EAN– European Astrosky Network n. 21/2015

EAN– European Astrosky Network
n . 21 / 20 15
Webzine gratuita
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ASTRONOMIA & INFORMAZIONE
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
Webzine gratuita: ASTRONOMIA NOVA n. 21/2015
Luogo di pubblicazione:
Questo numero della webzine “Astronomia Nova” è pubblicata a Medolla (MO)
in Via A. Gramsci 7, in data 05 febbraio 2016
Pagina 3
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
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INDICE
 Editoriale a cura della Redazione
p. 05
 C. Ruscica, KM3NeT, un Telescopio sottomarino per neutrini
p. 06
 G. Pappa, Le comete SOHO, cosa sono e come scoprirle
p. 11
 S. Masiero, R. Claudi, Metodi che usi, pianeti che trovi
p. 20
 M. Cardaci, Corsi e ricorsi del Sole
p. 33
 G. Pappa, Fotometeore
p. 40
 C. Ruscica, METI, il dibattito sui messaggi interstellari
p. 48
 S. Covino, Quando l'Italia aspirava alle stelle
p. 55
 M. Dho, Gimbal, una testa tuttofare
p. 59
 A. Villa, 2015-216: transiti di pianeti extrasolari
all’Osservatorio di Libbiano (prima parte)
p. 66
 R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival della Luce 2015
p. 78
 R. Calanca, recensione: “L’esplorazione delle comete. Da Halley
A Rosetta” di Cesare Guaita
p. 98
Pagina 4
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
REDAZIONE
Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected]
Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected]
Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected]
Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected]
Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected]
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PROGETTI EAN
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EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN
Finalmente riprendiamo la pubblicazione di Astronomia Nova !
La webzine ha molti estimatori e può contare su di un gruppo di autori davvero bravi: allora dove sta il problema?
Perché non usciamo con regolarità?
La risposta è purtroppo semplice: nonostante alcune condizioni sicuramente favorevoli, ve ne sono altre che penalizzano fortemente la gestione della webzine e la sua preparazione “materiale”. Ci riferiamo soprattutto al TEMPO,
entità impalpabile ma assolutamente essenziale…; è infatti la disponibilità di tempo che i componenti della Redazione possono dedicare per editare la rivista, ad essere sempre troppo poco. Ce ne scusiamo con i lettori che ci seguono ormai da alcuni anni, augurandoci che questo numero, uscito in ritardo, sia, almeno, di piacevole lettura.
In effetti, ci sono numerosi articoli che crediamo possano interessare i nostri lettori; nel seguito ne citiamo alcuni.
Corrado Ruscica ne ha ben due: il primo riguarda il telescopio sottomarino per lo studio dei neutrini, un grande
progetto europeo di ricerca che ha una delle sue basi principali in Sicilia. L’altro articolo esamina il dibattito sui
messaggi interstellari per cercare il contatto con eventuali altre civiltà della Galassia.
Sabrina Masiero e Riccardo Claudi, astronomi INAF, trattano un argomento di grande attualità nella ricerca astronomica di punta: i metodi per rilevare pianeti extrasolari. Oggi i pianeti conosciuti (dopo un’esclalation ventennale,
è infatti nel 2015 che si celebra il primo ventennio della scoperta di 51 Peg, il primo pianeta extrasolare scoperto)
sono dell’ordine di un paio di migliaia, ed il loro numero cresce quasi esponenzialmente. Quali sono i metodi che ci
consentono di aggiungerne sempre di nuovi? Sabrina e Riccardo li espongono in modo chiaro ed esaustivo.
Anche i due articoli del giovane Giuseppe Pappa vertono su argomenti capaci di coinvolgere non solo gli appassionati. Il primo articolo esplora il mondo delle comete SOHO e fornisce utili indicazioni per cercarle nell’immenso
archivio di immagini prodotto da questo straordinario osservatorio spaziale.
Il secondo articolo costituisce un’ampia raccolta di “fotometeore” , ovvero, eventi luminosi che si possono osservare
nell'atmosfera o sulla superficie terrestre. Il campionario di questi fenomeni, illustrato da Giuseppe, è davvero ampio ed affascinante!
Anche l’articolo di Alberto Villa sulle osservazioni di transiti di pianeti extrasolari all’Osservatorio di Libbiano è
davvero apprezzabile, dimostrando che è possibile ottenere eccellenti risultati, in un settore all’avanguardia
dell’astrofisica di oggi, anche per gli astrofili che siano seriamente impegnati e determinati.
Terminiamo questa rassegna, assolutamente non esaustiva (abbiamo tralasciato di parlare di altri articoli che potrete scoprire e leggere, “sfogliando” le quasi cento pagine di questo numero della webzine) con un rapido cenno al
Festival della Luce di Bondeno, in provincia di Ferrara, un’iniziativa alla quale EANweb ha dato il suo apporto di
idee e di spirito organizzativo. Nei tre giorni del festival ben 23 relatori si sono succeduti sul palco, dimostrando
ancora una volta che la cultura, scientifica, umanistica e tecnologica, è ben viva e presente in Italia. E’ stato il nostro
contributo all’Anno della Luce che si è concluso proprio in questi giorni.
BUONA LETTURA!
LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA
Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte
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C. Ruscica, KM3NET
KM3NET, UN TELESCOPIO SOTTOMARINO PER NEUTRINI
Corrado Ruscica
[email protected]
Abstract
È un telescopio per lo studio dei neutrini cosmici di alta
energia che sarà situato all’interno di una struttura
sottomarina del volume di alcuni chilometri cubi, a
3500 metri nelle profondità del Mar Mediterraneo, allo
scopo di identificare le sorgenti astrofisiche dei raggi
cosmici e dell’antimateria. Lo strumento permetterà di
studiare i fenomeni esplosivi e più energetici
dell’Universo, quali i lampi gamma, le esplosioni e le
collisioni stellari, e potrà essere utilizzato come potente
strumento di ricerca per l’enigmatica materia scura.
Costituito da decine di migliaia di “occhi” elettronici,
KM3NeT sarà in grado di identificare la debole scia
luminosa prodotta in mare dalle rare interazioni dei
neutrini di origine astrofisica con l’acqua. La struttura
ospiterà inoltre una serie di strumenti che permetteranno agli scienziati che si occupano di Scienze del Mare e della Terra di monitorare l’ambiente marino a lungo termine fino a profondità di alcuni chilometri. Si
tratta di un progetto che coinvolge l’Istituto Nazionale
di Fisica Nucleare (INFN), numerose Università Italiane e Istituti di ricerca di dieci Paesi Europei, che sono
riuniti nel Consorzio KM3NeT.
Messaggeri del cosmo
I neutrini sono particelle elusive, sfuggenti, direi quasi
misteriose, tra le più affascinanti studiate dai fisici delle
particelle. Essi appartengono alla famiglia dei leptoni,
cioè quelle particelle che assieme agli elettroni, ai muoni, ai tauoni e ai rispettivi neutrini fanno parte della materia ordinaria. L’esistenza del neutrino venne postulata
nel 1930 da Wolfgang Pauli ma la scoperta arrivò 26
anni più tardi. Anche per i neutrini c’è un po’ di Italia,
dato che il termine fu coniato da Enrico Fermi come
diminutivo del neutrone, una particella molto più pesante che assieme al protone costituisce l’atomo.
Una delle peculiarità di queste particelle riguarda la loro
massa che risulta estremamente piccola, così come è
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Immagine tratta dal sito: www.laperfettaletizia.com/2013/05/neutrini-che-trasformisti.html
stato dimostrato da alcuni esperimenti che suggeriscono dei valori da centomila ad un milione di volte inferiori rispetto alla massa dell’elettrone. Nell’ambito della
ricerca sui neutrini è stato scoperto ad esempio che essi
“oscillano”, cioè cambiano le loro proprietà, dette tecnicamente “sapori”, con il passare del tempo. Questo fenomeno non solo permette di risolvere alcuni problemi
legati alla loro origine ma soprattutto implica che la
loro massa non sia nulla.
Possiamo dire che assieme ai fotoni e ai raggi cosmici di
alta energia, i neutrini rappresentano una sorta di
“messaggeri cosmici” e perciò ci permettono di esplorare le regioni più remote dell’Universo fornendoci preziose informazioni sui vari fenomeni astrofisici. Dato
che queste particelle sono così sfuggenti, come fanno i
fisici a catturarle? Per rivelare i neutrini, gli scienziati
devono costruire delle apparecchiature costituite da
enormi quantità di materiale (come ad esempio i rivelatori al cloro, al gallio, all’acqua pura o pesante) che sono posti sottoterra in modo da schermare la radiazione
cosmica. A causa del loro elevato potere penetrante occorrerebbe un muro di piombo di spessore pari ad un
anno-luce per bloccare almeno metà dei neutrini che
attraversano la materia. Mi ricordo di un particolare
evento che accadde mentre frequentavo il secondo anno
del corso di Laurea in Astronomia all’Università di Bologna e cioè l’esplosione della supernova 1987A. La notizia fece il giro del mondo e la comunità scientifica fu
impegnata per diverse settimane a raccogliere dati preziosi che confermarono una previsione teorica.
In altre parole, quando una stella esplode, gran parte
della sua energia viene irradiata nello spazio sotto forma di neutrini di cui è possibile registrare il flusso che
arriva sui rivelatori a Terra. Insomma, si trattava della
prima prova sperimentale legata ad un fenomeno di
natura astrofisica a supporto della teoria. Invece, più di
recente abbiamo assistito ad un fatto curioso: nel 2011,
i ricercatori di un altro esperimento, chiamato OPERA, affermarono di aver trovato un’anomalia
nella misura della velocità dei neutrini che sembrava
essere superiore a quella della luce. La teoria della relatività di Einstein sembrava essere messa in discussione
ma circa un anno dopo, una analisi più attenta dei dati
fece rientrare, per così dire, l’allarme: quella anomalia
era dovuta alla presenza di errori sistematici
nell’apparato sperimentale. Dai neutrini gli scienziati si
aspettano un grande contributo al progresso delle conoscenze astrofisiche e cosmologiche.
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C. Ruscica, KM3NET
Schema dei vari processi che avvengono durante lo sviluppo di uno sciame atmosferico prodotto da un raggio cosmico (crediti: CERN).
I moderni osservatori astrofisici e i rivelatori di raggi
cosmici permettono di studiare l’Universo in tutto lo
spettro elettromagnetico, dalle onde radio fino ai raggi
gamma. Tuttavia, l’Universo è sostanzialmente opaco
sia alla radiazione gamma di energia maggiore di 1000
miliardi di eV sia ai raggi cosmici di energia estrema,
un fatto che preclude l’osservazione alle alte energie delle potenti sorgenti extragalattiche. Da qui deriva il grande interesse per lo studio dei neutrini astrofisici poiché
sono gli unici messaggeri cosmici che, non avendo carica
ed essendo dotati di massa piccolissima, sono in grado
di percorrere grandi distanze senza che la loro traiettoria venga deviata dai campi magnetici e senza interagire
con la materia.
I neutrini, prodotti dalle stesse sorgenti dei raggi cosmici, potrebbero permetterci quindi di individuarle in modo univoco: mentre i raggi cosmici sono deflessi dai
campi magnetici e giungono sulla Terra in modo sostanzialmente isotropo, i neutrini percorrono indisturbati
enormi distanze, conservando intatta l’informazione
sulla loro sorgente. KM3NeT, inoltre, potrà individuare
quelle regioni della nostra galassia nelle quali
l’antimateria “pesante” può accumularsi per attrazione
gravitazionale e annichilirsi, trasformandosi così in neutrini.
Il primo obiettivo dello strumento KM3NeT sarà la rivelazione dei neutrini di alta energia di origine cosmica
(ARCA). Lo sforzo scientifico a livello mondiale è concentrato in tre centri di ricerca: l’esperimento IceCube
(al Polo Sud), GVD (presso il lago Baikal) e KM3NeT
(nel Mar Mediterraneo). Il successo della costruzione
del rivelatore ANTARES (sempre nel Mar Mediterraneo) ha dimostrato proprio la fattibilità della realizzazione
di strumenti sottomarini per lo studio dei neutrini
L'IceCube Neutrino Detector è
un rivelatore di neutrini costruito presso un’installazione
scientifica nel Polo Sud, immergendo nel ghiaccio antartico,
ad una profondità che varia
tra i 1.450m e i 2.450m, dei
rivelatori a geometria sferica
nei quali sono alloggiati dei
fotomoltiplicatori; tali sensori
sono disposti in pozzi verticali
di sessanta moduli ognuno.
http://icecube.wisc.edu/
C. Ruscica, KM3NET
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Ettore Majorana (1906 – 1938 (morte presunta) o in località
ignota dopo il 1959) è stato un fisico italiano le cui opere più importanti hanno riguardato la fisica nucleare e la meccanica
quantistica relativistica, con particolari applicazioni nella teoria
dei neutrini. In fisica delle particelle un fermione di Majorana è
una particella che è anche la propria antiparticella. Il neutrino
potrebbe essere un fermione di Majorana e ciò renderebbe possibile il doppio decadimento beta senza neutrini. Esperimenti
alla ricerca di tale decadimento sono in corso.
Il secondo obiettivo di KM3NeT sarà la determinazione
della massa dei neutrini (ORCA).
Il problema gerarchico relativo alla massa dei neutrini,
assieme a quello della violazione della simmetria caricaparità e ad una possibile natura dei neutrini (di tipo particelle di Majorana), rappresenta un punto cruciale del
modello standard della fisica delle particelle. Con il rivelatore ORCA sarà possibile determinare la massa dei
neutrini utilizzando il fenomeno dell’oscillazione
nell’atmosfera terrestre. Inoltre, ORCA sarà sensibile
alla rivelazione di eventuali particelle meno massive di
materia scura (attraverso eventuali processi di annichilazione che avvengono all'interno del Sole dove la materia scura rimarrebbe "intrappolata") e alla composizione
della struttura interna della Terra (attraverso la tomografia neutrinica).
Mille ‘leghe’ ottiche sotto il mare
La struttura marina, attualmente in fase di costruzione,
sarà posizionata al largo di Capo Passero ad una profondità di 3500 metri nel Mar Ionio. Il telescopio marino,
denominato con la sigla KM3NeT (leggasi “chilometro
cubo”), occuperà un volume di diversi chilometri cubi e
sarà costituito da una rete di migliaia di sensori ottici
che avranno lo scopo di raccogliere nelle profondità marine la debole luce prodotta dalle particelle cariche, tipicamente muoni, a seguito delle interazioni tra i neutrini
e l’acqua. I sensori ottici saranno installati su alcune
centinaia di strutture meccaniche alte circa 1 km, anco-
Il doppio decadimento beta (DBD) è un decadimento radioattivo raro in cui un nucleo decade in un altro con stesso numero di massa. Il doppio decadimento beta può essere interpretato come il verificarsi di due decadimenti beta contemporanei. Qualora neutrino ed antineutrino non fossero particelle
realmente distinte, sarebbe possibile osservare un doppio
decadimento beta senza emissione di neutrini.
rate a 3500 m di profondità sul fondo marino e tenute in
posizione verticale da boe di profondità. Una rete di cavi
sottomarini permetterà di fornire direttamente
l’alimentazione elettrica da terra. I dati registrati dal
telescopio saranno inviati verso riva tramite fibre ottiche, in tempo reale. L’enorme massa del rivelatore, stiamo parlando di qualche migliaia di miliardi di chili, è
dovuta da un lato, al flusso relativamente debole dei
neutrini cosmici di alta energia e, dall’altro, alla loro
debole interazione con la materia. Tuttavia, gli strumenti saranno in grado di operare in sicurezza sotto il
limite di profondità dove arriva la luce solare, che è di
circa 1000 metri. Infatti, a queste profondità, il rivelatore può ancora essere illuminato dalla cosiddetta “luce
Cerenkov” (cioè radiazione elettromagnetica emessa dal
materiale quando le sue molecole vengono polarizzate
da una particella carica in moto che lo attraversa) dovuta ai muoni prodotti nei raggi cosmici secondari appena
emergono nell’atmosfera terrestre (se ne calcolano circa
10 miliardi per chilometro quadrato all’anno).
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C. Ruscica, KM3NET
Alla collaborazione internazionale partecipano Cipro,
Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Regno Unito, Romania, Spagna. La collaborazione italiana, finanziata e guidata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e da numerose Università (Bari, Bologna,
Catania, Genova, Napoli, Roma La Sapienza), ha condotto la fase preparatoria del progetto Europeo
KM3NeT. Inoltre sotto la sigla INFN “Nemo” (Neutrino
Mediterranean Observatory) la collaborazione conduce
dal 1998 un’intensa attività di ricerca per lo studio del
sito abissale di Capo Passero e lo sviluppo delle tecnologie sottomarine per la costruzione del rivelatore.
Il prototipo di un modulo del telescopio KM3NeT mentre
viene trasportato da Malta ad una distanza di 100 Km al
largo di Portopalo di Capo Passero.
L’architettura del telescopio è ottimizzata per osservare
i segnali dei neutrini di alta energia (maggiore di 1 TeV
= mille miliardi di elettron-Volt), provenienti dalle sorgenti astrofisiche caratterizzate da fenomeni esplosivi,
sia di origine galattica come i resti di supernova, sia di
origine extragalattica come i nuclei galattici attivi e i
cosiddetti lampi gamma.
Il Mediterraneo sembra essere un posto ideale per un
osservatorio di questo tipo anche perché è fornito di
acqua dalle eccellenti proprietà ottiche alle giuste profondità. Inoltre, bisogna ricordare che la posizione del
laboratorio è stata scelta per fare da complemento alle
osservazioni di un altro telescopio, chiamato IceCube,
che si trova al Polo Sud. KM3NeT avrà il compito di
monitorare gran parte del disco della Via Lattea, incluso il centro galattico, che risulta meno visibile dal Polo
Sud. Infine, lo strumento sarà in parte utilizzato per lo
studio della materia scura e sarà dotato anche di strumenti destinati alle scienze terrestri e oceaniche, per il
monitoraggio in tempo reale e a lungo termine degli
ambienti marini fino a profondità di qualche chilometro.
Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce
attività di divulgazione scientifica attraverso articoli e
conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens
dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia
alla fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo", "Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da
Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro
-edizioni .
G. Pappa, Comete SOHO
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LE COMETE SOHO, COSA SONO E COME SCOPRIRLE
Giuseppe Pappa
http://giuseppepappa.altervista.org
FIG. 1: La straordinaria sequenza di immagini della cometa C/2004 F4 (Bradfield) passata nel campo di vista del coronografo
LASCO C3 di SOHO tra il 16 ed il 20 aprile 2004.
L’astronomia è una scienza che offre una tale varietà di
fenomeni e di oggetti da lasciarci sbalorditi, ma anche
ampiamente soddisfatti per i risultati osservativi che si
possono conseguire, certamente impensabili fino a pochi decenni fa.
Ne hanno di che essere appagati gli astronomi non professionisti, per le loro scoperte di innumerevoli oggetti
celesti: asteroidi, supernove, comete, stelle variabili...,
scoperte che sempre più spesso non si fanno più al telescopio, bensì di fronte allo schermo del PC. Ad offrire
questa straordinaria opportunità ci hanno pensato la
NASA e l’ESA che, grazie all’Osservatorio solare SOHO,
http://sohowww.nascom.nasa.gov/, fig. 2, hanno permesso, a diverse decine di astrofili, tra i quali anche lo
scrivente, di scoprire comete semplicemente esaminando le immagini realizzate dall’Osservatorio SOHO e
distribuite sul web in tempo reale.
FIG. 2: Il Solar and Heliospheric Observatory (spesso
abbreviato in SOHO) è un telescopio spaziale lanciato alla
fine del 1995 per studiare il Sole. È un progetto congiunto
dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e della NASA. SOHO
orbita a 1,5 milioni di km dalla Terra, su di un ellisse che
ha in uno dei fuochi il punto lagrangiano L1. Ciò consente
a SOHO di mantenere una posizione costante relativamente a Terra e Sole.
Il telescopio SOHO studia molti aspetti del Sole con i
suoi 12 strumenti scientifici, ognuno dei quali è in grado di osservare indipendentemente il Sole o parti di
esso. In particolare, con GOLF (Global Oscillations at
Low Frequencies) misura la velocità e la variazione del
disco solare per analizzare il nucleo solare; con VIRGO
(Variability of Solar Irradiance) studia le oscillazioni del
disco solare e a bassa risoluzione, e via così con gli altri
strumenti di bordo.
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G. Pappa, Comete SOHO
FIG. 3: Schema dei tre sistemi ottici LASCO C1, C2, C3, (uno degli undici strumenti che compongono l’Osservatorio SOHO)
ognuno munito di coronagrafo, che registrano immagini in luce bianca della corona solare, con campi di vista rispettivamente da 1,1 a 3 raggi solari (LASCO C1); da 1,5 a 6 raggi solari (LASCO C2) e da 3,5 a 30 raggi solari (LASCO C3).
Crediti: http://lasco-www.nrl.navy.mil/
Il dispositivo che però maggiormente interessa i cacciatori di comete è LASCO (Large Angle and Spectrometric
COronagraph), fig. 3, principalmente dedicato allo studio della corona del Sole e del vento solare. E’ con questi
strumenti, C2 e C3, che sono state scoperte la maggior
parte delle comete, tra le quali le due spettacolari comete che si schiantarono sul Sole nel 1997.
Tipologia delle comete scoperte da SOHO
La stragrande maggioranza delle comete scoperte da
SOHO appartengono alle comete radenti “Kreutz”, dal
nome dell'astronomo tedesco Heinrich Kreutz (18541907), che per primo dimostrò la loro origine comune.
Esse sono caratterizzate da orbite che le portano estremamente vicine al Sole durante il passaggio al perielio.
Si ritiene che questa famiglia sia composta dai frammenti di un'unica grande cometa che si frammentò intorno al 2000 a.C.
Molti dei membri di questa famiglia sono diventati
grandi comete, occasionalmente anche visibili in pieno
giorno vicino al Sole. La più recente di queste è stata la
Cometa Ikeya-Seki nel 1965, probabilmente la più lumi-
nosa dell'ultimo millennio.
Finora, dalle immagini di SOHO, è stato possibile scoprire più di 2500 comete e, di queste, l’83% sono di tipo
“Kreutz”.
Le rimanenti appartengono ad altri gruppi:
“Kracht” (dal nome dell’astrofilo tedesco Rainer
Kracht), “Meyer” (dal tedesco Maik Meyer) e
“Mardsen” (dall’astronomo britannico Brian Marsden,
1937-2010, che fu a lungo direttore del Minor Planet
Center). I diversi gruppi si differenziano per le loro
“traiettorie” all’interno del campo inquadrato da SOHO.
Nelle figg. 4 e 5, una serie di immagini realizzate da LASCO C2 e C3 ci mostrano una caratteristica rilevante del
comportamento delle comete “Kreutz”. Queste, da gennaio fino a giugno, hanno un percorso in direzione del
Sole che si sposta dal settore di sinistra verso quello di
destra. In seguito, da agosto a dicembre, la rotta si inverte. Statisticamente si è visto che i mesi più prolifici
sono maggio-giugno e novembre-dicembre.
Nel 1967 Brian Marsden cercò di individuare la cometa
progenitrice del gruppo "Kreutz". Le comete del gruppo
presentano un'inclinazione orbitale praticamente identi-
G. Pappa, Comete SOHO
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FIG. 4: Il percorso di avvicinamento al Sole delle comete “Kreutz”, in queste immagini di LASCO C2, varia nel corso dei
mesi, in senso antiorario da gennaio ad agosto, che si inverte poi, in senso orario, da settembre a dicembre. Il numero di
comete “Kreutz” è statisticamente più elevato tra aprile-maggio e in novembre.
ca di circa 144° e valori molto simili di longitudine del
perielio, intorno a 280-282°, ma sembrano anche appartenere a due gruppi distinti, con i rimanenti elementi
orbitali solo leggermente differenti tra loro. Ciò implica
quindi che la famiglia “Kreutz” è il risultato di frammentazioni successive non avvenute a un solo perielio. La
maggior parte delle comete scoperte da SOHO sembrano appartenere al sottogruppo I di "Kreutz".
Si pensa che la distinzione in due sottogruppi indichi
che questi risultano da due comete genitrici, a loro volta
parte di un'unica cometa che si è frammentata in
un’epoca imprecisata, forse un paio di millenni fa.
Un’ipotesi abbastanza fantasiosa è che essa potrebbe
essere stata la cometa osservata da Aristotele e da Eforo
di Cuma nel 371 a.C.; quest'ultimo affermò di averla vista spezzarsi in due.
FIG. 5: In queste immagini prodotte da LASCO C3, dove è raffigurato il comportamento del
Gruppo “Kreutz”, mostra, nei
pressi del disco solare un punto
“luminoso barrato”: siamo in
presenza di un transito di un
pianeta, Mercurio. Una curiosità
è che SOHO, durante l’anno, può
riprendere i transiti degli otto
pianeti del sistema solare e degli
asteroidi più luminosi, Vesta e
Cerere. Il sito web SOHO fornisce un elenco dei transiti visibili
nel corso dell’anno: http://
sungrazer.nrl.navy.mil/
index.php?p=transits/transits
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G. Pappa, Comete SOHO
FIG. 6: In questa eccezionale immagine ottenuta con LASCO C3 il 15 maggio 2000, nel campo dello strumento
troviamo ben quattro pianeti, Mercurio, Saturno, Giove e Venere, oltre alla
Pleiadi.
Sembra assai più probabile che la progenitrice giusta
sia da cercare tra le comete che arrivarono tra il terzo e
quinto secolo della nostra era (in particolare, le comete
del 214, 426 e 467); si dovette trattare di un oggetto
molto grande, forse di oltre 100 km di diametro. Per
confronto, il nucleo della Cometa Hale-Bopp era di circa 40 km.
Il gruppo “Meyer”, scoperto dall’astrofilo tedesco Mayk
Meyer (fig. 7), a marzo di quest’anno, era composto da
181 comete di piccole dimensioni e magnitudini comprese tra la 6 e la 8. Esse, perciò, sono di solito visibili
nella camera LASCO C2 e, solo in alcuni casi, anche con
la camera C3. La traiettoria delle comete di questo
gruppo è indicata nelle immagini di figura 8: si spostano nel corso dei mesi da sinistra verso destra.
La cometa periodica 96P/Machholz ha probabilmente
dato origine al gruppo "Marsden", che prende il nome
dell'astronomo britannico Brian Marsden, deceduto nel
2010 (fig. 9). Il gruppo ha un periodo di circa 5 anni. Il
loro percorso, nelle immagini di figura 10, è da sinistra
verso destra tra ottobre e febbraio e percorso inverso
nei mesi tra marzo e settembre. L’orbita visibile si spoFIG. 7: Mayk Meyer, astrofilo tedesco, scopritore di decine
di comete SOHO e del gruppo di comete che porta il suo
nome.
sta in questi casi dal basso verso l’alto cosi come possiamo vedere nelle immagini sopra elencate. Le comete
fino ad oggi scoperte, appartenenti a questo gruppo,
sono 34. La 96P/Machholz appartiene alla famiglia della cometa di Halley ed è stata scoperta da Donald Machholz il 12 maggio 1986. È stata ripresa da LASCO C2 e
C3 nel 1996, nel 2002 (fig. 11) e nel 2007.
Anche il gruppo "Kracht" sembra legato alla periodica
96P/Machholz, avendo infatti un periodo di rivoluzione
pressoché identico. Esso fu scoperto dal tedesco Rainer
G. Pappa, Comete SOHO
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FIG. 8: Traiettoria delle comete del gruppo “Meyer” tra gennaio e novembre.
Kracht (fig. 12), uno dei più prolifici scopritori di comete
SOHO. Fino ad oggi si conoscono 37 comete appartenenti a questo gruppo (fig. 13). Ad esse si aggiungono
altre 4 comete facenti parte della famiglia "Kracht 2",
caratterizzate da un periodo di circa 4 anni.
Oltre alle famiglie sopra citate, vi sono comete definite
“non-group comets” che, sporadicamente, possono essere visibili in qualsiasi porzione del campo inquadrato
dagli strumenti di SOHO.
Come si scoprono le comete SOHO
Per scoprire comete SOHO sono necessari un computer
ed una connessione veloce al web, per poter scaricare le
immagini.
Alla
pagina
http://
sohowww.nascom.nasa.gov/data/realtime-images.html,
fig. 14 vengono caricate in tempo reale le immagini che
la sonda invia verso la Terra. Ogni immagine è contrassegnata dalla data e dall'ora in Tempo Universale. Selezioniamo dall’elenco il tipo di strumento (ad esempio
LASCO C2) e il numero di immagini da investigare e,
FIG. 9: Brian G. Marsden (1937-2010), astronomo
britannico, a lungo direttore del Minor Planet Center.
una volta salvate sul nostro disco fisso, possiamo iniziare la ricerca. Una tecnica semplice, usata normalmente
per la ricerca di qualsiasi corpo celeste in moto, è il blinkering: cioè confrontare due immagini successive e cercare gli eventuali spostamenti di un oggetto nel campo.
FIG. 10: Traiettorie delle
comete del “Gruppo Marsden”
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G. Pappa, Comete SOHO
FIG. 11: La cometa 96P/Macholz ripresa da SOHO l’8 gennaio
2002.
FIG. 12: Rainer Kracht ha scoperto, fino ad oggi, 255 comete SOHO ed ha dato il proprio nome ad una famiglia di
comete.
Nell’immagine di figura 15 abbiamo due comete riprese
dalla camera C3. Sono le n°999 e n°1000. L’ultima di
queste costituisce un traguardo importante, raggiunto
dal nostro Toni Scarmato, il più attivo ricercatore italiano in questo genere di ricerca.
Tra le immagini spesso capita di vedere degli oggetti che
possono trarci in inganno: in realtà si tratta di artefatti
delle immagini o di raggi cosmici. Questi artefatti, per
fortuna, si vedono in una singola immagini ma, affinché
possa essere convalidata la scoperta, la cometa deve es-
sere ben visibile in almeno 3 immagini C2 consecutive e
in almeno 4 consecutive in C3.
Cosa fare in caso di scoperta
Se, dopo aver scandagliato con attenzione le immagini,
scartati gli eventuali raggi cosmici e gli artefatti si trova
comunque riscontro, in almeno due immagini, di una
sospetta cometa, dobbiamo seguire le indicazioni del
format che ci propone il sito SOHO da utilizzare per inviare la segnalazione.
FIG. 13: Traiettoria delle comete
del
Gruppo
“Kracht”
G. Pappa, Comete SOHO
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FIG. 14: Schermata iniziale che
permette di accedere alle immagini prodotte dai diversi strumenti
SOHO.
La pagina esplicativa ed il format vanno letti e compilati
con
grande
attenzione:
http://
sungrazer.nrl.navy.mil/index.php?p=cometform
Un esempio del format da compilare è in figura 16.
Dopo aver inviato le prime segnalazioni per ottenere il
proprio nome nell’elenco, bisogna contattare Mr. Sungrazer ovvero Karl Battams, cioè colui che gestisce il
sito sungrazer della sonda SOHO.
Nell’icona potential comet si indichi che si sta segnalando una possibile nuova cometa. Qui sono presenti
altre caselle, nelle quali si possono aggiungere altre posizioni della possibile cometa o cancellare la segnalazione che abbiamo inviato prima nel caso in cui, come
spesso capita, non si tratti di una cometa.
Nella casella “Time” si inserisce l’orario solo del post
che si vuole cancellare, correggere o confermare su una
cometa segnalata da un altro osservatore.
La data viene riferita all’immagine mentre nella casella
delle camere viene scelto il tipo di osservatorio LASCO
utilizzato, ovvero il C2 o C3, e le dimensioni delle immagini.
La posizione degli assi delle x e y viene segnalato nella
casella successiva. Per quanto riguarda il modo di indicare la posizione dell’eventuale comete nell’immagine è
bene ricordare che il formato più utilizzato e che da il
maggior dettaglio è il 1024x1024. Ad esempio, per indicare la cometa, l’autore utilizza il programma Paint di
Windows, ma è evidente che si può utilizzare qualsiasi
programma grafico con riferimenti cartesiani. In questo
caso indichiamo l’origine, mentre la cometa la si posiziona nell’immagine secondo una coppia di valori x,y.
FIG. 15: le comete SOHO 999 e SOHO 1000, quest’ultima scoperta dall’italiano Toni Scarmato.
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G. Pappa, Comete SOHO
FIG. 16: Form da compilare per segnalare la possibile scoperta di una cometa SOHO.
Questi valori vanno successivamente inseriti nelle caselle seguenti insieme al “frame time”, cioè l’orario
dell’immagine che stiamo analizzando. La casella del
gruppo della cometa a cui essa appartiene serve a identificare la cometa tra le famiglie precedentemente illustrate. Nell’immagine di fig. 17, ottenuta da LASCO C2,
riporto l’immagine della mia prima cometa scoperta nel
2008 con la successiva conferma da parte di Rob Matson.
FIG. 17: Contornata dal quadratino, la cometa scoperta dall’Autore nel 2008 in un immagine LASCO C2.
Dopo la scoperta di questa cometa ne ho scoperta
un’altra alla fine stesso mese di maggio 2008. Altre le
ho segnalate con pochi istanti di ritardo, perdendo
quindi, per un soffio, il diritto al riconoscimento.
Nel corso degli anni ho avuto modo anche di confermare comete scoperte da altri osservatori e di aver creato
la lista dei transiti dei corpi celesti nel 2013 e 2014.
Non sono l’unico scopritore italiano di comete SOHO,
ma sono l’ultimo in ordine cronologico, fra i 5 italiani
che in totale hanno scoperto, fino ad ora, 38 comete.
Ecco l’elenco:
FIG. 18: L’astrofisico Toni Scarmato, l’italiano che ha scoperto il maggior numero di comete SOHO.
G. Pappa, Comete SOHO
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FIG. 19: Una straordinaria immagine della cometa
C/2014 Q2 Lovejoy, scoperta da Terry Lovejoy e ripresa da
Gerald Rheman in Namibia il 23 dicembre 2014 con un
astrografo da 12”, f/3.6.

Roberto Gorelli, che fu il primo scopritore di comete tra gli italiani, ne scoprì 2.

Toni Scarmato, il più prolifico scopritore italiano di
questo tipo di comete, con 25 scoperte all’attivo

Michele Mazzucato, 6 comete scoperte

Luciano Cane, 3 scoperte

L’Autore, con 2 scoperte.
Se diamo uno sguardo al resto del mondo, è doveroso
citare il primo scopritore di una cometa sul web, il famoso astrofilo australiano Terry Lovejoy conosciuto
anche per aver scoperto comete in modo più tradizionale, ossia con un telescopio. Diverse sue comete hanno
dato spettacolo come la Sungrazer C/2011 W3 visibile
nell’emisfero sud e, in questi mesi, l’ultima scoperta, la
C/2014 Q2.
Fig. 20: Terry Lovejoy, astrofilo australiano , scopritore,
tra l’altro, della cometa periodica SOHO, P/2007 R5. Nel
2007 ha ricevuto l’Edgar Wilson Award.
Lovejoy però è ricordato anche perché nel 1999 fu il
primo a scoprire una cometa dalle immagini telematiche della sonda; dopo di lui quasi cento astrofili amatoriali si sono cimentati nella scoperta di queste comete,
sparsi un po’ in tutto il globo.
Fra i più noti voglio ricordare Maik Meyer e Rainer
Kracht, dei quali abbiamo già parlato, in quanto scopritori di gruppi di comete SOHO. Poi, Michael Kusiak, Bo
Zhou, Masanori Uchina e Hua Su che hanno scoperto
diverse centinaia di comete. Una lista con tutti gli scopritori è qui: http://comethunter.lamost.org/SOHO/
rank.htm .
In questo articolo ho voluto dare indicazioni semplici e
concise su di un aspetto innovativo e non tradizionale
per la ricerca delle comete che, in questi primi anni del
nuovo millennio, ha dato grosse soddisfazioni a diversi
astrofili, anche italiani, regalando loro spettacolari
passaggi di comete luminose. Mi auguro che questo
articolo possa costituire un utile stimolo per far crescere l’interesse intorno alle comete SOHO e che quindi
la lista degli italiani, scopritori di comete, finalmente
si allunghi...
Giuseppe Pappa è nato a Catania nel 1987. Fin da giovanissimo si è appassionato di astronomia ed ora ha
all’attivo la scoperta di 2 comete SOHO ed invia le sue
osservazioni di comete a diversi siti astronomici internazionali. Negli ultimi anni ho affiancato alla passione per
l’astronomia, quella per la fotografia, in particolare scatti di paesaggi e cielo che ho raccolto nella mia pagina
web http://giuseppepappa.altervista.org . Giuseppe è
disponibile a rispondere ad eventuali quesiti legati al
contenuto di questo articolo; scrivetegli: [email protected]
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
METODO CHE USI, PIANETA CHE TROVI
(prima parte)
Sabrina Masiero e Riccardo Claudi
[email protected]
[email protected]
Abstract
Humans have long wondered whether other planetary
systems exist around the billions of stars in our Galaxy.
A generation ago, the idea of a planet orbiting a distant
star was still in the realm of science fiction. But since
the discovery of the first exoplanet orbiting a Sun-like
star in 1995, we have found thousands of them, with
the discoveries coming at a faster rate over time.
Over the past few decades, researchers have developed
a variety of techniques to spot the many planets outside
our Solar System, often used in combination to confirm
the initial discovery and learn more about the planet's
characteristics. Here is an explanation of the direct
methods used so far.
FIG. 1: Questa viene considerata la prima immagine di un
pianeta al di fuori del nostro Sistema Solare ottenuta nel
2005 dal Very Large Telescope dell'European Southern Observatory - ESO.
2M1207b è un pianeta con massa pari a cinque volte la massa di Giove a una distanza due volte quella di Nettuno dal
Sole e che ruota attorno alla sua stella compagna, la nana
bruna 2M1207.
Il sistema è stato studiato a lungo con osservazioni aggiuntive, sempre al VLT, misurando il moto apparente della nana bruna e determinandone in modo accurato la posizione
relativa del pianeta. Le osservazioni hanno portato a confermare che tale oggetto non è una stella di fondo ma risulta
legato gravitazionalmente alla stella, per il fatto che non vi
è alcun cambiamento nella posizione relativa tra i due oggetti su una scala temporale di un anno (che rappresenta il
periodo di osservazione). Solo su periodi di tempo molto più
lunghi sarebbe possibile vedere i due oggetti in orbita l'uno
attorno all'altra, data la grande distanza relativa.
Il sistema planetario si trova a 230 anni-luce di distanza
nella costellazione dell'Idra. L'immagine è stata ottenuta da
tre esposizioni nel vicino infrarosso (nelle bande H, K e L)
con il NACO montato al Telescopio Yepun di 8,2 metri di
diametro al presso l'Osservatorio Paranal dell'ESO in Cile.
Crediti: ESO.
Da sempre il genere umano si è chiesto se esistessero
sistemi planetari attorno ai miliardi di stelle della nostra
Galassia. Solo una generazione fa l’idea di un pianeta
orbitante attorno ad una stella lontana era ancora fantascienza. Ma dalla scoperta del primo pianeta extrasolare
attorno ad una stella di tipo solare nel 1995, di pianeti
extrasolari ne abbiamo trovato a migliaia, e il loro numero aumenta sempre di più col passare del tempo.
Nel corso degli ultimi decenni i ricercatori hanno sviluppato una serie di tecniche per individuarli, spesso utilizzate combinandole fra loro per confermarne la scoperta
e per imparare di più sulle caratteristiche dei pianeti al
di fuori del nostro Sistema Solare. Qui di seguito una
spiegazione dei metodi diretti utilizzati finora.
Introduzione
Un pianeta extrasolare (o esopianeta) è un pianeta che
non appartiene al nostro Sistema Solare, ma orbita attorno a una stella diversa dal Sole.
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Perché è importante lo studio dei pianeti extrasolari? Vi
è una duplice motivazione scientifica. Da una parte lo
studio dei pianeti extrasolari mette alla prova i modelli
teorici di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari
in un gran numero di sistemi extrasolari. Dall'altra, permette di quantificare la frequenza di pianeti con condizioni fisiche atte a sostenere la vita. Oltre alla motivazione scientifica, vi è anche l'aspetto tecnologico: l'osservazione di pianeti extrasolari richiede un notevole sforzo
di affinamento delle tecniche osservative in ambito astronomico (imaging, coronografia, spettroscopia ad
alta risoluzione, fotometria, interferometria, e altre ancora).
Fino al 1995, anno della scoperta del primo pianeta extra-solare attorno a una stella di tipo solare, non si conoscevano altri sistemi planetari al di là del nostro. Tale
scoperta ha rivoluzionato la visione che si aveva di un
universo largamente formato da stelle. Nell’ultimo ventennio, infatti, sono stati fatti notevoli progressi tecnologici e la ricerca, lo studio e quindi la caratterizzazione
dei pianeti extrasolari sono diventati uno degli obiettivi
principali in campo astronomico.
Numerose missioni spaziali, tra le quali Kepler della
NASA iniziata nel 2009, e missioni già in orbita (come
GAIA dell’ESA) o le molteplici in programma nei prossimi anni tra cui CHEOPS e PLATO dell’ESA, TESS e
JWST della NASA, potranno dare nuove risposte sulla
caratterizzazione dei sistemi planetari al di fuori del nostro.
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FIG. 2: Una rappresentazione artistica di PLATOPlanetary Transits and Oscillations of Stars dell’ESAAgenzia Spaziale Europea, il cui lancio è in programma per il 2024. Tale missione cercherà Terre e SuperTerre nella zona abitabile della loro stella, che rappresenta la regione attorno alla stella dove l’acqua si trova allo stato liquido.
CHEOPS-CHaracterising ExOPlanet Satellite il cui lancio è previsto per il 2017, è la prima missione dell’ESA
dedicata alla ricerca di pianeti in transito davanti alla
loro stella con fotometria di altissima precisione e la
prima di una possibile classe di piccole missioni
dell’ESA. CHEOPS farà un campionamento di un certo
numero di stelle luminose vicine al Sole, già note per
ospitare pianeti extrasolari, con lo scopo di caratterizzare meglio tali sistemi planetari. Anche TESSTransiting Exoplanet Survey Telescope della NASA, in
programma per il 2017, andrà a caccia di pianeti che
transitano davanti alla stella, in circa un milione e
mezzo di stelle della nostra Galassia.
Il JWST-James Webb Space Telescope della NASA, il
cui lancio è previsto per il 2018, è un osservatorio orbitante con molti programmi scientifici fra cui la possibilità di osservare spettroscopicamente i pianeti in
transito già noti, per analizzarne le nubi e le atmosfere. In particolare, il coronografo del JWST sarà in
grado di attenuare l’alta luminosità proveniente dalla
stella intorno a cui orbita il pianeta, e osservarne lo
spettro in modo da stabilire o escludere l’esistenza di
vita su quel dato esopianeta. Crediti: ESA.
Uno degli obiettivi è quello di vedere per via diretta i
pianeti, non solo i pianeti giganti, inadatti alla vita, ma
anche quelli di taglia terrestre, e scoprire i segni
dell’esistenza della vita sulla loro superficie. Un modo
potrebbe essere quello di riconoscere la presenza di vegetazione sulla loro superficie in linea di principio, da
un esame della luce che ci inviano.
Siamo sicuri di una cosa. La ricerca di pianeti simili alla
nostra Terra, come dimensioni e come giusta distanza
dalla loro stella, con eventuali forme di vita come noi la
conosciamo, è ancora estremamente lunga. Tale ricerca
è fortemente legata alla domanda, ancora senza risposta, se vi sono altre forme di vita nell’universo. Certamente, l’eventuale scoperta di altre forme di vita al di
fuori della Terra provocherebbe un profondo sconvolgimento della nostra attitudine verso il mondo.
Ciò che affascina e spinge in avanti la ricerca è sicuramente la possibilità di trovare un pianeta simile alla nostra Terra, alla giusta distanza dalla sua stella e con
l’acqua sulla sua superficie, in grado di ospitare una
qualche forma di vita.
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Inizialmente il ritmo delle scoperte dei pianeti extrasolari è stato lento, ma negli ultimi anni ha conosciuto un
grande aumento, passando dai 20 pianeti scoperti nel
2000 ai 189 nel 2011, fino ad arrivare a 850 nel 2014,
come si vede nel grafico di figura 3.
Fino ad oggi 1921 pianeti extrasolari sono stati confermati (fonte: www.exoplanet.eu ) e oltre 4175 candidati
pianeti, secondo le stime della NASA (http://
exoplanetarchive.ipac.caltech.edu/index.html ), la maggior parte dei quali sono stati individuati dalla missione
Kepler. Questi risultati hanno portato ad affermare che
la formazione di sistemi planetari risulta un fenomeno
strettamente legato alla formazione delle stelle e che la
presenza di pianeti extrasolari è un fatto comune
nell’universo. Infatti, l’osservazione di una grande quantità di sistemi planetari permette di iniziare a fare considerazioni di carattere statistico. I risultati più recenti
portano ad affermare che quasi tutte le stelle ospitano
pianeti. Abbiamo compreso, inoltre, come i modelli di
formazione basati sull’osservazione del solo Sistema
Solare fossero quanto meno parziali: i sistemi scoperti
hanno caratteristiche molto diverse da quelle del Siste-
ma Solare, tanto da richiedere un totale ripensamento
dei modelli di formazione planetaria.
Metodi per individuare i pianeti extrasolari
Individuare pianeti extrasolari è sicuramente un processo complesso. In primo luogo, la luminosità del pianeta
extrasolare è molto più debole di quella della stella. Il
rapporto tra la luminosità della stella e quella del pianeta nel visibile è in media dell’ordine di 109 (la stella è un
miliardo di volte più brillante) mentre è dell’ordine di
104 (la stella è diecimila volte più brillante)
nell’infrarosso. Tale contrasto dipende dalle caratteristiche fisiche della stella e del pianeta e, naturalmente,
dalla regione spettrale in cui vengono fatte le osservazioni.
In secondo luogo, la distanza tra stella e pianeta è molto
minore rispetto alla distanza tra il sistema binario stellapianeta e l’osservatore. La nostra tecnologia permette di
osservare fino qualche centinaia di parsec (dove un parsec è pari a 206 265 unità astronomiche), mentre la distanza stella-pianeta extrasolare è dell’ordine al massimo di qualche decina di unità astronomiche.
Fig. 3: Numero di pianeti extrasolari scoperti per anno dal 1988 ad oggi (settembre 2014). Il colore indica il metodo utilizzato
per rilevarlo. Blu: velocità radiale; verde chiaro: metodo dei transiti; giallo scuro: astrometria; rosso scuro: direct imaging;
microlensing: marrone chiaro. Crediti: Open Exoplanet Catalogue (2014-09-23).
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
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FIG. 5: La missione K2 è l’estensione della Missione Kepler della NASA iniziata nel 2009 e interrotta nel maggio 2013 a causa di
un guasto a una seconda delle quattro ruote di reazione di Kepler che aveva comportato l’impossibilità di uno stabile puntamento
dell’oggetto da studiare. La prima ruota, quella di scorta, si era guastata nell’estate del 2012. K2 è stata approvata nel maggio
2014 con altri due anni di finanziamento per continuare la ricerca dei pianeti extrasolari e per nuove osservazioni relative allo
studio di stelle giovani e vecchie in ammassi globulari oltre a galassie attive e supernove.
La sonda Kepler in questa sua “seconda vita” viene mantenuta orientata in modo quasi parallelo al suo percorso orbitale intorno
al Sole, un po’ fuori asse rispetto al piano dell’eclittica, il piano ideale su cui si muove il Sole. In questo modo K2 può mantenere
una data porzione di cielo nel suo campo di vista per un intervallo di tempo fino a un massimo di 83 giorni; trascorso questo periodo, la sonda viene ripuntata in un’altra direzione di cielo per evitare che la luce del Sole finisca nel telescopio.
Per bilanciare il telescopio in modo da renderlo sufficientemente stabile viene utilizzata la pressione dei fotoni provenienti dal
Sole per continuare a cercare pianeti in transito davanti alla loro stella.
La prima missione Kepler è stata un grande successo per la NASA: programmata per una durata di quattro anni, ha individuato
oltre 4 200 candidati pianeti attorno ad altre stelle di cui 978 confermati. Crediti: NASA.
Questo rende difficoltosa la misurazione della distanza
angolare tra stella e pianeta. La separazione angolare tra
stella e pianeta è così piccola che neppure i grandi telescopi professionali sono per ora in grado di risolvere il
pianeta. Per esempio, il semiasse orbitale di Giove, 5,2
UA a 10 parsec di distanza (equivalente a 32,6 anniluce) verrebbe visto sotto un angolo di soli 0,5 secondi
d’arco. Teoricamente, un telescopio professionale (per
esempio con uno specchio di 4 m, o anche meno) potrebbe risolvere il pianeta, ma quest’ultimo verrebbe a
trovarsi nell’ala della figura di diffrazione dello strumento, dove prevale il disturbo dei fotoni diffusi dalla
microrugosità dello specchio, dai sostegni dello specchio
secondario del telescopio, dalle variazioni di densità
dell’aria e dai moti atmosferici lungo la linea di vista.
Infine, la massa del pianeta extrasolare è molto piccola
se rapportata a quella della stella e pertanto il moto della stella attorno al centro di massa del sistema è difficilmente rilevabile. Basti pensare che se il rapporto tra le
due masse è pari a 1000, come si ha nel caso del Sole e
di Giove, allora l’orbita, gli spostamenti e la velocità della stella saranno 1000 volte più piccoli rispetto a quelli
del pianeta. La massa totale dei pianeti del nostro Sistema Solare rappresenta solo lo 0,2 percento della massa
del Sole. Di conseguenza, le perturbazioni gravitazionali
che il pianeta esercita sulla stella sono di piccola entità e
quindi difficilmente rilevabili.
Inoltre, durante il transito del pianeta l’attenuazione
della luminosità della stella è proporzionale al quadrato
del rapporto tra il raggio del pianeta e quello della stella.
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
FIG. 6: La stella HR 8799 è stata occultata al centro da un coronografo; intorno ad essa quattro pianeti in immagini riprese dai
Telescopi Keck, e Gemini con l’uso di ottiche adattive nel novembre 2008. I tre pianeti, denominati HR 8799b, c, d erano stati
fotografati ben undici anni prima, nel 1998, dall’Hubble Space Telescope, quando i ricercatori avevano analizzato, nel 2009, le
immagini di HST suggerendo che lo stesso Telescopio poteva aver fotografato altri pianeti extrasolari non ancora individuati
nelle immagini di archivio. Il quarto pianeta, denominato HR 8799e, fu scoperto sempre in modo diretto dai telescopi Keck due
anni più tardi. Dei tre pianeti osservati da HST sono stati calcolati i periodi orbitali: HR 8799b, più esterno, ha un periodo orbitale di 460 anni; HR 8799c di 190 anni e HR 8799d di 100 anni. Nell'immagine, il sistema HR 8799 con il suo sistema di pianeti b,
c, d, e indicati con i cerchi bianchi, nella bande 1,65 e 3,3 micron. Crediti: LBT, Andrew J. Skemer et al., First Light LBT AO Images of HR 8799 bcde at 1.65 and 3.3 Microns: New Discrepancies between Young Planets and Old Brown Dwarfs, arXiv:1203.2615.
Pertanto, minore è tale rapporto e più difficile sarà rilevare il transito.
Malgrado queste difficoltà, numerosi metodi sono stati
sviluppati e che si possono suddividere in due classi
fondamentali:
 I metodi diretti, che permettono di osservare direttamente il pianeta attraverso un sistema fotometrico o
di registrare lo spettro della sua atmosfera.
 I metodi indiretti, che si basano sugli effetti che un
eventuale pianeta genera sulla stella ospite. Questi
possono a loro volta essere suddivisi in metodi dinamici, microlensing e metodi dei transiti.
I metodi diretti
A questa categoria appartengono tutti i metodi, spettroscopici e fotometrici, che permettono di osservare direttamente il pianeta o la sua atmosfera. La grossa difficoltà di questo tipo di osservazioni è l’estrema debolezza
dell’emissione (ottica riflessa e/o infrarossa termica)
del pianeta rispetto a quella della stella centrale. Un
modo per ovviare è quello di scegliere opportunamente
la banda di lunghezze d’onda dentro la quale ottimizza-
re il sistema di osservazione. Infatti, grazie ai differenti
valori del contrasto di luminosità tra un pianeta e la sua
stella nelle diverse regioni dello spettro, si può riuscire
a guadagnare anche 5 ordini di grandezza nel contrasto.
Bisogna tener conto tuttavia anche degli effetti della
diffusione della luce causati dalle parti meccaniche dello strumento (per esempio, i sostegni dello specchio
secondario) e degli effetti indotti dai moti turbolenti
dell’atmosfera che provocano piccole variazioni nelle
traiettorie dei singoli fotoni. Il risultato è che la qualità
ottica del telescopio, o come si dice in termini tecnici, la
sua figura di diffrazione, viene degradata al punto che,
anche con lo specchio primario delle dimensioni giuste,
l’immagine del pianeta riprodotta nel piano focale risulterebbe confusa con i fotoni derivanti dalla stella.
Sono perciò importanti tutti gli sforzi tecnici tendenti a
migliorare le immagini sul piano focale del telescopio,
correggendo o riducendo gli effetti di degrado indotti
dalle sorgenti di luce diffusa e dall’atmosfera terrestre.
L’ottica adattiva, applicata ai telescopi dai 3,5 metri in
su, è una prima tecnica che permette di applicare un
metodo diretto. Essa modifica direttamente il fronte
d’onda della luce osservata. In particolare, con opportu-
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
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FIG. 7: Confronto tra le immagini del sistema Gliese 229 riprese dal Telescopio riflettore di 1,5 m a Monte Palomar (sinistra) e
dall’Hubble Space Telescope (destra). Queste immagini a falsi colori mostrano il primo oggetto più debole osservato orbitante
attorno ad una stella diversa dal Sole, e la prima rilevazione di una nana bruna. La nana bruna Gliese 229 b è in orbita attorno
alla stella Gliese 229 che si trova a circa 18 anni-luce di distanza da noi. La nana bruna ha una massa 20-50 volte quella di Giove
ma ha un diametro che è confrontabile con il gigante gassoso del nostro Sistema Solare, quindi risulta estremamente densa. Crediti: California Institute of Technology, Pasadena, CA, e the Johns Hopkins University, Baltimore, MD; T. Nakajima e S. Kulkarni
(CalTech), S. Durrance e D. Golimowski (JHU), NASA.
ni sensori, viene misurata la forma del fronte d’onda
(l’insieme delle traiettorie dei fotoni) della luce che ci
giunge da una sorgente in modo da capire quanto e
dove si discosti dalla forma ideale.
A quel punto, utilizzando una batteria di pistoni comandati da un calcolatore, si applicano in tempo reale, da dietro, punto per punto, la pressione opportuna
che modifica la forma dello specchio in modo tale che
la forma del fronte d’onda riflesso si avvicini il più
possibile a quella ideale.
In definitiva, il fronte d’onda riflesso, corretto dal sistema d’ottica adattiva, risulterà molto prossimo, come forma alla superficie di una sfera, essendo state
rimosse tutte o quasi le aberrazioni introdotte dalla
turbolenza dell’atmosfera. Il risultato è la diminuzione
del cerchio di confusione (l’immagine di una sorgente
puntiforme) che viene a formarsi sul piano focale. A
tal riguardo possiamo confrontare l’immagine del si-
stema binario della stella Gliese 229 (fig. 7) presa nel
vicino infrarosso con un riflettore di 1,5 m a Monte Palomar (sinistra) utilizzando un metodo di ottica adattiva e quella presa dall’HST- Hubble Space Telescope (a
destra) .
La stellina compagna è una nana bruna di una quarantina di masse gioviane. La risoluzione dell’HST è di
gran lunga superiore anche per via del maggior diametro, ma soprattutto per il fatto che, essendo in orbita,
elude le aberrazioni introdotte dall’atmosfera. Comunque, il risultato ottenuto con un piccolo strumento al
suolo, cui è applicato un sistema di ottica adattiva, non
è certo da disprezzare.
Una seconda tecnica che permette di applicare un metodo diretto è la coronografia ottica, tecnica che blocca
la luce della stella usando un particolare strumento
chiamato coronografo. Tale strumento può essere posto
internamente al telescopio oppure esternamente.
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
FIG. 8: Immagini nell’infrarosso del pianeta Beta Pictoris b ottenute nel 2003 (a sinistra), nel 2009 (in centro) e nel 2010 (a destra) che mostrano il moto del pianeta in un piano orbitale che è quasi visto di fronte per un osservatore terrestre. La stella madre si trova nella regione centrale, ma la sua luce è stata nascosta per evidenziare la presenza del pianeta (che ha una luce molto
più debole). Beta Pictoris b, circa quattro volte il pianeta Giove, si trova a 63 anni-luce di distanza dal nostro Sistema Solare in
orbita attorno alla stella Beta Pictoris, simile al nostro Sole ma molto più giovane, circa 12 milioni di anni (il nostro Sole per confronto ha 4,6 miliardi di anni). La stella è circondata da un enorme disco di materia, un sistema planetario giovane e molto attivo in cui gas e polvere sono prodotti dall’evaporazione delle comete e della collisione degli asteroidi. Quasi 500 le comete scoperte
in orbita intorno alla stella Beta Pictoris, appartenenti a due famiglie distinte di esocomete: le esocomete più vecchie, che sono
passate più di una volta vicino alla stella, e le esocomete più giovani, che derivano, probabilmente, dalla rottura recente di uno o
più oggetti più grandi. Beta Pictoris b ha una velocità di rotazione di sole otto ore, molto più veloce dei pianeti del Sistema Solare.
In particolare, il suo equatore si muove a quasi 100 000 chilometri all’ora. Per confronto, l’equatore di Giove si muove a una velocità di circa 47 000 chilometri all’ora, mentre la Terra a circa 1700 chilometri all’ora. L’orbita che descrive è a circa 8 volte la
distanza Terra-Sole dalla stella madre, diventando così il pianeta extrasolare più vicino a una stella di cui sia stata ottenuta
l’immagine in modo diretto.
Si prevede che vi sia una piccola possibilità del transito del pianeta davanti alla sua stella alla fine del 2017. L’evento sarà visibile
dalla Terra e sarà possibile fare misure molto accurate delle dimensioni del pianeta. Crediti: Lagrange, A.-M. et al. Science 329,
57–59 (2010) e Bonnefoy, M. et al. Astron. Astrophys. 528, L15 (2011).
La seconda modalità è possibile solo dallo spazio, usando un primo veicolo come telescopio ed un secondo,
posto a migliaia di chilometri di distanza dal primo,
come coronografo.
Con questo metodo si è individuato il pianeta Beta Pictoris b, attorno alla stella Beta Pictoris nell’ottobre
2008 (fig. 8).
il pianeta Fomalhaut b, con un periodo di rivoluzione
attorno alla propria stella Fomalhaut di 2000 anni, il
più lungo finora conosciuto, è stato individuato, sempre
con osservazioni coronografiche, dall’Hubble Space
Telescope (fig. 9).
Una terza tecnica che permette di applicare un metodo
diretto è quella interferometrica, utile nel caso in cui la
coronografia ottica diventa poco efficace, cioè nella
banda infrarossa media (tra i 60 e i 20 micron).
Così come il potere risolutivo di un telescopio migliora
all’aumentare del suo diametro, allo stesso modo il potere risolutivo di un sistema interferometrico migliora
quanto più aumenta la mutua distanza dei diversi telescopi. In un telescopio il potere risolutivo è dato dal
rapporto tra il diametro effettivo e la lunghezza d’onda
centrale della banda fotometrica di osservazione. In un
sistema interferometrico è la distanza tra i telescopi (la
base) che costituisce il diametro efficace del sistema e
quindi determina il potere risolutivo.
In questo caso, i fotoni emessi da una sorgente lontana
vengono raccolti da due o più telescopi a grandissima
distanza. I risultati vengono successivamente ricombinati per ottenere le figure di interferenza. La principale
applicazione è quella definita “nulling interferometry”
dove si elimina la luce proveniente dalla stella per concentrarsi su quella del pianeta. L’idea che sta alla base
di questa applicazione è lo sfasamento nella luce che
entra in uno dei telescopi generando un’interferenza
distruttiva nell’elemento centrale, ossia la stella. Questo
però non dovrebbe verificarsi per il pianeta extrasolare,
se presente, in quanto la sua posizione sarà leggermente sfasata rispetto alla stella, permettendone
l’individuazione.
L’interferometria è di grande interesse nella caratterizzazione diretta di pianeti extrasolari. Per esempio, è un
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
ASTRONOMIA NOVA
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FIG. 9: Questa immagine composita in falsi colori,
presa con Hubble Space Telescope, mostra il moto orbitale del pianeta Fomalhaut b. Sulla base di queste
osservazioni è stato calcolato un periodo orbitale di
2000 anni su un’orbita fortemente ellittica. Per i prossimi vent’anni il pianeta si troverà a transitare entro
una regione di detriti disposti intorno alla stella. Se
l’orbita del pianeta si trovasse sullo stesso piano di
questo anello, le polveri, il ghiaccio e i detriti di tale
anello potrebbero penetrare nell’atmosfera del pianeta
dando vita a vari fenomeni. L’applicazione della tecnica interferometrica la si nota nel cerchio nero al centro
dell’immagine che blocca la radiazione della stella,
permettendo di evidenziare la luce riflessa dall’anello e
dal pianeta. Le immagini sono state prese dallo Space
Telescope Imaging Spectrograph nel 2010 e nel 2012.
Crediti: NASA, ESA e P. Kalas/University of California,
Berkeley e SETI Institute.
metodo utile per escludere dei falsi positivi che sono un
problema frequente nella ricerca compiuta dal Telescopio Spaziale Kepler.
Vi possono essere, infatti, molti corpi che producono
dei segnali di transito, e quindi una diminuzione della
luminosità della luce della stella ma che non sono pianeti. Queste piccole eclissi che si evidenziano nella misurazione della luminosità nella curva di luce della stella potrebbero essere indicative della presenza di un pianeta che blocca la luce della sua stella.
Tuttavia, in alcuni casi, delle stelle binarie potrebbero
mimare perfettamente la stessa impronta nel segnale.
E’ stato possibile portare a termine osservazioni interferometriche con il Precision Astronomical Visual Observations (PAVO) al Center for High Angular Resolution
Astronomy (CHARA) Array del National Optical Astronomy Observatory (NOAO) per confermare la presenza
di un pianeta attorno alla stella Kepler-21 (denominata
anche HD179070). Il pianeta Kepler-21b è circa 1,6 volte il raggio della Terra e quasi 10 volte la massa della
Terra. Orbitando intorno alla sua calda stella ogni 2,8
giorni, ha una distanza di sei milioni di chilometri, quasi 10 volte più vicino di quanto lo sia il pianeta Mercurio dal Sole. La temperatura superficiale di Kepler-21b
si stima intorno a 1900 K, ossia circa 1630 °C .
La stella madre, HD 179070, si trova a 352 anni-luce di
distanza dalla Terra. E’ simile alla nostra stella, con una
massa di 1,3 masse solari, un diametro di 1,9 volte il
nostro Sole e la sua età, basata su modelli stellari, di
2,84 miliardi di anni.
FINE PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO
SEGNI DI VITA SU ALTRI PIANETI
ZONA ABITABILE
Il concetto di zona abitale considera la vita che utilizza
la chimica del carbonio ed usa l’acqua come solvente
per le reazioni chimiche come quella che ha una probabilità maggiore di originarsi e sopravvivere. La zona
abitabile è, infatti, definita come la regione di spazio
intorno ad una stella dove la temperatura superficiale
di un pianeta roccioso con atmosfera è tale da mantenere l’acqua liquida. Il pianeta deve essere roccioso perché è necessario avere un’interfaccia solida tra l’interno
del pianeta e l’atmosfera dove sia possibile raccogliere
l’acqua liquida.
Prima di entrare nel merito va fatta una considerazione
generale. Il concetto di zona abitabile è solo un concetto
di lavoro utile per la ricerca di vita in modo remoto (per
esempio, l’analisi spettrale delle atmosfere dei pianeti).
E’ sempre possibile l’esistenza di nicchie abitabili ben al
di fuori della zona abitabile.
Nel Sistema Solare, per esempio, il satellite di Giove,
Europa, ha probabilmente un oceano sotto la coltre
ghiacciata che ne caratterizza la superfice. Questo oceano potrebbe essere una nicchia di abitabilità al di fuori
della zona abitabile del Sole.
Il concetto fondamentale su cui si basa la definizione di
zona abitabile è la diluizione della radiazione stellare
con il quadrato della distanza. Il flusso (la quantità di
energia nell’unità di tempo che incide sull’unità di area)
ad una distanza d dalla stella è dato dalla relazione:
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ASTRONOMIA NOVA
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Rappresentazione artistica della zona di abitabilità di un pianeta extrasolare. Crediti: Petigura/UC Berkeley, Howard/UHManoa, Marcy/UC Berkeley.
dove L è l’energia totale emessa dalla stella nell’unità di
tempo (potenza). Da questa definizione, supponendo
che il pianeta si comporti parzialmente come un corpo
nero (nota 1), è possibile definire la temperatura di
equilibrio per valutare la quale occorre considerare la
frazione di energia che incidendo sulla superfice del
pianeta viene da questa riflessa (albedo, che si indica
con la lettera A). La definizione di albedo sarebbe in
realtà più complicata e comprenderebbe molti casi particolari legati alla geometria del corpo. In ogni caso
l’albedo dipende essenzialmente dalle caratteristiche,
sia geometriche che materiali, del corpo. Eguagliando la
quantità di radiazione assorbita dal pianeta (Fa(1-A)
RP2) a quella emessa dal pianeta in tutte le direzioni
come se il pianeta fosse un corpo nero (STeq4), dove S
è la superficie del pianeta (S=4RP2), possiamo ottenere
il valore della temperatura di equilibrio del pianeta alla
distanza a:
1/ 4
 Fa 1  A 
Teq  
 4 
La temperatura di equilibrio non è esattamente la temperatura che si ha alla superficie del pianeta ma è la
temperatura sulla superficie di un pianeta privo di atmosfera alla distanza orbitale a. La temperatura alla
superficie di un pianeta con atmosfera è regolata proprio da quest’ultima e dall’effetto serra che essa è in
grado di mantenere. Per esempio, per quanto riguarda
la Terra, la temperatura di equilibrio è di 255 K (circa 19°C) ma a causa della presenza dell’atmosfera e
dell’effetto serra viene innalzata di circa 30°C rendendo
la Terra abitabile (la temperatura media sulla superficie
terrestre è di 288 K o +16°C).
La presenza dell’atmosfera diventa perciò importante
poiché permette di avere un effetto serra che mantiene
la temperatura al di sopra del valore di congelamento
dell’acqua. L’effetto serra è dovuto all’interazione tra la
radiazione solare e l’atmosfera del pianeta. In altre parole, la radiazione proveniente dalla stella e che non
viene riflessa dall’atmosfera viene assorbita dalla superficie del pianeta che si riscalda. La superficie del pianeta, riscaldandosi, aumenta la sua temperatura ed emette nella zona rossa e infrarossa dello spettro elettromagnetico. La radiazione rossa e infrarossa vengono assorbite dalle molecole di alcuni gas, quali l’anidride carbonica, il metano e il vapore acqueo, oltre che da altri gas
prodotti dall’attività industriale umana presenti in atmosfera. Il risultato è un riscaldamento dell’atmosfera.
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
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Il satellite di Giove, Europa, è un mondo ghiacciato. Sotto la sua superficie si ipotizza la presenza di un oceano. Crediti: Ted
Stryk/Galileo Project/JPL/NASA.
L’efficienza di questo fenomeno dipende dalla quantità
di gas serra presenti nell’atmosfera che a sua volta è
regolata dai processi di equilibrio tra la produzione dei
gas serra (attività vulcanica, evaporazione, industrializzazione) e la loro rimozione dall’atmosfera
(precipitazioni). Questi fenomeni sono detti “cicli di
stabilizzazione del clima”. Sulla Terra il ciclo di stabilizzazione del clima principale è quello dei carbonati –
silicati. La zona abitabile è quindi una corona sferica
intorno alla stella la cui larghezza e distanza dipendono
dalla luminosità della stella, da come essa evolve nel
tempo e dalla composizione ed evoluzione
dell’atmosfera del pianeta. Il limite interno di questa
zona è la distanza a cui l’effetto serra è talmente efficiente nello scaldare l’atmosfera che tutta l’acqua presente sul pianeta evapora e lo strato invertente (lo strato atmosferico dove il vapore acqueo condensa, legata
all’inversione nell’andamento della temperatura atmosferica con l’altitudine) raggiunge un’altitudine dove la
radiazione stellare è in grado di ionizzare le molecole di
acqua, separandole in idrogeno e ossigeno.
L’idrogeno, essendo più leggero dell’ossigeno, sfugge
l’attrazione gravitazionale del pianeta e si perde nello
spazio. Il risultato netto è la perdita di acqua dal pianeta, come successe a Venere. Nel caso del Sistema Solare
il limite interno di distanza dovuto alla perdita di acqua
è a 0,95 UA (nota 2) . Il limite esterno è la distanza
dalla stella a cui l’effetto serra fallisce nel riscaldare la
superficie del pianeta al di sopra del punto di congelamento dell’acqua. Nel caso del Sistema Solare questa
condizione è rappresentata da Marte e il limite di
“massimo effetto serra” è a 1,67UA. Limiti simili possono essere definiti per tutte le stelle di tutti i tipi spettrali. Stelle più calde del Sole avranno la zona abitabile più
esterna, mentre stelle più fredde l’avranno più interna.
*********
Nota 1: Un corpo nero è un corpo che assorbe tutta
l’energia incidente. La radiazione emessa da un corpo
nero è detta radiazione di corpo nero e dipende dalla
temperatura del corpo nero. Un corpo nero ad alta temperatura emette uno spettro di radiazione con il massimo
di emissione nel blu – ultravioletto, mentre un corpo nero
a bassa temperatura emette nella parte infrarossa dello
spettro.
Nota 2: 1 unità astronomica (UA) è pari a
1.4960x1011m
LA SFIDA DELL’IMAGING DIRETTO
Al contrario dei metodi indiretti, l’immagine diretta permette di avere in una sola osservazione, se il campo di
vista dello strumento è grande abbastanza, l’immagine
del sistema planetario. La situazione in realtà sembra
semplice, ma non lo è affatto e, a complicarla, sono due
cose fondamentali: la risoluzione angolare del telescopio
e il contrasto di luminosità fra la stella e il pianeta.
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Anello di polvere intorno alla stella HR 4796A a 237 anni
luce di distanza dalla Terra, osservato nell’infrarosso dallo
strumento SPHERE (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch) montato al VLT-Very Large Telescope al
Paranal, Cile. Per maggiori informazioni : Pianeta, prego
sorrida! Media INAF: http://www.media.inaf.it/2014/01/17/
pianeta-prego-sorrida/ e Il lampione e la falena, Media INAF:
http://www.media.inaf.it/2014/06/04/il-lampione-e-lafalena/ . Crediti: ESO.
La prima è legata alla distanza della stella che vogliamo
osservare, a quanto è prossimo ad essa il compagno di
piccola massa che si vuole rilevare e al telescopio che si
ha a disposizione per l’osservazione. Infatti, considerando un sistema Solare posto ad una distanza di 10 pc
da un osservatore, se si vuole osservare Giove (5 UA dal
Sole) occorre che il telescopio sia in grado di apprezzare
una distanza angolare dal centro dell’immagine sul piano focale della stella di 5UA/10pc=0.5 arcsec. Un telescopio di classe 8 – 10 m avrebbe la potenzialità di risolvere il pianeta (ovvero la risoluzione angolare opportuna), ma trovandosi immerso all’interno
dell’atmosfera si trova a combattere con il fenomeno
del seeing che allarga la distribuzione dei fotoni sul piano focale. Sappiamo che esiste una soluzione a questo
problema che è l’uso di moduli di ottica adattiva che
correggono il fronte d’onda riportando l’immagine della
stella a dimensioni molto vicine a quelle dell’immagine
di diffrazione. Il problema è risolto? No, ora entra in
ballo la grande diversità di emissione di energia luminosa tra il pianeta e la stella, detta contrasto di luminosità. Il contrasto di luminosità tra la stella e il compagno può essere dell’ordine di 10-6 per pianeti giganti
con luminosità propria, cioè pianeti giovani che sono
ancora nella fase di contrazione gravitazionale e
all’inizio della sequenza di raffreddamento, ma può ar-
rivare a valori più bassi come 10-8, 10-9 per pianeti freddi che ormai riflettono solo la luminosità della stella.
Nel primo caso il contrasto sarà indipendente dalla distanza del pianeta dalla stella, mentre nel secondo caso,
dipenderà inversamente dalla distanza. Con questi contrasti i compagni di piccola massa a distanze interessanti dalla stella centrale (al di sotto delle 20 UA) si
perdono nel rumore dell’immagine della stella. Il problema e la sfida dell’immagine diretta è superare i limiti
imposti da queste problematiche trovando tecniche che
non solo permettano di sfruttare la risoluzione angolare
dello strumento (moduli di ottica adattiva), ma anche di
ridurre l’influenza dell’intensità del picco di luminosità
dell’immagine della stella (coronografia) oltre che di
rimuovere o controllare le fonti di rumore in modo da
riuscire a visualizzare le zone più vicine alla stella stessa, senza però cancellare il segnale del compagno. In
questo, l’uso di coronografi permette di ridurre il picco
di luminosità dell’immagine stellare.
Il problema è che per fare il loro lavoro comunque nascondono una porzione della parte più interna
dell’immagine. Minore è questa porzione, più il coronografo ci permette di arrivare vicini alla stella.
I coronografi non sono oggetti semplici da trattare perché il loro principio non si basa sui concetti dell’ottica
geometrica, ma su quelli dell’ottica fisica. Comunque
eliminato il picco di diffrazione non rimane che trovare
un modo efficiente per rimuovere o controllare il piedistallo di rumore.
Ogni sistema ottico, per quanto sia fatto bene, soffre
oltre che del rumore dovuto alla statistica dei fotoni al
rumore così detto delle “speckle”. Speckle è un termine
inglese che denota la formazione diimmagini sul piano
focale dovute all’interferenza fra due o più fotoni che
arrivano allo stesso momento all’imboccatura del telescopio. Le speckle possono essere, oltre che di natura
atmosferica, anche di natura strumentale causate da
imperfezioni nel materiale delle ottiche o nel loro allineamento. L’intensità di queste immagini spurie può
essere superiore al rumore statistico; la loro dimensione è dell’ordine delle dimensioni dell’immagine stessa.
La loro eliminazione o il loro controllo prevede tecniche
di osservazione e di riduzione dati che prendono il nome di “differential Imaging”, “speckle deconvolution”,
“angular differential imaging” ecc. Queste tecniche si
basano sulla caratteristica che le speckle hanno una
dipendenza nota dalla lunghezza d’onda e che la loro
posizione non cambia con la rotazione del campo di
vista di un telescopio altazimutale.
S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Finalmente, una volta eliminato questo rumore possiamo finalmente osservare il compagno nascosto. Quanto
a fondo riusciamo a spingerci? La risposta risiede nella
capacità di correzione dei moduli di ottica adattiva e
nella tecnologia di costruzione dei coronografi.
Quest’ultimi, riescono ormai ad arrivare a valori
dell’angolo di lavoro interno (Inner Working Angle)
minori di un decimo di secondo d’arco.
ASTRONOMIA NOVA
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Terra ed è classificata simultaneamente come una stella
 Doradus (variabile),  Bootis (stella A di popolazione I
povera di metalli) e Vega Like (che presenta un eccesso
IR dovuto all’emissione di polvere circumstellare).
L’età di questa stella è giovane ed è stata stabilita tenendo conto di una serie di argomentazioni che vanno
dal moto della stella, dalla sua posizione nel diagramma
colore magnitudine, alla età tipica delle stelle  Doradus
e  Bootis e la massa del disco della stella stessa. Consi-
Il sistema HR 8799 ripreso dal LBT-Large Binocular Telescope nell’ottobre 2011. Sono indicate con un cerchio verde
le posizioni dei vari pianeti (b, c, d, e) del sistema. Crediti:
LBT/Laird Close/University of Arizona.
IL SISTEMA HR8799
Fino ad oggi sono stati osservati con il metodo
dell’immagine diretta circa 50 pianeti extrasolari ma
solo in due casi sono stati osservati sistemi multipli:
Kepler 70 (b e c) e HR8799 (b, c, d ed e).
Kepler 70 è un sistema con due super terre in orbita
attorno a una stella che ha superato la fase di gigante
rossa.
Il sistema HR8799, è invece costituito da quattro pianeti giganti che risulta interessante perché, pur essendo i
quattro pianeti ancor più massicci dei pianeti gassosi
del nostro Sistema Solare, presentano un rapporto fra
le masse e le separazioni orbitali con valori simili a
quelli che si hanno per i pianeti giganti del Sistema Solare. La stella HR8799 (V342 Peg o HIP 114189) appartiene al tipo tipo spettrale A5 (stelle calde con T eff
dell’ordine di circa 9500 K) di sequenza principale
(classe di luminosità V), con una massa pari a circa 1,5
la massa del Sole e una luminosità un fattore 4,5 maggiore di quella solare. La stella è posta a 39,4 pc dalla
derando tutto ciò si ottiene una stima di 60 miloni di
anni con un intervallo di variabilità fra 30 e 160 milioni
di anni.
Il sistema HR8799 è stato osservato per la prima volta
con l’ottica adattiva montata al Telescopio Keck e al
Telescopio Gemini Nord, nella banda dell’infrarosso
vicino. Con queste osservazioni si sono trovati tre compagni, b, c e d, con evidenza di moto comune con la
stella.
Due anni dopo, nel 2010, è stato scoperto il quarto pianeta, HR8799e, più vicino alla stella di quanto non lo
fossero gli altri pianeti. Il contrasto fra la stella e i pianeti è dell’ordine di 10-5 che equivale a una differenza di
magnitudine di 12.
Questi pianeti sono abbastanza brillanti a causa della
loro giovane età, in particolare per la sorgente interna
di energia ancora attiva. La temperatura stimata
dell’atmosfera si aggira intorno ai 1000 K.
I semiassi maggiori dei quattro compagni di HR8799
sono compresi tra 14 e 67 UA. Le masse, stimate
dall’età (nota 1) variano nell’intervallo fra 5 – 11 MJ per
HR8799 b e tra 7 – 13 MJ per gli altri tre pianeti.
I limiti di stabilità dinamica del sistema pongono le
masse dei pianeti HR8799bcd al di sotto della massa
limite del bruciamento del deuterio (13 MJ, separazione
teorica tra corpi planetari e stellari) e il sistema è mantenuto stabile da interazioni risonanti fra i diversi pianeti.
Per quanto riguarda la massa di HR8799e molto probabilmente, si trova alla fine bassa dell’intervallo di variazione delle sequenze di raffreddamento che rappresentano l’evoluzione temporale dei corpi planetari. Tutti e
quattro i pianeti giganti sono collocati oltre la “snow
line” (nota 2) (a circa 3 UA nel nostro Sistema Solare e
a circa 6 UA per HR 8799).
Fin dalle prime osservazioni si è visto che il sistema
planetario, oltre alla presenza dei pianeti, era caratterizzato dalla presenza di tre componenti di disco di detriti.
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S. Masiero, R. Claudi, Pianeta che trovi
Rappresentazione delle orbite dei pianeti del sistema HR
8799 con indicati i loro periodi in anni terrestri. Crediti: NASA, ESA e A. Feild (STScI). Parte scientifica: NASA, ESA e R.
Soummer (STScI).
Le orbite dei pianeti di HR 8799 con sovrapposte le orbite dei
pianeti esterni del nostro sistema solare.
Le tre componenti sono riconoscibili come una cintura
di polvere calda (con temperature intorno ai 150 K) tra
le 6 e le 10 UA (analoga della cintura degli asteroide del
nostro Sistema Solare), seguita da una cintura larga di
polvere fredda (a temperature dell’ordine dei 45 K) tra
le 90 e le 300 UA, il cui limite interno è definito
dall’interazione con il pianeta più esterno.
Per ultimo è presente anche un alone esteso di piccoli
grani a circa 1000 UA a cui viene fatto risalire l’eccesso
infrarosso rilevato anche dal Telescopio orbitante infrarosso Spitzer. Lo scenario che si può estrapolare da
questi elementi è che malgrado la stella sia molto diversa dal Sole (che è una G2V con una Teff intorno ai 5700
K) e abbia una evoluzione molto più veloce di quella
della nostra stella, HR8799 mostra una architettura
delle sue zone esterne simile a quella della zona esterna
del nostro Sistema Solare.
**********
Nota 1: Dall’età, infatti, si può ricostruire in quale momento
della loro evoluzione o meglio della loro sequenza di raffreddamento si trovano e, valutandone la loro luminosità bolometrica dalla fotometria e dalla temperatura, dai modelli
teorici si è in grado di risalire al valore della massa.
Nota 2: Con il termine “snow line” (o linea del ghiaccio) si
intende la distanza dalla stella centrale oltre la quale si ha una
tempertura tale per cui si comincia la condensazione dei
ghiacci. per il Sistema Solare è circa 3UA. Questa distanza
dipende dalla stella, più è calda e luminosa più si pone distante.
Riccardo Claudi si è laureato in Fisica presso l’università
di Roma “La Sapienza” ed è ricercatore astronomo presso
INAF Osservatorio Astronomico di Padova. E’ responsabile
della collaborazione italiana a SPHERE; è stato responsabile e partecipa a GAPS (Global Architecture of Planetary
Systems) e si occupa dello studio delle atmosfere di pianeti
extrasolari. Tiene corsi di Planetologia Extrasolare presso le
scuole di Dottorato in Fisica e Astronomia delle tre università di Roma e dell’università di Padova.
Sabrina Masiero si è laureata e dottorata in Astronomia
presso l’Università degli Studi di Padova. Attualmente si
occupa della comunicazione del programma GAPS-Global
Architecture of Planetary Systems con lo strumento HARPS
-N montato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) per lo
studio e la ricerca dei pianeti extrasolari presso l’INAFOsservatorio Astronomico di Padova e la Fundación Galileo
Galilei-TNG a La Palma. E’ una degli autori del libro Astrokids - Avventure e scoperte nello Spazio, a cura di Laura
Daricello e Stefano Sandrelli edito da Scienza Express,
2014.
M. Cardaci, Corsi e ricorsi
ASTRONOMIA NOVA
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CORSI E RICORSI DEL SOLE
Massimo Cardaci
[email protected]
FIG. 1: L’astronomo cinese Gan De (IV secolo a.C.), fu il primo a
riconoscere nelle macchie solari dei fenomeni che hanno origine
sul disco del Sole.
Nel precedente articolo (Astronomia Nova n. 20) abbiamo iniziato il percorso alla scoperta della storia che sta
dietro lo studio delle macchie solari.
Ora, è proprio della natura intrinsecamente curiosa
dell’uomo che quando ci si trova di fronte a un nuovo
fenomeno, subito ci si chieda: come si ripete? Lo posso
prevedere? E’ stato sempre uguale?
La storia delle risposte a queste domande è quanto affrontiamo nel seguito di questo articolo.
Gli astronomi potevano scoprire qualche ciclicità nel Seicento (o prima)?
Solo in Oriente, e in particolare in Cina, il fenomeno
delle macchie sul Sole era stato annotato per secoli, offrendo la possibilità di ricavarne la ciclicità. Tuttavia,
pur in possesso di un’ampia messe di osservazioni, gli
astronomi orientali non rilevarono la periodicità del
fenomeno. Un risultato significativo fu raggiunto
dall’astronomo Gan De (fig. 1), autore del Trattato di
Astrologia astronomica (IV secolo a.C.), che era certo
che quelle macchie appartenessero al disco solare. In
Occidente si ebbe questa certezza solamente duemila
anni dopo, quando Galileo le osservò con il suo cannocchiale. Appena il fenomeno fu finalmente riconosciuto
come reale, giusto il tempo di dipanare la matassa sulla
sua posizione celeste di cui abbiamo parlato in precedenza, ed eccole lì che le quelle domande fecero capolino nella mente di tutti i ricercatori.
Fig. 2: Il pittore Donato Creti (1671 - 1749), a partire dal
1711, dipinse la serie delle “Osservazioni astronomiche” su
commissione del conte bolognese Luigi Marsili che ne volle
fare dono al papa Clemente XI per convincerlo dell'importanza per la Chiesa di un osservatorio astronomico. Il dono
permise di raggiungere lo scopo, poiché con il sostegno del
pontefice venne inaugurato poco dopo, a Bologna, il primo
osservatorio astronomico pubblico d'Italia. Ad assistere il
pittore, dal punto di vista dell’accuratezza scientifica, venne
chiamato Eustachio Manfredi che fece dipingere il Sole
(nell'immagine qui a fianco) pressoché privo di macchie.
Pagina 34
ASTRONOMIA NOVA
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M. Cardaci, Corsi e ricorsi
In effetti, il tempo perso a capire se le macchie erano
satelliti, alieni o quant’altro, giocò probabilmente un
brutto scherzo, perché di lì a poco quella che era una
abbondanza di attività solare divenne periodo di carestia.
Leggiamolo dal racconto di Eustachio Manfredi (16741739), primo direttore dell’Istituto delle Scienze di Bologna, che scriveva: “Abbiamo dopo quel tempo fatta
più volte diligenza per vedere se altra novità ci apparisse sul Sole.
Veramente egli pare che dopo i tempi del Galileo, e del
P. Scheiner primi discopritori delle macchie solari,
queste sempre in minor numero, e più di rado siansi
lasciate vedere. Intorno al 1625 ne comparivano alle
volte fin a 50 ad un tratto; e verso il mezzo del passato
secolo straordinaria cosa venia riputata ove nessuna o
poche ne avesse il Sole. Nei nostri tempi all’incontro
straordinaria apparenza si giudica quando ne abbia
pur una; come se cotesti spettacoli fossero consigliatamente mostri a quel secolo, che inventò lo strumento
per discoprirli”.
Egli si riferisce a quel periodo (1645-1715), noto come
Minimo di Maunder, in cui le macchie furono scarsissime. Per un certo tempo si ritenne che un tale minimo
fosse fittizio, ovvero semplicemente dovuto alla carenza
di osservazioni, ma poi si scoprì, grazie a riscontri
sull’ecosistema terrestre, che era reale: il Sole non aveva prodotto quasi più macchie!
Manfredi, che assistette il grande pittore Donato Creti
nella realizzazione della serie pittorica intitolata
“Osservazioni astronomiche”, gli fece disegnare il Sole
privo di macchie, così come gli era apparso a lungo in
quegli anni (fig. 2).
La Scoperta del Ciclo Undecennale
Si dovette attendere un tal Christian Horrebow (17181776), astronomo danese, per iniziare ad avere il sentore che la produzione di macchie solari doveva avvenire
con una ciclicità (fig. 3).
Ma, c’è il classico “ma…”
Il buon Christian, da fedele galileiano, ritenne che gli
elementi in suo possesso (per noi una mole di dati impressionante) non fosse sufficiente per pubblicare il
risultato, e così la sua giusta intuizione fu riscoperta,
accedendo alle note che egli apponeva alle osservazioni,
solo molto tempo dopo da Rudolf Wolf.
Nel mezzo del cammino di questa storia s’inserì Samuel
Heinrich Schwabe (1789-1875), il quale, appassionato
da sempre di materie scientifiche, un bel giorno decise
di comprarsi un piccolo telescopio rifrattore. Era il
1826.
Forse il modo più efficace di riassumere il personaggio
è quello fornitoci da Richard C. Carrington (1826-1875),
nella veste di Presidente della Royal Society, quando gli
venne assegnata la medaglia d’oro per gli studi effettuati sul Sole: “Dodici anni egli impiegò per raggiungere
una personale certezza, altri sei per darne la sicurezza
all’umanità e altri tredici ancora per convincere
l’umanità stessa della sua scoperta”.
Ma andiamo per ordine.
Su suggerimento di un amico (guarda che possono
combinare gli amici...), Schwabe puntò il suo piccolo
rifrattore da un metro di focale e di pochi centimetri di
diametro, verso il Sole, per seguire quel fenomeno un
FIG. 3: Il grafico delle osservazioni
dei gruppi mensili di macchie solari,
osservate da Horrebow tra il 1761
ed il 1776, mostra chiaramente un
periodo quasi - undecennale. Inizialmente, Heinrich Schwabe, decenni dopo, ne stimò una durata di
dieci anni.
M. Cardaci, Corsi e ricorsi
FIG. 4: Il rifrattore Fraunhofer di 6 piedi di focale—183
centimetri - acquistato da Heinrich Schwabe nel 1826 ed
installato sopra la sua abitazione a Dessau, in Sassonia —
Anhalt.
po’ trascurato che erano le Macchie Solari.
Poiché la cosa lo interessava, si comprò un secondo telescopio, sempre rifrattore, ma questa volta da 183 cm
di focale: inizia a essere qualcosa di serio (fig. 4).
Da quel momento, con una metodicità e costanza straordinarie, egli iniziò a osservare il Sole tutti i giorni.
Dopo 12 anni di osservazioni pubblicò i risultati sul periodico scientifico tedesco Astronomische Nachrichten.
In essi risultava già evidente la periodicità di comparsa
delle macchie, ma egli non vi aggiunse alcun commento.
Scarsa, per non dire nulla, fu la risonanza di questa
pubblicazione, nonostante l’importanza capitale della
scoperta. Comunque, dato che neanche lui ne era pienamente convinto a causa del, a suo parere, corto periodo di osservazione, decise di continuare le osservazioni
e pubblicare nuovamente qualcosa solo dopo aver raggiunto la certezza assoluta.
Egli s’impegnò pertanto con la consueta serietà e costanza per altri 5 anni. Nel 1843 si decise, oramai certo,
a scrivere nello stesso giornale un nuovo articolo sulla
sua scoperta.
Questa volta aggiunse esplicitamente, sebbene con molta modestia, ciò che i suoi conteggi gli avevano fatto
scoprire: nell’attività solare vi era una periodicità circa
TABELLA 1: Conteggio dei gruppi e delle macchie effettuato
da Schwabe tra il 1826 e il 1843. Vi sono riportati anche i
giorni senza macchie.
ASTRONOMIA NOVA
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undecennale.
La maniera semplice ma efficiente in cui pubblicò i suoi
risultati è meritevole di un particolare esame. Per ogni
anno dal 1826 al 1843 Schwabe fornì, oltre al numero di
gruppi presenti, anche il numero di giorni senza macchie e il numero di giorni in cui non fu possibile effettuare l’osservazione.
I dati sono riportati nella tabella 1, estratta da Astronomische Nachrichten del 1844.
Ma il nostro Heinrich non era famoso, e fu così che,
nonostante le suggestive conclusioni, anche questa pubblicazione non ebbe la giusta risonanza, anzi non ne
ebbe affatto. Ciò, se da una parte amareggiò Schwabe,
che già intuiva l’importanza e veridicità della scoperta,
dall’altra lo spinse a continuare ancora i suoi studi per
trovate prove ancora più schiaccianti. Si giunse così al
1851, anno che segnò per lui il momento del giusto riconoscimento dei suoi 25 anni di assidue osservazioni.
Infatti, in quell’anno, il noto astronomo e matematico
Alexander Von Humboldt (1769-1859), nel terzo volume del suo celebre Cosmos, pubblicò la prima tabella di
Schwabe, aggiornata però con i dati solari, non ancora
pubblicati, che poté avere dallo stesso Schwabe, in via
amichevole, fino a tutto il 1850; dati che confermavano
ciò che l’astronomo aveva già ampiamente supposto.
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M. Cardaci, Corsi e ricorsi
Il commento del grande von Humboldt costituiva un
riconoscimento che lo ripagava delle fatiche di oltre un
quarto di secolo di osservazioni solari : “I numeri contenuti nella seguente tabella non lasciano alcun dubbio, almeno per l’epoca compresa tra il 1826 e il 1850,
che le variazioni nel numero delle macchie solari si
riproducono con periodi di circa 10 anni, cosicché i
massimi cadono nel 1828, 1837, 1848 e i minimi nel
1833 e 1843.
Non ho potuto raccogliere una serie continua di osservazioni anteriori, perciò non sarà affatto scartata
l’ipotesi che la durata di questo periodo possa subire
delle variazioni”.
In seguito alla pubblicazione di Cosmos, improvvisamente il mondo scientifico si rese conto che una grande
scoperta era stata fatta, scoperta che, sebbene intuita
già ai tempi di Galileo e successivamente da Horrebow
nel 1776, aveva dovuto aspettare il 1851 per avere un
supporto adeguato di osservazioni. Finalmente il Sole
aveva un ciclo riconosciuto nella produzione delle macchie solari.
Ciclo sì, ma ogni quanto?
Eh, si fa presto a dire: c’e’ un ciclo solare!
Ben presto se ne accorsero tutti coloro che si cimentarono, dopo Schwabe, a studiare la novità.
Sì, perché tra osservazioni inconfrontabili (per differenza di strumentazione impiegata, trasparenza del cielo,
capacità visive e di registrazione degli osservatori - la
fotografia doveva ancora essere inventata), periodi di
minimo, e relativamente recente scoperta, capire quale
fosse veramente la durata del ciclo delle macchie divenne un vero grattacapo.
Ci pensò uno Svizzero a mettere un po’ d’ordine: Rudolf
Wolf (1816-1893), fig. 5.
Egli si pose il problema di come uniformare le osservazioni di macchie in modo da poterle rendere confrontabili. Pensa che ti ripensa, tirò fuori dal cilindro una relazione matematica tuttora utilizzata: i Numeri Relativi
di Wolf.
La formula in questione e stata, e continua a esserlo, di
notevole importanza sia per i suoi studi che per quelli
successivi. Infatti essa, permettendo di creare una scala
numerica esprimente il grado di attività del Sole, rendeva e rende più facile scoprire eventuali altri cicli sia a
periodo inferiore che superiore:
R = K (f+10g)
Fig. 5: Il rifrattore Fraunhofer di 80mm di diametro utilizzato all’Osservatorio di Zurigo da Rudolf Wolf per le sue
ricerche solari.
dove:
R, Numero Relativo delle macchie solari, ovvero
l’indice quantitativo dell’attività solare;
K é il coefficiente correttivo che dipende solo dallo strumento usato;
f sta per il numero totale di macchie osservate in quel
giorno;
g indica il numero di gruppi presenti contemporaneamente sul Sole nell’osservazione in questione.
Una precisazione importante: oggi il coefficiente K non
dipende più solo dallo strumento usato, ma anche dal
seeing ovvero dalla trasparenza e calma atmosferica
(peggiore è il seeing, maggiore è il valore del coefficiente) e dalle capacita visive dell’osservatore (K aumenta
col diminuire dell’acutezza visiva e dell’attenzione media ai particolari). Grazie a questa formula, applicata ad
una grande mole di dati, Wolf ricavò un periodo di 11,1
– 11,2 anni per il ciclo Solare. Ma non fu tutto: grazie ad
essa egli scoprì anche l’andamento asimmetrico del ciclo, per cui il tempo di ascesa al massimo è inferiore a
quello di discesa verso il minimo. Sembra che Wolf avesse già chiare le sue scoperte fin dal 1848 (o 1850 secondo altri): comunque esse furono pubblicate nelle
Astronomische Nachrichten del 1852.
Ci sono altri cicli?
Grazie ai Numeri Relativi di Wolf, molti ricercatori iniziarono a studiare la periodicità solare, e in particolare
cercarono se ci fossero altri cicli che si sovrapponevano
a quello undecennale, e che ne potessero spiegare
l’andamento variabile dell’intensità dei massimi.
M. Cardaci, Corsi e ricorsi
Tra i tanti che si cimentarono in questa doppia impresa
(consolidare il periodo undecennale e trovare altri cicli)
vorrei citare il nome di un personaggio di casa nostra,
poco noto ai non addetti: Luigi Taffara (1881-1966) che
lavorò a lungo all’Osservatorio di Catania.
Nel 1929 pubblicò nelle Memorie della Società Astronomica Italiana un dettagliato studio dal titolo:
L’Andamento dell’Attività solare dal 1877 al 1928. Qui
raccolse, analizzò ed effettuò numerose riduzioni di una
serie omogenea di osservazioni dirette e spettroscopiche, collezionate per 51 anni negli osservatori di Catania e Palermo.
Da tutto questo lavoro egli ricavò un periodo medio del
ciclo solare pari a 11,041 ± 1,17 anni. Tali ricerche interessarono molto l'astronomo americano G.E. Hale
(1868-1938), fig. 6, grande esperto solare, che le confrontò con le proprie ottenendo una notevole convergenza di risultati. Ma Taffara, oltre a questo risultato,
notò anche un altro aspetto notevole: "Un’altra particolarità interessante ... è che i massimi si presentano alternativamente più o meno accentuati, cosicché si potrebbe dire che fra due massimi accentuati corra un
ciclo di 22 anni circa".
Era un accenno a quel ciclo di 22 anni la cui scoperta fu
ufficializzata anni dopo, quando fu rivelata la natura
magnetica delle macchie.
Ci pensarono proprio G.E. Hale e i suoi collaboratori a
confermare l’ipotesi di Taffara. Essi avevano infatti notato che (in generale) le macchie presentano una polarità, e che questa polarità era differente (scambiata) nei
due emisferi del Sole.
Nel 1913, all’inizio del nuovo ciclo solare, Hale notò che
era avvenuta un’inversione di quella polarità. La notizia
fu pubblicata da Hale, F. Ellermann, S. Nicholson e A.
Joy solo nel 1918 nell’Astrophysical Journal, quando il
ciclo solare mostrò un numero sufficiente di macchie
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FIG. 6: Ritratto di
George Ellery Hale,
fondò l’Osservatorio
di Monte Wilson.
Nel 1889 costruì il
primo spettroeliografo e, nel 1908,
scoprì i campi magnetici nelle macchie solari.
per essere sicuri del fenomeno.
Sette anni più tardi, grazie a una quantità di materiale
ancora maggiore, l’inversione del campo fu confermata,
e con essa la presenza di un ciclo del campo magnetico
solare della durata di circa 22 anni (due cicli
dell’attività solare).
Cicli e spostamenti in latitudine
Mentre alcuni studiosi si cimentavano nella ricerca spasmodica del “numero perfetto” per la durata del ciclo
solare, altri posero la loro attenzione su altri fenomeni.
quali la velocità di rotazione e la distribuzione delle zone di comparsa delle macchie, in funzione della latitudine. Uno dei primi e più importanti studiosi in materia
fu Richard Christopher Carrington (1826-1875).
H.W. Newton nel suo libro Il volto del Sole ci dà una
sintesi del personaggio e della sua attività: “Richard
Christopher Carrington fu il tipico astronomo non
professionista dei tempi vittoriani, con sufficiente abilità, tempo e mezzi disponibili per gestire un piccolo
osservatorio privato [fig. 7], che produceva osservazioni pari a quelle delle migliori medie professionali
del tempo.”
FIG. 7: Una stampa che raffigura l'Osservatorio di Red
Hill, presso Reigate nel Surrey, di proprietà di R.C. Carrington; era dotato di due telescopi rifrattori dei costruttori
inglesi Troughton e Simms; il maggiore era uno strumento
per i passaggi di 12,7 cm di diametro, l'altro, un equatoriale
di 12 cm di diametro. Nel 1853 Carrington decise di dedicare l'attività dell'Osservatorio a due imprese: l'osservazione
diurna delle macchie solari e la produzione di un catalogo
stellare delle regioni estreme del cielo settentrionale.
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M. Cardaci, Corsi e ricorsi
La mole di dati che egli collezionò, e la qualità dei suoi
disegni furono straordinari.
È interessante notare il metodo da lui inventato per
ricavare con precisione le coordinate sul Sole delle macchie osservate.
Non possedendo un micrometro per quantificarle, egli
decise di utilizzare la deriva dell’immagine del Sole attraverso il campo visuale, quando il moto a orologeria
veniva fermato. Per far ciò inserì al fuoco principale del
suo telescopio due sottili asticelle d’oro incrociate inclinate a 45 gradi rispetto all’equatore celeste: quando
l’immagine telescopica del Sole attraversava il campo,
con un cronometro prendeva i tempi dei successivi passaggi, sulle righe formate dalle asticciole, del primo
lembo del disco, delle singole macchie e quindi del secondo lembo.
In base a tali tempi poi egli era in grado di dedurre prima le coordinate polari delle macchie (rispetto al punto
nord del disco), e poi, da queste, le coordinate sferiche
(latitudine e longitudine) delle macchie stesse.
Queste osservazioni richiedevano una grande abilità,
ma i valori ottenuti furono effettivamente paragonabili
a quelli delle misurazioni moderne.
Carrington scoprì così (era il 1858 o il 1859) che il Sole
non ruota come un corpo rigido, e che la velocità di rotazione varia con la latitudine. Le sue misurazioni furono in seguito perfezionate e pubblicate nell’opera
(1863) “Observations on the Spots on the Sun”, fig. 8.
Fig. 8: Frontespizio del lavoro di Carrington sulle macchie solari.
I risultati da lui trovati sono riportati nella tabella 2.
In particolare, la terza colonna rappresenta una sorta di
indice di affidabilità della misura, in quanto pesa il numero di eventi utilizzati per ricavarla, mentre l’ultima
fornisce i valori di spostamento delle macchie durante
la rotazione.
Da quest’ultima colonna egli dedusse che le macchie
comprese tra i 20° di latitudine Nord e Sud tendono a
muoversi verso l’equatore con una velocità di 1’ o 2’ al
giorno, e che, ma con moto più marcato, le macchie
comprese tra 20° e 30° di latitudine sia Nord che Sud si
dirigono verso i poli.
Riguardo a questi spostamenti egli suggerisce che appaiono in qualche modo legati al ciclo di undici anni.
Questi studi furono il preludio per la scoperta di un diverso tipo di ciclicità. Ma per questo dobbiamo lasciare
Carrington e concentrarci su un altro personaggio: Gustav Friedrich Wilhelm Spörer (1822-1895), fig. 9.
Mentre Carrington aveva scoperto che la fascia in cui le
macchie compaiono ha delle variazioni di posizione
durante il ciclo, variazioni non meglio precisate, egli
non solo precisò tali movimenti, ma ne trasse anche
una legge (Legge di Spörer), che e tuttora valida.
La legge cui giunse dice cosi: “Nella fase di transizione
tra il vecchio ciclo e il nuovo vi sono due regioni in cui
TABELLA 2: Nuove e più precise misure di Carrington sul periodo di rotazione solare in funzione della latitudine.
M. Cardaci, Corsi e ricorsi
FIG. 9: Ritratto
fotografico di Gu-
stav
Friedrich
Wilhelm Spörer .
compaiono le macchie: una, con le macchie del ciclo
che va scomparendo, centrata sull’equatore solare;
l’altra, con le macchie del nuovo ciclo, posta a 30°-35°
di latitudine sia Nord che Sud.
Questa fase finisce con la scomparsa della fascia equatoriale: il nuovo ciclo è iniziato.
Col procedere del ciclo le due fasce si vanno progressivamente avvicinando all’equatore solare finchè,
all’epoca del massimo, si estendono circa dai 7° ai 18°
sia Nord che Sud. Si può facilmente notare come in
questa fase le due fasce si siano notevolmente allargate.
Nel successivo periodo di discesa verso il minimo di
attività, che come abbiamo visto nei precedenti capitoli è più lenta dell’ascesa al massimo, si ha un ulteriore
avvicinamento all’equatore e una diminuzione
dell’estensione in latitudine delle fasce, fino a che, raggiunto il periodo immediatamente precedente a quello
di transizione, ovvero il minimo, esse si uniscono a
formare un’unica zona, centrata sull’equatore, di circa
10° di ampiezza. Quindi il processo ricomincia.”
Conclusioni
Con l’analisi e la scoperta delle prime periodicità e delle
caratteristiche cicliche del fenomeno si erano poste le
basi per una migliore teoria del fenomeno.
Dall’armonizzazione delle misure alla scoperta della
natura magnetica delle macchie, iniziavano a esserci
degli sprazzi di comprensione. Passi fondamentali per
arrivare a penetrare un po’ meglio questo fantastico
evento solare.
Molte altre sorprese tecniche e scientifiche ci aspettano,
ma questa è un’altra storia, che vedremo prossimamente.
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BOX: Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero?
Questo articolo è tratto da una collana di 14 volumetti
dal titolo “Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”.
Si tratta dell’avvincente storia della scoperta delle Macchie Solari. Una storia di uomini e idee lunga 3000 anni. Ciascun volumetto copre un tema specifico: dalle
osservazioni pre-telescopiche, ai cicli e rotazione, dalle
prime scoperte scientifiche alla fotografia e cinematografia solare, dalla nascita della moderna fisica solare
all’influenza sull’ecosistema Terrestre.
Al fianco di tantissimi personaggi poco noti, ma non
per questo meno importanti, ci sono anche alcune
“monografie”: Istituto delle Scienze di Bologna, Galilei
e Scheiner, Secchi, Hale.
Monografie con alcune interessanti sorprese che aprono la strada a una rilettura diversa di alcuni eventi storici. I volumetti, frutto di numerosi anni di ricerca, sono
in formato E-Pub, e sono venduti con ricavato interamente versato in beneficenza (www.edc-consulting.org
– Sezione “Storia Macchie Solari” – da cui si possono
anche liberamente scaricare le anteprime).
Massimo Cardaci nasce a Roma nel 1966. Completati gli
studi secondari classici e la laurea in Fisica, è entrato nel
mondo del lavoro dalla porta del terziario avanzato. Lavora attualmente come manager nel settore Spazio per una
Multinazionale di Servizi. Ha pubblicato un saggio sui sistemi di Governance Aziendali Etici (“La Terza Strada: una
storia di Principi, Maestri e Cappellai”), un testo sul Time
Management (“Mi cambierebbe 25 minuti?”) e una serie di
14 volumetti (“Macchie sul Sole? Stai scherzando, vero”)
sulla storia della scoperta delle Macchie Solari. Ha anche
scritto diversi articoli a tema management, tecnologia e
sicurezza informatica. Si interessa di giardinaggio, cucina
e fantascienza, accompagnati dalla passione per la corsa e
da un costante impegno nel volontariato.
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G. Pappa, Fotometeore
LE FOTOMETEORE
Giuseppe Pappa
http://giuseppepappa.altervista.org
FIG. 1: Giochi di luce
sulle gocce d'acqua,
polvere o cristalli di
ghiaccio nell'atmosfera producono spettacoli visivi - arcobaleni, aloni, corone e
molto altro. Alcuni
effetti possono essere
visti quasi ogni giorno, altri una volta
sola nella vita.
L'atmosfera che ci sovrasta e che condiziona la nostra
vita, non solo quotidiana, è spesso ricca di fantasmagoriche nubi e presenta colori che si stemperano in mille
sfumature, regalandoci così spettacoli affascinanti ai
quali, spesso, purtroppo, non degniamo alcuna attenzione.
E’ negli stati più bassi di questa massa d’aria, che chiamiamo troposfera, che si verificano i fenomeni di cui
parleremo in questo articolo. Diamo però qualche ulteriore informazione generale. La troposfera contiene
l'80% della massa gassosa totale ed il 99% del vapore
acqueo. L'aria della troposfera è riscaldata dalla superficie terrestre ed ha una temperatura che diminuisce
con l'altitudine fino ai circa −55 °C della tropopausa.
L'aria degli strati più bassi, che tende a salire, genera
grandi correnti convettive da cui hanno origine venti
equatoriali costanti, il resto della circolazione atmosfe-
rica e le perturbazioni atmosferiche. Il suo spessore è
variabile a seconda della latitudine: ai poli è spessa mediamente 8 km mentre 20 km all'equatore. La pressione atmosferica decresce con l'altitudine secondo una
legge in prima approssimazione esponenziale; oltre i 7–
8 km di quota la pressione è tanto bassa che non è più
possibile respirare senza l'uso di maschere collegate a
bombole di ossigeno.
La parola troposfera deriva dal greco e significa
"variazione, cambiamento" proprio perché all'interno di
questa sfera si trovano tutti quei moti d'aria verticali e
orizzontali che rimescolano l'atmosfera stessa e che
caratterizzano il mutevole tempo atmosferico. Spesso
nella troposfera si manifestano fenomeni luminosi con
colorazioni inusuali, prodotti dalla rifrazione, riflessione e diffrazione della luce solare o lunare: le fotometeore (in inglese: atmospheric optics), fig. 1.
G. Pappa, Fotometeore
Secondo la terminologia astronomica, una meteora viene definita un meteoroide nel momento in cui sta solcando l’atmosfera del nostro pianeta. Per intenderci, si
tratta delle “stelle cadenti”, che brillano lasciando una
scia luminosa nel cielo, visibile di notte e causata
dell’attrito provocato durante il passaggio violento negli
strati dell’atmosfera.
In ambito meteorologico, invece, con il termine meteora si intende, più in generale, un fenomeno, anche luminoso, che si manifesta nella libera atmosfera o sulla
superficie terrestre. In questa categoria rientrano le
fotometeore: l'arcobaleno, i miraggi, i pareli, l'“ombra
della terra”, i “raggi anti crepuscolari”, ecc.
In particolare, in questo articolo, documenteremo le
fotometeore che si potrebbero vedere nel corso di una
singola giornata (ovviamente fortunata dal punto di
vista meteo!), dall'alba alla notte, tralasciando però di
parlare delle aurore boreali, di solito invisibili alle nostre latitudini.
Quando l’oscurità della notte volge al termine e le ultime stelle sono flebili lucciole nel cielo ed il chiarore
dell’alba lentamente aumenta, potremmo vedere due o
tre fotometeore. La direzione dell'osservazione è quella
opposta al sorgere del sole, verso ovest: si tratta della
“cintura di Venere” o “belt of Venus”, e della cosiddetta
“ombra della Terra” o, in inglese, ”Earth shadow”. Entrambi i fenomeni sono visibili sia all’alba sia al tramonto.
La "cintura di Venere", un banda rosata che si estende
sopra l'orizzonte fino ad un'altezza di circa 10°-20°, è
FIG. 2: Bella immagine della “cintura di Venere” che presenta un’accentuata tinta rosata e che sovrasta lo strato più
scuro della “Earth shadow”.
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FIG. 3: Raggi anticrepuscolari che sembrano irradiarsi da
un unico punto, l’antelio; in realtà i raggi sono tutti paralleli.
prodotta dalla retrodiffusione della luce arrossata del
Sole mentre sorge o tramonta. Spesso il bagliore è separato dall'orizzonte da uno strato di colore assai più scuro, noto come "segmento scuro", causato dall'ombra
della Terra. In fig. 2 sono ben visibili entrambi i fenomeni: l’ombra della terra, la banda scura prossima
all’orizzonte sovrastata dalla banda rosa, detta "cintura
di Venere".
All'alba, in direzione opposta al sorgere del sole, potremmo vedere anche i cosidetti “raggi anticrepuscolari”, fig. 3, un'insieme di striscie colorate parallele all'orizzonte e vicine ad esso, accompagnate generalmente da una colorazione del cielo violetto scuro o
rossastra. La loro caratteristica è l’illusione per cui sembra che i raggi luminosi si irradino da un unico punto,
mentre in realtà essi sono paralleli fra loro. Tutto ciò è
dovuto ad un effetto ottico e il loro illusorio punto di
irradiazione viene detto “antelio”.
Il Sole sta sorgendo e, con esso, si rendono visibili altre
fotometeore.
Pochi istanti prima del suo sorgere potremmo vedere,
(con molta fortuna!), una difficile fotometeora: il raggio
verde o “green flash”. Poiché però il fenomeno risulta
difficile da osservare, la sua descrizione la faremo più
avanti, collocandolo tra quei fenomeni visibili al tramonto. A questo punto, se ci troveremo in un luogo aperto e senza ostacoli, il Sole potrà stupirci, come nella
foto di fig. 4, in cui sembra emergere maestosamente
dal mare.
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G. Pappa, Fotometeore
FIG. 4: Il sorgere del Sole.
Continuando a levarsi sull’orizzonte, il Sole può essere
oggetto di un'altra particolare fotometeora, il cosiddetto
“Sole a omega”, così definito, appunto, per la sua somiglianza alla lettera greca “Ω”.
Questa fotometeora può modificare talmente tanto
l’aspetto sferico del sole da storcerne la forma quasi a
farlo assomigliare ad un vaso etrusco, come ben si vede
nelle foto delle figg. 5-6.
Il “Sole a Omega” è un miraggio "inferiore". Un miraggio si verifica quando i raggi solari subiscono una riflessione totale.
Avremo due casi: un miraggio inferiore, appunto, ed
uno superiore. Si ha un miraggio inferiore se gli strati
di aria più prossimi al suolo sono molto più caldi rispetto agli strati superiori. In tal caso l'indice di rifrazione
dell'aria calda è minore di quello dell'aria fredda, per-
tanto un raggio proveniente da oggetti relativamente
lontani viene riflesso totalmente verso l'osservatore che
quindi osserverà una immagine capovolta e posizionata
al di sotto dell'oggetto originale dando l'effetto che vi
sia una pozzanghera che consente all'oggetto di specchiarsi.
Miraggi più spettacolari sono quelli superiori, prodotti
da una inversione di temperatura all'altezza degli occhi
dell'osservatore; l'immagine allora apparirà riflessa superiormente: sarà così possibile vedere navi capovolte
in lontananza. In questo caso, gli strati d'aria a contatto
col suolo devono essere molto più freddi di quelli al di
sopra degli occhi dell'osservatore. Così si produrrà una
riflessione totale che consentirà di vedere riflessi in cielo oggetti molto lontani o addirittura ancora al di là della linea dell'orizzonte (figg. 7-8-9).
FIG. 5-6: Il “Sole a omega”, fotometeora che lo fa assomigliare ad un vaso etrusco capovolto.
G. Pappa, Fotometeore
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FIG. 7: Miraggio sulle coste siracusane, si noti l’inversione delle luci dovute al miraggio inferiore.
In una categoria a sé stante collochiamo il fenomeno
della “Fata Morgana”, così chiamato anche in inglese, e
che prende il nome dalle vicende mitologiche celtiche
della fata che ingannava i marinai tramite apparizioni
illusorie di castelli e villaggi. Esso è molto frequente
nelle zone dello stretto di Messina. Il fenomeno quindi
risulta essere una somma tra miraggio superiore e inferiore, formando pinnacoli e colonne di città lontane
sull’orizzonte.
Quando il Sole è alto sull'orizzonte, un casuale passaggio di nuvole che lo coprono ci permetterà di vedere
un'altra fotometeora: i “raggi crepuscolari”, (fig. 10).
Essi sono più luminosi dei raggi anticrepuscolari di cui
abbiamo parlato prima perché sono dovuti alla retrodiffusione delle particelle che colpiscono l’atmosfera e sono visibili nella stessa direzione in cui osserviamo il
Sole. Sono visibili poco prima dell’alba o, durante la
giornata, al passaggio di una nuvola davanti al sole,
oppure quando il Sole si nasconde dietro una montagna
o dietro un ostacolo molto lontano.
Quando il Sole invece è moderatamente alto
sull’orizzonte è possibile vedere i “pareli" o "sundog”,
(figg. 11,12), un fenomeno noto già ai tempi dei greci e
dei romani. Il nome deriva dal greco e significa: “presso
il Sole”, mentre il termine anglosassone significa "cani
compagni del Sole". Sono immagini che si formano tipicamente alla distanza di circa 22° dal disco solare, spesso in coppia e ai lati del Sole. Un parelio sarà quasi certamente visibile se in atmosfera stazionano cristalli esagonali di ghiaccio, tipici dei cirri, di dimensioni inferiore al millimetro che diffrangono la luce.
Il parelio può presentare una porzione allungata a forma di arco; questo perché possiamo considerarlo come
una parte di un’altra fotometeora detta “alone solare”,
(fig. 13), visibile quando il Sole è abbastanza alto
sull’orizzonte e anche in questo caso la presenza di una
FIGG. 8-9: Miraggi sulle coste ioniche in cui sembra anche apparire una nave fantasma
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G. Pappa, Fotometeore
FIG. 10: Raggi crepuscolari sopra una distesa infinita di mare, dovuti all’oscuramento del sole da parte delle nubi.
gran quantità di cristalli di ghiaccio esagonali in atmosfera garantisce la possibilità di vedere un alone attorno
al sole distanziato di 22° dal disco solare. Attorno
all’alone si possono sviluppare anche delle particolari
strutture che si formano in base ai movimenti dei cristalli di ghiaccio che formano altri aloni o parziali detti
“archi tangente”.
Un rapido cambiamento delle condizioni meteo, con
l’arrivo di un gruppo di altocumuli trasparenti, può pro-
durre il fenomeno della “corona solare” (fig. 14): attorno al disco Sole si formerà un anello con un diametro
minore rispetto all’alone.
Una corona solare è costituita da una serie di cerchi
colorati che possono raggiungere un'estensione fino a
10°. Gli anelli avranno i colori dell'iride, con il rosso
verso l'esterno, a differenza degli aloni che hanno il
rosso all’interno. Le corone si possono formare in ogni
stagione ed in ogni luogo.
Le “iridescenze” (fig. 15) hanno un'origine simile alle
corone ed agli aloni, essendo prodotte in presenza di
cirri o altocumuli ricchi di microscopici cristalli di
ghiaccio o goccioline d’acqua che diffrangono la luce e
colorano letteralmente le nubi attorno al Sole. I colori
predominanti sono il verde e il rosa, spesso con sfumature "pastello".
L’arcobaleno è la fotometeora più affascinante che si
può osservare quando la luce del Sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’aria dopo un
temporale. Visivamente è un arco composto da sette
colori principali: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto, con il rosso all’esterno e il viola
nella parte interna. Gli arcobaleni più spettacolari possono essere osservati quando metà del cielo è ancora
FIG. 11: Uno straordinario parelio apparso il 20 dicembre 2011 in Mongolia.
G. Pappa, Fotometeore
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FIG. 12: Un pittore anonimo del Seicento ha raffigurato, in
questo dipinto ad olio, un’intero campionario di fotometeore
osservate quasi un secolo prima (nel 1535) nel cielo di Stoccolma: parelio, aloni, aureole.
fenomeni quali il “doppio arco” o “archi soprannumerari”. Nel primo caso comparirà un secondo arco con un
angolo di 53° e una luminosità del 43% in meno rispetto
all’arco primario e tra i due archi è possibile vedere una
zona più scura denominata “banda di Alessandro” (da
Alessandro di Afrodisia, filosofo greco che per primo la
descrisse), fig. 16. L’altra variante molto interessante è
la presenza di archi soprannumerari nell’arco primario.
Perché possa essere visibile le goccioline d’acqua devono
avere dimensioni minori di 0,5mm.
L’arcobaleno, per il suo aspetto impalpabile e prodigioso, nei tempi antichi, è stato considerato una vera e propria manifestazione della divinità: così nella Grecia classica era Iride, la messaggera di Zeus, il tramite fra le
divinità o tra il mondo degli uomini e quello degli immortali.
scuro per le nuvole di pioggia e l’osservatore si trova in
un punto con sopra il cielo sereno.
In casi più rari è possibile assistere a più arcobaleni,
tipicamente due, di cui uno appare bianco e più attenuato. Perché un osservatore possa vedere un arcobaleno, il Sole deve essere alle sue spalle e ad un’altezza inferiore ai 42°, mentre sta piovendo: l’angolo di riflessione della luce si attesta intorno ai 40°-42°; la dimensione delle goccioline d’acqua influisce sulla luminosità
dell’arco. Nei casi di più riflessioni si possono vedere i
FIG. 14: In questa foto, la corona solare è messa in risalto
dall'occultazione del disco del Sole.
FIG. 15: (sotto) L’iridescenza con una predominanza di tinte
pastello sul rosa sfumato.
Fig. 13: (sopra) nella foto, è ben visibile un alone solare e un
parziale arco tangente superiore. Un lampione oscura il sole
e una chiesa arricchisce la composizione fotografica.
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ASTRONOMIA NOVA
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G. Pappa, Fotometeore
Fig. 16: a sinistra, arco soprannumerario, sono ben visibili gli archi sotto a quello primario. A destra, Doppio arcobaleno e banda di Alessandro durante un temporale pomeridiano.
E sempre la sua forma ad arco, ha fatto sì che lo si
ritenesse un intermediario fra il cielo e la terra.
Nelle varie culture, l'arcobaleno è "anello di Dio" in
tzigano; "arco di Dio" in ceco; "arco dell’alleanza" e
"della Trinità" in gallese; "arco del Paradiso" in Russia.
Un'altra straordinaria fotometeora è il mitico “raggio
verde”, quando il Sole, pochi istanti prima del
tramonto, crea un sottile strato luminoso verde-azzurro
che dura pochi istanti. Il fenomeno può essere visibile a
occhio nudo, ma un binocolo o un teleobiettivo ne
facilita la visione, data l'effimera durata che dalle nostra
latitudini, supera al massimo il secondo di tempo. Il
raggio verde dipende da diversi fattori quali la
rifrazione atmosferica, la diffusione della luce,
scintillazioni, turbolenza e forti inversioni termiche
sull’orizzonte marino. La combinazione degli eventi
precedentemente elencati dà una buona possibilità di
osservare un raggio verde, mentre i periodi più
probabili in cui osservarlo sono l'inizio e la fine
dell'estate. Se dunque prima del tramonto, notiamo un
leggero moto ondoso del mare, il cielo limpido al di
sopra di 10° sull'orizzonte e il fenomeno del “Sole a
omega”, abbiamo buone probabilità di poter osservare
il “raggio verde” (fig. 17-18).
Il Sole è tramontato ma abbiamo ancora la possibilità di
vedere le ultime fotometeore: l’"ombra della terra" e la
Fig. 17: Il raggio verde ripreso sul mar Tirreno in provincia di Messina.
G. Pappa, Fotometeore
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paraseleni che corrispondono ai pareli visti di giorno
creati dal sole, o addirittura un arcobaleno lunare.
Quest’ultimo è davvero molto raro perché devono
verificarsi una serie di coincidenze di plenilunio con la
Luna non molto alta sull’orizzonte e un temporale che
volge al termine.
FIG. 18: Il “raggio verde” è anche il titolo di un romanzo
del 1882 di Jules Verne. Qui il frontespizio della prima edizione.
FIG. 20: Un alone lunare.
"cintura di venere", che saranno visibili a est mentre il
sole tramonta a ovest e, se saremo fortunati anche i
raggi anticrepuscolari.
Di sera, quando è presente una luna prossima al
plenilunio, possono essere visibili i fenomeni creati dal
sole ma con una intensità minore, dato che la luce
irradiata dalla luna è in quantità molto minore. Così
potremmo vedere una corona lunare, fig. 19, o più
raramente e soprattutto nei periodi più freddi
dell’anno, l’alone lunare (fig. 20) e, se siamo fortunati, i
FIG. 19: Corona lunare in cui sono ben visibili i colori
dell’iride.
Giuseppe Pappa è nato a Catania nel 1987. Fin da giovanissimo si è appassionato di astronomia ed ora ha
all’attivo la scoperta di 2 comete SOHO ed invia le sue
osservazioni di comete a diversi siti astronomici internazionali. Negli ultimi anni ho affiancato alla passione per
l’astronomia, quella per la fotografia, in particolare scatti di paesaggi e cielo che ho raccolto nella mia pagina
web http://giuseppepappa.altervista.org . Giuseppe è
disponibile a rispondere ad eventuali quesiti legati al
contenuto di questo articolo; scrivetegli: [email protected]
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C. Ruscica, METI
METI, IL DIBATTITO SUI MESSAGGI INTERSTELLARI
Corrado Ruscica
[email protected]
FIG. 1: In Crimea è attivo il radiotelescopio Yevpatoria RT
-70 che, con il suo diametro di 70 metri, è tra i più grandi
paraboloidi del mondo. Esso ha un vantaggio rispetto ad
altri grandi radiotelescopi, infatti, tra la sua strumentazione è compresa una serie di potenti trasmettitori che consentono esperimenti spaziali attivi. Per questo motivo, il
radiotelescopio Yevpatoria RT-70 è uno degli unici due al
mondo che sono in grado di trasmettere potenti messaggi
verso lo spazio interstellare.
Se è vero che una delle domande che si pone da sempre
l'umanità, e cioè se siamo soli nell'Universo, rimane
ancora senza risposta è anche vero che ci si chiede se
vale la pena trasmettere nello spazio dei messaggi
interstellari che annuncino la nostra presenza. Forse,
come pensa qualcuno, dovremmo solo ascoltare.
Comunque sia, da quando è iniziata l'era della ricerca
delle intelligenze extraterrestri con il programma
SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence), nella
maggior parte dei casi i radioastronomi hanno
utilizzato solamente delle strategie di ascolto.
Nel 1999, quel consenso venne abbandonato. Senza
consultarsi con altri membri della comunità
scientifica coinvolti nel progetto di ricerca SETI, un
gruppo di radioastronomi della stazione di Evpatoria
Radar Telescope (fig. 1) in Crimea (guidati da
Alexander Zaitsev, fig. 2) la seconda antenna parabolica
per dimensioni grazie ai suoi 70m di diametro, trasmise
un messaggio interstellare, chiamato “Cosmic Call 1”,
verso quattro stelle vicine di tipo solare.
Il progetto venne promosso da una azienda americana,
la Team Encounter, e si basò su una serie di procedure
per permettere al grande pubblico di inviare testi e
immagini utilizzando un fee. Altri segnali simili furono
trasmessi dalla stazione di Evpatoria nel 2001, nel
2003 (Cosmic Call 2) e nel 2008. In tutto, le
trasmissioni vennero inviate verso 20 stelle distribuite
entro 100 anni-luce.
Questa strategia innovativa fu chiamata METI
(Messaging to Extraterrestrial Intelligence) o SETI
attivo. Sebbene Zaitsev non fosse stato il primo ad
inviare un messaggio interstellare, egli e i suoi colleghi
furono comunque i primi a trasmettere
sistematicamente verso stelle vicine. Sulla scia degli
C. Ruscica, METI
FIG. 2: Alexandr Leonidovich Zaitsev è un ingegnere e
astronomo russo; si occupa di dispositivi per l'astronomia
radar, di ricerca radar di asteroidi vicini e del progetto
SETI. Dirige il gruppo che trasmette i messaggi interstellari presso il Deep Space Center di Evpatorija.
esperimenti di Evpatoria, un numero limitato di
stazioni di ricerca della NASA realizzarono una serie di
trasmissioni METI come trucchi pubblicitari a scopo
commerciale, tra cui un messaggio nel linguaggio
Klingon della famosa serie di Star Trek per promuovere
la prima di un'opera oppure l'intero remake del film di
fantascienza “The Day the Earth Stood Still” del 2008
(fig. 3).
FIG. 3: La locandina del film “The Day the Earth Stood Still”.
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FIG. 4: La copertina del numero del Journal of the British
Interplanetary Society dedicato al dibattito sul METI.
Le modalità di trasmissione di questi messaggi
commerciali non sono state rese pubbliche
ma
certamente erano troppo deboli per essere rivelate
su
distanze
interstellari utilizzando
strumenti
analoghi a quelli terrestri.
Le azioni intraprese da Zaitsev fecero comunque
sollevare un grande dibattito nella comunità scientifica
soprattutto per le eventuali conseguenze che tali
messaggi interstellari avrebbero potuto causare
all'umanità.
A questo dibattito fu dedicato uno speciale dal Journal
of the British Interplanetary Society che portò nel
2010
all'organizzazione
di
un
congresso
sponsorizzato
dalla
Royal
Society
a
Buckinghamshire, Londra.
Il SETI moderno ebbe inizio nel 1959 quando due
astrofisici, Giuseppe Cocconi e Phillip Morrison,
pubblicarono un articolo sulla prestigiosa rivista
Nature dal titolo Searching
for Interstellar
Communications.
Essi dimostrarono come i radiotelescopi dell'epoca fossero in grado di ricevere dei segnali trasmessi da qualche civiltà aliena situata a distanze tipiche delle stelle
più vicine, cioè qualche centinaia di anni-luce.
Alcuni mesi più tardi, l'astronomo Frank Drake puntò il
vecchio radiotelescopio di 26m di Green Bank nella
West Virginia verso due stelle vicine per condurre il
cosiddetto Progetto Ozma, il primo esperimento di ascolto SETI.
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C. Ruscica, METI
FIG. 5: In alto, il famoso articolo di Cocconi e Morrison,
apparso su Nature nel 1959, nel quale gli autori sostenevano
che i radiotelescopi dell’epoca erano in grado di ricevere
segnali extraterrestri.
Sotto, da sinistra, Giuseppe Cocconi (1914-2008) e Philip
Morrison (1915-2005).
Morrison, Frank Drake e il giovane Carl Sagan (fig. 6)
ipotizzarono che le civiltà extraterrestri avrebbero fatto
del loro meglio per trasmettere potenti segnali radio
annunciando così la loro presenza. Dunque, gli umani,
come una sorta di "nuovi residenti cosmici" che avevano appena inventato
i radiotelescopi, avrebbero cercato e ascoltato questi
eventuali segnali radio di origine extraterrestre. Non
c'era alcun bisogno di prendersi dei rischi, anche se piccoli, di rivelare la nostra presenza ad alieni potenzialmente ostili.
Nel 1974, Drake e Sagan idearono un breve messaggio,
composto da 1679 bit, che fu trasmesso dal gigantesco
radiotelescopio di 305 metri di Arecibo in Porto Rico
(fig. 7). Questo esperimento non fu considerato come
un vero e proprio tentativo di trasmissione interstellare
e fu inviato appositamente verso un ammasso stellare
M13 distante, situato a 25000 anni-luce nella costellazione di Ercole. Esso aveva lo scopo di dimostrare le nuove
capacità dello strumento durante una cerimonia che inaugurava l'inizio delle attività dopo il periodo di manutenzione.
Negli anni '80 e '90, gli astronomi del SETI iniziarono a
formulare un insieme di regole per condurre il loro
programma di ricerca. Nel Primo Protocollo SETI si
specificava come il contenuto della risposta ad un segnale alieno, confermato attendibile, sarebbe stato preceduto da una consultazione internazionale. Non diceva nulla, invece, sulle modalità della trasmissione inviata prima della scoperta di un segnale di origine extraterrestre. Un Secondo Protocollo SETI doveva affrontare
quel tema ma con le critiche che emergevano qualcosa
andò storto. David Brin, uno scienziato spaziale, consulente visionario e scrittore di fantascienza, fu tra
coloro che parteciparono alle discussioni sui contenuti
del protocollo. Brin accusa il gruppo centralizzato attorno all'Istituto SETI nella Silicon Valley in California, tra
cui Jill Tarter e Seth Shostak, di creare delle
"interferenze" per indurre altri, come il radioastronomo russo Zaitsev, a sviluppare e ad insistere con l'invio
C. Ruscica, METI
FIG. 6: Da sinistra, Frank Drake (1930), Carl Sagan (19341996).
di messaggi interstellari. Ma Shostak nega tutto ciò e
non vede alcun criterio per regolare tali trasmissioni. Brin, assieme a Michael A. G. Michaud (fig. 8), un
diplomatico e in precedenza all’U.S. Foreign Service
Officer, che fu presidente del comitato che aveva formulato il primo e il secondo protocollo, e John Billingham, inizialmente a capo del breve programma
SETI della NASA, si dimisero dal comitato per protestare contro le modifiche al secondo protocollo.
I fondatori del SETI avevano comunque una visione
positiva per quanto riguarda le intelligenze extraterrestri. Lo stesso Sagan ipotizzava che le civiltà extraterrestri (ETC) più vecchie della nostra sarebbero diven-
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tate pacifiche e responsabili perché quelle che non
l'avessero fatto si sarebbero sicuramente autodistrutte. Gli extraterrestri, essi supposero, sarebbero stati
coinvolti nelle trasmissioni interstellari a causa del desiderio di condividere le loro conoscenza e di imparare
dagli altri.
Essi supposero, inoltre, che gli ETC avrebbero stabilito
delle trasmissioni potenti in tutte le direzioni, in modo
da assistere le altre civiltà a trovarli e a far parte di una
rete di comunicazione interstellare al livello galattico.
In tal senso, la maggior parte dei programmi del SETI
sono stati ottimizzati proprio per rivelare queste eventuali, continuative trasmissioni.
Nel corso di oltre cinquant'anni, da quando sono iniziate le attività del SETI, le ricerche sono state condotte in
maniera sporadica e sono state soggette a costanti problemi di fondi. Finora, è stato a malapena campionato
lo spazio in tutte le possibili direzioni e frequenze e sono state prese in considerazione solo alcune strategie di
ricerca.
L'assenza di una ovvia evidenza relativa all'individuazione di una civiltà extraterrestre ha portato qualcuno
ad introdurre l’idea del cosiddetto “Grande Silenzio”.
Secondo Brin, forse qualcosa sta mantenendo la soglia
di contatto degli ETC al di sotto della nostra capacità di
osservazione.
FIG. 7: Il grande radiotelescopio di Arecibo, si distingue per le sue enormi
dimensioni: il collettore
parabolico ha un diametro
di 305 metri, ed è stato
costruito all'interno di un
avvallamento naturale. La
superficie dell'antenna è
formata da 38.778 pannelli in alluminio, ciascuno dei quali misura tra 1 e
2 metri, sostenuti da una
maglia di cavi di acciaio.
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C. Ruscica, METI
FIG. 8: Da sinistra, David Brin e Michael Michaud, entrambi
coinvolti nelle polemiche che li vedono contestare gli attuali
protocolli di comunicazione SETI per la ricerca di intelligenze extraterrestri, in quanto, non potendo conoscere a priori
le intenzioni e le conoscenze tecnologiche degli eventuali extraterrestri che riceveranno il messaggio, si rischia di mettere in pericolo il nostro pianeta rivelandone la posizione.
In altre parole, se le civiltà aliene sono silenti, potrebbe
darsi che essi sono a conoscenza di qualcosa di pericoloso che noi non sappiamo?
Zaitsev crede che tali paure non siano fondate e che
anche le altre civiltà aliene potrebbero essere riluttanti
a trasmettere dei segnali nello spazio interstellare.
Secondo lo scienziato russo, l'umanità potrebbe spezzare questo silenzio trasmettendo dei messaggi verso i
suoi vicini cosmici.
Egli paragona l'attuale stato dell'umanità a quello di un
uomo intrappolato in una cella di una prigione: non si
può vivere in una sorta di incubatrice senza aver
diritto di inviare un messaggio all'esterno, perché
questa vita non è interessante.
La conclusione è che quelle civiltà che si nascondono a
causa di potenziali paure sono destinate all'estinzione.
Egli fa notare come negli anni Sessanta, l'astronomo
Sebastian von Hoerner ipotizzava che le civiltà aliene
che non sono interessate alle comunicazioni interstellari alla fine subiscono un declino mediante una
sorta di “perdita d'interesse”.
I dubbi sollevati dai critici del METI riguardano il problema della trasmissione dei messaggi interstellari e
quale potrebbe essere il contenuto di quelle trasmissioni. D'altra parte, Seth Shostak, direttore del Center for
SETI research, sottolinea come i segnali trasmessi dalla
radio, dalla televisione o dai militari sono già presenti
nello spazio interstellare.
Anche se tali segnali sono molto deboli per essere rivelati su scale interstellari con l'attuale tecnologia che
abbiamo a disposizione, Shostak è convinto che con il
rapido progresso che porterà alla costruzione di radiotelescopi sempre più sofisticati, gli ETC, dotati di una
tecnologia ancora più avanzata rispetto alla nostra, potrebbero essere in grado di rivelare i nostri segnali.
Secondo John Billingham e James Benford,
dell’Interstellar Beacons - SETI Talks, per tener conto
di questo gap occorrerebbe un'antenna con una superficie di oltre 20000 chilometri quadrati, più grande della
città di Chicago, il cui costo con l'attuale tecnologia sarebbe dell'ordine di 60 trilioni di dollari. Ma Shostak
sostiene che qualche civiltà tecnologicamente avanzata
potrebbe possedere delle tecniche più esotiche. Se un
telescopio fosse posto a 550 volte la distanza Terra-Sole,
esso sarebbe in una posizione tale da utilizzare il campo
gravitazionale del Sole come una gigantesca lente.
Questo telescopio avrebbe un'area effettiva enormemente più grande della città di Chicago senza alcun costo
aggiuntivo. Secondo Shostak, uno strumento del genere permetterebbe ad una civiltà aliena di ascoltare varie trasmissioni terrestri e nella banda del visibile di avere una sensibilità adeguata per catturare addirittura la
luce dei lampioni stradali, una idea intrigante anche secondo Brin. Se poi una civiltà aliena fosse in grado di
viaggiare nello spazio, essa sarebbe talmente avanzata da
farci potenzialmente del male.
Senza avere mezzi adeguati per capire ciò che una civiltà aliena può o non può rivelare, Shostak sostiene che la
comunità scientifica del programma SETI non ha per le
FIG. 9: Seth Shostak, direttore del Center for SETI rese-
arch.
C. Ruscica, METI
mani nulla di concreto per contribuire ad una regolamentazione dei messaggi interstellari.
Ma davvero gli extraterrestri potrebbero farci del male?
Nel 1897, H.G. Wells pubblicò un romanzo di fantascienza dal titolo “La Guerra dei Mondi” (fig. 10) in cui
la Terra veniva invasa dai marziani che abbandonavano
il loro mondo ormai arido e in fin di vita.
Al di là di essere scientificamente plausibile per quei
tempi, il romanzo di Wells conteneva un messaggio
politico. Come oppositore del colonialismo britannico,
Wells desiderava che i suoi concittadini immaginassero
quale tipo di imperialismo potesse emergere dall'altra parte. Da quel momento, le storie sulle invasioni
aliene sono state quasi sempre protagoniste di film di
fantascienza. Alcuni considerano il colonialismo europeo come un possibile modello che gli alieni potrebbero utilizzare per sottomettere la razza umana.
L'eminente fisico Stephen Hawking ritiene che le civiltà estremamente avanzate potrebbero già conoscere le
modalità di un viaggio interstellare. Secondo lo scien-
FIG. 10: Il frontespizio del romanzo di H.G. Wells, la
“Guerra dei Mondi”, pubblicato nel 1898.
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FIG. 11: Alcune antenne dell’Allen Telescope Array (ATA).
ziato inglese, se gli alieni visitassero la Terra, le conseguenze sarebbero simili a ciò che accadde a Cristoforo
Colombo che quando scoprì l'America si scontrò praticamente subito con i nativi americani, con conseguenze assolutamente nefaste per questi ultimi. Nonostante le paure di Hawking possano considerarsi come “semplici e improbabili speculazioni”, Brin fa notare
che i viaggi interstellari di sonde automatizzate sono
completamente fattibili e che tali sonde potrebbero arrecare in qualche modo dei danni al nostro pianeta.
Ad esempio, una sonda potrebbe deviare un asteroide verso la Terra, perciò la lista di scenari improbabili ma fisicamente possibili è abbastanza lunga, sempre secondo Brin. I critici del METI, Brin, Benford e
Billingham, ritengono che la mancanza di risultati da
parte del SETI implica una sorta di risposta differente
al tema del METI.
Essi sostengono la necessità di individuare di nuove
strategie di ricerca. Ma i ricercatori del SETI sembrano
convinti che gli alieni utilizzeranno dei fasci stazionari a
trasmissione continua in tutte le direzioni al fine di attirare la nostra attenzione, anche se alcuni studi recenti
hanno mostrato che questo metodo non è economicamente conveniente. Invece, una civiltà aliena potrebbe
compilare una lista di pianeti potenzialmente abitabili
presenti nel suo vicinato cosmico a cui inviare il proprio messaggio.
Questa trasmissione, detta “ping”, potrebbe essere
costantemente ripetuta, in sequenza, una volta all'anno
oppure ogni dieci anni o ancora ogni mille anni. Ma
secondo Benford e Billingham il SETI potrebbe perdersi
questo tipo di segnale.
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C. Ruscica, METI
Confronto tra la "sfera SETI" attuale (che corrisponde alla nostra capacità di ricevere segnali radio dallo spazio con il
radiotelescopio di Arecibo—Project Phoenix), e ciò che si avrà invece quando entrerà in funzione l'Allen Telescope Array.
Si prevede di passare dagli attuali 200 anni luce (stimati) a oltre 20.000 anni luce, coprendo circa il 25% della Via Lattea.
L'Allen Telescope Array (ATA), fig. 11, è stato concepito
per esplorare piccole porzioni di cielo per cercare eventuali segnali trasmessi in sequenza e in maniera
costante. Naturalmente, lo strumento potrebbe perdersi
un segnale transiente perché sarebbe improbabile osservare nel posto giusto e al momento giusto. Da questo
punto di vista, i messaggi del radiotelescopio di Evpatoria, che sono stati trasmessi per meno di un giorno,
sono degli esempi di segnali transienti. Benford e
Billingham propongono la costruzione di un nuovo
radiotelescopio per monitorare costantemente il piano
galattico, dove le stelle sono più numerose, alla ricerca
di segnali transienti. Un tale strumento, essi stimano,
costerebbe circa 12 milioni di dollari mentre un programma METI ne costerebbe qualche miliardo di dollari.
Insomma, il dibattito METI continua. Lo scorso 13 Febbraio le due fazioni si sono confrontate durante l'American Association for the Advancement of Science conference a San Jose in California sul tema Active SETI: Is
It Time To Start Transmitting to the Cosmos?
Secondo Brin, questo è un campo della ricerca dove le
opinioni contano e ognuno ha la sua. Durante il
meeting, un gruppo di 28 scienziati, studenti e uomini
d'affari ha stilato una dichiarazione secondo cui la decisione di trasmettere o meno dovrà basarsi sul consenso
internazionale e non sulla decisione o sui desideri di
pochi che hanno accesso a potenti strumenti di comunicazione.
Corrado Ruscica, astronomo e scrittore, conduce
attività di divulgazione scientifica attraverso articoli e
conferenze pubbliche e cura il blog AstronomicaMens
dedicato ad argomenti che spaziano dalla cosmologia
alla fisica delle particelle. E' autore di "Idee sull'Universo", "Enigmi Astrofisici" e "L'Universo Infante", editi da
Macro Edizioni, www.gruppomacro.com/editori/macro
-edizioni.
S. Covino, Italia e le stelle
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QUANDO L'ITALIA ASPIRAVA ALLE STELLE
Stefano Covino
[email protected]
http://mitescienza.blogspot.it/
A molti, anche fra "gli addetti ai lavori", può far piacere
pensare in qualche modo all'astrofisica come ad un
mondo relativamente poco legato ai vari aspetti del
quotidiano, sostanzialmente astratto, e non certamente
vincolato alle dinamiche sociali e politiche.
Non è vero, ovviamente, da molti punti di vista. E non
solamente perché la ricerca scientifica, ora come anche
in passato, richiede investimenti e quindi risorse, ma
anche perché talvolta assume un significato simbolico
che in determinati periodi storici va addirittura ad influenzare scelte politiche e sociali.
E così è stato verso la fine degli anni '70 dell'Ottocento,
anni che rappresentano un momento molto importante
per la storia del Regno d'Italia. Con la "presa di Roma"
il processo risorgimentale era in gran parte compiuto, e
sul tappeto emergevano tutti i grandi problemi legati
alla gestione ed organizzazione del nuovo stato unitario. Fra questi, sicuramente fra i più impellenti, c'era
quello della stabilizzazione finanziaria delle casse del
nuovo stato che usciva dalle continue campagne militari delle guerre d'indipendenza pesantemente indebitato. Fra le varie misure escogitate dalla nuova classe dirigente di sicuro la più nota, se non altro per le sue caratteristiche di iniquità sociale, fu la famigerata tassa sul
macinato che fu promulgata per la prima volta nel 1868
quando capo del governo era Luigi Menabrea (18091896), scienziato ed intellettuale di notevole spessore.
Il pareggio di bilancio, risultato oggettivamente non di
poco conto, fu raggiunto nel 1876 con Marco Minghetti
(1818-1886) presidente del Consiglio e Quintino Sella
(1827-1884) onnipresente ministro delle finanze in più
occasioni. Non è lo scopo che ci prefiggiamo oggi, ma
Menabrea meriterebbe un approfondimento a parte.
Basti dire che la sua opera, in francese, fu tradotta in
inglese da Ada Byron, figlia del poeta Lord Byron, più
FIG. 1: Ritratto di
Luigi Federico Menabrea, uomo di
multiforme
ingegno:
ingegnere,
generale, politico e
diplomatico, nonché
socio
dell'Accademia delle Scienze di
Torino e dell'Accademia Nazionale dei
Lincei.
nota come Ada Lovelace, e matematica di grande valore. Il lavoro di Menabrea, ampliato in grande misura
dalla Lovelace, divenne poi la base delle elaborazioni di
Charles Babbage (figg. 2,3), considerato non a torto
come il padre del concetto moderno di calcolatore elettronico.
È in questo scenario, con un'eredità sociale difficile fra
disordini popolari e lotta al brigantaggio, che il Paese
comincia ad affrontare un ambizioso programma di
ammodernamento infrastrutturale e culturale.
Ed è nel 1878 che si apre un dibattito parlamentare per
una spesa che a molti, anche allora, sembrava essere
alquanto improduttiva, e per certi versi forse anche immorale, in un Paese ancora estremamente povero per
un'ampia fascia di popolazione: la costruzione di un
grande telescopio per l'Osservatorio Astronomico di
Brera, uno strumento che avrebbe permesso al suo illustre direttore, Giovanni Schiapparelli, di risolvere final-
Pagina 56
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S. Covino, Italia e le stelle
FIGG. 2, 3: Charles Babbage (1791-1871), matematico e
filosofo britannico che per primo ebbe l'idea di un calcolatore programmabile, nelle due versioni, la prima, la macchina differenziale, della quale fu realizzato un prototipo
imperfetto mentre la seconda, la macchina analitica, fu
solo progettata. In alto a destra, Alcuni parti della macchina differenziale di Babbage assemblate utilizzando alcune
parti originali trovate nel suo laboratorio.
Negli ultimi decenni dell'800, infatti, uno degli argomenti scientifici più caldi e dibattuti era quello delle
condizioni ambientali alla superficie dei pianeti vicino
alla Terra. Proprio in quegli anni telescopi dal diametro
e qualità adeguata cominciavano ad essere disponili, ed
i più valenti astronomi si dedicavano a lunghissime ore
di osservazione documentando con disegni ed appunti
quello che appariva negli oculari dei loro strumenti.
Marte, come sanno benissimo gli astrofili, è facilmente
riconoscibile ad occhio nudo anche per il suo evidente
colore rosso, ma al telescopio appare solo come un disco di piccole dimensioni.
Tuttavia per la combinazione delle orbite intorno al
Sole della Terra e di Marte ogni circa due anni accade
che i due pianeti si trovino ad una distanza reciproca
molto ridotta ed era, ed è, in queste epoche che le osservazioni visuali possono permettere di distinguere dettagli della superficie marziana.
Le calotte polari, le principali caratteristiche orografiche, ed i cambiamenti stagionali attirarono così l'atten-
zione degli scienziati del tempo. E fra questi Giovanni
Virginio Schiaparelli (1835-1910), fig. 4, ma non solo lui,
vide un fitto reticolo (i famosi canali) che sembravano
cambiare struttura con le stagioni e che potevano suggerire la possibilità che fosse un poderoso sistema di irrigazione di una avanzata civiltà marziana.
Un manoscritto originale di Schiaparelli
L'epoca in cui tutto questo avveniva era il tardo ottocento, ovvero un periodo storico in cui l'eccitazione per il
progresso tecnologico era probabilmente al suo apice ed
in breve il tema dei canali uscì dallo stretto dibattito
scientifico per entrare a gran forza nella cultura popolare
dando vita al perdurante mito dei marziani, con tutta
una ampia produzione letteraria, da H.G. Wells a Robert
Heinlein, ed oltre, che ancora conosciamo e coltiviamo.
Va detto, per la verità, che Schiaparelli descrisse i risultati delle sue osservazioni anche in una serie di scritti pubblicati con il titolo di "La Vita sul Pianeta Marte", fig. 5,
disponibili gratuitamente anche su diverse piattaforme
di e-reading, dove l'autore con un tono tranquillo e meditato disserta sulle varie cause naturali per spiegare le
sue osservazioni ma anche non mancando, alla fine, e
ben chiarendo che stava dando libero sfogo alla fantasia,
di ipotizzare anche cause artificiali legate ad un'ipotetica
civiltà marziana.
Poco importa, in questa sede, che l'acquisto del nuovo e
grande telescopio, con certamente grande sconcerto dello Schiaparelli, non solo non mostrava con maggiore
chiarezza i supposti canali, ma al contrario ne rendeva
l'osservazione più complessa dando supporto a coloro
che, anche allora, risultavano scettici rispetto alla reale
esistenza di queste strutture.
S. Covino, Italia e le stelle
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FIG. 4: Schiaparelli al telescopio dell'osservatorio di Brera in
un famoso disegno di Beltrame per La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1900.
Il dibattito parlamentare che portò all'approvazione
della spesa è di enorme interesse politico e culturale.
Ne abbiamo ora facile accesso in quanto recentemente
Gerardo Bianco, ministro della Pubblica Istruzione nei
primi anni '90, ha curato un interessante resoconto dello stesso pubblicato nel numero 3 del 2015 della rivista
"Studi Desanctisiani", di Fabrizio Serra Editore.
Dal dibattito si deduce, ad esempio, che il ruolo dell'allora ministro della Pubblica Istruzione Francesco De
Sanctis (1817-1883) fu assolutamente centrale nella
vicenda, anche più di Quintino Sella (1827-1884), da
sempre mentore e sostenitore dello Schiaparelli. Leggendo il resoconto si apprezza innanzitutto l'elevatezza
del dibattito. I temi pragmatici non mancano, così come
anche temi di qualche peso retorico o persino, diremmo
oggi, populista. Nella discussione però emergeva con
chiarezza come i membri del parlamento regio pensavano di discutere di un investimento il cui significato andava ben oltre uno strumento scientifico per un istituto,
ma che poteva diventare simbolo di un paese, l'Italia,
che finalmente si riappropriava del ruolo che le spettava fra le nazioni.
Temi di impatto nazionalistico e tardo-risorgimentale,
senza dubbio, ma non privi di eleganza e sostanza. VeFIG. 5: Una recente ristampa degli scritti di Schiaparelli intorno al problema della vita su Marte.
diamo, ad esempio, il commento alla legge da parte di
Stanislao Cannizzaro, valente e noto chimico: "le nazioni illuminate si guardano bene dalla volgare distinzione
tra le investigazioni utili e quelle di lusso, conoscendo
già che tutte le parti del scibile umano si collegano e
coadiuvano reciprocamente e progrediscono o decadono insieme".
Un commento quanto mai attuale sulla veramente molto poco fondata separazione fra ricerca di base ed applicata. Oppure dello stesso Francesco De Sanctis, nel rintuzzare i pochi commenti negativi all'acquisto: "Noi
dobbiamo non sentirci al di sotto di nessuno quando
vogliamo sviluppare le nostre facoltà intellettuali. Crede
egli l'onorevole Senatore Pepoli che, parlando di ferrovie e di tassa di macinato, l'Italia affermi innanzi al
mondo la sua esistenza morale? Ma non è questo che fa
grandi i popoli; e se abbiamo voluto l'Italia, facciamo
almeno che quest'Italia possa innanzi agli altri apparire
degna de' suoi alti destini".
Fa una certa impressione, per altro, vedere con quale
lucidità l'umanista De Sanctis vedesse nella scienza un
sapere nobile e certamente non relegato nell'angusto
regime delle cose utili ma poco di più.
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S. Covino, Italia e le stelle
FIG. 6: Il rifrattore Merz-Repsold di 49 cm, installato prima a Brera e poi a Merate. L’immagine è del 1882.
Sia come sia, il telescopio fu acquistato e venne installato
a Brera (fig. 6) dove rimase fino al 1935 quando venne
trasportato alla sede di Merate dell'Osservatorio Astronomico di Brera per cercare cieli più bui e non influenzati dalla turbinosa espansione della città di Milano di quegli anni (e dei successivi...).
A Merate il telescopio rimase operativo fino a circa gli
anni '60. Lo sviluppo tecnologico ovviamente rese progressivamente obsoleto il telescopio che fini smontato
nei magazzini dell'Osservatorio quando non addirittura
"cannibalizzato" per completare strumenti di nuova concezione sviluppati dai tecnici dell'istituto di Brera.
La storia di questo telescopio sembrava, quindi, essere
arrivata al capolinea, anche se in realtà una nuova consapevolezza dell'importanza della preservazione e valorizzazione del patrimonio storico non solo artistico ma anche scientifico ed industriale ne ha aperto un nuovo capitolo. Di tutta questa fase, però, parleremo ampiamente
nella prossima parte di questo articolo.
Stefano Covino nasce nel 1964. In piena era spaziale,
come si diceva con un po' di enfasi, ma lui non ne era
allora cosciente sebbene l'eco e l'eccitazione per le missioni Apollo lo ha accompagnato per tutta l'infanzia
(prolungatasi probabilmente fino a pochi anni fa'). Laureato in fisica e dottorato in astronomia all'Università
degli Studi di Milano, sotto la direzione di Laura Pasinetti, ha cominciato fin da subito ad essere parte di collaborazioni internazionali sostenendo diversi periodi di
lavoro in istituti esteri. Di formazione è un astrofisico
stellare, con particolare attenzione allo studio delle popolazioni stellari, ma con il tempo si è sempre più avvicinato all'astrofisica delle alte energie divenendo parte
del gruppo ricerca dedicato presso INAF - Osservatorio
Astronomico di Brera.
E' quindi divenuto membro della collaborazione Swift,
volta allo sfruttamento scientifico dei dati di questa
missione, lanciata nel 2004 e tutt'ora proficuamente
attiva, frutto di una collaborazione tri-nazionale fra Stati Uniti, Regno Unito ed Italia. "Principal Investigator"
in numerossime occasioni di progetti osservativi volti
allo studio di GRB, dal 2007 è divenuto membro della
collaborazione MAGIC volta allo studio di raggi gamma
di altissima energia attraverso la radiazione Cerenkov
da essi prodotta in atmosfera. Si è occupato però anche
di sviluppi tecnologici come responsabile del software
per il telescopio robotico a puntamento veloce REM, al
momento operativo presso l'osservatorio di La Silla
dell'ESO (Cile). Sposato con un bravo medico pneumologo che, fortunamente, lo costringe a casa per almeno
per il 50% del suo tempo, è stato fino al matrimonio un
attivo alpinista sebbene tutt'ora, occasionalmente, non
disegni pareti e vette insieme alla relatività e la fisica
dei processi radiativi.
M. Dho, Gimbal
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GIMBAL, UNA TESTA TUTTOFARE
La tecnologia costruttiva Gimbal, basata sull’effetto a bilanciere, è impiegata
dai fotografi per immortalare eventi naturalistici e sportivi ma, con pochi accorgimenti, funge, altresì, da accessorio di supporto, molto versatile e preciso,
per l’imaging astronomico
Mario Dho
[email protected]
FIG. 1: Schema di un tipico setup di ripresa adottato dai fotografi
Abstract
The rocker head, technically identified as Gimbal head,
is an accessory designed to restore an instrument of
particularly low barycentre and ensure fluidity and
smoothness of movement.
The particular technological characteristics and
building architectures make it ideal for use with large
telephoto lenses combined with DSLRs.
They are known for their ability to shoot moving scenarios in the fields of sports and birdwatching, but the
feasibility of combination with optical units and astro-
nomical shooting equipment is not be neglected.
Some changes to mechanics, in conjunction with implementations of auxiliary components, can transform
a Gimbal head on a remote controlled robot to monitor
the Observatory or to ensure the proper development
and succession of the elementary steps that constitute
the general set of actions.
We know better this universal head appreciating its
quality and also conjecturing sophisticated uses in the
field of practical astronomy.
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ASTRONOMIA NOVA
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M. Dho, Gimbal
La testa a bilanciere, tecnicamente identificata col termine Gimbal head, è un accessorio realizzato in modo
tale da restituire un baricentro strumentale particolarmente basso e garantire fluidità e dolcezza di movimento.
Le particolari caratteristiche tecnologiche e le architetture costruttive la rendono ideale per l’utilizzo con
grandi teleobiettivi abbinati a reflex digitali.
Sono note per la loro idoneità alle riprese di scenari in
movimento nei settori dello sport e del birdwatching
ma non è affatto da trascurare la fattibilità di abbinamento con gruppi ottici e apparecchiature di ripresa
astronomica.
Alcune modifiche alla meccanica, congiuntamente a
implementazioni di componenti ausiliari, possono trasformare una testa Gimbal in un robot comandabile a
distanza per sorvegliare l’osservatorio astronomico o
per verificare il corretto svilupparsi e susseguirsi degli
step elementari costituenti l’insieme generale delle azioni.
Conosciamo meglio questa testa universale apprezzandone le qualità e ipotizzandone utilizzi anche sofisticati
nel campo dell’astronomia pratica.
Un tipico setup strumentale, adottato dai fotografi, prevede l’impiego di tre componenti fondamentali: il cavalletto, la testa e la macchina fotografica.
Quest’ultimo elemento di ripresa è ancorato alla testa
in modo diretto oppure è alloggiato al fuoco di un cannocchiale.
Sul cavalletto, anche identificato come tripode, treppiede o stativo, gravano tutti i pesi e le sollecitazioni mec-
caniche causate dalle forze vettoriali e dai momenti che
intervengono nel corso di una sessione di acquisizione
di shot.
A poco o nulla serve avere un carico d’elite se questo
non è supportato adeguatamente e proporzionalmente
alla qualità e alle caratteristiche fisiche e tecniche dello
stesso.
Le masse in gioco, la loro disposizione spaziale, la distribuzione dei baricentri e l’estensione dell’area di resistenza al vento, sollecitano lo stativo il quale, considerando che, spesso e volentieri, le focali equivalenti dei
gruppi ottici anteposti alla matrice fotosensibile della
camera, sono lunghe, non deve svolgere solo la funzione di supporto del peso, ma anche quella di efficiente
smorzatore di vibrazioni per ridurre al minimo i fenomeni di micro mosso (fig. 1).
La scelta del treppiede non è cosa semplice, dal momento in cui si deve, fra le altre cose, tenere conto del
peso, della robustezza, dei materiali impiegati per la
sua realizzazione e delle soluzioni tecniche e meccaniche adottate (fig. 2).
Leghe leggere di metalli, materiali compositi come le
fibre di carbonio, elementi quali il basalto e il magnesio,
possiedono e/o conferiscono caratteristiche di resistenza alle sollecitazioni meccaniche, tali da rendere fattibile la realizzazione di progetti caratterizzati da rapporti
qualità/prezzo particolarmente interessanti. In commercio si trovano cavalletti molto prestanti, robusti e
stabili il cui peso è relativamente contenuto e tale da
renderli facilmente trasportabili anche in luoghi lontani
e impervi.
FIG. 2: Alcuni esempi di tripode utilizzati dall’autore
M. Dho, Gimbal
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FIG. 3: La testa è l’elemento inserito, fisicamente, fra il cavalletto e lo strumento di osservazione o di ripresa.
In generale, al momento di scegliere un modello, si dovrebbero tenere in considerazione alcuni punti base:
 Il carico utile applicabile deve essere superiore al
peso della strumentazione;
 L’altezza di lavoro deve essere raggiunta senza servirsi della colonna centrale;
 La base di appoggio e ancoraggio della testa Gimbal
deve essere larga e possibilmente forata e filettata bipasso senza anellini di riduzione;
 È preferibile orientarsi su modelli con gambe telescopiche a sezione circolare;
 La parte terminale delle gambe deve essere accessoriabile con puntoni in metallo;
 Il fermo della colonna centrale deve essere sicuro,
affidabile e robusto;
 Le gambe dovrebbero estendersi in maniera indipendente a più di un blocco;
 Sono preferibili le impugnature antiscivolo in gomma espansa;
 È preferibile orientarsi su prodotti privi di parti
cromate e realizzati con trattamenti o materiali resistenti alle corrosioni.
Il compito del tripode, come abbiamo citato poco sopra
e come ben noto agli imager, è quello di sostenere le
masse a questo ancorate e di mettere l’apparecchiatura
di ripresa nelle migliori condizioni di utilizzo in quanto
a stabilità, sicurezza ed ergonomicità operativa.
Un importante componente intermedio, tecnicamente
definito testa, consente la connessione meccanica-fisica
fra treppiede e macchina fotografica rendendo possibili
tutti quei movimenti e quegli stazionamenti necessari
per ottenere l’immagine desiderata. In funzione della
progettazione e dell’architettura costruttiva, si identificano teste caratterizzate da una grande versatilità
d’impiego e teste adatte a rispondere a specifiche necessità di utilizzo (fig. 3).
Il setup mobile composto da stativo, testa e macchina
fotografica, può soddisfare le più disparate esigenze
quali le riprese statiche o di azione. Le plurime tipologie di questo accessorio fotografico consentono riprese
panoramiche, paesaggistiche, di ritratti, macro, notturne, sportive, di architettura, video e altra natura.
Troviamo, così, fra le altre, teste a sfera, tipo joystick, a
cremagliera, panoramiche, fluide, a tre vie e a bilanciere.
Fra queste, le più diffuse sono, quasi certamente, quelle
a sfera in virtù della loro versatilità, praticità d’uso e
compattezza. Caratteristiche, queste ultime, che le rendono adatte teoricamente a tutto e praticamente a nulla. In altre parole, trovano spazio in ambito amatoriale
o, più propriamente, negli entry level, ma non sono
adatte per riprese serie e impegnative come quelle che
si prefiggono di ottenere i fotografi evoluti e i professionisti.
I materiali da costruzione e l’affinamento delle tecniche
costruttive hanno favorito notevoli evoluzioni che ancora si susseguono andando ad affinare, completare e, in
alcuni casi, a sostituire i modelli esistenti. Una tipologia
di testa, non propriamente economica e compatta, particolarmente prestante è quella che sfrutta l’effetto a
bilanciere altrimenti definita Gimbal head.
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M. Dho, Gimbal
Fig. 4: Una Gimbal head particolarmente performante, ampiamente testata dall’autore e realizzata dalla ditta Fox Wide
di San Rocco di Bernezzo, in provincia di Cuneo.
L’insieme di leverismi e perni di rotazione furono, a suo
tempo, concepiti, progettati e realizzati per sostenere
gruppi ottici telescopici ma, successivamente, questi
aggregati meccanici trovarono impiego anche nella fotografia tradizionale e nel digiscoping con obiettivi di
rilevanti dimensioni e dal peso non propriamente contenuto.
La relativa semplicità costruttiva di una testa a bilanciere, oltre ad assicurarne la robustezza e l’affidabilità, ne
limita la manutenzione. Questi ultimi, sono fattori particolarmente interessanti considerando che la componentistica deve essere trasportata, spesso anche a spalla, non sempre in condizioni ottimali, ragion per cui
subisce sollecitazioni disparate che, in questo modo,
non vanno a comprometterne la bontà di funzionamento. La conformazione strutturale di una testa Gimbal è
tale da far coincidere e mantenere collimati l’asse dei
movimenti con quello di bilanciamento mantenendo il
medesimo baricentro.
Fig. 5: Particolari in legno, inseriti nel braccio di manovra
di una testa a bilanciere, conferiscono al componente una
livrea estetica gradevole, smorzano le vibrazioni e agevolano l’utilizzo dell’accessorio in condizioni climatiche caratterizzate da temperature rigide.
L’autore, fra le tante altre, ha avuto modo di testare una
testa Gimbal costruita dalla Fox Wide, ditta artigianale
sita in quel di San Rocco di Bernezzo, in provincia di
Cuneo, http://www.gimbal-head.com/info , fig. 4 .
Il campione esaminato si presenta particolarmente raffinato e curato nella livrea esterna. La scelta dei materiali segue una filosofia costruttiva che si sposa perfettamente con il gusto dell’estetica, la funzionalità, la raffinatezza, la ricercatezza e col piacere di toccare con
mano qualcosa di vivo come il legno. Quest’ultimo elemento, oltre a conferire all’insieme un tocco di classe,
contribuisce, seppur in minima parte, ad assorbire e
smorzare le vibrazioni, oltre che avere una funzione
termica molto importante prevedendo l’uso della testa
in condizioni climatiche rigide.
La struttura portante, essenzialmente costituita da tre
blocchi, è realizzata in ergal.
La resistenza alle sollecitazioni meccaniche di questa
lega di alluminio, zinco, magnesio e altri elementi in
percentuale minore, è ottima e si pone a livelli di vertice
fra tutte le leghe di alluminio.
La realizzazione artigianale e la disponibilità dei progettisti e dei costruttori, conferiscono al pezzo marchiato Fox Wide caratteristiche di espansibilità, modularità
e integrabilità tali da renderlo molto interessante non
solo per i fotografi naturalistici e sportivi, ma anche per
gli astroimager.
M. Dho, Gimbal
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FIG. 6: Due tipi di cercatore impiegati come accessori di puntamento veloce su telescopi ottici di tipo commerciale
Una soluzione tecnologica polivalente capace di far
coincidere, o quantomeno avvicinare molto, le esigenze
del naturalista, dello sportivo e dell’astronomo dilettante. Con la medesima strumentazione si possono, infatti,
ottenere scatti o filmati di varia natura e aventi soggetti
disparati. Il costo della Gimbal in questione, seppur
decisamente più elevato rispetto a produzioni economiche reperibili sul mercato, si aggira intorno ai settecento Euro e, considerandone la robustezza (lo scrivente ha
applicato sulla slitta compatibile Arca Swiss un carico
di oltre venti chilogrammi, senza ravvisare stress strutturali) è da ritenersi ottimo (fig. 5).
Rispetto a una testa di tipo tradizionale, anche se ben
realizzata, una Gimbal restituisce all’utilizzatore grande
stabilità e una maggiore velocità nella ricerca e nel puntamento dei target da riprendere. La rapidità operativa
deriva dal fatto che, dopo aver ottenuto un preciso bilanciamento delle masse sorrette dall’accessorio, non
occorre fermare il movimento poiché il lavoro della frizione è praticamente nullo o, quantomeno, superfluo e
ridotto al minimo.
Come accennato in precedenza, i punti di equilibrio
dell’ottica e quello del movimento della testa combaciano, il che agevola non poco ogni fase acquisitiva e permette un coordinamento perfetto dei movimenti di rotazione e basculaggio.
Il Go To e il guiding manuali sono assolutamente morbidi, esenti da scatti, vibrazioni e disuniformità tensionali; la distribuzione degli attriti radenti e volventi è
costante su tutto il range di operatività degli spostamenti e questo permette di fermare shot più dinamici.
L’ergonomicità dell’insieme di una Gimbal head è tale
da consentirne un impiego ambidestro: il braccio principale, sul quale si trovano i comandi delle frizioni, può
essere posizionato a destra o a sinistra della congiungente macchina fotografica - obiettivo.
Quest’accessorio fotografico, con una serie di piccoli
accorgimenti, può essere usato con ottimi risultati anche dagli astroimager e dai visualisti.
L’assenza di motorizzazioni ne determina la selettività
di utilizzo indirizzandolo verso riprese di tipo misto, a
grande campo o di strisciate stellari.
Nessun problema, invece, per quanto concerne
l’osservazione diretta del cielo o di eventi particolari
quali i transiti o i passaggi di satelliti artificiali.
Un indispensabile optional, fra l’altro facilmente realizzabile in proprio, è rappresentato da un dispositivo che
svolge la funzione di cercatore. Questa implementazione agevola il compito di puntamento veloce, sia in contesti operativi fotografici sia in quelli osservativi, quando le lunghezze focali dei gruppi ottici installati sono
troppo lunghe (fig. 6).
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M. Dho, Gimbal
FIG. 7: Espressioni artistiche rinascimentali che ritraggono le nuvole nella loro enigmatica suggestività. A sinistra, il Battesimo
di Cristo (Piero della Francesca, 1445); a destra, Orazione nell’orto, di Andrea Mantegna (1457-1459).
Lo scrivente ha concepito una bozza di progetto base,
che gli servirà per la realizzazione di un prototipo di
cercatore dotato di caratteristiche peculiari che consentiranno un rapido ancoraggio alla forcella di una testa
Gimbal e, soprattutto, agevoleranno e velocizzeranno le
operazioni di collimazione.
Collimare, in questo specifico caso, significa eseguire
una serie di operazioni fondamentali tese a rendere
l’asse ottico del cercatore parallelo all’asse ottico di un
cannocchiale, di un piccolo telescopio o di un binocolo.
Questa procedura è ben conosciuta nel mondo
dell’astronomia pratica poiché permette agli osservatori
e ai fotografi del cielo di usufruire di un asservimento
assolutamente indispensabile nel puntamento di un
oggetto o di un determinato settore di firmamento.
In altre parole, al momento di osservare o di riprendere
un target, è sufficiente portare lo stesso al centro del
range angolare inquadrato dal cercatore per trovarlo
all’interno del campo dell’oculare, della camera CCD o
del sensore della macchina fotografica.
La collimazione si esegue solitamente nelle ore diurne,
puntando oggetti geometricamente definiti posti a una
distanza di almeno mezzo chilometro per evitare errori
di parallasse. L’idea dell’autore è di inserire un proiettore di raggio laser nella struttura del cercatore in modo
da poter effettuare le operazioni di collimazione anche
di notte e usare lo stesso per “centrare al volo” soggetti
particolari.
I campi di applicazione di una Gimbal head in astronomia possono essere disparati, anche se l’impiego più
prestante rientra nell’ambito dell’osservazione visuale.
I possibili bersagli sono innumerevoli e, in pratica, sono
gli stessi raggiungibili con un piccolo telescopio rifrattore accoppiato a una montatura altazimutale priva di
motori in ascensione retta e declinazione.
Rispetto a questo setup, uno strumento ottico montato
su una testa a bilanciere, tipo la menzionata Gimbal
head by Fox Wide, è più maneggevole e di uso immediato e istintivo. Nessuna manopola, nessun blocco,
nessun elemento d’intralcio ed estrema facilità di montaggio e trasporto. Va sottolineata, inoltre, la notevole
robustezza del blocco ottico e della meccanica di sostegno e movimento, nonché la versatilità del sistema stativo – testa – ottica che può essere considerato strumento all in one d’eccellenza.
I medesimi strumenti e accessori impiegati nelle osservazioni o nelle riprese diurne di soggetti naturalistici,
sportivi, architettonici, stilistici o famigliari, si dimostrano efficientissimi nell’osservazione notturna di fenomeni e di corpi celesti.
Il connubio Gimbal head e cannocchiale, teleobiettivo o
telescopio si apprezza anche nella contemplazione ravvicinata di quell’universo, cangiante di mutevoli colori e
forme, sintetizzato nel cielo pieno di nuvole. Con relativa facilità si ottengono visioni, immagini statiche o riprese video che in quanto a fascino e immaginazione
M. Dho, Gimbal
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FIG. 8: Un paio di binocoli, di dimensione media, presi in
considerazione dall’autore per il concepimento progettuale
di un accessorio per testa a bilanciere.
si possono realizzare manufatti di una certa quale utilità che possono essere definiti, a tutti gli effetti, elementari teste Gimbal.
Di certo non sono, in quanto a qualità e prestazioni,
paragonabili a una testa a bilanciere commerciale e tanto meno a una realizzata, a regola d’arte, da un’officina
artigianale, ma possono svolgere una funzione di supporto, consistente nel muovere un obiettivo lungo tre
assi, decorosa e utile a chi non ha grandi pretese.
Fondamentalmente nate per soddisfare specifici scopi,
le teste a bilanciere possono costituire dei componenti
jolly nel parco strumentale di molti appassionati di fotografia o di osservazioni visuali catturati dalle bellezze
del pianeta Terra e da quelle più esotiche dell’Universo
che la contiene.
quasi rimandano a dipinti famosi quali “Il battesimo di
Cristo” di Piero della Francesca e ad altre espressioni
artistiche, in cui le nubi compaiono nella loro enigmatica suggestività, di grandi pittori rinascimentali, fra le
quali possiamo citare, a puro titolo di esempio,
“L’orazione nell’orto” di Andrea Mantegna (fig. 7).
Il cloudspotting praticato servendosi, fra le altre cose,
di una testa a bilanciere, restituisce scenografie in continua evoluzione capaci di condurre l’umano essere a
contemplazioni sensoriali e umanistiche che sfociano
nella scienza pura attraverso l’apprendimento della genesi e della formazione delle nuvole e l’immissione nel
mondo della meteorologia.
Un’ulteriore possibile evoluzione delle teste Gimbal,
oltre a quella di dotarle di un cercatore, è rappresentata
dal concepimento e dalla concretizzazione pratica di un
accessorio capace di renderle adatte a ospitare un binocolo di medie dimensioni (fig. 8).
In pratica si tratterebbe di realizzare una sorta di piastra, opportunamente sagomata, con attacco filettato e
innesto rapido compatibili con quelli della factory, da
ancorare alla basetta esistente sulla testa a bilanciere e
sulla quale troverebbe alloggiamento il binocolo a sua
volta fissato all’accessorio in questione con elementi di
tipo vite-madrevite.
È bene precisare che, con macchine utensili amatoriali,
componenti di recupero e un briciolo d’intraprendenza,
Mario Dho
Master-chief technician, first head of the instrumentation
section of the Unione Astrofili Italiani (Italian Amateur
Astronomers Union) and of the “CCD-UAI” project.
Author of a manual with foreword of the astrophysicist
Margherita Hack, dedicated to the automation and remote
controlling of an astronomical observatory.
Dozens of his technical articles were published in national
journals of science and culture, webzines and websites.
Numerous contributions to popular tendency, signed by him,
have appeared in local magazines.
Software and application modules tester for the automatic
control of astronomical instruments.
Perito-capotecnico industriale, primo responsabile della Sezione Strumentazione dell’Unione Astrofili Italiani e del progetto
“CCD-UAI”. Autore di un manuale, con prefazione
dell’astrofisica Margherita Hack, dedicato alla robotizzazione e
alla remotizzazione di un osservatorio astronomico. Decine di
suoi articoli tecnici sono stati pubblicati su riviste nazionali di
scienza e cultura, webzine e siti Internet.
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A. Villa, Transiti extrasolari
2015-2016: TRANSITI DI PIANETI EXTRASOLARI
ALL’OSSERVATORIO DI LIBBIANO
(PRIMA PARTE)
Alberto Villa
[email protected]
FIG. 1: Confronto dimensionale tra Giove ed il pianeta HAT-P-13b, che ha una massa stimata pari all’80% di quella gioviana, ma un raggio superiore del 30%.
L’anno appena trascorso è stato ricco di soddisfazioni
per l’Associazione AAAV e per l’Osservatorio di Libbiano, www.astrofilialtavaldera.it/.
Nel corso dell’annata abbiamo eseguito la ripresa fotometrica di numerosi transiti extrasolari in altissima
precisione e, come abbiamo già avuto modo di fare nei
precedenti numeri di Astronomia Nova (nn. 18, 19, 20)
per le precedenti campagne osservative, anche in questo numero della rivista illustreremo i risultati conseguiti nel 2015, e nel primo scorci0 di questo mese di
gennaio, nell’ambito delle osservazioni di transiti extrasolari, corredandoli con brevi commenti.
09 febbraio 2015: transito di HAT-P-13b
HAT-P-13b è un pianeta un po’ più “leggero” di Giove
(fig. 1), scoperto nel 2009 intorno ad una stella di magnitudine 10,6 simile al Sole, che dista dai noi 700 a.l.
nell’Orsa Maggiore. Il pianeta orbita attorno alla sua
stella in circa 3 giorni, mentre la profondità del transito
non è molto accentuata, essendo pari a circa 7/1000 di
magnitudine e con una durata di 193 minuti.
Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1,
1024 x 1024 pixels (alla temperatura di -20° C), guida
al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 200 secondi, per complessive 106 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 18:27 T.U.; fine alle
22:04 T.U. ; il cielo era limpido e sereno.
La curva di luce risultante (fig. 2), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 5 (Data Quality, secondo la
definizione della Czech Astronomical Society, http://
var2.astro.cz/ETD/index.php). All’osservazione hanno
partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Silvia
Gingillo e Lorenzo Bigazzi.
06 marzo 2015: transito di CoRoT-1b
CoRoT-1b (fig. 3) è il primo pianeta extrasolare ad essere scoperto dalla missione CoRoT nel 2007 (fig. 4).
Esso è un gioviano caldo che orbita a poca distanza dalla sua stella ed ha una temperatura superficiale elevatissima.
A. Villa, Transiti extrasolari
ASTRONOMIA NOVA
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FIG. 2: A fianco, curva di luce del transito di HAT-P-13b
durante il transito del 9 febbraio 2015 all’Osservatorio di
Libbiano.
biano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1,
1024 x 1024 pixels (alla temperatura di -20° C), guida
al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 150 secondi, per complessive 78 immagini.
Il cielo era sereno, anche se in presenza di vento a raffiche e la Luna era piena, a 90° dalla zona di ripresa.
La curva di luce risultante (fig. 5) è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. La confrontiamo con quella
ottenuta al VLT durante un transito del 2008 (fig. 4).
Le principali caratteristiche di questo pianeta sono il
suo grande raggio e la sua bassa densità media. Infatti,
la sua massa è pressoché identica a quella di Giove
(fonte: http://arxiv.org/abs/0905.4571v1), mentre il
raggio è 1,45 RJ ed orbita in circa 1,5 giorni. Il sistema
CoRoT—1 è nella costellazione dell’Unicorno a 1500 a.l.
da noi; la sua stella, abbastanza simile al Sole, è di tipo
spettrale G0V. Il transito sul disco della sua stella avviene in circa 2h 20m e la sua profondità è di 25/1000
di magnitudine.
Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Lib-
FIG. 3: Rappresentazione artistica di CoRoT—1b, proiettato sul
disco della suo stella.
FIG. 4: Sopra, curva di luce di CoRoT—1b, ottenuta al telescopio VLT il 28 febbraio 2008 (fonte: http://arxiv.org/
abs/0905.4571v1 ).
FIG. 5: Transito di CoRoT—1b del 06 marzo 2015 ripreso
all’Osservatorio di Libbiano.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 6: Transito di HAT-P-3b
del 7 aprile 2010, ottenuto al
telescopio
di
1,82m
dell’Osservatorio di Asiago
(fonte: http://arxiv.org/
abs/1011.6395).
All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Silvia Gingillo e Lorenzo
Bigazzi.
10 marzo 2015: transito di HAT-P-3b
HAT-P-3 b, un pianeta extrasolare scoperto nel 2007,
orbita intorno alla stella GSC 03466-00819 (spettro: K,
magnitudine visuale: 11,9), e dista da noi 450 anni luce
nella costellazione dell'Orsa Maggiore. Ha una massa di
circa 0,6 volte quella di Giove ed un raggio di 0,89 volte; orbita in 2,9 giorni ed un suo transito ha una durata
di circa 2h ed una profondità di 15/1000 di magnitudine.
Nel 2010 le osservazioni di alcuni transiti di HAT-P-3b
(fig. 6) sono servite per mettere a punto il sistema di
misura di fotometria differenziale in altissima precisione del progetto TASTE (vedi: http://arxiv.org/
abs/1011.6395) promosso all’Osservatorio di Asiago con
il telescopio di 1,82m, per la ricerca di piccoli pianeti o
lune in altri sistemi extrasolari con il metodo dei transiti. Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio
di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class
1, 1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida
al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 75 secondi, per complessive 138 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 19:39 T.U.; fine alle
22:55 T.U. ; il cielo è stato prevalentemente limpido e
sereno, solamente verso la fine del transito si è avuto il
passaggio di nubi.
FIG. 7: A sinistra, curve di luce del transito di HAT-P-3b del
10 marzo 2015, realizzata all’Osservatorio di Libbiano.
Sopra, campo di ripresa delle immagini di HAT-P-3 con le
stelle di riferimento utilizzate.
A. Villa, Transiti extrasolari
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
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FIG. 8: A sinistra, la curva di luce di HAT-P-22b durante il
transito del 14 aprile 2015 ripreso all’Osservatorio di Libbiano.
La curva di luce risultante (fig. 7), è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Valerio Menichini, Silvia Gingillo, Maurizio Feraboli e Lorenzo Bigazzi.
14 aprile 2015: transito di HAT-P-22b
HAT-P-22b è un pianeta gigante denso, scoperto nel
2010, di 2,1 masse gioviane ma con un raggio pressoché
identico. Orbita in 3,2 giorni. attorno ad una di tipo
spettrale G5, magnitudine visuale 11,9, distante 250 a.l.,
nell’Orsa Maggiore. Il transito ha una durata di 172 minuti ed una profondità di 12/1000 di magnitudine.
Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1,
1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida al
rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 105 secondi, per complessive 125 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 19:06 T.U.; fine alle
23:07 T.U. ; il cielo è sereno all’inizio; passaggio di nubi / velature nella seconda metà del transito.
La curva di luce risultante (fig. 8), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 4.
Abbiamo notato che, rispetto al tempo stimato dalle
effemeridi per l’entrata, dall’osservazione si rileva chiaramente un ritardo di almeno 10 minuti. Il calo di luminosità conseguente ha infatti inizio dopo le 19.48 TU
(fig. 9). Anche l’uscita sembra mantenere lo stesso ri-
FIG. 9: In alto, punto di inizio del transito, osservato a
Libbiano con un ritardo di circa 10 minuti rispetto alle
effemeridi di previsione.
tardo, anche se è necessario precisare che in questa parte della curva l'errore strumentale è certamente maggiore, a causa delle condizioni meteo, notevolmente
peggiorate durante la seconda metà del transito.
All’osservazione hanno partecipato: Valerio Menichini,
Silvia Gingillo, Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Carlo Buscemi e Flavia Casini.
24 aprile 2015: transito di HAT-P-27b
Il pianeta extrasolare HAT-P-27b (fig. 10), noto anche
con il nome di WASP-40b, è un pianeta gioviano scoperto nel 2011 nella costellazione della Vergine che ha
un massa pari a 0,66 MJ. Orbita attorno alla sua stella,
di tipo spettrale G8 e magnitudine V = 12,2, in 3 giorni.
Questo sistema è a una distanza di 650 a.l. da noi. La
profondità del transito è di 14/1000 di magnitudine ed
ha una durata di 100 minuti.
FIG. 10: Confronto tra le dimensioni di HAT-P-27b ed i pianeti
del nostro Sistema solare.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 11: Transito di HAT-P-27b/WASP-40b del 24 aprile
2015 ripreso all’Osservatorio di Libbiano.
La curva di luce risultante (fig. 13), è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Flavia Casini
e Mimmo Belli.
Come al solito, per le riprese si è fatto uso del telescopio
Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera CCD FLI - Kodak KAF 1001E class 1,
1024 x 1024 pixel (alla temperatura di -20° C), guida al
rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 75 secondi, per complessive 117 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 21:00 T.U.; fine alle
23:46 T.U. ; il cielo è stato limpido e sereno.
La curva di luce risultante (fig. 11), è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Valerio Menichini, Silvia Gingillo, Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Flavia Casini,
Dario Ciurli e Fabio Marzioli.
06 maggio 2015: transito di GJ436b
Un transito di GJ436b è già stato osservato
all’Osservatorio di Libbiano il 14 maggio 2014, pertanto
per la descrizione del pianeta e della sua stella rimandiamo ad Astronomia Nova n. 18, p. 84.
Per le riprese si è fatto uso del telescopio Ritchey Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, e della
nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024
pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C),
guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole,
senza filtro, di 90 secondi, per complessive 92 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 20:34 T.U.; fine alle
22:52 T.U. ; cielo sereno con presenza della Luna nella
seconda metà del transito. Il campo di ripresa è in fig.
FIG. 12: Campo di ripresa di GJ436b.
FIG. 13: Curva di luce del transito di GJ436b ottenuta
all’Osservatorio di Libbiano il 6 maggio 2015. Si è utilizzata
come stella di confronto la Ref. 4 (vedi fig. 12).
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 14: Rappresentazione artistica del pianeta extrasolare
Qatar—1b
18 maggio e 04 giugno 2015: transiti di Qatar—
1b
Qatar—1b (fig. 14) è un esopianeta scoperto nel 2010
nella costellazione del Dragone con una massa identica
a quella di Giove ed il raggio di 1,1 RJ. Orbita vicinissimo alla sua stella, appena 3,5 milioni di km in 1,4 giorni.
La stella ospite è di tipo spettrale K, massa 0,85 volte
quella del Sole, magnitudine visuale 12,8. I transiti di
questo pianeta hanno breve durata, circa 97 minuti ed
una profondità di 2/100 di magnitudine.
Tra il 2011 ed il 2012, Carolina von Essen e colleghi,
dopo aver analizzato le curve di luce di 26 transiti di
Qatar-1b, ottenuti con telescopi di 1,2m e 0,6m, ipotizzarono che le variazioni da loro rilevate nei tempi dei
transiti potessero essere prodotte dalla presenza perturbatrice, nelle vicinanze, di una nana bruna oppure di
un
altro
pianeta
(fonte:
http://arxiv.org/
abs/1309.1457). Studi successivi, basati su una nuova
raccolta di 18 transiti osservati con telescopi di dimensioni da 0,6m a 2m, sembrano invece dimostrare che
non vi siano variazioni rilevabili nei tempi dei transiti,
pertanto l’idea della presenza di un pianeta invisibile o
di una nana bruna è stata abbandonata (fonte: http://
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
Pagina 71
arxiv.org/abs/1503.07191).
Come al solito, per le riprese del 18 maggio di Qatar—1b
si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm,
f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, e della nuova camera
CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back
illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 90 secondi, per complessive 100 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 19:49 T.U.; fine alle
22:19 T.U. ; cielo sereno.
La curva di luce risultante (fig. 15), è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Flavia Casini
e Mimmo Belli.
La curva di luce del 4 giugno successivo è stata ottenuta
con lo stesso telescopio e camera CCD, integrazioni singole, senza filtro, di 90 secondi, per complessive 100
immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:43
T.U.; fine alle 23:13 T.U. ; Cielo sereno, a due giorni
dalla Luna piena.
La curva di luce risultante (fig. 16), è di qualità discreta,
con un DQ probabile di 3. All’osservazione hanno partecipato: Flavia Casini, Maurizio Feraboli, Alberto Villa,
Dario Ciurli, Mimmo Belli e Lorenzo Sax Bigazzi.
FIG. 15: Transito di Qatar—1b ripreso il 18 maggio 2015
all’Osservatorio di Libbiano.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 16: Transito di Qatar—1b ripreso il 18 maggio 2015
164 minuti ed una profondità di 7/1000 di magnitudine.
Come al solito, per le riprese del 28 giugno di CoRoT-1b
si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm,
f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera
CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back
illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 150 secondi, per complessive 75 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:53 T.U.; fine alle
23:59 T.U. ; cielo sereno co Luna.
La curva di luce risultante (fig. 18), è di qualità accettabile, con un DQ probabile di 5. All’osservazione hanno
partecipato: Dario Ciurli, Maurizio Feraboli, Flavia Casini e Alberto Villa.
28 giugno 2015: transito di CoRoT—8b
CoRoT—8b (fig. 17), esopianeta scoperto nel 2010, si
trova nella costellazione dell’Aquila ed ha una massa
pari ad 1/5 di quella di Giove ed un raggio di 0,57 R J.
Orbita intorno alla sua stella a 9 milioni di Km di distanza in 6,2 giorni. La stella è di tipo spettrale K1V,
magnitudine visuale 14,8 e massa 0,88 masse solari.
Dista da noi 1200 a.l.
I transiti di questo pianeta hanno una durata di circa
07 luglio 2015: transito di TrES-2b/Kepler-1b
TrES-2b (fig. 19), scoperto nel 2006 nell'ambito del
programma di ricerca Trans-Atlantic Exoplanet Survey
è stato il primo esopianeta osservato dal telescopio spaziale Kepler, ricevendo per questo la denominazione
Kepler-1b.
TrES-2b orbita attorno ad una stella simile al Sole, posta ad oltre 700 a.l. nella costellazione del Dragone. Il
pianeta orbita in circa 2,5 giorni. Ha una massa legger-
FIG. 17: Grafico che raccoglie le caratteristiche
salienti dei primi 15 pianeti scoperti da CoRoT. In
ascissa, il periodo orbitale, in ordinata le dimensioni. RE è la dimensione
del raggio rispetto a quello terrestre; d: periodo
orbitale in giorni. CoRoT8b è il 14° pianeta in ordine di grandezza (crediti:
Patrice Amoyel).
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 18: Curva di luce del transito di CoRoT—8b del 28 giugno
2015 ottenuta all’Osservatorio di Libbiano.
mente superiore a quella gioviana (1,3 MJ) con raggio
1,17 RJ . La sua caratteristica più peculiare è la bassissima albedo: con un indice di riflessione inferiore all'1%
risulta essere uno dei più scuri esopianeti finora scoperti. Transita sul disco della sua stella, di magnitudine
visuale 11,4, in 90 minuti ed una profondità di
17/10000 di magnitudine. Come al solito, per le riprese
del 7 luglio di TrES-2b si è fatto uso del telescopio Ri-
ASTRONOMIA NOVA
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FIG. 20: Curva di luce del transito di TrES-2b/Kepler-1b del
7 luglio 2015 all’Osservatorio di Libbiano.
tchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line PL4710,
1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di
–30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni
singole, senza filtro, di 60 secondi, per complessive 134
immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 21:17 T.U.;
fine alle 23:29 T.U. ; cielo sereno.
La curva di luce risultante (fig. 20), è di buona qualità,
con un DQ probabile di 2, molto probabilmente la nostra migliore osservazione di un transito fino a questo
momento. All’osservazione hanno partecipato: Flavia
Casini, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli e Alberto Villa.
10 luglio 2015: transito di KELT-1b
KELT-1b (fig. 21) è un esopianeta estremamente massiccio (ca. 27 MJ) scoperto nel 2012, con un raggio 1,1
RJ, che orbita in 1,2 giorni intorno ad una stella di tipo
spettrale F5, magnitudine visuale 10,7, massa 1,3 volte
il Sole, distante 800 a.l. nella costellazione di Andromeda. Il transito ha una durata di 153 minuti circa ed una
profondità di 7/1000 di magnitudine. KELT-1b è stato
scoperto nel corso di una survey promossa dal Consorzio KELT North costituito dalla Ohio State University e
dalla Vanderbilt University.
FIG. 19: Rappresentazione artistica del pianeta extrasolare
TrES-2b/Kepler-1b.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
A. Villa, Transiti extrasolari
FIG. 21: Rappresentazione artistica del pianeta gigante Kelt-1b, (crediti: Vanderbilt University)
Il sistema di ripresa (fig. 22) è costituito da un semplice
teleobiettivo munito di una buona camera CCD
4096x4096 pixel che copre un campo di ben 26°x26°.
Esiste ancora oggi una certa indecisione su come considerare KELT-1b: è un pianeta di tipo gioviano caldo,
oppure una nana bruna? Osservazioni di transiti di
KEKT-1b effettuate nel 2012 con il telescopio spaziale
SPITZER non escludono nessuna di queste possibilità
(vedi: http://arxiv.org/abs/1310.7585).
Come al solito, per le riprese del 10 luglio KELT—1b si è
fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6
dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova camera CCD
FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore
180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza filtro, di 120
secondi, per complessive 96 immagini. Inizio sequenza
delle riprese alle 21:44 T.U. ; fine alle 00:57 T.U.
dell’11/07; cielo sereno.
La curva di luce risultante (fig. 23), è di sufficiente qualità, con un DQ probabile di 4. All’osservazione hanno
partecipato: Flavia Casini, Maurizio Feraboli, Alberto
Villa, Lorenzo Bigazzi and Silvia Gingillo.
02 agosto 2015: transito di HAT-P-3b
Un transito di HAT-P-3b era già stato osservato
all’Osservatorio di Libbiano nella notte del 6 marzo
2015 (vedi qui, p. 68). Con la stessa configurazione
strumentale, ne abbiamo ripreso un altro il 2 agosto
(fig. 24). Le due curve sono leggermente diverse, pro-
FIG. 22: Il teleobiettivo Mamya 635 munito di CCD 4096x4096 pixel,
con un campo di 26°x26°, su una robustissima montatura equatoriale,
è utilizzato dal Consorzio KELT North per la ricerca di pianeti extrasolari in transito.
A. Villa, Transiti extrasolari
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
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Un’altra cosa che abbiamo rilevato nel transito del
02/08, è che l’inizio del transito sembra ritardare di 8
minuti rispetto ai tempi forniti dalle effemeridi pubblicate dal sito specializzato http://var2.astro.cz/ETD/
index.php . Anche questo è un aspetto di grande interesse che andrebbe approfondito. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Dario Ciurli, Flavia Casini e Mimmo Belli.
FIG. 23: Curva di luce di KELT-1b ottenuta all’Osservatorio di
Libbiano durante il transito del 10 luglio 2015.
babilmente a causa di due fattori prevalenti: le diverse
condizioni meteo (il 6 marzo ci fu qualche velatura durante la fine del transito) e la diversa scelta delle stelle
di confronto (il 6 marzo fu utilizzata una sola stella; la
stessa fu utilizzata anche il 2 agosto, alla quale ne abbiamo però aggiunto una seconda).
FIG. 24: Curva di luce di HAT-P-3b ottenuta all’Osservatorio
di Libbiano il 2 agosto 2015.
01 novembre 2015: transito di HAT-P-19b
HAT_p_19b (fig. 25) è un esopianeta scoperto nel
2010, con una massa pari a 1/3 MJ, raggio 1,13 RJ che
orbita intorno alla sua stella in 4 giorni.
La stella ospite è di tipo spettrale K, magnitudine visuale 12,9; di dimensioni leggermente inferiori al Sole.
Questo sistema dista da noi circa 650 a.l. nella costellazione di Andromeda.
Un transito ha una durata di circa 170 minuti e una
profondità di 2/1000 di magnitudine.
Recenti studi su questo pianeta e la sua stella ospite
sembrano dimostrare che non vi sono TTV (transit
timing variations, variazioni di tempo del transito) che
se fossero accertate, costituirebbero un indizio per la
presenza di altri pianeti al momento non rilevabili con
altre tecniche (fonte: http://arxiv.org/abs/1508.06215).
Come al solito, per le riprese del 1° novembre di HAT
-P-19b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien
500 mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano, camera
FIG. 25: Rappresentazione artistica di HAT-P-19b.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
A. Villa, Transiti extrasolari
scopio Ritchey-Chretien 500 mm, f/6 dell’Osservatorio
di Libbiano e della nuova camera CCD FLI - Pro Line
PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore 180 mm – f/9.
Integrazioni singole, senza filtro, di 105 secondi, per
complessive 88 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 20:04 T.U. ; fine alle 22:38 T.U. ; cielo sereno
fino alle 22:38:06 TU ed in seguito nubi che non ci hanno permesso di riprendere l’uscita.
Appare evidente che rispetto al tempo previsto per
l’entrata (20:53 TU), si è registrato un anticipo di circa
12 minuti: il calo di luminosità ha infatti chiaramente
inizio alle 20:41 TU (fig. 28). Hanno partecipato all'osservazione: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo
Bigazzi, Dario Ciurli e Silvia Gingillo.
FIG. 26: Curva di luce del transito di HAT-P-19b del 1° novembre 2015 all’Osservatorio di Libbiano.
FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al rifrattore
180 mm – f/9.
Integrazioni singole, senza filtro, di 75 secondi, per
complessive 180 immagini. Inizio sequenza delle riprese alle 22:22 T.U. ; fine alle 00:16 T.U. dell’02/11; cielo sereno con vento a raffiche.
La curva di luce risultante (fig. 26), è di buona qualità,
con un DQ probabile di 2. All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Lorenzo Bigazzi, Dario Ciurli, Silvia Gingillo e Mimmo Belli.
13 gennaio 2016: transito di HAT-P-25b
HAT-P-25b è un esopianeta scoperto nel 2010 nella
costellazione dell’Ariete. Ha una massa pari alla metà di
Giove e un raggio 1,19 RJ; il periodo orbitale è di 3,65
giorni. La sua stella è di tipo spettrale G5, magnitudine
visuale 13,2. Questo sistema dista da noi 1000 a.l.
Un transito dura circa 169 minuti ed ha una profondità
di di 2/100 di magnitudine. Come al solito, per le riprese del 13 gennaio di HAT-P-25b si è fatto uso del tele-
FIG. 28: Parte della curva di luce del transito di HAT-P-25b
relativa all’inizio del fenomeno: si è osservato un anticipo di
circa 12 minuti nel tempo di ingresso rispetto al calcolo fornito
dalle effemeridi.
FIG. 27: Curva di luce del transito di HAT-P-25b del 13 gennaio 2016 all’Osservatorio di Libbiano.
A. Villa, Transiti extrasolari
ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
Pagina 77
FIG. 30: Campo
centrato su XO-5.
16 gennaio 2016: transito di XO-5b
XO-5b è un pianeta extrasolare scoperto nel maggio
2008 a circa 850 anni luce di distanza nella costellazione della Lince. Il pianeta ha una massa e raggio solo
leggermente più grande di quello di Giove. Esso orbita
molto vicino alla stella ospite di tipo G in 4,188 giorni a
7,32 milioni di chilometri. Il transito ha una durata di
193 minuti ed una profondità di 14/1000 di magnitudi-
ne. Come al solito, per le riprese del 16 gennaio di XO5b si è fatto uso del telescopio Ritchey-Chretien 500
mm, f/6 dell’Osservatorio di Libbiano e della nuova
camera CCD FLI - Pro Line PL4710, 1024 x 1024 pixel
back illuminated (alla temperatura di –30° C), guida al
rifrattore 180 mm – f/9. Integrazioni singole, senza
filtro, di 120 secondi, per complessive 139 immagini.
Inizio sequenza delle riprese alle 22:18 T.U.; fine alle
02:58 T.U. del 17/01; cielo sereno con vento nella prima parte del transito. La curva di luce risultante (fig.
31), è di discreta qualità, con un DQ probabile di 3.
All’osservazione hanno partecipato: Alberto Villa, Maurizio Feraboli, Dario Ciurli, Lorenzo Bigazzi e Silvia
Gingillo.
Alberto Villa è Presidente della AAAV - Associazione
Astrofili Alta Valdera di Peccioli (PI), nell’ambito della
quale è
responsabile delle sezioni “Spettrografia”,
FIG. 31: Curva di luce del transito di XO-5b del 16 gennaio “Eclissi” e “Pianeti extrasolari”. Osserva dall' Osservatorio “Galileo Galilei” del Centro Astronomico di Libbiano.
2016 all’Osservatorio di Libbiano.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 21/2015
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
FESTIVAL DELLA LUCE 2015
Bondeno—Ferrara
23-24-25 ottobre 2015
Rodolfo Calanca, Direttore EAN e ASTRONOMIA NOVA
Daniele Biancardi, Presidente Associazione Bondeno Cultura
Claudio Gavioli, Presidente Associazione Studi Astronomici
Secondo l’UNESCO, l'Anno Internazionale della Luce
2015 che si è appena concluso, è un’iniziativa globale
che mira ad accrescere la conoscenza e la consapevolezza di ciascuno di noi sul modo in cui le tecnologie basate sulla luce promuovano lo sviluppo sostenibile e forniscano soluzioni alle sfide globali ad esempio nei campi
dell’energia, dell’istruzione, delle comunicazioni, della
salute e dell' agricoltura.
Nella risoluzione dell’ONU che proclama l’Anno Internazionale della Luce, si fa notare che il 2015 “coincide
con gli anniversari di una serie di importanti pietre miliari nella storia della scienza della luce” ma dimentica
del tutto il grandissimo contributo dato alla conoscenza
del fenomeno della diffrazione della luce dal gesuita
bolognese Francesco Maria Grimaldi (allievo dello stellatese Giovanni Battista Riccioli) autore del fondamentale trattato: De lumine, pubblicato postumo a cura di
Riccioli, esattamente 350 anni fa, nel 1665 (si veda
l’articolo di Andrea Battistini su Astronomia Nova n.
19) . Il Festival della Luce di Bondeno ha voluto valorizzare i contributi di Grimaldi e di Riccioli alla conoscen-
za della luce e, in particolare, della luce della Luna, il
cui disco fu disegnato magistralmente da Grimaldi e i
cui crateri e “mari”, in molti casi, ancora oggi, portano i
nomi introdotti da Riccioli nella sua enciclopedica opera: Almagestum Novum pubblicata nel 1651. Per inciso,
ricordiamo che il termine “Luna” deriva dalla radice
indoeuropea leuk, che significa “luce riflessa”. Gli studi
empirici di Grimaldi sulla diffrazione della luce e le successive teorie fenomenologiche della luce e dei colori
formulate da grandi scienziati nei tre secoli successivi,
hanno portato contributi fondamentali alle tecnologie
che sono alla base della moderna società
dell’informazione.
23 ottobre 2015: Inaugurazione del Festival
In apertura del Festival, il mattino del 23 ottobre, nella
bella Sala 2000 di Corso Matteotti, il Sindaco Fabio
Bergamini ha portato i saluti dell’Amministrazione a
tutti i convenuti, in una sala gremita da giovani ed appassionati.
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
ASTRONOMIA NOVA
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23 ottobre: inaugurazione del Festival della Luce: sul palco, da sinistra, Claudio Gavioli, il Sindaco di Bondeno Fabio Bergamini, Daniele Biancardi, Rodolfo Calanca.
23 ottobre - La prima giornata
CONVEGNO DI SELENOGRAFIA ANTICA
Il Convegno sulla Selenografia del Seicento ha costituito l’occasione per un ampio excursus sulla nascita della
cartografia lunare. Tenuta a battesimo dal Sidereus
Nuncius di Galileo Galilei (la prima pubblicazione a
stampa che contiene disegni della Luna eseguiti con
l’ausilio del cannocchiale) la selenografia fu in continua
evoluzione per tutto il secolo e culminò nell’opera astronomica di Giovanni Domenico Cassini, autore di
una grande carta lunare che costituisce un autentico
compendio di tutte le conoscenze relative al nostro satellite, fino ad allora acquisite dalla comparsa del cannocchiale.
Nel mezzo di quel secolo così fecondo, il problema della
toponomastica lunare accese una disputa che rifletteva
le profonde divisioni in seno alla stessa cristianità. A
contendersi l’esclusivo diritto di mettere un proprio
sistema di nomenclature sugli “oceani” e le asperità
della Luna, alcune figure di spicco dell’astronomia secentesca, principalmente Johannes Hevelius (16111687), l’astronomo luterano di Danzica, ed il gesuita
stellatese Giovanni Battista Riccioli (1598-1671). Prevalse la nomenclatura di quest’ultimo.
Nel corso del convegno sono stati descritti anche gli
aspetti strumentali (i primi telescopi a lenti semplici, la
loro risoluzione ed ingrandimenti) ed il loro impatto
sulla qualità delle osservazioni astronomiche. E’ pure
stato esaminato il contributo di Grimaldi e Riccioli e
della scuola gesuitica all’astronomia (tra Tolomeo e Copernico), attraverso le grandi opere collettive compilate
alla metà del Seicento: l'imponente Almagestum Novum e la "nuova" astronomia nell'Astronomia Reformata.
La moderna osservazione scientifica del cielo, e della
Luna in particolare, ha avuto inizio nel primo decennio
del Seicento, grazie al cannocchiale di Galileo, che scrutava il cielo a poche decine di chilometri a nord della
città estense – dal giardino della sua casa di Padova mentre la toponomastica lunare, ancora oggi ampiamente in uso, è stata inventata, un decennio dopo la
morte di Galileo, dallo stellatese Giovanni Battista Riccioli, quando insegnava nel collegio gesuitico di Bologna, quindi a poche decine di chilometri a sud dalla sua
città d’origine.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Da sinistra: Rodolfo Calanca, i conferenzieri del Convegno sulla Selenografia: Alberto Righini, Claudio Marazzini, Giorgio Strano, Maria Teresa Borgato, Ivana Gambaro, Ivano Dal Prete.
CONFERENZE PER IL CONVEGNO:
“LA SELENOGRAFIA NEL SECOLO
DI RICCIOLI E GRIMALDI”
Conferenza: Maria Teresa Borgato, Giambattista Riccioli e i sistemi del mondo"
Nella sua conferenza, la prof.ssa Borgato ha confrontato i sistemi cosmologici tolemaico, copernicano e ticonico, e le prove teoriche e sperimentali a sostegno o contro l’uno e gli altri, così come sono stati esposti da Riccioli nel suo Almagestum Novum del 1651.
Riccioli conclude con il sostegno al sistema ticonico con
una variante da lui introdotta, in cui i pianeti Mercurio,
Venere e Marte sono satelliti del Sole, mentre Giove e
Saturno orbitano, assieme alla Luna e al Sole, attorno
alla Terra. In tutti questi sistemi, la Luna è l'unico corpo celeste che continua a girare intorno alla Terra. La
relatrice rileva che nella carta lunare di Riccioli e Grimaldi i nomi dei maggiori crateri sono assegnati a
scienziati della Compagnia di Gesù, a partire da Cristoforo Clavio.
Maria Teresa Borgato è professore ordinario di Matematiche Complementari presso l’ Università di Ferrara. Le sue ricerche hanno riguardato inizialmente la
teoria geometrica della misura, attualmente si svolgono
nel campo della Storia e della Didattica della Matematica. E' autrice di oltre novanta lavori originali, pubblicati
in riviste specializzate italiane e straniere sottoposte a
A sinistra, Daniele Biancardi presenta la conferenza della prof.ssa M.T. Borgato
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
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Giorgio Strano durante la sua conferenza, a destra i cannocchiali di Galileo conservati nel Museo Galileo a Firenze.
referee, o in volumi miscellanei a cura dei maggiori specialisti internazionali.
Conferenza: Giorgio Strano, "Le origini del telescopio: da Hans Lippehey a Galileo"
Il dott. Strano ha illustrato la storia del cannocchiale tra
il 1608 ed il 1610, nel momento in cui dall’Olanda lo
strumento, da semplice curiosità diventa, nelle mani di
Galileo, un potentissimo strumento scientifico. In pochi
mesi Galileo perfezionò lo strumento portandolo, all'inizio del 1610, fino a oltre trenta ingrandimenti. Cosa
ancora più eccezionale, dall'estate del 1609 egli puntò lo
strumento, che diverrà in seguito noto come telescopio,
verso il cielo. La possibilità di raccogliere più luce di
quanta ne raccolga la pupilla umana e di ingrandire
sensibilmente gli oggetti celesti, permise a Galileo di
realizzare una sorprendente serie di scoperte e, forse
ancora più significativamente, di inaugurare una nuova
branca dell'astronomia: l'osservazione telescopica della
conformazione degli astri.
Giorgio Strano è curatore delle Collezioni
dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze.
Ha studiato fisica all’Università di Firenze e astronomia
all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, quindi si è dedicato alla storia della scienza e, in particolare, alla storia
dell’astronomia dall’Antichità al Seicento. Ha pubblicato oltre 40 articoli di ricerca e divulgativi, con predilezione per i problemi dell’astronomia antica e della conservazione degli strumenti scientifici. È inoltre General
Editor della collana Scientific Instrument and Collections, nata per diffondere gli studi di maggior pregio
presentati alla Scientific Instrument Commission
dell’International Union for History and Philosophy of
Science.
Conferenza: Alberto Righini, "Galileo Galilei e
l'inizio della selenografia scientifica"
In questa conferenza, il prof. Righini parla ampiamente
del cannocchiale galileiano e del suo utilizzo da parte
del grande scienziato che, a partire dalla seconda metà
del 1609, prima ne prospetta un uso militare e poi, grazie alla sua straordinaria sagacia ed abilità tecnica, lo
punta verso il cielo anche in importanti occasioni pubbliche, come ad esempio, durante la presentazione al
granduca di Toscana, al quale mostrò le caratteristiche
della superficie lunare. Galileo era particolarmente interessato all’aspetto della Luna della quale eseguì diversi disegni. Infatti, nel libretto pubblicato nel marzo del
1610, in cui annuncia al mondo la sua scoperta dei satelliti di Giove, troviamo ben cinque incisioni con immagini della Luna, ottenute da una selezione dei disegni fatti nei mesi precedenti. La grande qualità di queste immagini è provata dalla possibilità di identificare
alcune strutture lunari e in base alla loro illuminazione
stabilire le date in cui i disegni furono eseguiti.
Da un'analisi eseguita sui disegni si copre che l'errore
medio delle posizioni delle diverse strutture è dell'ordine del 5% del diametro del disco lunare.
Secondo il prof. Righini, questo dimostra che i disegni
erano stati realizzati con intenti scientifici, potremmo
dire “cartografici” e ad esse, a buon diritto, possiamo
far risalire gli inizi della selenografia scientifica.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Il professor Righini durante la sua conferenza; a destra la copertina del suo libro su Galileo
Alberto Righini è Professore Associato di materie
astronomiche presso il Dipartimento di Fisica ed Astronomia dell'Università degli Studi di Firenze. Con i colleghi dell'Osservatorio di Arcetri ha partecipato ed organizzato a grandi campagne internazionali per la ricerca
dei siti ottimali per la costruzione di osservatori di nuova generazione. Ha seguito, nei primi anni della sua
carriera scientifica diverse spedizioni per osservare la
corona solare durante le eclissi totali di Sole.
Alberto Righini è anche uno studioso della Storia della
Scienza, ha condotto e conduce un'intensa attività divulgativa facendo lezioni per le scuole e per il pubblico
su Galileo e sulla sua vicenda umana e scientifica. Su
Galileo ha scritto un libro dal titolo «Galileo tra Scienza
Fede e politica» edito dall'Editrice Compositori di Bologna.
Ad Alberto Righini gli amici del Gruppo Astrofili Montagna Pistoiese hanno dedicato un asteroide da loro
scoperto chiamandolo «Bertorighini»
Alberto Righini è stato coordinatore del Dottorato in
Astronomia dell'Università degli Studi di Firenze
dall'Ottobre dal 2010 al 2012.
Conferenza: Ivano Dal Prete, “Nec Homines Lunam Incolunt" (“Non ci sono uomini sulla Luna”): selenografia e vita extraterrestre nel Seicento
L'invenzione del telescopio portò la Luna al centro della
controversia sull'esistenza di altri mondi abitati. La relazione del prof. Dal Prete ha esaminato lo sviluppo
storico del dibattito, e le implicazioni culturali e religiose delle selenografie seicentesche. In particolare, intenIl prof. Ivano Dal Prete durante la sua conferenza
do mostrare che la possibilità di vita intelligente oltre la
Terra era discussa liberamente tra Medioevo e Rinascimento, e ritenuta generalmente compatibile con la rivelazione cristiana.
Ivano Dal Prete è Hanna Kiel Fellow presso Villa I
Tatti / The Harvard University Center for the Italian
Renaissance (Firenze). Ha conseguito il dottorato in
“Storia della Società Europea” presso l’Università di
Verona nel e ha svolto attività di ricerca presso il CNR/
ISPF di Milano e l’Università del Piemonte Orientale
(Vercelli). Dopo il 2008 ha insegnato e svolto ricerca
presso l’Università del Minnesota (Minneapolis), Columbia University, l’Italian Academy for Advanced Studies in America (New York), la Huntington Library
(San Marino, California) e Yale University (New Haven,
Connecticut). Ivano Dal Prete ha pubblicato articoli e
saggi sulla relazione tra astronomia planetaria e storia
della Terra nel primo Settecento, reti di comunicazione
scientifica e teorie sulla generazione in età moderna, e
sulla storia della Terra nel Rinascimento. Il suo prossi-
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
ASTRONOMIA NOVA
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Rodolfo Calanca presenta il prof. Claudio Marazzini
mo libro tratterà dell’età della Terra in età moderna, il
successivo dell’idea di vita extra-terrestre dall’antichità
ad oggi.
Conferenza: Claudio Marazzini, I nomi della
Luna. Riccioli astronomo e la storia della selenografia.
L’intervento del prof. Marazzini ha dato conto dei tre
tentativi messi in atto nel sec. XVII per fissare la geografia della Luna con i relativi nomi di montagne, mari
e crateri: quello di Van Langren (Langrenus) del 1645,
quello del 1647 di Johannes Hevel o Jan Heweliusz o
Hőwelcke (latinizzato nel nome più noto e costante
“Hevelius”), e infine quello del nostro Riccioli,
nell’Almagestum novum del 1651. Il confronto delle
diverse tecniche di nominazione ha chiarito perché il
Riccioli ebbe successo più dei concorrenti, e perché
(con nostra soddisfazione) i nomi della Luna siano rimasti sostanzialmente i suoi. La ricognizione sulla selenografia nascente nel sec. XVII è stata anche occasione
utile per esaminare la struttura dell’Almagestum novum e per sondare il rapporto tra Riccioli e il primo
osservatore della Luna, il grande Galileo, infine per verificare gli eventuali interessi di Galileo stesso per
l’assegnazione dei nomi alle cose e agli oggetti spaziali.
Alle spalle di tutto questo, sta un discorso più generale
sul rapporto tra lingua italiana, lingua latina e studi
astronomici da Galileo in poi. Galileo, com’è noto, dopo
il primo momento adottò la lingua toscana con scelta
quasi rivoluzionaria. Riccioli ritornò al latino, universale strumento dei dotti del tempo. Un’occasione, forse,
per riflettere sull’uso di italiano e inglese nella scienza
di oggi.
Claudio Marazzini, titolare della cattedra di Storia
della lingua italiana nella Facoltà di Lettere dell'Uni-
versità del Piemonte Orientale "A. Avogadro", è nato a
Torino il 26.10.1949. E’ autore di numerosi saggi su
temi di storia della lingua italiana, sulla questione della
lingua, sulla storia linguistica regionale, sui rapporti
lingua-dialetto, sul linguaggio letterario, sulla cultura
popolare, sulla storia della linguistica, e ha pubblicato
anche due interventi su temi legati alla storia dell'astronomia, entrambi connessi a Galileo. Dal 2010 è Socio
corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino
per la Classe di Scienze morali, storiche e filologiche.
Dal 2014 è presidente dell'Accademia della Crusca di
Firenze, accademia di cui fece parte anche Galileo dal
1605.
Conferenza: Ivana Gambaro, “Giovan Battista
Riccioli: astronomo e padre gesuita”
Negli ultimi suoi anni Galileo, ormai vecchio e cieco,
discute con Fortunio Liceti, un aristotelico padovano
suo corrispondente, intorno alla luce presente sulla superficie lunare nei noviluni. La nota polemica che ne
discende e che conduce Galileo alla stesura della Lettera al Principe Leopoldo, accende l'interesse dei savants
della Compagnia di Gesù che negli anni Quaranta e Cinquanta mobilita le sue menti migliori per affrontare i
temi astronomici e fisici più stimolanti del tempo. Per i
padri gesuiti, tuttavia, la curiositas per il problema
scientifico si accompagna alla necessità di rispettare la
tradizione tomistica in teologia ed aristotelica in filosofia. In questa chiave analizzerò sia il problema della
natura dei corpi celesti, in particolare quella della Luna,
affrontato nelle opere a stampa di G. B. Riccioli e nel
suo epistolario con A. Kircher, sia i problemi associati
ad alcune delle tecniche di osservazione e misurazione
impiegate dall'astronomo gesuita nella sua attività osservativa.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
di ricerca in qualità di ricercatore CNR presso l' Office
for the History of Science and Technology dell'Università della California a Berkeley, in qualità di ricercatore
associato CERN nel History of CERN Project e di ricercatore CNRS presso il Centre de Recherche en Histoire
des Sciences et des Techniques della Villette, Paris. Ha
pubblicato contributi relativi alla storia dell'astronomia
del '600 e alla storia della fisica delle alte energie del
'900. Dal 1999 insegna presso l'Università di Genova
Storia della scienza e Filosofia della scienza nei corsi di
formazione per docenti di area umanistica e scientifica.
La prof.ssa Ivana Gambaro durante il suo intervento
sulla figura di Riccioli, astronomo e gesuita.
24 ottobre – seconda giornata
Convegno:
“Scienza e tecnologia della luce”
Ma le questioni scientifiche non restano confinate negli
ambienti degli scienziati, poiché si intrecciano con le
problematiche connesse alla sensibile riduzione degli
spazi d’autonomia riconosciuti agli studiosi italiani, da
cui non sono esenti i padri gesuiti. Essi, infatti, dagli
anni Quaranta vedono il controllo preventivo sulle loro
opere destinate alla stampa farsi ancora più serrato,
mentre i Revisori Generali della Compagnia di Gesù
attentamente compilano nuove liste di proposizioni
proibite. G. B. Riccioli è profondamente coinvolto in
questo contrastato processo di transizione da una vecchia ad una nuova visione del mondo, e nel suo Almagestum Novum accanto a contributi innovativi presenta
anche elementi tradizionali, talora in modo contraddittorio.
Ivana Gambaro, laureata in Fisica e successivamente
in Storia presso l'Università di Genova. Già docente di
fisica, ha insegnato storia e filosofia. Ha svolto attività
E’ un convegno che vede la partecipazione di astronomi, scienziati, ingegneri della luce ed esperti di illuminotecnica, inquinamento luminoso, laser, ecc., nel 350°
della pubblicazione del De Lumine di Francesco Maria
Grimaldi, che sarà in contemporanea con “Le giornata
della Creatività”.
La conoscenza della luce è sempre andata a braccetto
con i progressi nella conoscenza e nella tecnologia: dai
Led premiati con il Nobel nel 2014, alle connessioni
Internet superveloci, dalla fotosintesi che nutre le piante al fotovoltaico.
Senza dimenticare la luce che riceviamo dallo spazio
cosmico, e ci conduce, oltre l'atmosfera terrestre, verso
l'immensità dell'universo, fonte della luce e dell’energia
luminosa che impieghiamo sulla terra. Si diviene così
consapevoli dell' “inquinamento luminoso”, dei suoi
effetti negativi per chi si occupa di ricerca scientifica
osservando il cielo notturno, e su come fermarlo.
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
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Convegno “Tecnologia e scienza della Luce”: da sinistra, Rodolfo Calanca, Costantino De Angelis, Francesco Paresce, Carlo Andrea Rozzi, Giorgio Lulli, Roberto Bedogni, Massimo Mazzoni, Claudio Gavioli.
Conferenza: Roberto Bedogni, "Luci, colori ed
immagini astronomiche".
La luce in Astronomia è fondamentale perché è da essa
che ricaviamo la conoscenza della struttura della Via
Lattea e, a scale ancor maggiori, dell'Universo.
In particolare con la fotometria e la spettroscopia otteniamo informazioni sulla luminosità e la composizione
chimica di stelle, nubi e pianeti. La tecnologia digitale
ha reso l'acquisizione delle immagini, nelle diverse bande delle spettro elettromagnetico, molto efficace ma ne
ha "alterato" la resa visiva con quelli che, impropriamente, vengono chiamati "falsi colori".
In questa conferenza vedremo che i "falsi colori" sono
in realtà una necessità per le immagini astronomiche.
Le condizioni per poter "vedere" le grandi nebulose della Via Lattea sono infatti diverse da quelle che quotidia-
namente ci accompagnano quando fissiamo su di una
macchina fotografica le nostre foto digitali.
Quindi i "falsi colori" astronomici sono in realtà non
una limitazione ma una risorsa in più nell'interpretazione del significato astrofisico dei corpi celesti.
Roberto Bedogni è nato a MODENA nel 1952 e si è
Laureato all' Università degli Studi di BOLOGNA nel
1977 in Astronomia. Dal 16-2-1979 è assegnato, in qualità di Astronomo, all' Istituto di Astronomia della Università di Bologna; dal 3-5-1982 Astronomo ad Esaurimento dell' Osservatorio Astronomico di Bologna.
Dal 26-9-1986 al 25-9-87 è stato in Congedo Straordinario per motivi di studio presso il Dipartimento di Astronomia della Università del Minnesota. Dal 1-121988 è Ricercatore Astronomo dell' Osservatorio Astronomico di Bologna.
Il prof. Roberto Bedogni presentato da Claudio Gavioli
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Il prof. Massimo Mazzoni in un momento della sua conferenza
Conferenza: Massimo Mazzoni, "Le Onde Buie
della Gravitazione"
I corpi celesti non emettono solo radiazione luminosa e
particelle. Infatti da un secolo la Teoria einsteiniana
prevede che essi possano anche rilasciare, in certe condizioni, onde legate al fenomeno della gravitazione: le
Onde gravitazionali, appunto. Ad oggi, nonostante importanti successi, queste onde non sono ancora state
rilevate direttamente. Eppure la tecnologia è disponibile, ci sono i finanziamenti e le antenne adatte, ma nessuno le ha ancora osservate. Il fatto è che si tratta di
quasi impercettibili "fremiti" dello spazio-tempo, e queste increspature costituiscono una delle massime sfide
per la Fisica moderna. Il ruolo dell'Italia su questo fronte è tra i maggiori al mondo.
Massimo Mazzoni, laureato in Fisica nell’indirizzo
astronomico, è stato ricercatore dell’Università di Firenze, al Dipartimento di Astronomia e Scienza dello
Spazio. Ha insegnato Fisica Generale I e II alla Facoltà
di Ingegneria, ed Ottica per i Beni Culturali, alla Facoltà
di Scienze. In passato ha svolto ricerca ed insegnato
anche presso università straniere come la canadese St.
Francis Xavier University (NS) e lo Zeeman Laboratory
dell'Università di Amsterdam.
La sua ricerca riguarda la Fisica Atomica e la Gravitazione ed ha pubblicato oltre 150 articoli specialistici su
riviste internazionali, oltre ad alcuni libri di Fisica e di
Storia della Fisica italiana. Organizza convegni, esperimenti scientifici pubblici e mostre sulla Storia della
Scienza, sulla strumentazione e gli archivi astronomici,
approfondendo gli argomenti della Fisica e
dell’Astronomia comuni con altre discipline, sia scientifiche che umanistiche. Collabora con il Museo Galileo
di Firenze. Membro di varie Accademie italiane e di
Società di storia dell'Astronomia, ricopre attualmente la
carica di Segretario della Società Astronomica Italiana.
Conferenza: Francesco Paresce, “Guglielmo
Marconi e la sua ‘Luce’ per comunicare”.
Marconi usò la luce a vari MHz per rivoluzionare il
mondo delle comunicazioni e della scienza. I risultati
sono stati veloci e stupefacenti in un cammino senza
precedenti verso l'interconnettività del mondo e del
sistema solare intero. In questa relazione il prof. Paresce ha "illuminato" le fasi salienti di questo cammino.
Francesco Paresce è attualmente fisico associato
all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) svolgendo le
sue ricerche presso l’Istituto di Astrofisica Spaziale e
Fisica Cosmica a Bologna. É anche consulente
dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per il progetto
congiunto ESA/NASA per il Hubble Space Telescope.
Ha lavorato in passato per l’ESA come responsabile
scientifico della Faint Object Camera su HST e per il
European Southern Observatory come responsabile
scientifico del Very Large Telescope Interferometer
(VLTI). Si è laureato in Fisica alla Sapienza di Roma e
ha ottenuto il suo dottorato all’Università della California, Berkeley dove ha lavorato per varie missioni spaziali della NASA. Ha scritto più di 200 articoli scientifici ed è autore di un libro intitolato Tra Razzi e Telescopi, DiRenzo editore, 2005. Prosegue anche la sua attività divulgativa della ricerca scientifica mediante confe-
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
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Il prof. Francesco Paresce, astrofisico, nipote del premio
Nobel Guglielmo Marcon, durante il suo intervento e, a fianco, la copertina del suo libro.
renze nei licei, circoli culturali, istituti professionali e
organizzazioni varie in Italia e all’estero.
Conferenza: Giorgio Lulli, "Onde, corpuscoli
o ...? L'esperimento più bello e il "mistero" della meccanica quantistica."
L'esperimento che nel 2002 un sondaggio della rivista
Phisics World scelse come il "più bello" della fisica è la
versione quantistica del classico esperimento di interferenza della luce di Young, applicato al caso degli elettroni singoli. Ideato come esperimento mentale da Einstein nel 1927, fu giudicato per molti anni impossibile
da farsi per le difficoltà tecniche che comporta. A dispetto di queste difficoltà venne finalmente realizzato
nel 1976 da un team ricercatori bolognesi dell'Universi-
tà e del CNR che utilizzarono allo scopo un microscopio
elettronico. L'esperimento evidenzia quello che Richard
Feynman definì l'"unico mistero" della meccanica
quantistica, ovvero il fatto che oggetti microscopici
come elettroni, fotoni, atomi e perfino molecole, si
comportano per certi versi come corpuscoli e per altri
come onde. Questa proprietà, inspiegabile secondo i
criteri della fisica classica, è uno degli aspetti peculiari
della rivoluzione concettuale che la meccanica quantistica portò nella fisica durante i primi decenni del 1900.
La presentazione del prof. Lulli ha raccontato questo
esperimento, la sua storia e le sue implicazioni, cercando di rendere conto delle motivazioni che gli hanno
consentito di aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento
del Physics World.
Il prof. Giorgio Lulli durante la sua conferenza. A destra, la copertina del suo libro.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Il prof. Costantino De Angelis durante la sua conferenza. A destra, il logo del progetto Erasmus, NANOPHI Project
Giorgio Lulli, Primo Ricercatore presso l'Istituto per
la Microelettronica e i Microsistemi del CNR e coordinatore della Commissione Divulgazione dell'Area della
Ricerca CNR-INAF di Bologna. Dal 2009 gestisce il sito
web dedicato all'esperimento più bello della fisica
(http://l-esperimento-piu-bello-dellafisica.bo.imm.cnr.it). Nel 2010 ha coordinato un progetto MIUR per la realizzazione di un DVD contenente
la copia rimasterizzata del film del 1976 "Interferenza
di elettroni" e un documentario che narra la storia di
questo esperimento. Nel 2013 ha pubblicato con Apogeo il libro "L'esperimento più bello. L'interferenza di
elettroni singoli e il mistero della meccanica quantistica". Sul tema dell'esperimento più bello e, più in generale, dell'introduzione alla meccanica quantistica, ha
tenuto numerose conferenze ed ha collaborato a progetti didattici (Piano Lauree Scientifiche, Tirocini Formativi Abilitanti) rivolti a studenti o insegnanti degli ultimi
anni delle scuole superiori.
Conferenza: Costantino de Angelis, "I materiali
bidimensionali nell'anno internazionale della
Luce"
Nell'Anno internazionale della Luce e delle tecnologie
basate sulla Luce, vogliamo qui fornire una rapida panoramica sul settore della fotonica per ricordare le
principali scoperte scientifiche e le rivoluzioni tecnologiche la cui reale portata innovativa, anche dal punto di
vista sociale, ci è ancora in parte sconosciuta.
Il 20 dicembre 2013, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2015 Anno internazionale
della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce
(International Year of Light, IYL 2015, http://
www.light2015.org).
Il termine fotonica deriva dalla parola fotone che a sua
volta deriva dal greco φῶς che significa luce e che viene
usata per indicare il quanto di energia della radiazione
elettromagnetica. Nell'anno internazionale della luce, il
sogno della comunità scientifica internazionale è di
contribuire a fare sì che il 21-esimo secolo possa essere
per il fotone quello che il 20-esimo secolo è stato per
l'elettrone.
Dal punto di vista tecnico si può dire che oggi si parla di
fotonica ogni volta che si ha a che fare con la generazione, l'emissione, la trasmissione, la modulazione, la
commutazione, l'amplificazione e la rivelazione della
luce. Un ambito importantissimo nel quale la fotonica
si impone oggi per le fondamentali ricadute tecnologiche è quello delle nanotecnologie e delle relative applicazioni. Gli importanti risultati ottenuti negli ultimi
anni dalle nanotecnologie consentono infatti di avere a
disposizione processi di fabbricazione in grado di controllare su scala nanometrica la produzione di strutture
guidanti e la deposizione di film e particelle su substrati
dielettrici.
Ciò ha permesso di progettare dispositivi che non erano
nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochi anni
fa. Un altro settore che, anche in ragione del rapido
sviluppo dimostrato negli ultimi anni e in considerazione delle importantissime potenzialità, è doveroso menzionare è l'ottica del grafene e più in generale una nuova classe di materiali che promette di rivoluzionare la
nostra concezione dei dispositivi, quella dei materiali
bidimensionali.
Dopo essere stato isolato nel 2004, il grafene viene oggi
studiato sia per meglio comprenderne le proprietà fondamentali sia per esplorare le sue grandissime potenzialità applicative.
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Gli investimenti in ricerca di base e applicata su questo
materiale sono oggi ingenti a livello internazionale e
l'Unione Europea ha un ruolo di primo piano anche
grazie al programma di ricerca “Graphene Flagship”.
All'interno di questo programma di ricerca decennale la
fotonica ha già dato prova di potenziali rivoluzioni tecnologiche e molte altre sono ancora attese.
Costantino De Angelis è professore ordinario di
Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di
Brescia. L’attività di ricerca di Costantino De Angelis
riguarda le tecnologie fotoniche e in particolare le loro
applicazioni in ambito sensoristico e nel settore delle
telecomunicazioni. Dopo essersi laureato con lode in
Ingegneria Elettronica nel 1989 presso l’Università degli Studi di Padova, Costantino De Angelis ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l’Università degli Studi di Padova. Dal
1994 al 1998 è stato ricercatore universitario presso
l’Università degli Studi di Padova e dal 1998 professore
di Campi Elettromagnetici presso il Dipartimento di
Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi
di Brescia. Nel corso della sua attività di ricerca ha prestato servizio come professore invitato presso
l’Università di Limoges (1996), presso il MIT, Massachusetts Institute of Technology, (2010 e 2011) e
l’Università di Jena (2012). Costantino De Angelis è
autore di più di 300 articoli su riviste e convegni, ha
avuto la responsabilità scientifica di svariati progetti
nazionali e internazionali sulla fotonica e attualmente
coordina un progetto Erasmus Mundus dedicato alle
applicazioni delle nanotecnologie in ambito fotonico
ASTRONOMIA NOVA
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(http://nanophi.unibs.it).
Conferenza: Fabio Falchi, “L’inquinamento luminoso nel mondo. Anteprima del nuovo atlante”.
A circa 15 anni di distanza dalla pubblicazione del primo atlante, il mio gruppo di ricerca ha prodotto una
nuova versione con miglioramenti nel software di calcolo, nei dati di radianza da satellite e nei dati di brillanza
del cielo da terra. Il software di propagazione dell'inquinamento luminoso in atmosfera ora tiene conto dell'altitudine delle sorgenti e dell'osservatore, oltre che della
schermatura dovuta alla curvatura terrestre. Il software
inoltre permette di calcolare l'inquinamento luminoso
prodotto da sorgenti con funzioni di emissione verso
l'alto non standard e calibrate mediante misure da terra. La calibrazione mediante misure da terra si avvale di
un database con decine di migliaia di dati provenienti
da tutto il mondo grazie anche alla 'citizen science', oltre che di misure molto precise ottenute in USA dal National Park Service ed Europa. I dati satellitari di radianza della città sono stati ottenuti dal nuovo satellite
SUOMI NPP con il VIIRS Visible Infrared Imaging Radiometer Suite che ha una risoluzione oltre quattro volte migliore rispetto a quella dei satelliti DMSP utilizzati
in tutti i precedenti studi.
Fabio Falchi, è presidente di CieloBuio e, oltre ad insegnare, studia l’inquinamento luminoso come membro
di ISTIL, anche in collaborazione con la National Oceanic and Atmospheric Administration, l'US National
Park Service e l'OPCC Cilena.
Il prof. Fabio Falchi durante il suo intervento. A destra, una incredibile immagine di buona parte del continente europeo occidentale fortemente inquinato da fonti luminose artificiali.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Il prof. Carlo Andrea Rozzi
durante la sua conferenza
Conferenza: Carlo Andrea Rozzi, "L'energia solare: dalla foglia alle nanostrutture"
Lo sfruttamento dell'energia solare è un complesso problema che, per essere risolto, richiede la convergenza
tra conoscenze scientifiche di base, tecniche, ed ingegneristiche. In questo campo molto si può imparare
studiando processi naturali, quali la fotosintesi. In questo incontro ha illustrato come la fisica dei quanti permetta di comprendere i meccanismi fondamentali che
stanno alla base della conversione della luce in energia
chimica o elettrica, e mostrato come i questi principi
trovino applicazione nelle nanostrutture per la fotosintesi artificiale, o per le celle solari di nuova generazione.
Carlo Andrea Rozzi si è laureato in Fisica all'Università di Pavia ed ha conseguito il Dottorato di Ricerca in
Il prof. Giuseppe Malaguti durante la sua conferenza.
Fisica presso l'Università di Modena. Da allora si è dedicato alla ricerca scientifica nel campo della fisica della
materia presso il Dipartimento di Fisica dell’Università
di Modena, l'Istituto Nazionale di Fisica della Materia,
e l’Institut für Theoretische Physik della Freie Universität Berlin. La sua attività scientifica consiste principalmente nello sviluppo di metodi teorici e numerici per lo
studio delle proprietà elettroniche della materia alla
nanoscala, e in particolare riguarda lo studio di materiali innovativi per le celle solari e fotosintesi artificiale,
e la simulazione di spettroscopie ultraveloci. È tra gli
sviluppatori del codice octopus, un'applicazione open
source per lo studio delle proprietà della materia mediante la teoria funzionale della densità dipendente dal
tempo. Attualmente è ricercatore presso il Centro S3
dell'Istituto Nanoscienze del CNR in Modena.
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Conferenza: Giuseppe Malaguti,
“Le Luci
dell’Universo Invisibile”.
Come ci apparirebbe la volta della Cappella Sistina di
Michelangelo se la potessimo guardare solo dal buco
della serratura? Non lo sappiamo, ma sicuramente perderemmo molto della sua realtà. Lo stesso varrebbe per
l’Universo se lo osservassimo solo coi nostri occhi, limitati alla sottile banda della luce visibile. Una finestrella
minuscola se confrontata con l’ampiezza cosmica dello
spettro elettromagnetico. Oggi sappiamo che la luce
dell’Universo splende a tutte le frequenze: nelle onde
radio, alle microonde, nell’ultravioletto, in raggi X e in
raggi gamma. Ma l’astronomia dell’invisibile è una
scienza giovane. Nonostante l’animale uomo (e forse
anche altri animali) scruti il cielo da tempo immemorabile, solo da 4 secoli a questa parte, da Galileo in poi, il
nostro occhio è aiutato da cannocchiali e telescopi, diventati poi sempre più potenti. Ed è solo col XX secolo
che si aprono le finestre dell’invisibile. Che ci offrono
un Universo prima sconosciuto: le stelle di neutroni, i
resti di supernova, i nuclei galattici attivi, i buchi neri,
gli ammassi di galassie, la radiazione di fondo cosmica.
E poi la materia scura, l’energia scura. Le finestre sulla
luce invisibile consentono all’uomo di usare al meglio il
più grande laboratorio di fisica esistente al mondo:
l’Universo.
Giuseppe Malaguti si Laurea con Lode a Bologna nel
1989 e consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Astronomia nel 1993. Dopo un periodo presso l’Università di
Southampton in UK e successivamente all’ASI - Agenzia Spaziale Italiana, entra nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche e, nel 2002, dell’INAF – Istituto
Nazionale di Astrofisica. Si occupa principalmente di
nuclei galattici attivi e di astrofisica delle alte energie,
con particolare riferimento alle tecnologie spaziali e
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aerospaziali. Ha partecipato allo sviluppo di missioni
spaziali nell’ambito di consorzi internazionali e ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui: docente del corso di
“Strumentazioni per l’Astrofisica” presso l’Università di
Bologna
(2005-2009),
responsabile
nazionale
dell’ufficio attività spaziali dell’INAF (2009-2010),
componente del comitato tecnico-scientifico dell’ASI
(2011-2014), componente del consiglio di amministrazione del Festival della Scienza di Genova (2011-2012),
coordinatore del gruppo di esperti del MIUR per il monitoraggio del “Programma nazionale di Ricerche Aerospaziali” (dal 2013). Dal 2010 è Direttore dell’Istituto di
Astrofisica Spaziale e Fisica cosmica di Bologna
dell’INAF. È autore di più di 200 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali.
24-25 ottobre – Festival della Luce - Bondeno— “Le Giornate della Creatività”
Start Up, Spin Off ed altre meraviglie”
Una sezione importante del Festival della Luce di Bondeno, intitolata “Le Giornate della Creatività”, ha riguardato le Start Up, le Spin Off universitarie e le aziende innovative ad alto contenuto scientifico e tecnologico. Esse sono state direttamente coinvolte nel Festival,
con i loro prodotti ed idee, nell’ambito della fotonica,
dell’energia solare, nelle sue varie forme, nonché
nell’aerospaziale. Come si vedrà nel seguito, abbiamo
dato ampio spazio ad interventi e discussioni pubbliche, rivolte a studenti, insegnanti ed appassionati, finalizzati a comunicare lo stato dell’arte nei settori tecnologici di punta di questo inizio millennio, attraverso l’
illustrazione di prodotti e di idee altamente innovative
presentate dalle diverse aziende. Ciò ha costituito uno
dei momenti più stimolanti ed entusiasmanti del Festival.
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Una parte del gruppo di relatori che ha
partecipato
alle
“Giornate della creatività”
Conferenza: Simone Paternostro, ingegnere aerospaziale,"La missione Amadee15"
L’Austrian Space Forum è un’associazione scientifica
composta da professionisti dello spazio e astrofili appassionati. In collaborazione con istituti di ricerca nazionali e internazionali sta lavorando ad una missione
scientifica che si è tenuta dal 3 al 14 agosto al confine
tra Austria e Italia, sul ghiacciaio Kaunertal. Amadee15
ha simulato una missione su Marte. Analog Astronauts
in tuta spaziale hanno emulato l’esplorazione di una
regione ghiacciata su Marte, interagendo con veicoli
robotici e con il supporto di un centro di controllo in-
ternazionale. ERAS, European Mars Analog Station, è
un programma della Italian Mars Society, il cui obiettivo principale è creare sulla Terra una stazione spaziale
adatta all’ambiente di Marte, all’interno della quale effettuare test per le future missioni.
V-ERAS è
l’interfaccia virtuale con la quale gli Analog Astronauts
dell’Austrian Space Forum hanno condotto alcune sessioni di addestramento e con cui hanno effettuato ulteriori test durante la missione, contribuendo alla realizzazione di una realtà virtuale specifica, con cui i futuri
equipaggi potranno interagire prima che la stazione sia
effettivamente costruita.
Materiale in esposizione al Festival: una stampante 3D e, a destra, missili e razzi
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
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Simone Paternostro durante la sua conferenza
Conferenza: Franco Cappiello, ingegnere ed imprenditore, “Missione INFINITY”.
Dopo aver analizzato le tecnologie dei satelliti DIY, come per esempio CUBESAT, TUBESAT, ARDSAT, ho
analizzato la reale possibilità di mettere in orbita un
piccolo telescopio da 8 pollici di diametro. Dopo Aver
verificato l’effettiva tecnologia e i reali problemi di una
missione di questo tipo, ho deciso che era possibile, sia
nella costruzione del piccolo telescopio, sia nella costruzione del Vettore che porterà il telescopio in orbita.
In alternativa alla costruzione del Vettore, sarà possibile utilizzare un vettore commerciale o russo o europeo
(il costo non cambia). L’orbita scelta è a circa 600Km
dalla superficie terrestre, la velocità di rotazione permetterà al satellite di fare il giro del globo in 1.5 ore.
La telemetria sarà scelta in funzione delle frequenze che
daranno la miglior affidabilità per poter fare un download delle immagini anche in differita. Sarà un progetto sfidante ma sicuramente appassionante; il tempo
stimato per il lancio è entro 5 anni dalla partenza del
progetto. E’ già stata costituita una società che si chiama Sierrafox srl, www.sierrafoxhobbies.com , la quale
si occupa di vettori in generale, anche per scopi ludici.
Questo progetto sarà finanziato interamente da enti
privati, con finanza privata, avrà sicuramente una grande attenzione mediatica.
Conferenza: Nicoletta Marigo, amministratrice
della Film4sun, "Il progetto Ubuntu-PV: energia
solare come strumento di lotta alla povertà”.
Film4Sun e' uno spin-off del CNR di Parma che sviluppa prodotti fotovoltaici innovativi che possono essere
utilizzati sia in Italia/Europa che in contesti dove l'autonomia nergetica può rappresentare una reale opportunità di sviluppo e di miglioramento delle condizioni
di vita. Ubuntu-PV nasce con l'obbiettivo di migliorare i
servizi energetici della popolazione che vive nelle aree
rurali e peri-urbane dell'Africa trasferendo le competenze tecniche ecessarie a produrre in loco moduli fotovoltaici e sistemi solari a basso costo e appropriati per
l'uso locale.
Conferenza: Giordano Mancini, titolare della Nova
Somor, "I motori termodinamici Nova Somor".
I motori termodinamici Nova Somor" applicazione di
innovativi sistemi termodinamici a bassa temperatura
al sollevamento delle acque. L'utilizzo dell'energia solare e del calore perduto per alimentare cicli termodinamici in grado di dare lavoro utile risale ai tempi dell'autarchia degli anni Trenta. Nova Somor ha recuperato,
attualizzandole, le tecnologie del passato abbandonate
quando non c'era sensibilità ecologica e l'energia aveva
costi bassi. Oggi è di nuovo il loro tempo.
L’ing. Franco Cappiello durante la conferenza. A sinistra il telescopio spaziale INFINITY
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Conferenza: Matteo Poli e Filippo Trevisi,
“Nimbus Project”
I relatori hanno spiegato cos'è il Nimbus Project e la
loro storia: come nasce il progetto, cosa stanno facendo
e qual è il loro obiettivo. Hanno fatto cenni al SAGITTA
II (sounding rocket da 100km), ed ai suoi obiettivi con
una spiegazione del progetto e delle sue caratteristiche,
funzioni, innovazione. Il SAGITTA II è stato illustrato
nei suoi componenti (fusoliera, struttura interna, motore) e nelle procedure svolte, test motore a terra, test
strutturali su mock-up, analisi numeriche. Inoltre è
stato visualizzato il software con le relative spiegazioni
dei grafici presenti in modo interattivo.
In sostanza, il team di Nimbus sta mettendo a punto un
razzo-sonda per rilevazioni meteorologiche ed analisi
dell’atmosfera, a basso costo e del tutto recuperabile. Il
vettore sonda è totalmente riutilizzabile, garantisce inoltre misurazioni precise ad un basso costo di utilizzo
e d’investimento iniziale e permette un rapido sgombro
dello spazio aereo. Le rilevazioni sono effettuate in una
decina di minuti anziché impiegare da una a dieci ore,
eventualmente necessarie con l’utilizzo di altre tecnologie quali ad esempio palloni sonda e droni aerei.
Conferenza: Emanuele Borasio, amministratore
WEAR, "WEAR: Location Intelligence e Realtà
aumentata"
La Realtà aumentata è una nuova tecnologia che permette un nuovo stile di comunicazione che si può applicare ad una vasta gamma di settori. Wear si occupa anche di Location Intelligence una tecnologia che rappresenta il metodo più innovativo e diretto di raccogliere e
interpretare una quantità potenzialmente illimitata di
dati basati sulla localizzazione.
Conferenza: Matteo Fabbri, "La stampa 3D".
La Stampa 3D rappresenta la naturale evoluzione della
stampa 2D e permette di avere una riproduzione reale
di un modello 3D realizzato con un software di modellazione 3D. Inoltre essa è considerata una forma di produzione additiva mediante cui vengono creati oggetti
tridimensionali da strati di materiali successivi.
Matteo Poli e Filippo Trevisi durante la loro conferenza sul progetto Nimbus
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Emanuele Borasio durante la sua conferenza. A destra, un esempio di realtà aumentata.
Il lancio delle stampanti 3D ha fornito un'alternativa
pratica ed economica alle macchine di modellazione
industriali. Con le stesse dimensioni di una fotocopiatrice, queste stampanti possono creare facilmente e velocemente oggetti tridimensionali, specialmente modelli, di vari formati, dai più semplici ai più complessi, anche a colori. Sono gestite da un normale computer che
usa uno speciale software di modellazione 3D.
Conferenza: Pietro Aliprandi, medico ed aspirante
astronauta, “Viaggi nel tempo e nello spazio”
Ogni volta che guardiamo una stella, vediamo il passato. Se oggi dalla Galassia di Andromeda qualcuno stesse
osservando la Terra, ci vedrebbe ancora agli albori della
nostra civiltà. La luce del Sole giunge ai nostri occhi con
otto minuti di ritardo. E quando riceviamo delle immagini da Marte, esse sono state inviate quasi un'ora prima, eppure viaggiano alla velocità della luce.
Pietro Aliprandi, medico triestino e unico candidato
italiano alla prima missione umana su Marte, ha spiegato le sfide, le difficoltà e i benefici di un'impresa senza precedenti.
L’arch. Matteo Fabbri durante la sua conferenza. A destra e sotto, esempi di prodotti realizzati con stampante 3D
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R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
Pietro Aliprandi durante il suo intervento al Festival della Luce di Bondeno.
Sotto, gli organizzatori del Festival con Pietro Aliprandi.
La scienza dei giocattoli
Bondeno - Sala 2000
25 ottobre dalle 9:30 alle 18:30
Si tratta di una mostra laboratorio che ha come obiettivo quello di far scoprire i segreti della fisica racchiusi
nei giocattoli. L'esposizione è costituita da circa una
settantina di giocattoli che, oltre ad essere divertenti,
funzionano in base a importanti principi fisici.
L'intento è quello di catturare l'attenzione del visitato-
re, di incuriosirlo, avvicinandolo ai fenomeni fisici in
modo semplice e familiare... perché possa comprendere
che la scienza non si trova solo nei grandi centri di ricerca e non è poi così lontana dalla realtà che ci circonda.
Partendo da un ricchissimo patrimonio di esperienze e
materiali prodotti dal Laboratorio di Comunicazione
delle Scienze Fisiche dell’Università di Trento, ForMATH ha realizzato dei percorsi studiati appositamente per essere utilizzati sia con gli alunni delle scuole che
con il grande pubblico. Si lavorerà con orsetti equilibristi, paperi bevitori, trottole, molle per iniziare a scoprire le meraviglie della scienza.
R. Calanca, D. Biancardi, C. Gavioli, Festival Luce
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Il Festival è stato reso possibile grazie al determinante contributo del
Comune di Bondeno
Il Festival ha avuto il patrocinio di :
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Recensione
L’epopea, tuttora in corso, dell’esplorazione delle comete con sofisticatissime sonde spaziali è uno dei racconti
più belli ed affascinanti, in ambito scientifico, degli ultimi decenni e questo bellissimo libro di Cesare Guaita,
chimico ed astronomo, è indubbiamente quanto di meglio si possa leggere oggi sull’argomento nella nostra
lingua (spero che la casa editrice ne proponga la traduzione inglese, quest’opera merita senz’altro una diffusione a livello internazionale).
In apertura, Guaita pone l’accento sul fatto che la svolta
fondamentale nello studio delle comete è avvenuta nel
1986 quando la sonda europea Giotto arrivò fino a 500
chilometri dal nucleo della cometa di Halley e scoprì
che esso è ricoperto da uno strato scurissimo di materiale carbonioso. Nei quindici anni successivi furono
lanciate altre sonde che puntavano verso altre comete.
La Deep Space 1, inseguì la Borrelly, trovandola scurissima ma anche poco attiva; mentre la sonda Stardust
inseguì la “giovane” (relativamente agli standard temporali delle comete che orbitano da più o meno tempo
nella parte interna del sistema solare) cometa Wild-2,
nel 2004, che nello sfiorarne il nucleo, catturò migliaia
di frammenti microscopici per poi portarli sulla Terra.
Stardust continuò la sua corsa verso la Tempel-1. Nel
luglio 2005 quest’ultima cometa subisce l’assalto della
sonda Deep Impact, che la colpisce con un missile, facendo uscire dalla superficie fratturata una notevole
quantità d’acqua. Il clou delle missioni spaziali cometarie fu raggiunto nel novembre del 2014, quando la sonda europea Rosetta, dopo oltre 10 anni di viaggio, raggiunge la cometa 67P/Churyimov-Gerasimenko, sulla
quale fece scendere il lander Philae.
Guaita racconta tutto questo con grande rigore scientifico, tuttavia con un linguaggio nient’affatto arido e,
soprattutto, accessibile anche ai neofiti.
Ma non si limita alle comete. Esamina infatti alcuni
aspetti di grande interesse legati ai frammenti cometari
di maggiori dimensioni, che riempiono lo spazio interplanetario e che possono costituire un gravissimo rischio ambientale, in caso di impatto con la Terra. Parla
poi di comete extrasolari in orbita intorno ad altre stelle
e dei rapporti tra le comete e l’origine della vita, risollevando di fatto una discussione mai sopita che fa di que-
sti corpi celesti i veicoli di diffusione della vita tra le
stelle del nostro braccio a spirale della Galassia. La teoria, nota con il termine panspermia, ha avuto le prime
formulazioni scientifiche nell’Ottocento e, nella seconda metà del secolo scorso, è stata sostenuta da Fred
Hoyle e Chandra Wickramasinghe.
Nell’ultimo capitolo, con un colpo d’ala da autentico
visionario, Guaita sostiene che il ritorno della cometa
di Halley, nel 2061, potrebbe essere l’occasione ideale
per lo sbarco di astronauti sul suo nucleo, alla ricerca
della vita.
Il libro ha un’ottima valenza divulgativa e didattica. Se i
programmi della scuola media superiore non avessero
brutalmente bistrattato una scienza antica e omnicomprensiva come l’astronomia, se ne potrebbe senz’altro
suggerire l’adozione come testo di supporto
all’insegnamento di questa splendida disciplina.
L’esplorazione delle comete, da Halley a
Rosetta
Cesare Guaita
Hoepli, Milano 2015
Prezzo: € 27,90