto delle figg. 5-6. Il “Sole a Omega” è un miraggio "inferiore". Un miraggio si verifica quando i raggi solari subiscono una riflessione totale. Avremo due casi: un miraggio inferiore, appunto, ed uno superiore. Si ha un miraggio inferiore se gli strati di aria più prossimi al suolo sono molto più caldi rispetto agli strati superiori. In tal caso l'indice di rifrazione dell'aria calda è minore di quello dell'aria fredda, per- tanto un raggio proveniente da oggetti relativamente lontani viene riflesso totalmente verso l'osservatore che quindi osserverà una immagine capovolta e posizionata al di sotto dell'oggetto originale dando l'effetto che vi sia una pozzanghera che consente all'oggetto di specchiarsi. Miraggi più spettacolari sono quelli superiori, prodotti da una inversione di temperatura all'altezza degli occhi dell'osservatore; l'immagine allora apparirà riflessa superiormente: sarà così possibile vedere navi capovolte in lontananza. In questo caso, gli strati d'aria a contatto col suolo devono essere molto più freddi di quelli al di sopra degli occhi dell'osservatore. Così si produrrà una riflessione totale che consentirà di vedere riflessi in cielo oggetti molto lontani o addirittura ancora al di là della linea dell'orizzonte (figg. 7-8-9). FIG. 5-6: Il “Sole a omega”, fotometeora che lo fa assomigliare ad un vaso etrusco capovolto. G. Pappa, Fotometeore ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 43 FIG. 7: Miraggio sulle coste siracusane, si noti l’inversione delle luci dovute al miraggio inferiore. In una categoria a sé stante collochiamo il fenomeno della “Fata Morgana”, così chiamato anche in inglese, e che prende il nome dalle vicende mitologiche celtiche della fata che ingannava i marinai tramite apparizioni illusorie di castelli e villaggi. Esso è molto frequente nelle zone dello stretto di Messina. Il fenomeno quindi risulta essere una somma tra miraggio superiore e inferiore, formando pinnacoli e colonne di città lontane sull’orizzonte. Quando il Sole è alto sull'orizzonte, un casuale passaggio di nuvole che lo coprono ci permetterà di vedere un'altra fotometeora: i “raggi crepuscolari”, (fig. 10). Essi sono più luminosi dei raggi anticrepuscolari di cui abbiamo parlato prima perché sono dovuti alla retrodiffusione delle particelle che colpiscono l’atmosfera e sono visibili nella stessa direzione in cui osserviamo il Sole. Sono visibili poco prima dell’alba o, durante la giornata, al passaggio di una nuvola davanti al sole, oppure quando il Sole si nasconde dietro una montagna o dietro un ostacolo molto lontano. Quando il Sole invece è moderatamente alto sull’orizzonte è possibile vedere i “pareli" o "sundog”, (figg. 11,12), un fenomeno noto già ai tempi dei greci e dei romani. Il nome deriva dal greco e significa: “presso il Sole”, mentre il termine anglosassone significa "cani compagni del Sole". Sono immagini che si formano tipicamente alla distanza di circa 22° dal disco solare, spesso in coppia e ai lati del Sole. Un parelio sarà quasi certamente visibile se in atmosfera stazionano cristalli esagonali di ghiaccio, tipici dei cirri, di dimensioni inferiore al millimetro che diffrangono la luce. Il parelio può presentare una porzione allungata a forma di arco; questo perché possiamo considerarlo come una parte di un’altra fotometeora detta “alone solare”, (fig. 13), visibile quando il Sole è abbastanza alto sull’orizzonte e anche in questo caso la presenza di una FIGG. 8-9: Miraggi sulle coste ioniche in cui sembra anche apparire una nave fantasma Pagina 44 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Fotometeore FIG. 10: Raggi crepuscolari sopra una distesa infinita di mare, dovuti all’oscuramento del sole da parte delle nubi. gran quantità di cristalli di ghiaccio esagonali in atmosfera garantisce la possibilità di vedere un alone attorno al sole distanziato di 22° dal disco solare. Attorno all’alone si possono sviluppare anche delle particolari strutture che si formano in base ai movimenti dei cristalli di ghiaccio che formano altri aloni o parziali detti “archi tangente”. Un rapido cambiamento delle condizioni meteo, con l’arrivo di un gruppo di altocumuli trasparenti, può pro- durre il fenomeno della “corona solare” (fig. 14): attorno al disco Sole si formerà un anello con un diametro minore rispetto all’alone. Una corona solare è costituita da una serie di cerchi colorati che possono raggiungere un'estensione fino a 10°. Gli anelli avranno i colori dell'iride, con il rosso verso l'esterno, a differenza degli aloni che hanno il rosso all’interno. Le corone si possono formare in ogni stagione ed in ogni luogo. Le “iridescenze” (fig. 15) hanno un'origine simile alle corone ed agli aloni, essendo prodotte in presenza di cirri o altocumuli ricchi di microscopici cristalli di ghiaccio o goccioline d’acqua che diffrangono la luce e colorano letteralmente le nubi attorno al Sole. I colori predominanti sono il verde e il rosa, spesso con sfumature "pastello". L’arcobaleno è la fotometeora più affascinante che si può osservare quando la luce del Sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’aria dopo un temporale. Visivamente è un arco composto da sette colori principali: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto, con il rosso all’esterno e il viola nella parte interna. Gli arcobaleni più spettacolari possono essere osservati quando metà del cielo è ancora FIG. 11: Uno straordinario parelio apparso il 20 dicembre 2011 in Mongolia. G. Pappa, Fotometeore ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 45 FIG. 12: Un pittore anonimo del Seicento ha raffigurato, in questo dipinto ad olio, un’intero campionario di fotometeore osservate quasi un secolo prima (nel 1535) nel cielo di Stoccolma: parelio, aloni, aureole. fenomeni quali il “doppio arco” o “archi soprannumerari”. Nel primo caso comparirà un secondo arco con un angolo di 53° e una luminosità del 43% in meno rispetto all’arco primario e tra i due archi è possibile vedere una zona più scura denominata “banda di Alessandro” (da Alessandro di Afrodisia, filosofo greco che per primo la descrisse), fig. 16. L’altra variante molto interessante è la presenza di archi soprannumerari nell’arco primario. Perché possa essere visibile le goccioline d’acqua devono avere dimensioni minori di 0,5mm. L’arcobaleno, per il suo aspetto impalpabile e prodigioso, nei tempi antichi, è stato considerato una vera e propria manifestazione della divinità: così nella Grecia classica era Iride, la messaggera di Zeus, il tramite fra le divinità o tra il mondo degli uomini e quello degli immortali. scuro per le nuvole di pioggia e l’osservatore si trova in un punto con sopra il cielo sereno. In casi più rari è possibile assistere a più arcobaleni, tipicamente due, di cui uno appare bianco e più attenuato. Perché un osservatore possa vedere un arcobaleno, il Sole deve essere alle sue spalle e ad un’altezza inferiore ai 42°, mentre sta piovendo: l’angolo di riflessione della luce si attesta intorno ai 40°-42°; la dimensione delle goccioline d’acqua influisce sulla luminosità dell’arco. Nei casi di più riflessioni si possono vedere i FIG. 14: In questa foto, la corona solare è messa in risalto dall'occultazione del disco del Sole. FIG. 15: (sotto) L’iridescenza con una predominanza di tinte pastello sul rosa sfumato. Fig. 13: (sopra) nella foto, è ben visibile un alone solare e un parziale arco tangente superiore. Un lampione oscura il sole e una chiesa arricchisce la composizione fotografica. Pagina 46 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 G. Pappa, Fotometeore Fig. 16: a sinistra, arco soprannumerario, sono ben visibili gli archi sotto a quello primario. A destra, Doppio arcobaleno e banda di Alessandro durante un temporale pomeridiano. E sempre la sua forma ad arco, ha fatto sì che lo si ritenesse un intermediario fra il cielo e la terra. Nelle varie culture, l'arcobaleno è "anello di Dio" in tzigano; "arco di Dio" in ceco; "arco dell’alleanza" e "della Trinità" in gallese; "arco del Paradiso" in Russia. Un'altra straordinaria fotometeora è il mitico “raggio verde”, quando il Sole, pochi istanti prima del tramonto, crea un sottile strato luminoso verde-azzurro che dura pochi istanti. Il fenomeno può essere visibile a occhio nudo, ma un binocolo o un teleobiettivo ne facilita la visione, data l'effimera durata che dalle nostra latitudini, supera al massimo il secondo di tempo. Il raggio verde dipende da diversi fattori quali la rifrazione atmosferica, la diffusione della luce, scintillazioni, turbolenza e forti inversioni termiche sull’orizzonte marino. La combinazione degli eventi precedentemente elencati dà una buona possibilità di osservare un raggio verde, mentre i periodi più probabili in cui osservarlo sono l'inizio e la fine dell'estate. Se dunque prima del tramonto, notiamo un leggero moto ondoso del mare, il cielo limpido al di sopra di 10° sull'orizzonte e il fenomeno del “Sole a omega”, abbiamo buone probabilità di poter osservare il “raggio verde” (fig. 17-18). Il Sole è tramontato ma abbiamo ancora la possibilità di vedere le ultime fotometeore: l’"ombra della terra" e la Fig. 17: Il raggio verde ripreso sul mar Tirreno in provincia di Messina. G. Pappa, Fotometeore ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 47 paraseleni che corrispondono ai pareli visti di giorno creati dal sole, o addirittura un arcobaleno lunare. Quest’ultimo è davvero molto raro perché devono verificarsi una serie di coincidenze di plenilunio con la Luna non molto alta sull’orizzonte e un temporale che volge al termine. FIG. 18: Il “raggio verde” è anche il titolo di un romanzo del 1882 di Jules Verne. Qui il frontespizio della prima edizione. FIG. 20: Un alone lunare. "cintura di venere", che saranno visibili a est mentre il sole tramonta a ovest e, se saremo fortunati anche i raggi anticrepuscolari. Di sera, quando è presente una luna prossima al plenilunio, possono essere visibili i fenomeni creati dal sole ma con una intensità minore, dato che la luce irradiata dalla luna è in quantità molto minore. Così potremmo vedere una corona lunare, fig. 19, o più raramente e soprattutto nei periodi più freddi dell’anno, l’alone lunare (fig. 20) e, se siamo fortunati, i FIG. 19: Corona lunare in cui sono ben visibili i colori dell’iride. Giuseppe Pappa è nato a Catania nel 1987. Fin da giovanissimo si è appassionato di astronomia ed ora ha all’attivo la scoperta di 2 comete SOHO ed invia le sue osservazioni di comete a diversi siti astronomici internazionali. Negli ultimi anni ho affiancato alla passione per l’astronomia, quella per la fotografia, in particolare scatti di paesaggi e cielo che ho raccolto nella mia pagina web http://giuseppepappa.altervista.org . Giuseppe è disponibile a rispondere ad eventuali quesiti legati al contenuto di questo articolo; scrivetegli: [email protected] Pagina 48 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, METI METI, IL DIBATTITO SUI MESSAGGI INTERSTELLARI Corrado Ruscica [email protected] FIG. 1: In Crimea è attivo il radiotelescopio Yevpatoria RT -70 che, con il suo diametro di 70 metri, è tra i più grandi paraboloidi del mondo. Esso ha un vantaggio rispetto ad altri grandi radiotelescopi, infatti, tra la sua strumentazione è compresa una serie di potenti trasmettitori che consentono esperimenti spaziali attivi. Per questo motivo, il radiotelescopio Yevpatoria RT-70 è uno degli unici due al mondo che sono in grado di trasmettere potenti messaggi verso lo spazio interstellare. Se è vero che una delle domande che si pone da sempre l'umanità, e cioè se siamo soli nell'Universo, rimane ancora senza risposta è anche vero che ci si chiede se vale la pena trasmettere nello spazio dei messaggi interstellari che annuncino la nostra presenza. Forse, come pensa qualcuno, dovremmo solo ascoltare. Comunque sia, da quando è iniziata l'era della ricerca delle intelligenze extraterrestri con il programma SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence), nella maggior parte dei casi i radioastronomi hanno utilizzato solamente delle strategie di ascolto. Nel 1999, quel consenso venne abbandonato. Senza consultarsi con altri membri della comunità scientifica coinvolti nel progetto di ricerca SETI, un gruppo di radioastronomi della stazione di Evpatoria Radar Telescope (fig. 1) in Crimea (guidati da Alexander Zaitsev, fig. 2) la seconda antenna parabolica per dimensioni grazie ai suoi 70m di diametro, trasmise un messaggio interstellare, chiamato “Cosmic Call 1”, verso quattro stelle vicine di tipo solare. Il progetto venne promosso da una azienda americana, la Team Encounter, e si basò su una serie di procedure per permettere al grande pubblico di inviare testi e immagini utilizzando un fee. Altri segnali simili furono trasmessi dalla stazione di Evpatoria nel 2001, nel 2003 (Cosmic Call 2) e nel 2008. In tutto, le trasmissioni vennero inviate verso 20 stelle distribuite entro 100 anni-luce. Questa strategia innovativa fu chiamata METI (Messaging to Extraterrestrial Intelligence) o SETI attivo. Sebbene Zaitsev non fosse stato il primo ad inviare un messaggio interstellare, egli e i suoi colleghi furono comunque i primi a trasmettere sistematicamente verso stelle vicine. Sulla scia degli C. Ruscica, METI FIG. 2: Alexandr Leonidovich Zaitsev è un ingegnere e astronomo russo; si occupa di dispositivi per l'astronomia radar, di ricerca radar di asteroidi vicini e del progetto SETI. Dirige il gruppo che trasmette i messaggi interstellari presso il Deep Space Center di Evpatorija. esperimenti di Evpatoria, un numero limitato di stazioni di ricerca della NASA realizzarono una serie di trasmissioni METI come trucchi pubblicitari a scopo commerciale, tra cui un messaggio nel linguaggio Klingon della famosa serie di Star Trek per promuovere la prima di un'opera oppure l'intero remake del film di fantascienza “The Day the Earth Stood Still” del 2008 (fig. 3). FIG. 3: La locandina del film “The Day the Earth Stood Still”. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 49 FIG. 4: La copertina del numero del Journal of the British Interplanetary Society dedicato al dibattito sul METI. Le modalità di trasmissione di questi messaggi commerciali non sono state rese pubbliche ma certamente erano troppo deboli per essere rivelate su distanze interstellari utilizzando strumenti analoghi a quelli terrestri. Le azioni intraprese da Zaitsev fecero comunque sollevare un grande dibattito nella comunità scientifica soprattutto per le eventuali conseguenze che tali messaggi interstellari avrebbero potuto causare all'umanità. A questo dibattito fu dedicato uno speciale dal Journal of the British Interplanetary Society che portò nel 2010 all'organizzazione di un congresso sponsorizzato dalla Royal Society a Buckinghamshire, Londra. Il SETI moderno ebbe inizio nel 1959 quando due astrofisici, Giuseppe Cocconi e Phillip Morrison, pubblicarono un articolo sulla prestigiosa rivista Nature dal titolo Searching for Interstellar Communications. Essi dimostrarono come i radiotelescopi dell'epoca fossero in grado di ricevere dei segnali trasmessi da qualche civiltà aliena situata a distanze tipiche delle stelle più vicine, cioè qualche centinaia di anni-luce. Alcuni mesi più tardi, l'astronomo Frank Drake puntò il vecchio radiotelescopio di 26m di Green Bank nella West Virginia verso due stelle vicine per condurre il cosiddetto Progetto Ozma, il primo esperimento di ascolto SETI. Pagina 50 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, METI FIG. 5: In alto, il famoso articolo di Cocconi e Morrison, apparso su Nature nel 1959, nel quale gli autori sostenevano che i radiotelescopi dell’epoca erano in grado di ricevere segnali extraterrestri. Sotto, da sinistra, Giuseppe Cocconi (1914-2008) e Philip Morrison (1915-2005). Morrison, Frank Drake e il giovane Carl Sagan (fig. 6) ipotizzarono che le civiltà extraterrestri avrebbero fatto del loro meglio per trasmettere potenti segnali radio annunciando così la loro presenza. Dunque, gli umani, come una sorta di "nuovi residenti cosmici" che avevano appena inventato i radiotelescopi, avrebbero cercato e ascoltato questi eventuali segnali radio di origine extraterrestre. Non c'era alcun bisogno di prendersi dei rischi, anche se piccoli, di rivelare la nostra presenza ad alieni potenzialmente ostili. Nel 1974, Drake e Sagan idearono un breve messaggio, composto da 1679 bit, che fu trasmesso dal gigantesco radiotelescopio di 305 metri di Arecibo in Porto Rico (fig. 7). Questo esperimento non fu considerato come un vero e proprio tentativo di trasmissione interstellare e fu inviato appositamente verso un ammasso stellare M13 distante, situato a 25000 anni-luce nella costellazione di Ercole. Esso aveva lo scopo di dimostrare le nuove capacità dello strumento durante una cerimonia che inaugurava l'inizio delle attività dopo il periodo di manutenzione. Negli anni '80 e '90, gli astronomi del SETI iniziarono a formulare un insieme di regole per condurre il loro programma di ricerca. Nel Primo Protocollo SETI si specificava come il contenuto della risposta ad un segnale alieno, confermato attendibile, sarebbe stato preceduto da una consultazione internazionale. Non diceva nulla, invece, sulle modalità della trasmissione inviata prima della scoperta di un segnale di origine extraterrestre. Un Secondo Protocollo SETI doveva affrontare quel tema ma con le critiche che emergevano qualcosa andò storto. David Brin, uno scienziato spaziale, consulente visionario e scrittore di fantascienza, fu tra coloro che parteciparono alle discussioni sui contenuti del protocollo. Brin accusa il gruppo centralizzato attorno all'Istituto SETI nella Silicon Valley in California, tra cui Jill Tarter e Seth Shostak, di creare delle "interferenze" per indurre altri, come il radioastronomo russo Zaitsev, a sviluppare e ad insistere con l'invio C. Ruscica, METI FIG. 6: Da sinistra, Frank Drake (1930), Carl Sagan (19341996). di messaggi interstellari. Ma Shostak nega tutto ciò e non vede alcun criterio per regolare tali trasmissioni. Brin, assieme a Michael A. G. Michaud (fig. 8), un diplomatico e in precedenza all’U.S. Foreign Service Officer, che fu presidente del comitato che aveva formulato il primo e il secondo protocollo, e John Billingham, inizialmente a capo del breve programma SETI della NASA, si dimisero dal comitato per protestare contro le modifiche al secondo protocollo. I fondatori del SETI avevano comunque una visione positiva per quanto riguarda le intelligenze extraterrestri. Lo stesso Sagan ipotizzava che le civiltà extraterrestri (ETC) più vecchie della nostra sarebbero diven- ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 51 tate pacifiche e responsabili perché quelle che non l'avessero fatto si sarebbero sicuramente autodistrutte. Gli extraterrestri, essi supposero, sarebbero stati coinvolti nelle trasmissioni interstellari a causa del desiderio di condividere le loro conoscenza e di imparare dagli altri. Essi supposero, inoltre, che gli ETC avrebbero stabilito delle trasmissioni potenti in tutte le direzioni, in modo da assistere le altre civiltà a trovarli e a far parte di una rete di comunicazione interstellare al livello galattico. In tal senso, la maggior parte dei programmi del SETI sono stati ottimizzati proprio per rivelare queste eventuali, continuative trasmissioni. Nel corso di oltre cinquant'anni, da quando sono iniziate le attività del SETI, le ricerche sono state condotte in maniera sporadica e sono state soggette a costanti problemi di fondi. Finora, è stato a malapena campionato lo spazio in tutte le possibili direzioni e frequenze e sono state prese in considerazione solo alcune strategie di ricerca. L'assenza di una ovvia evidenza relativa all'individuazione di una civiltà extraterrestre ha portato qualcuno ad introdurre l’idea del cosiddetto “Grande Silenzio”. Secondo Brin, forse qualcosa sta mantenendo la soglia di contatto degli ETC al di sotto della nostra capacità di osservazione. FIG. 7: Il grande radiotelescopio di Arecibo, si distingue per le sue enormi dimensioni: il collettore parabolico ha un diametro di 305 metri, ed è stato costruito all'interno di un avvallamento naturale. La superficie dell'antenna è formata da 38.778 pannelli in alluminio, ciascuno dei quali misura tra 1 e 2 metri, sostenuti da una maglia di cavi di acciaio. Pagina 52 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, METI FIG. 8: Da sinistra, David Brin e Michael Michaud, entrambi coinvolti nelle polemiche che li vedono contestare gli attuali protocolli di comunicazione SETI per la ricerca di intelligenze extraterrestri, in quanto, non potendo conoscere a priori le intenzioni e le conoscenze tecnologiche degli eventuali extraterrestri che riceveranno il messaggio, si rischia di mettere in pericolo il nostro pianeta rivelandone la posizione. In altre parole, se le civiltà aliene sono silenti, potrebbe darsi che essi sono a conoscenza di qualcosa di pericoloso che noi non sappiamo? Zaitsev crede che tali paure non siano fondate e che anche le altre civiltà aliene potrebbero essere riluttanti a trasmettere dei segnali nello spazio interstellare. Secondo lo scienziato russo, l'umanità potrebbe spezzare questo silenzio trasmettendo dei messaggi verso i suoi vicini cosmici. Egli paragona l'attuale stato dell'umanità a quello di un uomo intrappolato in una cella di una prigione: non si può vivere in una sorta di incubatrice senza aver diritto di inviare un messaggio all'esterno, perché questa vita non è interessante. La conclusione è che quelle civiltà che si nascondono a causa di potenziali paure sono destinate all'estinzione. Egli fa notare come negli anni Sessanta, l'astronomo Sebastian von Hoerner ipotizzava che le civiltà aliene che non sono interessate alle comunicazioni interstellari alla fine subiscono un declino mediante una sorta di “perdita d'interesse”. I dubbi sollevati dai critici del METI riguardano il problema della trasmissione dei messaggi interstellari e quale potrebbe essere il contenuto di quelle trasmissioni. D'altra parte, Seth Shostak, direttore del Center for SETI research, sottolinea come i segnali trasmessi dalla radio, dalla televisione o dai militari sono già presenti nello spazio interstellare. Anche se tali segnali sono molto deboli per essere rivelati su scale interstellari con l'attuale tecnologia che abbiamo a disposizione, Shostak è convinto che con il rapido progresso che porterà alla costruzione di radiotelescopi sempre più sofisticati, gli ETC, dotati di una tecnologia ancora più avanzata rispetto alla nostra, potrebbero essere in grado di rivelare i nostri segnali. Secondo John Billingham e James Benford, dell’Interstellar Beacons - SETI Talks, per tener conto di questo gap occorrerebbe un'antenna con una superficie di oltre 20000 chilometri quadrati, più grande della città di Chicago, il cui costo con l'attuale tecnologia sarebbe dell'ordine di 60 trilioni di dollari. Ma Shostak sostiene che qualche civiltà tecnologicamente avanzata potrebbe possedere delle tecniche più esotiche. Se un telescopio fosse posto a 550 volte la distanza Terra-Sole, esso sarebbe in una posizione tale da utilizzare il campo gravitazionale del Sole come una gigantesca lente. Questo telescopio avrebbe un'area effettiva enormemente più grande della città di Chicago senza alcun costo aggiuntivo. Secondo Shostak, uno strumento del genere permetterebbe ad una civiltà aliena di ascoltare varie trasmissioni terrestri e nella banda del visibile di avere una sensibilità adeguata per catturare addirittura la luce dei lampioni stradali, una idea intrigante anche secondo Brin. Se poi una civiltà aliena fosse in grado di viaggiare nello spazio, essa sarebbe talmente avanzata da farci potenzialmente del male. Senza avere mezzi adeguati per capire ciò che una civiltà aliena può o non può rivelare, Shostak sostiene che la comunità scientifica del programma SETI non ha per le FIG. 9: Seth Shostak, direttore del Center for SETI rese- arch. C. Ruscica, METI mani nulla di concreto per contribuire ad una regolamentazione dei messaggi interstellari. Ma davvero gli extraterrestri potrebbero farci del male? Nel 1897, H.G. Wells pubblicò un romanzo di fantascienza dal titolo “La Guerra dei Mondi” (fig. 10) in cui la Terra veniva invasa dai marziani che abbandonavano il loro mondo ormai arido e in fin di vita. Al di là di essere scientificamente plausibile per quei tempi, il romanzo di Wells conteneva un messaggio politico. Come oppositore del colonialismo britannico, Wells desiderava che i suoi concittadini immaginassero quale tipo di imperialismo potesse emergere dall'altra parte. Da quel momento, le storie sulle invasioni aliene sono state quasi sempre protagoniste di film di fantascienza. Alcuni considerano il colonialismo europeo come un possibile modello che gli alieni potrebbero utilizzare per sottomettere la razza umana. L'eminente fisico Stephen Hawking ritiene che le civiltà estremamente avanzate potrebbero già conoscere le modalità di un viaggio interstellare. Secondo lo scien- FIG. 10: Il frontespizio del romanzo di H.G. Wells, la “Guerra dei Mondi”, pubblicato nel 1898. ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 53 FIG. 11: Alcune antenne dell’Allen Telescope Array (ATA). ziato inglese, se gli alieni visitassero la Terra, le conseguenze sarebbero simili a ciò che accadde a Cristoforo Colombo che quando scoprì l'America si scontrò praticamente subito con i nativi americani, con conseguenze assolutamente nefaste per questi ultimi. Nonostante le paure di Hawking possano considerarsi come “semplici e improbabili speculazioni”, Brin fa notare che i viaggi interstellari di sonde automatizzate sono completamente fattibili e che tali sonde potrebbero arrecare in qualche modo dei danni al nostro pianeta. Ad esempio, una sonda potrebbe deviare un asteroide verso la Terra, perciò la lista di scenari improbabili ma fisicamente possibili è abbastanza lunga, sempre secondo Brin. I critici del METI, Brin, Benford e Billingham, ritengono che la mancanza di risultati da parte del SETI implica una sorta di risposta differente al tema del METI. Essi sostengono la necessità di individuare di nuove strategie di ricerca. Ma i ricercatori del SETI sembrano convinti che gli alieni utilizzeranno dei fasci stazionari a trasmissione continua in tutte le direzioni al fine di attirare la nostra attenzione, anche se alcuni studi recenti hanno mostrato che questo metodo non è economicamente conveniente. Invece, una civiltà aliena potrebbe compilare una lista di pianeti potenzialmente abitabili presenti nel suo vicinato cosmico a cui inviare il proprio messaggio. Questa trasmissione, detta “ping”, potrebbe essere costantemente ripetuta, in sequenza, una volta all'anno oppure ogni dieci anni o ancora ogni mille anni. Ma secondo Benford e Billingham il SETI potrebbe perdersi questo tipo di segnale. Pagina 54 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 C. Ruscica, METI Confronto tra la "sfera SETI" attuale (che corrisponde alla nostra capacità di ricevere segnali radio dallo spazio con il radiotelescopio di Arecibo—Project Phoenix), e ciò che si avrà invece quando entrerà in funzione l'Allen Telescope Array. Si prevede di passare dagli attuali 200 anni luce (stimati) a oltre 20.000 anni luce, coprendo circa il 25% della Via Lattea. L'Allen Telescope Array (ATA), fig. 11, è stato concepito per esplorare piccole porzioni di cielo per cercare eventuali segnali trasmessi in sequenza e in maniera costante. Naturalmente, lo strumento potrebbe perdersi un segnale transiente perché sarebbe improbabile osservare nel posto giusto e al momento giusto. Da questo punto di vista, i messaggi del radiotelescopio di Evpatoria, che sono stati trasmessi per meno di un giorno, sono degli esempi di segnali transienti. Benford e Billingham propongono la costruzione di un nuovo radiotelescopio per monitorare costantemente il piano galattico, dove le stelle sono più numerose, alla ricerca di segnali transienti. Un tale strumento, essi stimano, costerebbe circa 12 milioni di dollari mentre un programma METI ne costerebbe qualche miliardo di dollari. Insomma, il dibattito METI continua. Lo scorso 13 Febbraio le due fazioni si sono confrontate durante l'American Association for the Advancement of Science conference a San Jose in California sul tema Active SETI: Is It Time To Start Transmitting to the Cosmos? Secondo Brin, questo è un campo della ricerca dove le opinioni contano e ognuno ha la sua. Durante il meeting, un gruppo di 28 scienziati, studenti e uomini d'affari ha stilato una dichiarazione secondo cui la decisione di trasmettere o meno dovrà basarsi sul consenso internazionale e non sulla decisione o sui desideri di pochi che hanno accesso a potenti strumenti di comunicazione. Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce attività di divulgazione scientifica attraverso articoli e conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia alla fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo", "Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro -edizioni. S. Covino, Italia e le stelle ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 55 QUANDO L'ITALIA ASPIRAVA ALLE STELLE Stefano Covino [email protected] http://mitescienza.blogspot.it/ A molti, anche fra "gli addetti ai lavori", può far piacere pensare in qualche modo all'astrofisica come ad un mondo relativamente poco legato ai vari aspetti del quotidiano, sostanzialmente astratto, e non certamente vincolato alle dinamiche sociali e politiche. Non è vero, ovviamente, da molti punti di vista. E non solamente perché la ricerca scientifica, ora come anche in passato, richiede investimenti e quindi risorse, ma anche perché talvolta assume un significato simbolico che in determinati periodi storici va addirittura ad influenzare scelte politiche e sociali. E così è stato verso la fine degli anni '70 dell'Ottocento, anni che rappresentano un momento molto importante per la storia del Regno d'Italia. Con la "presa di Roma" il processo risorgimentale era in gran parte compiuto, e sul tappeto emergevano tutti i grandi problemi legati alla gestione ed organizzazione del nuovo stato unitario. Fra questi, sicuramente fra i più impellenti, c'era quello della stabilizzazione finanziaria delle casse del nuovo stato che usciva dalle continue campagne militari delle guerre d'indipendenza pesantemente indebitato. Fra le varie misure escogitate dalla nuova classe dirigente di sicuro la più nota, se non altro per le sue caratteristiche di iniquità sociale, fu la famigerata tassa sul macinato che fu promulgata per la prima volta nel 1868 quando capo del governo era Luigi Menabrea (18091896), scienziato ed intellettuale di notevole spessore. Il pareggio di bilancio, risultato oggettivamente non di poco conto, fu raggiunto nel 1876 con Marco Minghetti (1818-1886) presidente del Consiglio e Quintino Sella (1827-1884) onnipresente ministro delle finanze in più occasioni. Non è lo scopo che ci prefiggiamo oggi, ma Menabrea meriterebbe un approfondimento a parte. Basti dire che la sua opera, in francese, fu tradotta in inglese da Ada Byron, figlia del poeta Lord Byron, più FIG. 1: Ritratto di Luigi Federico Menabrea, uomo di multiforme ingegno: ingegnere, generale, politico e diplomatico, nonché socio dell'Accademia delle Scienze di Torino e dell'Accademia Nazionale dei Lincei. nota come Ada Lovelace, e matematica di grande valore. Il lavoro di Menabrea, ampliato in grande misura dalla Lovelace, divenne poi la base delle elaborazioni di Charles Babbage (figg. 2,3), considerato non a torto come il padre del concetto moderno di calcolatore elettronico. È in questo scenario, con un'eredità sociale difficile fra disordini popolari e lotta al brigantaggio, che il Paese comincia ad affrontare un ambizioso programma di ammodernamento infrastrutturale e culturale. Ed è nel 1878 che si apre un dibattito parlamentare per una spesa che a molti, anche allora, sembrava essere alquanto improduttiva, e per certi versi forse anche immorale, in un Paese ancora estremamente povero per un'ampia fascia di popolazione: la costruzione di un grande telescopio per l'Osservatorio Astronomico di Brera, uno strumento che avrebbe permesso al suo illustre direttore, Giovanni Schiapparelli, di risolvere final- Pagina 56 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Covino, Italia e le stelle FIGG. 2, 3: Charles Babbage (1791-1871), matematico e filosofo britannico che per primo ebbe l'idea di un calcolatore programmabile, nelle due versioni, la prima, la macchina differenziale, della quale fu realizzato un prototipo imperfetto mentre la seconda, la macchina analitica, fu solo progettata. In alto a destra, Alcuni parti della macchina differenziale di Babbage assemblate utilizzando alcune parti originali trovate nel suo laboratorio. Negli ultimi decenni dell'800, infatti, uno degli argomenti scientifici più caldi e dibattuti era quello delle condizioni ambientali alla superficie dei pianeti vicino alla Terra. Proprio in quegli anni telescopi dal diametro e qualità adeguata cominciavano ad essere disponili, ed i più valenti astronomi si dedicavano a lunghissime ore di osservazione documentando con disegni ed appunti quello che appariva negli oculari dei loro strumenti. Marte, come sanno benissimo gli astrofili, è facilmente riconoscibile ad occhio nudo anche per il suo evidente colore rosso, ma al telescopio appare solo come un disco di piccole dimensioni. Tuttavia per la combinazione delle orbite intorno al Sole della Terra e di Marte ogni circa due anni accade che i due pianeti si trovino ad una distanza reciproca molto ridotta ed era, ed è, in queste epoche che le osservazioni visuali possono permettere di distinguere dettagli della superficie marziana. Le calotte polari, le principali caratteristiche orografiche, ed i cambiamenti stagionali attirarono così l'atten- zione degli scienziati del tempo. E fra questi Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), fig. 4, ma non solo lui, vide un fitto reticolo (i famosi canali) che sembravano cambiare struttura con le stagioni e che potevano suggerire la possibilità che fosse un poderoso sistema di irrigazione di una avanzata civiltà marziana. Un manoscritto originale di Schiaparelli L'epoca in cui tutto questo avveniva era il tardo ottocento, ovvero un periodo storico in cui l'eccitazione per il progresso tecnologico era probabilmente al suo apice ed in breve il tema dei canali uscì dallo stretto dibattito scientifico per entrare a gran forza nella cultura popolare dando vita al perdurante mito dei marziani, con tutta una ampia produzione letteraria, da H.G. Wells a Robert Heinlein, ed oltre, che ancora conosciamo e coltiviamo. Va detto, per la verità, che Schiaparelli descrisse i risultati delle sue osservazioni anche in una serie di scritti pubblicati con il titolo di "La Vita sul Pianeta Marte", fig. 5, disponibili gratuitamente anche su diverse piattaforme di e-reading, dove l'autore con un tono tranquillo e meditato disserta sulle varie cause naturali per spiegare le sue osservazioni ma anche non mancando, alla fine, e ben chiarendo che stava dando libero sfogo alla fantasia, di ipotizzare anche cause artificiali legate ad un'ipotetica civiltà marziana. Poco importa, in questa sede, che l'acquisto del nuovo e grande telescopio, con certamente grande sconcerto dello Schiaparelli, non solo non mostrava con maggiore chiarezza i supposti canali, ma al contrario ne rendeva l'osservazione più complessa dando supporto a coloro che, anche allora, risultavano scettici rispetto alla reale esistenza di queste strutture. S. Covino, Italia e le stelle ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 57 FIG. 4: Schiaparelli al telescopio dell'osservatorio di Brera in un famoso disegno di Beltrame per La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1900. Il dibattito parlamentare che portò all'approvazione della spesa è di enorme interesse politico e culturale. Ne abbiamo ora facile accesso in quanto recentemente Gerardo Bianco, ministro della Pubblica Istruzione nei primi anni '90, ha curato un interessante resoconto dello stesso pubblicato nel numero 3 del 2015 della rivista "Studi Desanctisiani", di Fabrizio Serra Editore. Dal dibattito si deduce, ad esempio, che il ruolo dell'allora ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis (1817-1883) fu assolutamente centrale nella vicenda, anche più di Quintino Sella (1827-1884), da sempre mentore e sostenitore dello Schiaparelli. Leggendo il resoconto si apprezza innanzitutto l'elevatezza del dibattito. I temi pragmatici non mancano, così come anche temi di qualche peso retorico o persino, diremmo oggi, populista. Nella discussione però emergeva con chiarezza come i membri del parlamento regio pensavano di discutere di un investimento il cui significato andava ben oltre uno strumento scientifico per un istituto, ma che poteva diventare simbolo di un paese, l'Italia, che finalmente si riappropriava del ruolo che le spettava fra le nazioni. Temi di impatto nazionalistico e tardo-risorgimentale, senza dubbio, ma non privi di eleganza e sostanza. VeFIG. 5: Una recente ristampa degli scritti di Schiaparelli intorno al problema della vita su Marte. diamo, ad esempio, il commento alla legge da parte di Stanislao Cannizzaro, valente e noto chimico: "le nazioni illuminate si guardano bene dalla volgare distinzione tra le investigazioni utili e quelle di lusso, conoscendo già che tutte le parti del scibile umano si collegano e coadiuvano reciprocamente e progrediscono o decadono insieme". Un commento quanto mai attuale sulla veramente molto poco fondata separazione fra ricerca di base ed applicata. Oppure dello stesso Francesco De Sanctis, nel rintuzzare i pochi commenti negativi all'acquisto: "Noi dobbiamo non sentirci al di sotto di nessuno quando vogliamo sviluppare le nostre facoltà intellettuali. Crede egli l'onorevole Senatore Pepoli che, parlando di ferrovie e di tassa di macinato, l'Italia affermi innanzi al mondo la sua esistenza morale? Ma non è questo che fa grandi i popoli; e se abbiamo voluto l'Italia, facciamo almeno che quest'Italia possa innanzi agli altri apparire degna de' suoi alti destini". Fa una certa impressione, per altro, vedere con quale lucidità l'umanista De Sanctis vedesse nella scienza un sapere nobile e certamente non relegato nell'angusto regime delle cose utili ma poco di più. Pagina 58 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 S. Covino, Italia e le stelle FIG. 6: Il rifrattore Merz-Repsold di 49 cm, installato prima a Brera e poi a Merate. L’immagine è del 1882. Sia come sia, il telescopio fu acquistato e venne installato a Brera (fig. 6) dove rimase fino al 1935 quando venne trasportato alla sede di Merate dell'Osservatorio Astronomico di Brera per cercare cieli più bui e non influenzati dalla turbinosa espansione della città di Milano di quegli anni (e dei successivi...). A Merate il telescopio rimase operativo fino a circa gli anni '60. Lo sviluppo tecnologico ovviamente rese progressivamente obsoleto il telescopio che fini smontato nei magazzini dell'Osservatorio quando non addirittura "cannibalizzato" per completare strumenti di nuova concezione sviluppati dai tecnici dell'istituto di Brera. La storia di questo telescopio sembrava, quindi, essere arrivata al capolinea, anche se in realtà una nuova consapevolezza dell'importanza della preservazione e valorizzazione del patrimonio storico non solo artistico ma anche scientifico ed industriale ne ha aperto un nuovo capitolo. Di tutta questa fase, però, parleremo ampiamente nella prossima parte di questo articolo. Stefano Covino nasce nel 1964. In piena era spaziale, come si diceva con un po' di enfasi, ma lui non ne era allora cosciente sebbene l'eco e l'eccitazione per le missioni Apollo lo ha accompagnato per tutta l'infanzia (prolungatasi probabilmente fino a pochi anni fa'). Laureato in fisica e dottorato in astronomia all'Università degli Studi di Milano, sotto la direzione di Laura Pasinetti, ha cominciato fin da subito ad essere parte di collaborazioni internazionali sostenendo diversi periodi di lavoro in istituti esteri. Di formazione è un astrofisico stellare, con particolare attenzione allo studio delle popolazioni stellari, ma con il tempo si è sempre più avvicinato all'astrofisica delle alte energie divenendo parte del gruppo ricerca dedicato presso INAF - Osservatorio Astronomico di Brera. E' quindi divenuto membro della collaborazione Swift, volta allo sfruttamento scientifico dei dati di questa missione, lanciata nel 2004 e tutt'ora proficuamente attiva, frutto di una collaborazione tri-nazionale fra Stati Uniti, Regno Unito ed Italia. "Principal Investigator" in numerossime occasioni di progetti osservativi volti allo studio di GRB, dal 2007 è divenuto membro della collaborazione MAGIC volta allo studio di raggi gamma di altissima energia attraverso la radiazione Cerenkov da essi prodotta in atmosfera. Si è occupato però anche di sviluppi tecnologici come responsabile del software per il telescopio robotico a puntamento veloce REM, al momento operativo presso l'osservatorio di La Silla dell'ESO (Cile). Sposato con un bravo medico pneumologo che, fortunamente, lo costringe a casa per almeno per il 50% del suo tempo, è stato fino al matrimonio un attivo alpinista sebbene tutt'ora, occasionalmente, non disegni pareti e vette insieme alla relatività e la fisica dei processi radiativi. M. Dho, Gimbal ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 59 GIMBAL, UNA TESTA TUTTOFARE La tecnologia costruttiva Gimbal, basata sull’effetto a bilanciere, è impiegata dai fotografi per immortalare eventi naturalistici e sportivi ma, con pochi accorgimenti, funge, altresì, da accessorio di supporto, molto versatile e preciso, per l’imaging astronomico Mario Dho [email protected] FIG. 1: Schema di un tipico setup di ripresa adottato dai fotografi Abstract The rocker head, technically identified as Gimbal head, is an accessory designed to restore an instrument of particularly low barycentre and ensure fluidity and smoothness of movement. The particular technological characteristics and building architectures make it ideal for use with large telephoto lenses combined with DSLRs. They are known for their ability to shoot moving scenarios in the fields of sports and birdwatching, but the feasibility of combination with optical units and astro- nomical shooting equipment is not be neglected. Some changes to mechanics, in conjunction with implementations of auxiliary components, can transform a Gimbal head on a remote controlled robot to monitor the Observatory or to ensure the proper development and succession of the elementary steps that constitute the general set of actions. We know better this universal head appreciating its quality and also conjecturing sophisticated uses in the field of practical astronomy. Pagina 60 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 M. Dho, Gimbal La testa a bilanciere, tecnicamente identificata col termine Gimbal head, è un accessorio realizzato in modo tale da restituire un baricentro strumentale particolarmente basso e garantire fluidità e dolcezza di movimento. Le particolari caratteristiche tecnologiche e le architetture costruttive la rendono ideale per l’utilizzo con grandi teleobiettivi abbinati a reflex digitali. Sono note per la loro idoneità alle riprese di scenari in movimento nei settori dello sport e del birdwatching ma non è affatto da trascurare la fattibilità di abbinamento con gruppi ottici e apparecchiature di ripresa astronomica. Alcune modifiche alla meccanica, congiuntamente a implementazioni di componenti ausiliari, possono trasformare una testa Gimbal in un robot comandabile a distanza per sorvegliare l’osservatorio astronomico o per verificare il corretto svilupparsi e susseguirsi degli step elementari costituenti l’insieme generale delle azioni. Conosciamo meglio questa testa universale apprezzandone le qualità e ipotizzandone utilizzi anche sofisticati nel campo dell’astronomia pratica. Un tipico setup strumentale, adottato dai fotografi, prevede l’impiego di tre componenti fondamentali: il cavalletto, la testa e la macchina fotografica. Quest’ultimo elemento di ripresa è ancorato alla testa in modo diretto oppure è alloggiato al fuoco di un cannocchiale. Sul cavalletto, anche identificato come tripode, treppiede o stativo, gravano tutti i pesi e le sollecitazioni mec- caniche causate dalle forze vettoriali e dai momenti che intervengono nel corso di una sessione di acquisizione di shot. A poco o nulla serve avere un carico d’elite se questo non è supportato adeguatamente e proporzionalmente alla qualità e alle caratteristiche fisiche e tecniche dello stesso. Le masse in gioco, la loro disposizione spaziale, la distribuzione dei baricentri e l’estensione dell’area di resistenza al vento, sollecitano lo stativo il quale, considerando che, spesso e volentieri, le focali equivalenti dei gruppi ottici anteposti alla matrice fotosensibile della camera, sono lunghe, non deve svolgere solo la funzione di supporto del peso, ma anche quella di efficiente smorzatore di vibrazioni per ridurre al minimo i fenomeni di micro mosso (fig. 1). La scelta del treppiede non è cosa semplice, dal momento in cui si deve, fra le altre cose, tenere conto del peso, della robustezza, dei materiali impiegati per la sua realizzazione e delle soluzioni tecniche e meccaniche adottate (fig. 2). Leghe leggere di metalli, materiali compositi come le fibre di carbonio, elementi quali il basalto e il magnesio, possiedono e/o conferiscono caratteristiche di resistenza alle sollecitazioni meccaniche, tali da rendere fattibile la realizzazione di progetti caratterizzati da rapporti qualità/prezzo particolarmente interessanti. In commercio si trovano cavalletti molto prestanti, robusti e stabili il cui peso è relativamente contenuto e tale da renderli facilmente trasportabili anche in luoghi lontani e impervi. FIG. 2: Alcuni esempi di tripode utilizzati dall’autore M. Dho, Gimbal ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 61 FIG. 3: La testa è l’elemento inserito, fisicamente, fra il cavalletto e lo strumento di osservazione o di ripresa. In generale, al momento di scegliere un modello, si dovrebbero tenere in considerazione alcuni punti base: Il carico utile applicabile deve essere superiore al peso della strumentazione; L’altezza di lavoro deve essere raggiunta senza servirsi della colonna centrale; La base di appoggio e ancoraggio della testa Gimbal deve essere larga e possibilmente forata e filettata bipasso senza anellini di riduzione; È preferibile orientarsi su modelli con gambe telescopiche a sezione circolare; La parte terminale delle gambe deve essere accessoriabile con puntoni in metallo; Il fermo della colonna centrale deve essere sicuro, affidabile e robusto; Le gambe dovrebbero estendersi in maniera indipendente a più di un blocco; Sono preferibili le impugnature antiscivolo in gomma espansa; È preferibile orientarsi su prodotti privi di parti cromate e realizzati con trattamenti o materiali resistenti alle corrosioni. Il compito del tripode, come abbiamo citato poco sopra e come ben noto agli imager, è quello di sostenere le masse a questo ancorate e di mettere l’apparecchiatura di ripresa nelle migliori condizioni di utilizzo in quanto a stabilità, sicurezza ed ergonomicità operativa. Un importante componente intermedio, tecnicamente definito testa, consente la connessione meccanica-fisica fra treppiede e macchina fotografica rendendo possibili tutti quei movimenti e quegli stazionamenti necessari per ottenere l’immagine desiderata. In funzione della progettazione e dell’architettura costruttiva, si identificano teste caratterizzate da una grande versatilità d’impiego e teste adatte a rispondere a specifiche necessità di utilizzo (fig. 3). Il setup mobile composto da stativo, testa e macchina fotografica, può soddisfare le più disparate esigenze quali le riprese statiche o di azione. Le plurime tipologie di questo accessorio fotografico consentono riprese panoramiche, paesaggistiche, di ritratti, macro, notturne, sportive, di architettura, video e altra natura. Troviamo, così, fra le altre, teste a sfera, tipo joystick, a cremagliera, panoramiche, fluide, a tre vie e a bilanciere. Fra queste, le più diffuse sono, quasi certamente, quelle a sfera in virtù della loro versatilità, praticità d’uso e compattezza. Caratteristiche, queste ultime, che le rendono adatte teoricamente a tutto e praticamente a nulla. In altre parole, trovano spazio in ambito amatoriale o, più propriamente, negli entry level, ma non sono adatte per riprese serie e impegnative come quelle che si prefiggono di ottenere i fotografi evoluti e i professionisti. I materiali da costruzione e l’affinamento delle tecniche costruttive hanno favorito notevoli evoluzioni che ancora si susseguono andando ad affinare, completare e, in alcuni casi, a sostituire i modelli esistenti. Una tipologia di testa, non propriamente economica e compatta, particolarmente prestante è quella che sfrutta l’effetto a bilanciere altrimenti definita Gimbal head. Pagina 62 ASTRONOMIA NOVA n.21/2015 M. Dho, Gimbal Fig. 4: Una Gimbal head particolarmente performante, ampiamente testata dall’autore e realizzata dalla ditta Fox Wide di San Rocco di Bernezzo, in provincia di Cuneo. L’insieme di leverismi e perni di rotazione furono, a suo tempo, concepiti, progettati e realizzati per sostenere gruppi ottici telescopici ma, successivamente, questi aggregati meccanici trovarono impiego anche nella fotografia tradizionale e nel digiscoping con obiettivi di rilevanti dimensioni e dal peso non propriamente contenuto. La relativa semplicità costruttiva di una testa a bilanciere, oltre ad assicurarne la robustezza e l’affidabilità, ne limita la manutenzione. Questi ultimi, sono fattori particolarmente interessanti considerando che la componentistica deve essere trasportata, spesso anche a spalla, non sempre in condizioni ottimali, ragion per cui subisce sollecitazioni disparate che, in questo modo, non vanno a comprometterne la bontà di funzionamento. La conformazione strutturale di una testa Gimbal è tale da far coincidere e mantenere collimati l’asse dei movimenti con quello di bilanciamento mantenendo il medesimo baricentro. Fig. 5: Particolari in legno, inseriti nel braccio di manovra di una testa a bilanciere, conferiscono al componente una livrea estetica gradevole, smorzano le vibrazioni e agevolano l’utilizzo dell’accessorio in condizioni climatiche caratterizzate da temperature rigide. L’autore, fra le tante altre, ha avuto modo di testare una testa Gimbal costruita dalla Fox Wide, ditta artigianale sita in quel di San Rocco di Bernezzo, in provincia di Cuneo, http://www.gimbal-head.com/info , fig. 4 . Il campione esaminato si presenta particolarmente raffinato e curato nella livrea esterna. La scelta dei materiali segue una filosofia costruttiva che si sposa perfettamente con il gusto dell’estetica, la funzionalità, la raffinatezza, la ricercatezza e col piacere di toccare con mano qualcosa di vivo come il legno. Quest’ultimo elemento, oltre a conferire all’insieme un tocco di classe, contribuisce, seppur in minima parte, ad assorbire e smorzare le vibrazioni, oltre che avere una funzione termica molto importante prevedendo l’uso della testa in condizioni climatiche rigide. La struttura portante, essenzialmente costituita da tre blocchi, è realizzata in ergal. La resistenza alle sollecitazioni meccaniche di questa lega di alluminio, zinco, magnesio e altri elementi in percentuale minore, è ottima e si pone a livelli di vertice fra tutte le leghe di alluminio. La realizzazione artigianale e la disponibilità dei progettisti e dei costruttori, conferiscono al pezzo marchiato Fox Wide caratteristiche di espansibilità, modularità e integrabilità tali da renderlo molto interessante non solo per i fotografi naturalistici e sportivi, ma anche per gli astroimager. M. Dho, Gimbal ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 63 FIG. 6: Due tipi di cercatore impiegati come accessori di puntamento veloce su telescopi ottici di tipo commerciale Una soluzione tecnologica polivalente capace di far coincidere, o quantomeno avvicinare molto, le esigenze del naturalista, dello sportivo e dell’astronomo dilettante. Con la medesima strumentazione si possono, infatti, ottenere scatti o filmati di varia natura e aventi soggetti disparati. Il costo della Gimbal in questione, seppur decisamente più elevato rispetto a produzioni economiche reperibili sul mercato, si aggira intorno ai settecento Euro e, considerandone la robustezza (lo scrivente ha applicato sulla slitta compatibile Arca Swiss un carico di oltre venti chilogrammi, senza ravvisare stress strutturali) è da ritenersi ottimo (fig. 5). Rispetto a una testa di tipo tradizionale, anche se ben realizzata, una Gimbal restituisce all’utilizzatore grande stabilità e una maggiore velocità nella ricerca e nel puntamento dei target da riprendere. La rapidità operativa deriva dal fatto che, dopo aver ottenuto un preciso bilanciamento delle masse sorrette dall’accessorio, non occorre fermare il movimento poiché il lavoro della frizione è praticamente nullo o, quantomeno, superfluo e ridotto al minimo. Come accennato in precedenza, i punti di equilibrio dell’ottica e quello del movimento della testa combaciano, il che agevola non poco ogni fase acquisitiva e permette un coordinamento perfetto dei movimenti di rotazione e basculaggio. Il Go To e il guiding manuali sono assolutamente morbidi, esenti da scatti, vibrazioni e disuniformità tensionali; la distribuzione degli attriti radenti e volventi è costante su tutto il range di operatività degli spostamenti e questo permette di fermare shot più dinamici. L’ergonomicità dell’insieme di una Gimbal head è tale da consentirne un impiego ambidestro: il braccio principale, sul quale si trovano i comandi delle frizioni, può essere posizionato a destra o a sinistra della congiungente macchina fotografica - obiettivo. Quest’accessorio fotografico, con una serie di piccoli accorgimenti, può essere usato con ottimi risultati anche dagli astroimager e dai visualisti. L’assenza di motorizzazioni ne determina la selettività di utilizzo indirizzandolo verso riprese di tipo misto, a grande campo o di strisciate stellari. Nessun problema, invece, per quanto concerne l’osservazione diretta del cielo o di eventi particolari quali i transiti o i passaggi di satelliti artificiali. Un indispensabile optional, fra l’altro facilmente realizzabile in proprio, è rappresentato da un dispositivo che svolge la funzione di cercatore. Questa implementazione agevola il compito di puntamento veloce, sia in contesti operativi fotografici sia in quelli osservativi, quando le lunghezze focali dei gruppi ottici installati sono troppo lunghe (fig. 6). Pagina 64 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 M. Dho, Gimbal FIG. 7: Espressioni artistiche rinascimentali che ritraggono le nuvole nella loro enigmatica suggestività. A sinistra, il Battesimo di Cristo (Piero della Francesca, 1445); a destra, Orazione nell’orto, di Andrea Mantegna (1457-1459). Lo scrivente ha concepito una bozza di progetto base, che gli servirà per la realizzazione di un prototipo di cercatore dotato di caratteristiche peculiari che consentiranno un rapido ancoraggio alla forcella di una testa Gimbal e, soprattutto, agevoleranno e velocizzeranno le operazioni di collimazione. Collimare, in questo specifico caso, significa eseguire una serie di operazioni fondamentali tese a rendere l’asse ottico del cercatore parallelo all’asse ottico di un cannocchiale, di un piccolo telescopio o di un binocolo. Questa procedura è ben conosciuta nel mondo dell’astronomia pratica poiché permette agli osservatori e ai fotografi del cielo di usufruire di un asservimento assolutamente indispensabile nel puntamento di un oggetto o di un determinato settore di firmamento. In altre parole, al momento di osservare o di riprendere un target, è sufficiente portare lo stesso al centro del range angolare inquadrato dal cercatore per trovarlo all’interno del campo dell’oculare, della camera CCD o del sensore della macchina fotografica. La collimazione si esegue solitamente nelle ore diurne, puntando oggetti geometricamente definiti posti a una distanza di almeno mezzo chilometro per evitare errori di parallasse. L’idea dell’autore è di inserire un proiettore di raggio laser nella struttura del cercatore in modo da poter effettuare le operazioni di collimazione anche di notte e usare lo stesso per “centrare al volo” soggetti particolari. I campi di applicazione di una Gimbal head in astronomia possono essere disparati, anche se l’impiego più prestante rientra nell’ambito dell’osservazione visuale. I possibili bersagli sono innumerevoli e, in pratica, sono gli stessi raggiungibili con un piccolo telescopio rifrattore accoppiato a una montatura altazimutale priva di motori in ascensione retta e declinazione. Rispetto a questo setup, uno strumento ottico montato su una testa a bilanciere, tipo la menzionata Gimbal head by Fox Wide, è più maneggevole e di uso immediato e istintivo. Nessuna manopola, nessun blocco, nessun elemento d’intralcio ed estrema facilità di montaggio e trasporto. Va sottolineata, inoltre, la notevole robustezza del blocco ottico e della meccanica di sostegno e movimento, nonché la versatilità del sistema stativo – testa – ottica che può essere considerato strumento all in one d’eccellenza. I medesimi strumenti e accessori impiegati nelle osservazioni o nelle riprese diurne di soggetti naturalistici, sportivi, architettonici, stilistici o famigliari, si dimostrano efficientissimi nell’osservazione notturna di fenomeni e di corpi celesti. Il connubio Gimbal head e cannocchiale, teleobiettivo o telescopio si apprezza anche nella contemplazione ravvicinata di quell’universo, cangiante di mutevoli colori e forme, sintetizzato nel cielo pieno di nuvole. Con relativa facilità si ottengono visioni, immagini statiche o riprese video che in quanto a fascino e immaginazione M. Dho, Gimbal ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 65 FIG. 8: Un paio di binocoli, di dimensione media, presi in considerazione dall’autore per il concepimento progettuale di un accessorio per testa a bilanciere. si possono realizzare manufatti di una certa quale utilità che possono essere definiti, a tutti gli effetti, elementari teste Gimbal. Di certo non sono, in quanto a qualità e prestazioni, paragonabili a una testa a bilanciere commerciale e tanto meno a una realizzata, a regola d’arte, da un’officina artigianale, ma possono svolgere una funzione di supporto, consistente nel muovere un obiettivo lungo tre assi, decorosa e utile a chi non ha grandi pretese. Fondamentalmente nate per soddisfare specifici scopi, le teste a bilanciere possono costituire dei componenti jolly nel parco strumentale di molti appassionati di fotografia o di osservazioni visuali catturati dalle bellezze del pianeta Terra e da quelle più esotiche dell’Universo che la contiene. quasi rimandano a dipinti famosi quali “Il battesimo di Cristo” di Piero della Francesca e ad altre espressioni artistiche, in cui le nubi compaiono nella loro enigmatica suggestività, di grandi pittori rinascimentali, fra le quali possiamo citare, a puro titolo di esempio, “L’orazione nell’orto” di Andrea Mantegna (fig. 7). Il cloudspotting praticato servendosi, fra le altre cose, di una testa a bilanciere, restituisce scenografie in continua evoluzione capaci di condurre l’umano essere a contemplazioni sensoriali e umanistiche che sfociano nella scienza pura attraverso l’apprendimento della genesi e della formazione delle nuvole e l’immissione nel mondo della meteorologia. Un’ulteriore possibile evoluzione delle teste Gimbal, oltre a quella di dotarle di un cercatore, è rappresentata dal concepimento e dalla concretizzazione pratica di un accessorio capace di renderle adatte a ospitare un binocolo di medie dimensioni (fig. 8). In pratica si tratterebbe di realizzare una sorta di piastra, opportunamente sagomata, con attacco filettato e innesto rapido compatibili con quelli della factory, da ancorare alla basetta esistente sulla testa a bilanciere e sulla quale troverebbe alloggiamento il binocolo a sua volta fissato all’accessorio in questione con elementi di tipo vite-madrevite. È bene precisare che, con macchine utensili amatoriali, componenti di recupero e un briciolo d’intraprendenza, Mario Dho Master-chief technician, first head of the instrumentation section of the Unione Astrofili Italiani (Italian Amateur Astronomers Union) and of the “CCD-UAI” project. Author of a manual with foreword of the astrophysicist Margherita Hack, dedicated to the automation and remote controlling of an astronomical observatory. Dozens of his technical articles were published in national journals of science and culture, webzines and websites. Numerous contributions to popular tendency, signed by him, have appeared in local magazines. Software and application modules tester for the automatic control of astronomical instruments. Perito-capotecnico industriale, primo responsabile della Sezione Strumentazione dell’Unione Astrofili Italiani e del progetto “CCD-UAI”. Autore di un manuale, con prefazione dell’astrofisica Margherita Hack, dedicato alla robotizzazione e alla remotizzazione di un osservatorio astronomico. Decine di suoi articoli tecnici sono stati pubblicati su riviste nazionali di scienza e cultura, webzine e siti Internet. Pagina 66 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari 2015-2016: TRANSITI DI PIANETI EXTRASOLARI ALL’OSSERVATORIO DI LIBBIANO (PRIMA PARTE) Alberto Villa [email protected] FIG. 1: Confronto dimensionale tra Giove ed il pianeta HAT-P-13b, che ha una massa stimata pari all’80% di quella gioviana, ma un raggio superiore del 30%. L’anno appena trascorso è stato ricco di soddisfazioni per l’Associazione AAAV e per l’Osservatorio di Libbiano, www.astrofilialtavaldera.it/. Nel corso dell’annata abbiamo eseguito la ripresa fotometrica di numerosi transiti extrasolari in altissima precisione e, come abbiamo già avuto modo di fare nei precedenti numeri di Astronomia Nova (nn. 18, 19, 20) per le precedenti campagne osservative, anche in questo numero della rivista illustreremo i risultati conseguiti nel 2015, e nel primo scorci0 di questo mese di gennaio, nell’ambito delle osservazioni di transiti extrasolari, corredandoli con brevi commenti. 09 febbraio 2015: transito di HAT-P-13b HAT-P-13b è un pianeta un po’ più “leggero” di Giove (fig. 1), scoperto nel 2009 intorno ad una stella di magnitudine 10,6 simile al Sole, che dista dai noi 700 a.l. nell’Orsa Maggiore. Il pianeta orbita attorno alla sua stella in circa 3 giorni, mentre la profondità del transito non è molto accentuata, essendo pari a circa 7/1000 di magnitudine e con una durata di 193 minuti. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixels (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 200 secondi, per complessive 106 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 18:27 T.U.; fine alle 22:04 T.U. ; il cielo era limpido e sereno. La curva di luce risultante (fig. 2), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 5 (Data Quality, secondo la definizione della Czech Astronomical Society, http:// var2.astro.cz/ETD/index.php). All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Silvia Gingillo e Lorenzo Bigazzi. 06 marzo 2015: transito di CoRoT-1b CoRoT-1b (fig. 3) è il primo pianeta extrasolare ad essere scoperto dalla missione CoRoT nel 2007 (fig. 4). Esso è un gioviano caldo che orbita a poca distanza dalla sua stella ed ha una temperatura superficiale elevatissima. A. Villa, Transiti extrasolari ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 67 FIG. 2: A fianco, curva di luce del transito di HAT-P-13b durante il transito del 9 febbraio 2015 all’Osservatorio di Libbiano. biano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixels (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 150 secondi, per complessive 78 immagini. Il cielo era sereno, anche se in presenza di vento a raffiche e la Luna era piena, a 90° dalla zona di ripresa. La curva di luce risultante (fig. 5) è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. La confrontiamo con quella ottenuta al VLT durante un transito del 2008 (fig. 4). Le principali caratteristiche di questo pianeta sono il suo grande raggio e la sua bassa densità media. Infatti, la sua massa è pressoché identica a quella di Giove (fonte: http://arxiv.org/abs/0905.4571v1), mentre il raggio è 1,45 RJ ed orbita in circa 1,5 giorni. Il sistema CoRoT—1 è nella costellazione dell’Unicorno a 1500 a.l. da noi; la sua stella, abbastanza simile al Sole, è di tipo spettrale G0V. Il transito sul disco della sua stella avviene in circa 2h 20m e la sua profondità è di 25/1000 di magnitudine. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Lib- FIG. 3: Rappresentazione artistica di CoRoT—1b, proiettato sul disco della suo stella. FIG. 4: Sopra, curva di luce di CoRoT—1b, ottenuta al telescopio VLT il 28 febbraio 2008 (fonte: http://arxiv.org/ abs/0905.4571v1 ). FIG. 5: Transito di CoRoT—1b del 06 marzo 2015 ripreso all’Osservatorio di Libbiano. Pagina 68 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 6: Transito di HAT-P-3b del 7 aprile 2010, ottenuto al telescopio di 1,82m dell’Osservatorio di Asiago (fonte: http://arxiv.org/ abs/1011.6395). All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Silvia Gingillo e Lorenzo Bigazzi. 10 marzo 2015: transito di HAT-P-3b HAT-P-3 b, un pianeta extrasolare scoperto nel 2007, orbita intorno alla stella GSC 03466-00819 (spettro: K, magnitudine visuale: 11,9), e dista da noi 450 anni luce nella costellazione dell'Orsa Maggiore. Ha una massa di circa 0,6 volte quella di Giove ed un raggio di 0,89 volte; orbita in 2,9 giorni ed un suo transito ha una durata di circa 2h ed una profondità di 15/1000 di magnitudine. Nel 2010 le osservazioni di alcuni transiti di HAT-P-3b (fig. 6) sono servite per mettere a punto il sistema di misura di fotometria differenziale in altissima precisione del progetto TASTE (vedi: http://arxiv.org/ abs/1011.6395) promosso all’Osservatorio di Asiago con il telescopio di 1,82m, per la ricerca di piccoli pianeti o lune in altri sistemi extrasolari con il metodo dei transiti. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 75 secondi, per complessive 138 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 19:39 T.U.; fine alle 22:55 T.U. ; il cielo è stato prevalentemente limpido e sereno, solamente verso la fine del transito si è avuto il passaggio di nubi. FIG. 7: A sinistra, curve di luce del transito di HAT-P-3b del 10 marzo 2015, realizzata all’Osservatorio di Libbiano. Sopra, campo di ripresa delle immagini di HAT-P-3 con le stelle di riferimento utilizzate. A. Villa, Transiti extrasolari ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 69 FIG. 8: A sinistra, la curva di luce di HAT-P-22b durante il transito del 14 aprile 2015 ripreso all’Osservatorio di Libbiano. La curva di luce risultante (fig. 7), è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Valerio Menichini, Silvia Gingillo, Maurizio Feraboli e Lorenzo Bigazzi. 14 aprile 2015: transito di HAT-P-22b HAT-P-22b è un pianeta gigante denso, scoperto nel 2010, di 2,1 masse gioviane ma con un raggio pressoché identico. Orbita in 3,2 giorni. attorno ad una di tipo spettrale G5, magnitudine visuale 11,9, distante 250 a.l., nell’Orsa Maggiore. Il transito ha una durata di 172 minuti ed una profondità di 12/1000 di magnitudine. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 105 secondi, per complessive 125 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 19:06 T.U.; fine alle 23:07 T.U. ; il cielo è sereno all’inizio; passaggio di nubi / velature nella seconda metà del transito. La curva di luce risultante (fig. 8), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 4. Abbiamo notato che, rispetto al tempo stimato dalle effemeridi per l’entrata, dall’osservazione si rileva chiaramente un ritardo di almeno 10 minuti. Il calo di luminosità conseguente ha infatti inizio dopo le 19.48 TU (fig. 9). Anche l’uscita sembra mantenere lo stesso ri- FIG. 9: In alto, punto di inizio del transito, osservato a Libbiano con un ritardo di circa 10 minuti rispetto alle effemeridi di previsione. tardo, anche se è necessario precisare che in questa parte della curva l'errore strumentale è certamente maggiore, a causa delle condizioni meteo, notevolmente peggiorate durante la seconda metà del transito. All’osservazione hanno partecipato: Valerio Menichini, Silvia Gingillo, Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Carlo Buscemi e Flavia Casini. 24 aprile 2015: transito di HAT-P-27b Il pianeta extrasolare HAT-P-27b (fig. 10), noto anche con il nome di WASP-40b, è un pianeta gioviano scoperto nel 2011 nella costellazione della Vergine che ha un massa pari a 0,66 MJ. Orbita attorno alla sua stella, di tipo spettrale G8 e magnitudine V = 12,2, in 3 giorni. Questo sistema è a una distanza di 650 a.l. da noi. La profondità del transito è di 14/1000 di magnitudine ed ha una durata di 100 minuti. FIG. 10: Confronto tra le dimensioni di HAT-P-27b ed i pianeti del nostro Sistema solare. Pagina 70 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 11: Transito di HAT-P-27b/WASP-40b del 24 aprile 2015 ripreso all’Osservatorio di Libbiano. La curva di luce risultante (fig. 13), è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Flavia Casini e Mimmo Belli. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1, 1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 75 secondi, per complessive 117 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 21:00 T.U.; fine alle 23:46 T.U. ; il cielo è stato limpido e sereno. La curva di luce risultante (fig. 11), è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Valerio Menichini, Silvia Gingillo, Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Flavia Casini, Dario Ciurli e Fabio Marzioli. 06 maggio 2015: transito di GJ436b Un transito di GJ436b è già stato osservato all’Osservatorio di Libbiano il 14 maggio 2014, pertanto per la descrizione del pianeta e della sua stella rimandiamo ad Astronomia Nova n. 18, p. 84. Per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 90 secondi, per complessive 92 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:34 T.U.; fine alle 22:52 T.U. ; cielo sereno con presenza della Luna nella seconda metà del transito. Il campo di ripresa è in fig. FIG. 12: Campo di ripresa di GJ436b. FIG. 13: Curva di luce del transito di GJ436b ottenuta all’Osservatorio di Libbiano il 6 maggio 2015. Si è utilizzata come stella di confronto la Ref. 4 (vedi fig. 12). A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 14: Rappresentazione artistica del pianeta extrasolare Qatar—1b 18 maggio e 04 giugno 2015: transiti di Qatar— 1b Qatar—1b (fig. 14) è un esopianeta scoperto nel 2010 nella costellazione del Dragone con una massa identica a quella di Giove ed il raggio di 1,1 RJ. Orbita vicinissimo alla sua stella, appena 3,5 milioni di km in 1,4 giorni. La stella ospite è di tipo spettrale K, massa 0,85 volte quella del Sole, magnitudine visuale 12,8. I transiti di questo pianeta hanno breve durata, circa 97 minuti ed una profondità di 2/100 di magnitudine. Tra il 2011 ed il 2012, Carolina von Essen e colleghi, dopo aver analizzato le curve di luce di 26 transiti di Qatar-1b, ottenuti con telescopi di 1,2m e 0,6m, ipotizzarono che le variazioni da loro rilevate nei tempi dei transiti potessero essere prodotte dalla presenza perturbatrice, nelle vicinanze, di una nana bruna oppure di un altro pianeta (fonte: http://arxiv.org/ abs/1309.1457). Studi successivi, basati su una nuova raccolta di 18 transiti osservati con telescopi di dimensioni da 0,6m a 2m, sembrano invece dimostrare che non vi siano variazioni rilevabili nei tempi dei transiti, pertanto l’idea della presenza di un pianeta invisibile o di una nana bruna è stata abbandonata (fonte: http:// ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 71 arxiv.org/abs/1503.07191). Come al solito, per le riprese del 18 maggio di Qatar—1b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 90 secondi, per complessive 100 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 19:49 T.U.; fine alle 22:19 T.U. ; cielo sereno. La curva di luce risultante (fig. 15), è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Flavia Casini e Mimmo Belli. La curva di luce del 4 giugno successivo è stata ottenuta con lo stesso telescopio e camera CCD, integrazioni singole, senza filtro, di 90 secondi, per complessive 100 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:43 T.U.; fine alle 23:13 T.U. ; Cielo sereno, a due giorni dalla Luna piena. La curva di luce risultante (fig. 16), è di qualità discreta, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Flavia Casini, Maurizio Feraboli, Alberto Villa, Dario Ciurli, Mimmo Belli e Lorenzo Sax Bigazzi. FIG. 15: Transito di Qatar—1b ripreso il 18 maggio 2015 all’Osservatorio di Libbiano. Pagina 72 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 16: Transito di Qatar—1b ripreso il 18 maggio 2015 164 minuti ed una profondità di 7/1000 di magnitudine. Come al solito, per le riprese del 28 giugno di CoRoT-1b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 150 secondi, per complessive 75 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:53 T.U.; fine alle 23:59 T.U. ; cielo sereno co Luna. La curva di luce risultante (fig. 18), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 5. All’osservazione hanno partecipato: Dario Ciurli, Maurizio Feraboli, Flavia Casini e Alberto Villa. 28 giugno 2015: transito di CoRoT—8b CoRoT—8b (fig. 17), esopianeta scoperto nel 2010, si trova nella costellazione dell’Aquila ed ha una massa pari ad 1/5 di quella di Giove ed un raggio di 0,57 R J. Orbita intorno alla sua stella a 9 milioni di Km di distanza in 6,2 giorni. La stella è di tipo spettrale K1V, magnitudine visuale 14,8 e massa 0,88 masse solari. Dista da noi 1200 a.l. I transiti di questo pianeta hanno una durata di circa 07 luglio 2015: transito di TrES-2b/Kepler-1b TrES-2b (fig. 19), scoperto nel 2006 nell'ambito del programma di ricerca Trans-Atlantic Exoplanet Survey è stato il primo esopianeta osservato dal telescopio spaziale Kepler, ricevendo per questo la denominazione Kepler-1b. TrES-2b orbita attorno ad una stella simile al Sole, posta ad oltre 700 a.l. nella costellazione del Dragone. Il pianeta orbita in circa 2,5 giorni. Ha una massa legger- FIG. 17: Grafico che raccoglie le caratteristiche salienti dei primi 15 pianeti scoperti da CoRoT. In ascissa, il periodo orbitale, in ordinata le dimensioni. RE è la dimensione del raggio rispetto a quello terrestre; d: periodo orbitale in giorni. CoRoT8b è il 14° pianeta in ordine di grandezza (crediti: Patrice Amoyel). A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 18: Curva di luce del transito di CoRoT—8b del 28 giugno 2015 ottenuta all’Osservatorio di Libbiano. mente superiore a quella gioviana (1,3 MJ) con raggio 1,17 RJ . La sua caratteristica più peculiare è la bassissima albedo: con un indice di riflessione inferiore all'1% risulta essere uno dei più scuri esopianeti finora scoperti. Transita sul disco della sua stella, di magnitudine visuale 11,4, in 90 minuti ed una profondità di 17/10000 di magnitudine. Come al solito, per le riprese del 7 luglio di TrES-2b si è fatto uso del telescopio Ri- ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 73 FIG. 20: Curva di luce del transito di TrES-2b/Kepler-1b del 7 luglio 2015 all’Osservatorio di Libbiano. tchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 60 secondi, per complessive 134 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 21:17 T.U.; fine alle 23:29 T.U. ; cielo sereno. La curva di luce risultante (fig. 20), è di buona qualità, con un DQ probabile di 2, molto probabilmente la nostra migliore osservazione di un transito fino a questo momento. All’osservazione hanno partecipato: Flavia Casini, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli e Alberto Villa. 10 luglio 2015: transito di KELT-1b KELT-1b (fig. 21) è un esopianeta estremamente massiccio (ca. 27 MJ) scoperto nel 2012, con un raggio 1,1 RJ, che orbita in 1,2 giorni intorno ad una stella di tipo spettrale F5, magnitudine visuale 10,7, massa 1,3 volte il Sole, distante 800 a.l. nella costellazione di Andromeda. Il transito ha una durata di 153 minuti circa ed una profondità di 7/1000 di magnitudine. KELT-1b è stato scoperto nel corso di una survey promossa dal Consorzio KELT North costituito dalla Ohio State University e dalla Vanderbilt University. FIG. 19: Rappresentazione artistica del pianeta extrasolare TrES-2b/Kepler-1b. Pagina 74 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari FIG. 21: Rappresentazione artistica del pianeta gigante Kelt-1b, (crediti: Vanderbilt University) Il sistema di ripresa (fig. 22) è costituito da un semplice teleobiettivo munito di una buona camera CCD 4096x4096 pixel che copre un campo di ben 26°x26°. Esiste ancora oggi una certa indecisione su come considerare KELT-1b: è un pianeta di tipo gioviano caldo, oppure una nana bruna? Osservazioni di transiti di KEKT-1b effettuate nel 2012 con il telescopio spaziale SPITZER non escludono nessuna di queste possibilità (vedi: http://arxiv.org/abs/1310.7585). Come al solito, per le riprese del 10 luglio KELT—1b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 120 secondi, per complessive 96 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 21:44 T.U. ; fine alle 00:57 T.U. dell’11/07; cielo sereno. La curva di luce risultante (fig. 23), è di sufficiente qualità, con un DQ probabile di 4. All’osservazione hanno partecipato: Flavia Casini, Maurizio Feraboli, Alberto Villa, Lorenzo Bigazzi and Silvia Gingillo. 02 agosto 2015: transito di HAT-P-3b Un transito di HAT-P-3b era già stato osservato all’Osservatorio di Libbiano nella notte del 6 marzo 2015 (vedi qui, p. 68). Con la stessa configurazione strumentale, ne abbiamo ripreso un altro il 2 agosto (fig. 24). Le due curve sono leggermente diverse, pro- FIG. 22: Il teleobiettivo Mamya 635 munito di CCD 4096x4096 pixel, con un campo di 26°x26°, su una robustissima montatura equatoriale, è utilizzato dal Consorzio KELT North per la ricerca di pianeti extrasolari in transito. A. Villa, Transiti extrasolari ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 75 Un’altra cosa che abbiamo rilevato nel transito del 02/08, è che l’inizio del transito sembra ritardare di 8 minuti rispetto ai tempi forniti dalle effemeridi pubblicate dal sito specializzato http://var2.astro.cz/ETD/ index.php . Anche questo è un aspetto di grande interesse che andrebbe approfondito. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Dario Ciurli, Flavia Casini e Mimmo Belli. FIG. 23: Curva di luce di KELT-1b ottenuta all’Osservatorio di Libbiano durante il transito del 10 luglio 2015. babilmente a causa di due fattori prevalenti: le diverse condizioni meteo (il 6 marzo ci fu qualche velatura durante la fine del transito) e la diversa scelta delle stelle di confronto (il 6 marzo fu utilizzata una sola stella; la stessa fu utilizzata anche il 2 agosto, alla quale ne abbiamo però aggiunto una seconda). FIG. 24: Curva di luce di HAT-P-3b ottenuta all’Osservatorio di Libbiano il 2 agosto 2015. 01 novembre 2015: transito di HAT-P-19b HAT_p_19b (fig. 25) è un esopianeta scoperto nel 2010, con una massa pari a 1/3 MJ, raggio 1,13 RJ che orbita intorno alla sua stella in 4 giorni. La stella ospite è di tipo spettrale K, magnitudine visuale 12,9; di dimensioni leggermente inferiori al Sole. Questo sistema dista da noi circa 650 a.l. nella costellazione di Andromeda. Un transito ha una durata di circa 170 minuti e una profondità di 2/1000 di magnitudine. Recenti studi su questo pianeta e la sua stella ospite sembrano dimostrare che non vi sono TTV (transit timing variations, variazioni di tempo del transito) che se fossero accertate, costituirebbero un indizio per la presenza di altri pianeti al momento non rilevabili con altre tecniche (fonte: http://arxiv.org/abs/1508.06215). Come al solito, per le riprese del 1° novembre di HAT -P-19b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera FIG. 25: Rappresentazione artistica di HAT-P-19b. Pagina 76 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 A. Villa, Transiti extrasolari scopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 105 secondi, per complessive 88 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:04 T.U. ; fine alle 22:38 T.U. ; cielo sereno fino alle 22:38:06 TU ed in seguito nubi che non ci hanno permesso di riprendere l’uscita. Appare evidente che rispetto al tempo previsto per l’entrata (20:53 TU), si è registrato un anticipo di circa 12 minuti: il calo di luminosità ha infatti chiaramente inizio alle 20:41 TU (fig. 28). Hanno partecipato all'osservazione: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Dario Ciurli e Silvia Gingillo. FIG. 26: Curva di luce del transito di HAT-P-19b del 1° novembre 2015 all’Osservatorio di Libbiano. FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 75 secondi, per complessive 180 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 22:22 T.U. ; fine alle 00:16 T.U. dell’02/11; cielo sereno con vento a raffiche. La curva di luce risultante (fig. 26), è di buona qualità, con un DQ probabile di 2. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Dario Ciurli, Silvia Gingillo e Mimmo Belli. 13 gennaio 2016: transito di HAT-P-25b HAT-P-25b è un esopianeta scoperto nel 2010 nella costellazione dell’Ariete. Ha una massa pari alla metà di Giove e un raggio 1,19 RJ; il periodo orbitale è di 3,65 giorni. La sua stella è di tipo spettrale G5, magnitudine visuale 13,2. Questo sistema dista da noi 1000 a.l. Un transito dura circa 169 minuti ed ha una profondità di di 2/100 di magnitudine. Come al solito, per le riprese del 13 gennaio di HAT-P-25b si è fatto uso del tele- FIG. 28: Parte della curva di luce del transito di HAT-P-25b relativa all’inizio del fenomeno: si è osservato un anticipo di circa 12 minuti nel tempo di ingresso rispetto al calcolo fornito dalle effemeridi. FIG. 27: Curva di luce del transito di HAT-P-25b del 13 gennaio 2016 all’Osservatorio di Libbiano. A. Villa, Transiti extrasolari ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 77 FIG. 30: Campo centrato su XO-5. 16 gennaio 2016: transito di XO-5b XO-5b è un pianeta extrasolare scoperto nel maggio 2008 a circa 850 anni luce di distanza nella costellazione della Lince. Il pianeta ha una massa e raggio solo leggermente più grande di quello di Giove. Esso orbita molto vicino alla stella ospite di tipo G in 4,188 giorni a 7,32 milioni di chilometri. Il transito ha una durata di 193 minuti ed una profondità di 14/1000 di magnitudi- ne. Come al solito, per le riprese del 16 gennaio di XO5b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 120 secondi, per complessive 139 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 22:18 T.U.; fine alle 02:58 T.U. del 17/01; cielo sereno con vento nella prima parte del transito. La curva di luce risultante (fig. 31), è di discreta qualità, con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Lorenzo Bigazzi e Silvia Gingillo. Alberto Villa è Presidente della AAAV - Associazione Astrofili Alta Valdera di Peccioli (PI), nell’ambito della quale è responsabile delle sezioni “Spettrografia”, FIG. 31: Curva di luce del transito di XO-5b del 16 gennaio “Eclissi” e “Pianeti extrasolari”. Osserva dall' Osservatorio “Galileo Galilei” del Centro Astronomico di Libbiano. 2016 all’Osservatorio di Libbiano. Pagina 78 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce FESTIVAL DELLA LUCE 2015 Bondeno—Ferrara 23-24-25 ottobre 2015 Rodolfo Calanca, Direttore EAN e ASTRONOMIA NOVA Daniele Biancardi, Presidente Associazione Bondeno Cultura Claudio Gavioli, Presidente Associazione Studi Astronomici Secondo l’UNESCO, l'Anno Internazionale della Luce 2015 che si è appena concluso, è un’iniziativa globale che mira ad accrescere la conoscenza e la consapevolezza di ciascuno di noi sul modo in cui le tecnologie basate sulla luce promuovano lo sviluppo sostenibile e forniscano soluzioni alle sfide globali ad esempio nei campi dell’energia, dell’istruzione, delle comunicazioni, della salute e dell' agricoltura. Nella risoluzione dell’ONU che proclama l’Anno Internazionale della Luce, si fa notare che il 2015 “coincide con gli anniversari di una serie di importanti pietre miliari nella storia della scienza della luce” ma dimentica del tutto il grandissimo contributo dato alla conoscenza del fenomeno della diffrazione della luce dal gesuita bolognese Francesco Maria Grimaldi (allievo dello stellatese Giovanni Battista Riccioli) autore del fondamentale trattato: De lumine, pubblicato postumo a cura di Riccioli, esattamente 350 anni fa, nel 1665 (si veda l’articolo di Andrea Battistini su Astronomia Nova n. 19) . Il Festival della Luce di Bondeno ha voluto valorizzare i contributi di Grimaldi e di Riccioli alla conoscen- za della luce e, in particolare, della luce della Luna, il cui disco fu disegnato magistralmente da Grimaldi e i cui crateri e “mari”, in molti casi, ancora oggi, portano i nomi introdotti da Riccioli nella sua enciclopedica opera: Almagestum Novum pubblicata nel 1651. Per inciso, ricordiamo che il termine “Luna” deriva dalla radice indoeuropea leuk, che significa “luce riflessa”. Gli studi empirici di Grimaldi sulla diffrazione della luce e le successive teorie fenomenologiche della luce e dei colori formulate da grandi scienziati nei tre secoli successivi, hanno portato contributi fondamentali alle tecnologie che sono alla base della moderna società dell’informazione. 23 ottobre 2015: Inaugurazione del Festival In apertura del Festival, il mattino del 23 ottobre, nella bella Sala 2000 di Corso Matteotti, il Sindaco Fabio Bergamini ha portato i saluti dell’Amministrazione a tutti i convenuti, in una sala gremita da giovani ed appassionati. R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 79 23 ottobre: inaugurazione del Festival della Luce: sul palco, da sinistra, Claudio Gavioli, il Sindaco di Bondeno Fabio Bergamini, Daniele Biancardi, Rodolfo Calanca. 23 ottobre - La prima giornata CONVEGNO DI SELENOGRAFIA ANTICA Il Convegno sulla Selenografia del Seicento ha costituito l’occasione per un ampio excursus sulla nascita della cartografia lunare. Tenuta a battesimo dal Sidereus Nuncius di Galileo Galilei (la prima pubblicazione a stampa che contiene disegni della Luna eseguiti con l’ausilio del cannocchiale) la selenografia fu in continua evoluzione per tutto il secolo e culminò nell’opera astronomica di Giovanni Domenico Cassini, autore di una grande carta lunare che costituisce un autentico compendio di tutte le conoscenze relative al nostro satellite, fino ad allora acquisite dalla comparsa del cannocchiale. Nel mezzo di quel secolo così fecondo, il problema della toponomastica lunare accese una disputa che rifletteva le profonde divisioni in seno alla stessa cristianità. A contendersi l’esclusivo diritto di mettere un proprio sistema di nomenclature sugli “oceani” e le asperità della Luna, alcune figure di spicco dell’astronomia secentesca, principalmente Johannes Hevelius (16111687), l’astronomo luterano di Danzica, ed il gesuita stellatese Giovanni Battista Riccioli (1598-1671). Prevalse la nomenclatura di quest’ultimo. Nel corso del convegno sono stati descritti anche gli aspetti strumentali (i primi telescopi a lenti semplici, la loro risoluzione ed ingrandimenti) ed il loro impatto sulla qualità delle osservazioni astronomiche. E’ pure stato esaminato il contributo di Grimaldi e Riccioli e della scuola gesuitica all’astronomia (tra Tolomeo e Copernico), attraverso le grandi opere collettive compilate alla metà del Seicento: l'imponente Almagestum Novum e la "nuova" astronomia nell'Astronomia Reformata. La moderna osservazione scientifica del cielo, e della Luna in particolare, ha avuto inizio nel primo decennio del Seicento, grazie al cannocchiale di Galileo, che scrutava il cielo a poche decine di chilometri a nord della città estense – dal giardino della sua casa di Padova mentre la toponomastica lunare, ancora oggi ampiamente in uso, è stata inventata, un decennio dopo la morte di Galileo, dallo stellatese Giovanni Battista Riccioli, quando insegnava nel collegio gesuitico di Bologna, quindi a poche decine di chilometri a sud dalla sua città d’origine. Pagina 80 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Da sinistra: Rodolfo Calanca, i conferenzieri del Convegno sulla Selenografia: Alberto Righini, Claudio Marazzini, Giorgio Strano, Maria Teresa Borgato, Ivana Gambaro, Ivano Dal Prete. CONFERENZE PER IL CONVEGNO: “LA SELENOGRAFIA NEL SECOLO DI RICCIOLI E GRIMALDI” Conferenza: Maria Teresa Borgato, Giambattista Riccioli e i sistemi del mondo" Nella sua conferenza, la prof.ssa Borgato ha confrontato i sistemi cosmologici tolemaico, copernicano e ticonico, e le prove teoriche e sperimentali a sostegno o contro l’uno e gli altri, così come sono stati esposti da Riccioli nel suo Almagestum Novum del 1651. Riccioli conclude con il sostegno al sistema ticonico con una variante da lui introdotta, in cui i pianeti Mercurio, Venere e Marte sono satelliti del Sole, mentre Giove e Saturno orbitano, assieme alla Luna e al Sole, attorno alla Terra. In tutti questi sistemi, la Luna è l'unico corpo celeste che continua a girare intorno alla Terra. La relatrice rileva che nella carta lunare di Riccioli e Grimaldi i nomi dei maggiori crateri sono assegnati a scienziati della Compagnia di Gesù, a partire da Cristoforo Clavio. Maria Teresa Borgato è professore ordinario di Matematiche Complementari presso l’ Università di Ferrara. Le sue ricerche hanno riguardato inizialmente la teoria geometrica della misura, attualmente si svolgono nel campo della Storia e della Didattica della Matematica. E' autrice di oltre novanta lavori originali, pubblicati in riviste specializzate italiane e straniere sottoposte a A sinistra, Daniele Biancardi presenta la conferenza della prof.ssa M.T. Borgato R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 81 Giorgio Strano durante la sua conferenza, a destra i cannocchiali di Galileo conservati nel Museo Galileo a Firenze. referee, o in volumi miscellanei a cura dei maggiori specialisti internazionali. Conferenza: Giorgio Strano, "Le origini del telescopio: da Hans Lippehey a Galileo" Il dott. Strano ha illustrato la storia del cannocchiale tra il 1608 ed il 1610, nel momento in cui dall’Olanda lo strumento, da semplice curiosità diventa, nelle mani di Galileo, un potentissimo strumento scientifico. In pochi mesi Galileo perfezionò lo strumento portandolo, all'inizio del 1610, fino a oltre trenta ingrandimenti. Cosa ancora più eccezionale, dall'estate del 1609 egli puntò lo strumento, che diverrà in seguito noto come telescopio, verso il cielo. La possibilità di raccogliere più luce di quanta ne raccolga la pupilla umana e di ingrandire sensibilmente gli oggetti celesti, permise a Galileo di realizzare una sorprendente serie di scoperte e, forse ancora più significativamente, di inaugurare una nuova branca dell'astronomia: l'osservazione telescopica della conformazione degli astri. Giorgio Strano è curatore delle Collezioni dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze. Ha studiato fisica all’Università di Firenze e astronomia all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, quindi si è dedicato alla storia della scienza e, in particolare, alla storia dell’astronomia dall’Antichità al Seicento. Ha pubblicato oltre 40 articoli di ricerca e divulgativi, con predilezione per i problemi dell’astronomia antica e della conservazione degli strumenti scientifici. È inoltre General Editor della collana Scientific Instrument and Collections, nata per diffondere gli studi di maggior pregio presentati alla Scientific Instrument Commission dell’International Union for History and Philosophy of Science. Conferenza: Alberto Righini, "Galileo Galilei e l'inizio della selenografia scientifica" In questa conferenza, il prof. Righini parla ampiamente del cannocchiale galileiano e del suo utilizzo da parte del grande scienziato che, a partire dalla seconda metà del 1609, prima ne prospetta un uso militare e poi, grazie alla sua straordinaria sagacia ed abilità tecnica, lo punta verso il cielo anche in importanti occasioni pubbliche, come ad esempio, durante la presentazione al granduca di Toscana, al quale mostrò le caratteristiche della superficie lunare. Galileo era particolarmente interessato all’aspetto della Luna della quale eseguì diversi disegni. Infatti, nel libretto pubblicato nel marzo del 1610, in cui annuncia al mondo la sua scoperta dei satelliti di Giove, troviamo ben cinque incisioni con immagini della Luna, ottenute da una selezione dei disegni fatti nei mesi precedenti. La grande qualità di queste immagini è provata dalla possibilità di identificare alcune strutture lunari e in base alla loro illuminazione stabilire le date in cui i disegni furono eseguiti. Da un'analisi eseguita sui disegni si copre che l'errore medio delle posizioni delle diverse strutture è dell'ordine del 5% del diametro del disco lunare. Secondo il prof. Righini, questo dimostra che i disegni erano stati realizzati con intenti scientifici, potremmo dire “cartografici” e ad esse, a buon diritto, possiamo far risalire gli inizi della selenografia scientifica. Pagina 82 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Il professor Righini durante la sua conferenza; a destra la copertina del suo libro su Galileo Alberto Righini è Professore Associato di materie astronomiche presso il Dipartimento di Fisica ed Astronomia dell'Università degli Studi di Firenze. Con i colleghi dell'Osservatorio di Arcetri ha partecipato ed organizzato a grandi campagne internazionali per la ricerca dei siti ottimali per la costruzione di osservatori di nuova generazione. Ha seguito, nei primi anni della sua carriera scientifica diverse spedizioni per osservare la corona solare durante le eclissi totali di Sole. Alberto Righini è anche uno studioso della Storia della Scienza, ha condotto e conduce un'intensa attività divulgativa facendo lezioni per le scuole e per il pubblico su Galileo e sulla sua vicenda umana e scientifica. Su Galileo ha scritto un libro dal titolo «Galileo tra Scienza Fede e politica» edito dall'Editrice Compositori di Bologna. Ad Alberto Righini gli amici del Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese hanno dedicato un asteroide da loro scoperto chiamandolo «Bertorighini» Alberto Righini è stato coordinatore del Dottorato in Astronomia dell'Università degli Studi di Firenze dall'Ottobre dal 2010 al 2012. Conferenza: Ivano Dal Prete, “Nec Homines Lunam Incolunt" (“Non ci sono uomini sulla Luna”): selenografia e vita extraterrestre nel Seicento L'invenzione del telescopio portò la Luna al centro della controversia sull'esistenza di altri mondi abitati. La relazione del prof. Dal Prete ha esaminato lo sviluppo storico del dibattito, e le implicazioni culturali e religiose delle selenografie seicentesche. In particolare, intenIl prof. Ivano Dal Prete durante la sua conferenza do mostrare che la possibilità di vita intelligente oltre la Terra era discussa liberamente tra Medioevo e Rinascimento, e ritenuta generalmente compatibile con la rivelazione cristiana. Ivano Dal Prete è Hanna Kiel Fellow presso Villa I Tatti / The Harvard University Center for the Italian Renaissance (Firenze). Ha conseguito il dottorato in “Storia della Società Europea” presso l’Università di Verona nel e ha svolto attività di ricerca presso il CNR/ ISPF di Milano e l’Università del Piemonte Orientale (Vercelli). Dopo il 2008 ha insegnato e svolto ricerca presso l’Università del Minnesota (Minneapolis), Columbia University, l’Italian Academy for Advanced Studies in America (New York), la Huntington Library (San Marino, California) e Yale University (New Haven, Connecticut). Ivano Dal Prete ha pubblicato articoli e saggi sulla relazione tra astronomia planetaria e storia della Terra nel primo Settecento, reti di comunicazione scientifica e teorie sulla generazione in età moderna, e sulla storia della Terra nel Rinascimento. Il suo prossi- R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 83 Rodolfo Calanca presenta il prof. Claudio Marazzini mo libro tratterà dell’età della Terra in età moderna, il successivo dell’idea di vita extra-terrestre dall’antichità ad oggi. Conferenza: Claudio Marazzini, I nomi della Luna. Riccioli astronomo e la storia della selenografia. L’intervento del prof. Marazzini ha dato conto dei tre tentativi messi in atto nel sec. XVII per fissare la geografia della Luna con i relativi nomi di montagne, mari e crateri: quello di Van Langren (Langrenus) del 1645, quello del 1647 di Johannes Hevel o Jan Heweliusz o Hőwelcke (latinizzato nel nome più noto e costante “Hevelius”), e infine quello del nostro Riccioli, nell’Almagestum novum del 1651. Il confronto delle diverse tecniche di nominazione ha chiarito perché il Riccioli ebbe successo più dei concorrenti, e perché (con nostra soddisfazione) i nomi della Luna siano rimasti sostanzialmente i suoi. La ricognizione sulla selenografia nascente nel sec. XVII è stata anche occasione utile per esaminare la struttura dell’Almagestum novum e per sondare il rapporto tra Riccioli e il primo osservatore della Luna, il grande Galileo, infine per verificare gli eventuali interessi di Galileo stesso per l’assegnazione dei nomi alle cose e agli oggetti spaziali. Alle spalle di tutto questo, sta un discorso più generale sul rapporto tra lingua italiana, lingua latina e studi astronomici da Galileo in poi. Galileo, com’è noto, dopo il primo momento adottò la lingua toscana con scelta quasi rivoluzionaria. Riccioli ritornò al latino, universale strumento dei dotti del tempo. Un’occasione, forse, per riflettere sull’uso di italiano e inglese nella scienza di oggi. Claudio Marazzini, titolare della cattedra di Storia della lingua italiana nella Facoltà di Lettere dell'Uni- versità del Piemonte Orientale "A. Avogadro", è nato a Torino il 26.10.1949. E’ autore di numerosi saggi su temi di storia della lingua italiana, sulla questione della lingua, sulla storia linguistica regionale, sui rapporti lingua-dialetto, sul linguaggio letterario, sulla cultura popolare, sulla storia della linguistica, e ha pubblicato anche due interventi su temi legati alla storia dell'astronomia, entrambi connessi a Galileo. Dal 2010 è Socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino per la Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Dal 2014 è presidente dell'Accademia della Crusca di Firenze, accademia di cui fece parte anche Galileo dal 1605. Conferenza: Ivana Gambaro, “Giovan Battista Riccioli: astronomo e padre gesuita” Negli ultimi suoi anni Galileo, ormai vecchio e cieco, discute con Fortunio Liceti, un aristotelico padovano suo corrispondente, intorno alla luce presente sulla superficie lunare nei noviluni. La nota polemica che ne discende e che conduce Galileo alla stesura della Lettera al Principe Leopoldo, accende l'interesse dei savants della Compagnia di Gesù che negli anni Quaranta e Cinquanta mobilita le sue menti migliori per affrontare i temi astronomici e fisici più stimolanti del tempo. Per i padri gesuiti, tuttavia, la curiositas per il problema scientifico si accompagna alla necessità di rispettare la tradizione tomistica in teologia ed aristotelica in filosofia. In questa chiave analizzerò sia il problema della natura dei corpi celesti, in particolare quella della Luna, affrontato nelle opere a stampa di G. B. Riccioli e nel suo epistolario con A. Kircher, sia i problemi associati ad alcune delle tecniche di osservazione e misurazione impiegate dall'astronomo gesuita nella sua attività osservativa. Pagina 84 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce di ricerca in qualità di ricercatore CNR presso l' Office for the History of Science and Technology dell'Università della California a Berkeley, in qualità di ricercatore associato CERN nel History of CERN Project e di ricercatore CNRS presso il Centre de Recherche en Histoire des Sciences et des Techniques della Villette, Paris. Ha pubblicato contributi relativi alla storia dell'astronomia del '600 e alla storia della fisica delle alte energie del '900. Dal 1999 insegna presso l'Università di Genova Storia della scienza e Filosofia della scienza nei corsi di formazione per docenti di area umanistica e scientifica. La prof.ssa Ivana Gambaro durante il suo intervento sulla figura di Riccioli, astronomo e gesuita. 24 ottobre – seconda giornata Convegno: “Scienza e tecnologia della luce” Ma le questioni scientifiche non restano confinate negli ambienti degli scienziati, poiché si intrecciano con le problematiche connesse alla sensibile riduzione degli spazi d’autonomia riconosciuti agli studiosi italiani, da cui non sono esenti i padri gesuiti. Essi, infatti, dagli anni Quaranta vedono il controllo preventivo sulle loro opere destinate alla stampa farsi ancora più serrato, mentre i Revisori Generali della Compagnia di Gesù attentamente compilano nuove liste di proposizioni proibite. G. B. Riccioli è profondamente coinvolto in questo contrastato processo di transizione da una vecchia ad una nuova visione del mondo, e nel suo Almagestum Novum accanto a contributi innovativi presenta anche elementi tradizionali, talora in modo contraddittorio. Ivana Gambaro, laureata in Fisica e successivamente in Storia presso l'Università di Genova. Già docente di fisica, ha insegnato storia e filosofia. Ha svolto attività E’ un convegno che vede la partecipazione di astronomi, scienziati, ingegneri della luce ed esperti di illuminotecnica, inquinamento luminoso, laser, ecc., nel 350° della pubblicazione del De Lumine di Francesco Maria Grimaldi, che sarà in contemporanea con “Le giornata della Creatività”. La conoscenza della luce è sempre andata a braccetto con i progressi nella conoscenza e nella tecnologia: dai Led premiati con il Nobel nel 2014, alle connessioni Internet superveloci, dalla fotosintesi che nutre le piante al fotovoltaico. Senza dimenticare la luce che riceviamo dallo spazio cosmico, e ci conduce, oltre l'atmosfera terrestre, verso l'immensità dell'universo, fonte della luce e dell’energia luminosa che impieghiamo sulla terra. Si diviene così consapevoli dell' “inquinamento luminoso”, dei suoi effetti negativi per chi si occupa di ricerca scientifica osservando il cielo notturno, e su come fermarlo. R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 85 Convegno “Tecnologia e scienza della Luce”: da sinistra, Rodolfo Calanca, Costantino De Angelis, Francesco Paresce, Carlo Andrea Rozzi, Giorgio Lulli, Roberto Bedogni, Massimo Mazzoni, Claudio Gavioli. Conferenza: Roberto Bedogni, "Luci, colori ed immagini astronomiche". La luce in Astronomia è fondamentale perché è da essa che ricaviamo la conoscenza della struttura della Via Lattea e, a scale ancor maggiori, dell'Universo. In particolare con la fotometria e la spettroscopia otteniamo informazioni sulla luminosità e la composizione chimica di stelle, nubi e pianeti. La tecnologia digitale ha reso l'acquisizione delle immagini, nelle diverse bande delle spettro elettromagnetico, molto efficace ma ne ha "alterato" la resa visiva con quelli che, impropriamente, vengono chiamati "falsi colori". In questa conferenza vedremo che i "falsi colori" sono in realtà una necessità per le immagini astronomiche. Le condizioni per poter "vedere" le grandi nebulose della Via Lattea sono infatti diverse da quelle che quotidia- namente ci accompagnano quando fissiamo su di una macchina fotografica le nostre foto digitali. Quindi i "falsi colori" astronomici sono in realtà non una limitazione ma una risorsa in più nell'interpretazione del significato astrofisico dei corpi celesti. Roberto Bedogni è nato a MODENA nel 1952 e si è Laureato all' Università degli Studi di BOLOGNA nel 1977 in Astronomia. Dal 16-2-1979 è assegnato, in qualità di Astronomo, all' Istituto di Astronomia della Università di Bologna; dal 3-5-1982 Astronomo ad Esaurimento dell' Osservatorio Astronomico di Bologna. Dal 26-9-1986 al 25-9-87 è stato in Congedo Straordinario per motivi di studio presso il Dipartimento di Astronomia della Università del Minnesota. Dal 1-121988 è Ricercatore Astronomo dell' Osservatorio Astronomico di Bologna. Il prof. Roberto Bedogni presentato da Claudio Gavioli Pagina 86 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Il prof. Massimo Mazzoni in un momento della sua conferenza Conferenza: Massimo Mazzoni, "Le Onde Buie della Gravitazione" I corpi celesti non emettono solo radiazione luminosa e particelle. Infatti da un secolo la Teoria einsteiniana prevede che essi possano anche rilasciare, in certe condizioni, onde legate al fenomeno della gravitazione: le Onde gravitazionali, appunto. Ad oggi, nonostante importanti successi, queste onde non sono ancora state rilevate direttamente. Eppure la tecnologia è disponibile, ci sono i finanziamenti e le antenne adatte, ma nessuno le ha ancora osservate. Il fatto è che si tratta di quasi impercettibili "fremiti" dello spazio-tempo, e queste increspature costituiscono una delle massime sfide per la Fisica moderna. Il ruolo dell'Italia su questo fronte è tra i maggiori al mondo. Massimo Mazzoni, laureato in Fisica nell’indirizzo astronomico, è stato ricercatore dell’Università di Firenze, al Dipartimento di Astronomia e Scienza dello Spazio. Ha insegnato Fisica Generale I e II alla Facoltà di Ingegneria, ed Ottica per i Beni Culturali, alla Facoltà di Scienze. In passato ha svolto ricerca ed insegnato anche presso università straniere come la canadese St. Francis Xavier University (NS) e lo Zeeman Laboratory dell'Università di Amsterdam. La sua ricerca riguarda la Fisica Atomica e la Gravitazione ed ha pubblicato oltre 150 articoli specialistici su riviste internazionali, oltre ad alcuni libri di Fisica e di Storia della Fisica italiana. Organizza convegni, esperimenti scientifici pubblici e mostre sulla Storia della Scienza, sulla strumentazione e gli archivi astronomici, approfondendo gli argomenti della Fisica e dell’Astronomia comuni con altre discipline, sia scientifiche che umanistiche. Collabora con il Museo Galileo di Firenze. Membro di varie Accademie italiane e di Società di storia dell'Astronomia, ricopre attualmente la carica di Segretario della Società Astronomica Italiana. Conferenza: Francesco Paresce, “Guglielmo Marconi e la sua ‘Luce’ per comunicare”. Marconi usò la luce a vari MHz per rivoluzionare il mondo delle comunicazioni e della scienza. I risultati sono stati veloci e stupefacenti in un cammino senza precedenti verso l'interconnettività del mondo e del sistema solare intero. In questa relazione il prof. Paresce ha "illuminato" le fasi salienti di questo cammino. Francesco Paresce è attualmente fisico associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) svolgendo le sue ricerche presso l’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica a Bologna. É anche consulente dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per il progetto congiunto ESA/NASA per il Hubble Space Telescope. Ha lavorato in passato per l’ESA come responsabile scientifico della Faint Object Camera su HST e per il European Southern Observatory come responsabile scientifico del Very Large Telescope Interferometer (VLTI). Si è laureato in Fisica alla Sapienza di Roma e ha ottenuto il suo dottorato all’Università della California, Berkeley dove ha lavorato per varie missioni spaziali della NASA. Ha scritto più di 200 articoli scientifici ed è autore di un libro intitolato Tra Razzi e Telescopi, DiRenzo editore, 2005. Prosegue anche la sua attività divulgativa della ricerca scientifica mediante confe- R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 87 Il prof. Francesco Paresce, astrofisico, nipote del premio Nobel Guglielmo Marcon, durante il suo intervento e, a fianco, la copertina del suo libro. renze nei licei, circoli culturali, istituti professionali e organizzazioni varie in Italia e all’estero. Conferenza: Giorgio Lulli, "Onde, corpuscoli o ...? L'esperimento più bello e il "mistero" della meccanica quantistica." L'esperimento che nel 2002 un sondaggio della rivista Phisics World scelse come il "più bello" della fisica è la versione quantistica del classico esperimento di interferenza della luce di Young, applicato al caso degli elettroni singoli. Ideato come esperimento mentale da Einstein nel 1927, fu giudicato per molti anni impossibile da farsi per le difficoltà tecniche che comporta. A dispetto di queste difficoltà venne finalmente realizzato nel 1976 da un team ricercatori bolognesi dell'Universi- tà e del CNR che utilizzarono allo scopo un microscopio elettronico. L'esperimento evidenzia quello che Richard Feynman definì l'"unico mistero" della meccanica quantistica, ovvero il fatto che oggetti microscopici come elettroni, fotoni, atomi e perfino molecole, si comportano per certi versi come corpuscoli e per altri come onde. Questa proprietà, inspiegabile secondo i criteri della fisica classica, è uno degli aspetti peculiari della rivoluzione concettuale che la meccanica quantistica portò nella fisica durante i primi decenni del 1900. La presentazione del prof. Lulli ha raccontato questo esperimento, la sua storia e le sue implicazioni, cercando di rendere conto delle motivazioni che gli hanno consentito di aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento del Physics World. Il prof. Giorgio Lulli durante la sua conferenza. A destra, la copertina del suo libro. Pagina 88 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Il prof. Costantino De Angelis durante la sua conferenza. A destra, il logo del progetto Erasmus, NANOPHI Project Giorgio Lulli, Primo Ricercatore presso l'Istituto per la Microelettronica e i Microsistemi del CNR e coordinatore della Commissione Divulgazione dell'Area della Ricerca CNR-INAF di Bologna. Dal 2009 gestisce il sito web dedicato all'esperimento più bello della fisica (http://l-esperimento-piu-bello-dellafisica.bo.imm.cnr.it). Nel 2010 ha coordinato un progetto MIUR per la realizzazione di un DVD contenente la copia rimasterizzata del film del 1976 "Interferenza di elettroni" e un documentario che narra la storia di questo esperimento. Nel 2013 ha pubblicato con Apogeo il libro "L'esperimento più bello. L'interferenza di elettroni singoli e il mistero della meccanica quantistica". Sul tema dell'esperimento più bello e, più in generale, dell'introduzione alla meccanica quantistica, ha tenuto numerose conferenze ed ha collaborato a progetti didattici (Piano Lauree Scientifiche, Tirocini Formativi Abilitanti) rivolti a studenti o insegnanti degli ultimi anni delle scuole superiori. Conferenza: Costantino de Angelis, "I materiali bidimensionali nell'anno internazionale della Luce" Nell'Anno internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce, vogliamo qui fornire una rapida panoramica sul settore della fotonica per ricordare le principali scoperte scientifiche e le rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto di vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta. Il 20 dicembre 2013, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2015 Anno internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce (International Year of Light, IYL 2015, http:// www.light2015.org). Il termine fotonica deriva dalla parola fotone che a sua volta deriva dal greco φῶς che significa luce e che viene usata per indicare il quanto di energia della radiazione elettromagnetica. Nell'anno internazionale della luce, il sogno della comunità scientifica internazionale è di contribuire a fare sì che il 21-esimo secolo possa essere per il fotone quello che il 20-esimo secolo è stato per l'elettrone. Dal punto di vista tecnico si può dire che oggi si parla di fotonica ogni volta che si ha a che fare con la generazione, l'emissione, la trasmissione, la modulazione, la commutazione, l'amplificazione e la rivelazione della luce. Un ambito importantissimo nel quale la fotonica si impone oggi per le fondamentali ricadute tecnologiche è quello delle nanotecnologie e delle relative applicazioni. Gli importanti risultati ottenuti negli ultimi anni dalle nanotecnologie consentono infatti di avere a disposizione processi di fabbricazione in grado di controllare su scala nanometrica la produzione di strutture guidanti e la deposizione di film e particelle su substrati dielettrici. Ciò ha permesso di progettare dispositivi che non erano nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochi anni fa. Un altro settore che, anche in ragione del rapido sviluppo dimostrato negli ultimi anni e in considerazione delle importantissime potenzialità, è doveroso menzionare è l'ottica del grafene e più in generale una nuova classe di materiali che promette di rivoluzionare la nostra concezione dei dispositivi, quella dei materiali bidimensionali. Dopo essere stato isolato nel 2004, il grafene viene oggi studiato sia per meglio comprenderne le proprietà fondamentali sia per esplorare le sue grandissime potenzialità applicative. R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Gli investimenti in ricerca di base e applicata su questo materiale sono oggi ingenti a livello internazionale e l'Unione Europea ha un ruolo di primo piano anche grazie al programma di ricerca “Graphene Flagship”. All'interno di questo programma di ricerca decennale la fotonica ha già dato prova di potenziali rivoluzioni tecnologiche e molte altre sono ancora attese. Costantino De Angelis è professore ordinario di Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia. L’attività di ricerca di Costantino De Angelis riguarda le tecnologie fotoniche e in particolare le loro applicazioni in ambito sensoristico e nel settore delle telecomunicazioni. Dopo essersi laureato con lode in Ingegneria Elettronica nel 1989 presso l’Università degli Studi di Padova, Costantino De Angelis ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l’Università degli Studi di Padova. Dal 1994 al 1998 è stato ricercatore universitario presso l’Università degli Studi di Padova e dal 1998 professore di Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Brescia. Nel corso della sua attività di ricerca ha prestato servizio come professore invitato presso l’Università di Limoges (1996), presso il MIT, Massachusetts Institute of Technology, (2010 e 2011) e l’Università di Jena (2012). Costantino De Angelis è autore di più di 300 articoli su riviste e convegni, ha avuto la responsabilità scientifica di svariati progetti nazionali e internazionali sulla fotonica e attualmente coordina un progetto Erasmus Mundus dedicato alle applicazioni delle nanotecnologie in ambito fotonico ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 89 (http://nanophi.unibs.it). Conferenza: Fabio Falchi, “L’inquinamento luminoso nel mondo. Anteprima del nuovo atlante”. A circa 15 anni di distanza dalla pubblicazione del primo atlante, il mio gruppo di ricerca ha prodotto una nuova versione con miglioramenti nel software di calcolo, nei dati di radianza da satellite e nei dati di brillanza del cielo da terra. Il software di propagazione dell'inquinamento luminoso in atmosfera ora tiene conto dell'altitudine delle sorgenti e dell'osservatore, oltre che della schermatura dovuta alla curvatura terrestre. Il software inoltre permette di calcolare l'inquinamento luminoso prodotto da sorgenti con funzioni di emissione verso l'alto non standard e calibrate mediante misure da terra. La calibrazione mediante misure da terra si avvale di un database con decine di migliaia di dati provenienti da tutto il mondo grazie anche alla 'citizen science', oltre che di misure molto precise ottenute in USA dal National Park Service ed Europa. I dati satellitari di radianza della città sono stati ottenuti dal nuovo satellite SUOMI NPP con il VIIRS Visible Infrared Imaging Radiometer Suite che ha una risoluzione oltre quattro volte migliore rispetto a quella dei satelliti DMSP utilizzati in tutti i precedenti studi. Fabio Falchi, è presidente di CieloBuio e, oltre ad insegnare, studia l’inquinamento luminoso come membro di ISTIL, anche in collaborazione con la National Oceanic and Atmospheric Administration, l'US National Park Service e l'OPCC Cilena. Il prof. Fabio Falchi durante il suo intervento. A destra, una incredibile immagine di buona parte del continente europeo occidentale fortemente inquinato da fonti luminose artificiali. Pagina 90 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Il prof. Carlo Andrea Rozzi durante la sua conferenza Conferenza: Carlo Andrea Rozzi, "L'energia solare: dalla foglia alle nanostrutture" Lo sfruttamento dell'energia solare è un complesso problema che, per essere risolto, richiede la convergenza tra conoscenze scientifiche di base, tecniche, ed ingegneristiche. In questo campo molto si può imparare studiando processi naturali, quali la fotosintesi. In questo incontro ha illustrato come la fisica dei quanti permetta di comprendere i meccanismi fondamentali che stanno alla base della conversione della luce in energia chimica o elettrica, e mostrato come i questi principi trovino applicazione nelle nanostrutture per la fotosintesi artificiale, o per le celle solari di nuova generazione. Carlo Andrea Rozzi si è laureato in Fisica all'Università di Pavia ed ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Il prof. Giuseppe Malaguti durante la sua conferenza. Fisica presso l'Università di Modena. Da allora si è dedicato alla ricerca scientifica nel campo della fisica della materia presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Modena, l'Istituto Nazionale di Fisica della Materia, e l’Institut für Theoretische Physik della Freie Universität Berlin. La sua attività scientifica consiste principalmente nello sviluppo di metodi teorici e numerici per lo studio delle proprietà elettroniche della materia alla nanoscala, e in particolare riguarda lo studio di materiali innovativi per le celle solari e fotosintesi artificiale, e la simulazione di spettroscopie ultraveloci. È tra gli sviluppatori del codice octopus, un'applicazione open source per lo studio delle proprietà della materia mediante la teoria funzionale della densità dipendente dal tempo. Attualmente è ricercatore presso il Centro S3 dell'Istituto Nanoscienze del CNR in Modena. R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Conferenza: Giuseppe Malaguti, “Le Luci dell’Universo Invisibile”. Come ci apparirebbe la volta della Cappella Sistina di Michelangelo se la potessimo guardare solo dal buco della serratura? Non lo sappiamo, ma sicuramente perderemmo molto della sua realtà. Lo stesso varrebbe per l’Universo se lo osservassimo solo coi nostri occhi, limitati alla sottile banda della luce visibile. Una finestrella minuscola se confrontata con l’ampiezza cosmica dello spettro elettromagnetico. Oggi sappiamo che la luce dell’Universo splende a tutte le frequenze: nelle onde radio, alle microonde, nell’ultravioletto, in raggi X e in raggi gamma. Ma l’astronomia dell’invisibile è una scienza giovane. Nonostante l’animale uomo (e forse anche altri animali) scruti il cielo da tempo immemorabile, solo da 4 secoli a questa parte, da Galileo in poi, il nostro occhio è aiutato da cannocchiali e telescopi, diventati poi sempre più potenti. Ed è solo col XX secolo che si aprono le finestre dell’invisibile. Che ci offrono un Universo prima sconosciuto: le stelle di neutroni, i resti di supernova, i nuclei galattici attivi, i buchi neri, gli ammassi di galassie, la radiazione di fondo cosmica. E poi la materia scura, l’energia scura. Le finestre sulla luce invisibile consentono all’uomo di usare al meglio il più grande laboratorio di fisica esistente al mondo: l’Universo. Giuseppe Malaguti si Laurea con Lode a Bologna nel 1989 e consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Astronomia nel 1993. Dopo un periodo presso l’Università di Southampton in UK e successivamente all’ASI - Agenzia Spaziale Italiana, entra nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche e, nel 2002, dell’INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica. Si occupa principalmente di nuclei galattici attivi e di astrofisica delle alte energie, con particolare riferimento alle tecnologie spaziali e ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 91 aerospaziali. Ha partecipato allo sviluppo di missioni spaziali nell’ambito di consorzi internazionali e ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui: docente del corso di “Strumentazioni per l’Astrofisica” presso l’Università di Bologna (2005-2009), responsabile nazionale dell’ufficio attività spaziali dell’INAF (2009-2010), componente del comitato tecnico-scientifico dell’ASI (2011-2014), componente del consiglio di amministrazione del Festival della Scienza di Genova (2011-2012), coordinatore del gruppo di esperti del MIUR per il monitoraggio del “Programma nazionale di Ricerche Aerospaziali” (dal 2013). Dal 2010 è Direttore dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica cosmica di Bologna dell’INAF. È autore di più di 200 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. 24-25 ottobre – Festival della Luce - Bondeno— “Le Giornate della Creatività” Start Up, Spin Off ed altre meraviglie” Una sezione importante del Festival della Luce di Bondeno, intitolata “Le Giornate della Creatività”, ha riguardato le Start Up, le Spin Off universitarie e le aziende innovative ad alto contenuto scientifico e tecnologico. Esse sono state direttamente coinvolte nel Festival, con i loro prodotti ed idee, nell’ambito della fotonica, dell’energia solare, nelle sue varie forme, nonché nell’aerospaziale. Come si vedrà nel seguito, abbiamo dato ampio spazio ad interventi e discussioni pubbliche, rivolte a studenti, insegnanti ed appassionati, finalizzati a comunicare lo stato dell’arte nei settori tecnologici di punta di questo inizio millennio, attraverso l’ illustrazione di prodotti e di idee altamente innovative presentate dalle diverse aziende. Ciò ha costituito uno dei momenti più stimolanti ed entusiasmanti del Festival. Pagina 92 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Una parte del gruppo di relatori che ha partecipato alle “Giornate della creatività” Conferenza: Simone Paternostro, ingegnere aerospaziale,"La missione Amadee15" L’Austrian Space Forum è un’associazione scientifica composta da professionisti dello spazio e astrofili appassionati. In collaborazione con istituti di ricerca nazionali e internazionali sta lavorando ad una missione scientifica che si è tenuta dal 3 al 14 agosto al confine tra Austria e Italia, sul ghiacciaio Kaunertal. Amadee15 ha simulato una missione su Marte. Analog Astronauts in tuta spaziale hanno emulato l’esplorazione di una regione ghiacciata su Marte, interagendo con veicoli robotici e con il supporto di un centro di controllo in- ternazionale. ERAS, European Mars Analog Station, è un programma della Italian Mars Society, il cui obiettivo principale è creare sulla Terra una stazione spaziale adatta all’ambiente di Marte, all’interno della quale effettuare test per le future missioni. V-ERAS è l’interfaccia virtuale con la quale gli Analog Astronauts dell’Austrian Space Forum hanno condotto alcune sessioni di addestramento e con cui hanno effettuato ulteriori test durante la missione, contribuendo alla realizzazione di una realtà virtuale specifica, con cui i futuri equipaggi potranno interagire prima che la stazione sia effettivamente costruita. Materiale in esposizione al Festival: una stampante 3D e, a destra, missili e razzi R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Pagina 93 Simone Paternostro durante la sua conferenza Conferenza: Franco Cappiello, ingegnere ed imprenditore, “Missione INFINITY”. Dopo aver analizzato le tecnologie dei satelliti DIY, come per esempio CUBESAT, TUBESAT, ARDSAT, ho analizzato la reale possibilità di mettere in orbita un piccolo telescopio da 8 pollici di diametro. Dopo Aver verificato l’effettiva tecnologia e i reali problemi di una missione di questo tipo, ho deciso che era possibile, sia nella costruzione del piccolo telescopio, sia nella costruzione del Vettore che porterà il telescopio in orbita. In alternativa alla costruzione del Vettore, sarà possibile utilizzare un vettore commerciale o russo o europeo (il costo non cambia). L’orbita scelta è a circa 600Km dalla superficie terrestre, la velocità di rotazione permetterà al satellite di fare il giro del globo in 1.5 ore. La telemetria sarà scelta in funzione delle frequenze che daranno la miglior affidabilità per poter fare un download delle immagini anche in differita. Sarà un progetto sfidante ma sicuramente appassionante; il tempo stimato per il lancio è entro 5 anni dalla partenza del progetto. E’ già stata costituita una società che si chiama Sierrafox srl, www.sierrafoxhobbies.com , la quale si occupa di vettori in generale, anche per scopi ludici. Questo progetto sarà finanziato interamente da enti privati, con finanza privata, avrà sicuramente una grande attenzione mediatica. Conferenza: Nicoletta Marigo, amministratrice della Film4sun, "Il progetto Ubuntu-PV: energia solare come strumento di lotta alla povertà”. Film4Sun e' uno spin-off del CNR di Parma che sviluppa prodotti fotovoltaici innovativi che possono essere utilizzati sia in Italia/Europa che in contesti dove l'autonomia nergetica può rappresentare una reale opportunità di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita. Ubuntu-PV nasce con l'obbiettivo di migliorare i servizi energetici della popolazione che vive nelle aree rurali e peri-urbane dell'Africa trasferendo le competenze tecniche ecessarie a produrre in loco moduli fotovoltaici e sistemi solari a basso costo e appropriati per l'uso locale. Conferenza: Giordano Mancini, titolare della Nova Somor, "I motori termodinamici Nova Somor". I motori termodinamici Nova Somor" applicazione di innovativi sistemi termodinamici a bassa temperatura al sollevamento delle acque. L'utilizzo dell'energia solare e del calore perduto per alimentare cicli termodinamici in grado di dare lavoro utile risale ai tempi dell'autarchia degli anni Trenta. Nova Somor ha recuperato, attualizzandole, le tecnologie del passato abbandonate quando non c'era sensibilità ecologica e l'energia aveva costi bassi. Oggi è di nuovo il loro tempo. L’ing. Franco Cappiello durante la conferenza. A sinistra il telescopio spaziale INFINITY Pagina 94 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Conferenza: Matteo Poli e Filippo Trevisi, “Nimbus Project” I relatori hanno spiegato cos'è il Nimbus Project e la loro storia: come nasce il progetto, cosa stanno facendo e qual è il loro obiettivo. Hanno fatto cenni al SAGITTA II (sounding rocket da 100km), ed ai suoi obiettivi con una spiegazione del progetto e delle sue caratteristiche, funzioni, innovazione. Il SAGITTA II è stato illustrato nei suoi componenti (fusoliera, struttura interna, motore) e nelle procedure svolte, test motore a terra, test strutturali su mock-up, analisi numeriche. Inoltre è stato visualizzato il software con le relative spiegazioni dei grafici presenti in modo interattivo. In sostanza, il team di Nimbus sta mettendo a punto un razzo-sonda per rilevazioni meteorologiche ed analisi dell’atmosfera, a basso costo e del tutto recuperabile. Il vettore sonda è totalmente riutilizzabile, garantisce inoltre misurazioni precise ad un basso costo di utilizzo e d’investimento iniziale e permette un rapido sgombro dello spazio aereo. Le rilevazioni sono effettuate in una decina di minuti anziché impiegare da una a dieci ore, eventualmente necessarie con l’utilizzo di altre tecnologie quali ad esempio palloni sonda e droni aerei. Conferenza: Emanuele Borasio, amministratore WEAR, "WEAR: Location Intelligence e Realtà aumentata" La Realtà aumentata è una nuova tecnologia che permette un nuovo stile di comunicazione che si può applicare ad una vasta gamma di settori. Wear si occupa anche di Location Intelligence una tecnologia che rappresenta il metodo più innovativo e diretto di raccogliere e interpretare una quantità potenzialmente illimitata di dati basati sulla localizzazione. Conferenza: Matteo Fabbri, "La stampa 3D". La Stampa 3D rappresenta la naturale evoluzione della stampa 2D e permette di avere una riproduzione reale di un modello 3D realizzato con un software di modellazione 3D. Inoltre essa è considerata una forma di produzione additiva mediante cui vengono creati oggetti tridimensionali da strati di materiali successivi. Matteo Poli e Filippo Trevisi durante la loro conferenza sul progetto Nimbus R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n.21/2015 Pagina 95 Emanuele Borasio durante la sua conferenza. A destra, un esempio di realtà aumentata. Il lancio delle stampanti 3D ha fornito un'alternativa pratica ed economica alle macchine di modellazione industriali. Con le stesse dimensioni di una fotocopiatrice, queste stampanti possono creare facilmente e velocemente oggetti tridimensionali, specialmente modelli, di vari formati, dai più semplici ai più complessi, anche a colori. Sono gestite da un normale computer che usa uno speciale software di modellazione 3D. Conferenza: Pietro Aliprandi, medico ed aspirante astronauta, “Viaggi nel tempo e nello spazio” Ogni volta che guardiamo una stella, vediamo il passato. Se oggi dalla Galassia di Andromeda qualcuno stesse osservando la Terra, ci vedrebbe ancora agli albori della nostra civiltà. La luce del Sole giunge ai nostri occhi con otto minuti di ritardo. E quando riceviamo delle immagini da Marte, esse sono state inviate quasi un'ora prima, eppure viaggiano alla velocità della luce. Pietro Aliprandi, medico triestino e unico candidato italiano alla prima missione umana su Marte, ha spiegato le sfide, le difficoltà e i benefici di un'impresa senza precedenti. L’arch. Matteo Fabbri durante la sua conferenza. A destra e sotto, esempi di prodotti realizzati con stampante 3D Pagina 96 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce Pietro Aliprandi durante il suo intervento al Festival della Luce di Bondeno. Sotto, gli organizzatori del Festival con Pietro Aliprandi. La scienza dei giocattoli Bondeno - Sala 2000 25 ottobre dalle 9:30 alle 18:30 Si tratta di una mostra laboratorio che ha come obiettivo quello di far scoprire i segreti della fisica racchiusi nei giocattoli. L'esposizione è costituita da circa una settantina di giocattoli che, oltre ad essere divertenti, funzionano in base a importanti principi fisici. L'intento è quello di catturare l'attenzione del visitato- re, di incuriosirlo, avvicinandolo ai fenomeni fisici in modo semplice e familiare... perché possa comprendere che la scienza non si trova solo nei grandi centri di ricerca e non è poi così lontana dalla realtà che ci circonda. Partendo da un ricchissimo patrimonio di esperienze e materiali prodotti dal Laboratorio di Comunicazione delle Scienze Fisiche dell’Università di Trento, ForMATH ha realizzato dei percorsi studiati appositamente per essere utilizzati sia con gli alunni delle scuole che con il grande pubblico. Si lavorerà con orsetti equilibristi, paperi bevitori, trottole, molle per iniziare a scoprire le meraviglie della scienza. R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce ASTRONOMIA NOVA n.21/2015 Pagina 97 Il Festival è stato reso possibile grazie al determinante contributo del Comune di Bondeno Il Festival ha avuto il patrocinio di : Pagina 97 ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015 Recensione L’epopea, tuttora in corso, dell’esplorazione delle comete con sofisticatissime sonde spaziali è uno dei racconti più belli ed affascinanti, in ambito scientifico, degli ultimi decenni e questo bellissimo libro di Cesare Guaita, chimico ed astronomo, è indubbiamente quanto di meglio si possa leggere oggi sull’argomento nella nostra lingua (spero che la casa editrice ne proponga la traduzione inglese, quest’opera merita senz’altro una diffusione a livello internazionale). In apertura, Guaita pone l’accento sul fatto che la svolta fondamentale nello studio delle comete è avvenuta nel 1986 quando la sonda europea Giotto arrivò fino a 500 chilometri dal nucleo della cometa di Halley e scoprì che esso è ricoperto da uno strato scurissimo di materiale carbonioso. Nei quindici anni successivi furono lanciate altre sonde che puntavano verso altre comete. La Deep Space 1, inseguì la Borrelly, trovandola scurissima ma anche poco attiva; mentre la sonda Stardust inseguì la “giovane” (relativamente agli standard temporali delle comete che orbitano da più o meno tempo nella parte interna del sistema solare) cometa Wild-2, nel 2004, che nello sfiorarne il nucleo, catturò migliaia di frammenti microscopici per poi portarli sulla Terra. Stardust continuò la sua corsa verso la Tempel-1. Nel luglio 2005 quest’ultima cometa subisce l’assalto della sonda Deep Impact, che la colpisce con un missile, facendo uscire dalla superficie fratturata una notevole quantità d’acqua. Il clou delle missioni spaziali cometarie fu raggiunto nel novembre del 2014, quando la sonda europea Rosetta, dopo oltre 10 anni di viaggio, raggiunge la cometa 67P/Churyimov-Gerasimenko, sulla quale fece scendere il lander Philae. Guaita racconta tutto questo con grande rigore scientifico, tuttavia con un linguaggio nient’affatto arido e, soprattutto, accessibile anche ai neofiti. Ma non si limita alle comete. Esamina infatti alcuni aspetti di grande interesse legati ai frammenti cometari di maggiori dimensioni, che riempiono lo spazio interplanetario e che possono costituire un gravissimo rischio ambientale, in caso di impatto con la Terra. Parla poi di comete extrasolari in orbita intorno ad altre stelle e dei rapporti tra le comete e l’origine della vita, risollevando di fatto una discussione mai sopita che fa di que- sti corpi celesti i veicoli di diffusione della vita tra le stelle del nostro braccio a spirale della Galassia. La teoria, nota con il termine panspermia, ha avuto le prime formulazioni scientifiche nell’Ottocento e, nella seconda metà del secolo scorso, è stata sostenuta da Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe. Nell’ultimo capitolo, con un colpo d’ala da autentico visionario, Guaita sostiene che il ritorno della cometa di Halley, nel 2061, potrebbe essere l’occasione ideale per lo sbarco di astronauti sul suo nucleo, alla ricerca della vita. Il libro ha un’ottima valenza divulgativa e didattica. Se i programmi della scuola media superiore non avessero brutalmente bistrattato una scienza antica e omnicomprensiva come l’astronomia, se ne potrebbe senz’altro suggerire l’adozione come testo di supporto all’insegnamento di questa splendida disciplina. L’esplorazione delle comete, da Halley a Rosetta Cesare Guaita Hoepli, Milano 2015 Prezzo: € 27,90