NEOREALISMO, CHE SUCCESSO IN AMERICA (IL TEATRO NEOREALISTA) di Enrico Bernard Neorealismo, che passione! La parafrasi del celebre titolo ("Marionette, che passione!") dell'opera teatrale di Rosso di San Secondo sintetizza il rinnovato interesse per il Neorealismo italiano negli Stati Uniti e in Canada. Nei dipartimenti di italianistica nordamericani gli studi sui romanzi di Bernari, Alvaro, Moravia, Silone, Vittorini e sul cinema di Visconti, Rossellini, Lizzani, De Santis ripropongono e reinterpretano la grande stagione culturale italiana che va dai primi Anni Trenta ai primi Cinquanta. Un elenco completo degli studiosi e docenti che incoraggiano i loro studenti americani ad approfondire questi temi di italianistica sarebbe lungo. Cito alcuni nomi che primi mi vengono in mente per stima e amicizia: Mario Mignone a Stoney Brook New York, Andrea Ciccarelli alla Indiana University, Sergio Ferrarese in Virginia, Rocco Capozzi e Michael Lettieri a Toronto, Roberto Dainotto a Duke, - e mi scuso con tutti coloro che non ho nominato. Il principale promoter - se non proprio il "guru" del Neorealismo italiano in terra americana - di questa rinnovata passione per la cultura italiana e' senz'altro Antonio Vitti, docente presso la Wake Forrest University in North Carolina, nonche' direttore della Scuola Italiana del prestigioso Middlebury College nel Vermont. Da anni Vitti si dedica a ricerche in campo letterario e cinematografico sul Neorealismo ed e' il maggior studioso dell'opera di Giuseppe de Santis ("Riso Amaro", "Non c'e' pace tra gli ulivi", "Caccia tragica"). Ma a questa attivita' di ricerca, Vitti aggiunge un'intensa capacita' organizzativa nel promuovere momenti di incontro e di discussione sui temi importanti della nostra cultura contemporanea. Nel dicembre scorso Vitti ha promosso, organizzato e presieduto un convegno sul Neorealismo italiano presso la sede veneziana della Wake Forrest University. Il titolo del convegno e' molto suggestivo e foriero di un rilancio tematico anche in Italia: "Ripensare il Neorealismo: cinema letteratura mondo". La "scaletta" del convegno e' strutturata in modo da presentare il tema dell'attualita' del Neorealismo sotto profili diversi e da punti di vista differenti. Cosi' mentre gli interventi di Gino Tellini su Aldo Palazzeschi, di Domenico Scarpa su Giuseppe Berto e dello stesso Antonio Vitti su "Fontamara" di Silone ripropongo autori storici della nostra letteratura contemporanea, altri contributi sono concentrati sul cinema. Claudio Bondi' (regista in proprio e gia' aiuto di Rossellini) e Tonino Valeri (regista di "My name is Nobody", grande affresco dell'ultimo western all'italiana, ambientato al tramonto del mito della Grande Frontiera) trattano, ad esempio, i temi dell'evoluzione delle tecniche cinematografiche e narrative in Rossellini e il rinnovamento del genere neorealista nel nuovo Millennio. Gli atti del convegno sono stati opportunamente appena pubblicati dall'editore Metauro (Pesaro, pp. 294 Euro 20,00) a cura di Antonio Vitti. Fornisco subito l'indirizzo elettronico dell'editore perche' consiglio fortemente la lettura di questo libro a studiosi e appassionati di cinema e letteratura di qualsiasi livello: www.metauroeditore.it. Effettivamente gli interventi e i contributi del convegno "pensato" da Vitti sono vari, eterogenei eppero' legati da un filo conduttore, come dicevo, originale: l'attualita', nonche' il futuro del Neorealismo nelle diverse arti, letterarie e visive. In questo senso vanno, ad esempio, gli interventi assai precisi di Gian Piero Brunetta ("Dal neorealismo al neorealismo"), Andrea 1 Ciccarelli ("Fra (neo/)realismo e sogno: Io non ho paura"), Roberto Ellero ("Il Neorealismo che non passa - di moda"), Giuliana Minghelli ("Neorealismo: Anacronismo/ Avanguardia"). In discussione e', in ultima analisi, non tanto e non solo la parte critico-storica dell'esperienza neorealista, bensi' la sua facolta' di autorigenerarsi nell'interpretazione del presente, paradossalmente anche in chiave onirica come in "Miracolo a Milano" o in "Uccellacci" di Pasolini fino al tragico sogno di "Io non ho paura" riproposto dall'intervento di Ciccarelli. Inoltre, al di la' di una critica spesso superficiale che vede un passaggio, un travaso fin troppo "naturale" e scontato del Neorealismo dal romanzo al cinema, gli studi e le analisi stimolati da Vitti mettono in risalto un aspetto meno didascalico in cui si considerano i vari e determinanti contributi del teatro e della fotografia allo sviluppo delle tecniche cinematografiche e dell'evoluzione del genere letterario neorealista. Il libro e' peraltro di piacevole lettura perche' i contributi, passando dall'analisi storico-critica al tono meno accademico, piu' discorsivo e illustrativo di addetti ai lavori nelle varie arti, registi, sceneggiatori e uomini di teatro, nonche' attori come Lino Capolicchio ("L'attore nell'ottica neorealista"), rendono bene conto di uno "spaccato" del Neorealismo a 360 gradi. Prospettiva costituita sulla base di esperienze personali ed opinioni che non rappresentano, ripeto, solo una "commemorazione" critica della nostra letteratura e del cinema. Rappresentano bensi' una riproposta culturale ed artistica di un "genere" di forte attualita' e in continua evoluzione, - nonostante oggi si consideri il Neorealismo genere storicizzato e conchiuso. Idea, quest'ultima, fuorviante poiche' le recenti opere letterarie di Ermanno Rea ("La dismissione", "Napoli ferrovia") e Roberto Saviano ("Gomorra") e i film di Gianni Amelio ("La stella che non c'e'") e di Matteo Garrone ("Gomorra") testimoniano, ancora una volta, un ritorno ed una ripresa dei temi e stili propriamente neorealisti. Bisogna del resto ricordare che perfino registi hollywoodiani si richiamano al Neorealismo, come i fratelli Cohen o Tarantino. L'attualita' del dibattito e' tanto piu' evidente, poi, se si pensa che il Neorealismo e' oggi un marchio culturale del nostro Paese nel mondo, insieme alla Commedia dell'Arte, al mito della "Dolce Vita", alla moda, al Rinascimento, al design. Per questo gli incontri promossi da Antonio Vitti vanno ben oltre l'approfondimento di un fenomeno artistico e letterario "storicizzato", bensi' fungono da stimolo alle nuove leve della letteratura e del cinema impegnate nella formazione di nuovi stili espressivi. Devo pure segnalare al lettore, per dovere di cronaca, una mia osservazione ad Enrica Vigano' autrice del contributo dedicato a "NeoRealismo-la nuova immagine in Italia 1932-1960", argomento, quello dell'influenza della fotografia sul cinema, peraltro molto originale ed innovativo. La Vigano' cita l'esempio della rivista "Tempo" fondata da Alberto Mondadori. Sarebbe stato il caso di segnalare che a fondare, creare e dirigere le rivista soprattutto sotto l'aspetto fotografico fu chiamato Carlo Bernari, autore di "Tre operai" del 1932, considerato l'incunabolo del neorealismo. Bernari fu anche giornalista e fotografo (medaglia di bronzo al Valor Militare quale fotoreporter nella guerra in Albania) e sceneggiatore ("Le quattro giornate di Napoli") e in tale veste coordino' come art director proprio la nascita di "Tempo". I rapporti ancora non ben sviluppati dalla critica letteraria tra Carlo Bernari e Alberto Mondadori sono importanti per capire un pezzo della nostra storia culturale. Per dare idea della profondita' di questi rapporti, anche personali, faccio solo presente che Alberto Mondadori e' il padrino del primogenito di Carlo Bernari, Eugenio Alberto. Sarebbe stato facile per la 2 studiosa Enrica Vigano' sviluppare un discorso piu' approfondito consultando la Fondazione Mondadori o l'Archivio Bernari presso l'Archivio del '900 alla Sapienza di Roma, dove sono conservati i carteggi tra queste due grandi personalita' dell'editoria e della letteratura italiana. Oltretutto la storia di questa amicizia e' stata, non in tempi remotissimi, raccontata dal Corriere della Sera (il cui archivio storico e' da tempo facilmente consultabile in rete) che ha pure pubblicato l'inedito di Bernari "Notti insonni alla Mondadori". E sarebbe stato pure interessante conoscere i motivi "politici" che spinsero Bernari a rinunciare alla direzione di "Tempo" offertagli da Alberto Mondadori. Oltretutto una precisazione in questo senso avrebbe meglio fatto capire l'importanza della fotografia nella rappresentazione cinematografica neorealista anticipata nelle opere degli scrittori dei primi Anni Trenta (Alvaro, Bernari, Moravia). Sono del resto convinto che gli autori del cinema neorealista hanno potuto realizzare i loro capolavori in quanto la letteratura degli Anni Trenta ha loro fornito un modello di scrittura tendente inevitabilmente al cinema, cioe' alla sceneggiatura e allo script, nonche' un modello di rappresentazione del reale appunto "fotografico". Personalmente mi sono occupato nel convegno di questo argomento chiamando in causa un "terzo escluso" tra cinema e letteratura, il Convitato di Pietra che, forse per ignoranza, la critica tende sempre a lasciare in disparte, ma che poi alla fine si riprende la sua colossale rivincita: il teatro. La domanda che mi sono posto e': esiste un teatro neorealista? E come e' riuscito il teatro ad influenzare il cinema? Ebbene, la risposta e' proprio nello stetto rapporto che ho individuato tra Raffaele Viviani e Carlo Bernari. Per gentile concessione dell'editore Metauro e del curatore Antonio Vitti ripropongo qui di seguito il mio intervento. ESISTE IL TEATRO NEOREALISTA? di ENRICO BERNARD Come premessa generale, bisogna tener presente, a proposito di neorealismo cinematografico e letterario, che la rivendicazione da parte della "realtà" di una rappresentazione non artefatta viene posta per la prima volta nel XX° secolo in un'opera teatrale, dai "Sei personaggi in cerca d'autore" (1921) di Luigi Pirandello. Sia nel suo teatro che nella narrativa, Pirandello riprende la grande tradizione del realismo e del verismo italiano (Manzoni e Verga), ma supera entrambi per l'innesto di tematiche surreali, espressioniste e, soprattutto, dell'esperienza cinematografica che si concretizza in Pirandello con una serie di soggetti e sceneggiature, - nonché con la realizzazione di un film "Acciaio" del 1934. Un film che, pur con tutte le manomissioni e le apologie possibili del fascismo, si svolge in una moderna fabbrica. Questo per dire che il cinema neorealista, che muove le prime esperienze dal 1942-1943, non ha solo un back ground letterario, ma anche teatrale e cinematografico. Oltretutto l'innesto del cinema nella letteratura è un'idea anch'essa di Pirandello che, col romanzo Si gira! del 1915, realizza l'esperimento di un romanzo scritto con la cinepresa. Quando nel 1925 due grandi narratori italiani - Alberto Moravia e Carlo Bernari, considerati i precursori del neorealismo leggono il romanzo pirandelliano nella versione del 1925 (rieditato col titolo 3 "I quaderni di Serafino Gubbio operatore") naturalmente non possono prescindere - sono giovanissimi e stanno elaborando le loro opere di esordio dalla novità del romanzo e dal fascino del cinema. I risultati saranno quelli di una scrittura molto affine, mimetica del cinema, con l'invenzione di due generi di modernità assoluta: la novellizzazione (Moravia) e il trattamento (Bernari). Esperienze che affondano le radici nello sperimentalismo e nella genialità del Siciliano che riesce a fondere, sintetizzare cinema, teatro, letteratura. Sintesi che viene rielaborata dagli Autori de "Gli indifferenti" e "Tre operai" in modo del tutto originale e con un occhio ed un orecchio al teatro contemporaneo. I "neorealisti" Moravia e Bernari, in effetti, non hanno mai gradito una schematizzazione rigida. Pur apprezzando il cinema del dopoguerra, questi scrittori hanno ripetutamente insistito sulle diversità tra le loro opere e il cinema neorealista. E più la critica ha puntato per comodità ad un “contenitore” unico per il cinema neorealista del dopoguerra e la letteratura del periodo 1927-1934, più Moravia e Bernari hanno mostrato insofferenza ed hanno preso anche strade diverse e contraddittorie rispetto a certe "riduzioni" scolastiche delle rispettive più complesse poetiche. Entrambi, insomma, si sono sempre sentiti costretti nel ruolo degli eterni "antesignani" delle arti della seconda metà del XX secolo. Di quali differenze si tratti, è presto detto. Il primo cinema neorealista del Rossellini di "Paisà" e "Roma città aperta", dei De Santis, Lizzani, Maselli de "Il sole sorge ancora", tende per scelta ideologica al documento e ad una visione critica della realtà, ma con un soggettivismo limitato allo stretto necessario (con alcune significative eccezioni come "Umberto D." e "Sciuscià" di De Sica, grazie anche alla collaborazione con Zavattini che modifica lo stile neorealista). Al contrario la letteratura di Moravia e Bernari non può prescindere da una visione psicologica, interiorizzata, esistenziale e surreale del mondo, come scrive Bernari: "Per voler dare un ristoro esistenziale (alla Camus, ante litteram, si'intende, ché allora non esisteva nel nostro orizzonte) ai miei Tre operai non li mandai a bagnarsi nel mare di Mergellina, nel quale si erano immersi tanti artisti… che avevano adoperato quelle acque per le loro scampagnate estetiche… ma li mandai a tuffarsi nelle acque di Torre Annunziata, sulla spiaggia prospiciente una grande e nera ferriera occupata dagli operai." (Carlo Bernari, Napoli silenzio e grida, Editori Riuniti Roma 1977, pag. 246247). Letteratura e cinema neorealisti perseguono dunque la stessa etica, e sono pure esteticamente affini, ma si dividono su un punto essenziale. Per la letteratura il rapporto con la realtà è una porta di accesso al contenuto esistenziale dei personaggi, invece il cinema neorealista degli anni '44-'50 “usa” l’individuo per descrivere una realtà storica o sociale. Così, mentre nelle opere d'esordio di Moravia e Bernari, "Gli indifferenti" del 1929 e "Tre operai" del 1934, il contesto fa da sfondo al dramma interiore dei personaggi, nel cinema il “contesto sociale” è "ideologicamente" prevalente. Il che non è una critica, ma una constatazione oggettiva delle diversità tra i due generi, film e romanzo neorealisti. Differenze che, peraltro, si manifestano e si attenuano di volta in volta essendo ovviamente ogni caso e a se stante, soprattutto parlando di artisti legati dalle tante vicissitudini umane, dalla lotta politica e dall'ideologia. Senza poi contare che il romanzo scritto con la penna o con la macchina da scrivere non può fotografare con poche istantanee un ambiente come invece fa il cinema. 4 In una conferenza tenuta negli Stati Uniti e raccolta da Antonio Vitti, uno dei Maestri del neorealismo, Peppe De Santis, spiega che le influenze letterarie sul suo cinema sono prevalentemente "americane" (Steinbeck, Hemingway ecc.), limitando il suo rapporto con la letteratura italiana a soli due casi: "Gente in Aspromonte" di Alvaro e "Tre operai" di Bernari. "… ma insomma, salvo questi rari esempi in cui la narrativa italiana prendeva contatto con la grande realtà italiana, soprattutto delle classi subalterne, bisogna risalire solo ad un grande scrittore che è Giovanni Verga". (Antonio Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Metauro, Pesaro 2006, pag. 24). La questione di un critico distacco tra la letteratura italiana e il cinema neorealista è evidente nelle parole e nei pochi riferimenti testuali citati da De Santis. E' d'altra parte pur vero che il cinema “neorealista” ha avuto una sintonia di intenti ideologici, un comune sentire con gli scrittori considerati precursori di questo genere. Allora la stretta parentela tra il cinema e la letteratura neorealisti è data dalla "posizione" etica e morale dell'autore che si esprime ideologicamente e politicamente, tanto per cominciare dalla scelta del tema del racconto o dello scenario, nonché dalle finalità "impegnate" che si propongono queste opere, certamente non realizzate per l'intrattenimento. Non si tratta quindi di minimizzare i legami tra letteratura e cinema neoralisti, bensì di riesaminarli nella loro giusta luce. Non è del resto un caso se delle tre opere narrative considerate "antesignane" del neorealismo ("Gli indifferenti" di Moravia, "Gente in Aspromonte" di Alvaro e "Tre operai" di Bernari), nessuna ha avuto una significativa trasposizione cinematografica. E ciò nonostante i tentativi non pienamente riusciti di un regista del calibro di Citto Maselli che cerca di fare letteratura col cinema, mentre Bernari e Moravia pensavano piuttosto a far cinema con la letteratura. Scrive Mereghetti (cito il parere di un critico poco affidabile solo per dar l'idea del problema) a proposito della versione filmica de "Gli indifferenti" girata da Citto Maselli del 1964: "la lettura è discutibile perché non riesce se non in parte a far affiorare il groviglio malato delle psicologie dei suoi personaggi" (Dizionario dei film, Milano 2005, pag. 1295). Naturalmente questo giudizio, da prendersi con beneficio d'inventario, verte sul fatto che il regista, in pieno pathos neorealista, coglie sì l'aspetto sociale della critica alla classe borghese, ma lascia come in sospeso il rovello interiore dei personaggi. Maselli descrive insomma l'ambiente sociale e le "contraddizioni", ma perde di vista il dramma esistenziale fortemente presente nell'opera di Moravia. Aggiungo che l’unico esempio di un felice incontro letteratura\cinema neorealisti resta il film scritto da Bernari e Pratolini per Nanni Loy: "Le quattro giornate di Napoli". Si tratta però di un evento conclusivo del primo neorealismo: siamo infatti nel 1962 e il cinema sta per dar vita alla "Commedia all’italiana" di cui lo stesso Loy, con la sua vena surreale, sarà protagonista, fino al grottesco "Mi manda Picone" del 1983. Occorrono del resto venti anni dal 1962 delle "Quattro giornate" e quasi mezzo secolo dall'uscita di "Tre operai", affinché il cinema recuperi il vero contenuto esteticamente espressionista e ideologicamente "socioesistenziale", l'ossimoro rende l'idea di una crisi individuale che scaturisce dal cortocircuito con la società, - della letteratura neorealista degli Anni ’20 e ’30. Mi riferisco 5 a “Le occasioni di Rosa” di Piscicelli del 1981 in cui la Napoli grigia e postindustriale di “Tre operai” trova un possibile corrispettivo cinematografico. Non a caso il cosiddetto "neo-neorealismo" di Salvatore Piscicelli è molto più affine alla letteratura "neorealista" di quanto non lo sia stato il cinema di Rossellini, De Santis, Lizzani, Maselli. Non si tratta allora di scarsa sintonia tra gli scrittori precursori del neorealismo e i cineasti dell’immediato dopoguerra: inutile sottolineare le affinità, le simpatie, le collaborazioni, insomma il "comune sentire", l'impegno e gli ideali dei protagonisti della letteratura e del cinema tra il 1927 e il 1950. Resta il fatto, però, che parlando di rapporti cinema-letteratura neorealista bisognerebbe chiamare in ballo un terzo soggetto, o meglio un alleato: il teatro. Naturalmente non mi riferisco ad un parallelismo strutturale tra la rappresentazione teatrale e il cinema: sarebbe fin troppo facile osservare che entrambe le arti sono costituite da immagini e dialoghi; e che la scrittura teatrale (il copione) è in realtà una forma di sceneggiatura che Bernari sperimenta in "Tre operai". Non mi dilungo su questo argomento che ho già trattato in uno scritto apparso sul Nr. 4 - 2006, pag. 5-26 di "Esperienze Letterarie" direttore Marco Santoro. In sintesi, la letteratura neorealista ha attinto dal teatro a piene mani, ad esso restituendo – ecco come la letteratura considerata "incunabolo del neorealismo" perviene all'anticipazione del cinema contemporaneo – una costruzione letteraria più per la scena che per la pagina o, se vogliamo, più cinematografica, cioè fatta di didascalie, punti di vista, espressioni fortemente evocatrici di immagini e dialoghi. Le arti naturalmente si toccano sul piano temporale della conteporaneità e si influenzano vicendevolmente; così i fumi delle ciminiere e i chiaroscuri delle ombre umane della pittura di Sironi si trasferiscono nell’immaginario narrativo di Bernari che anticipa il bianconero neorealista (per altro difficilmente raffigurabile a colori). Ma il teatro – e di ciò si è parlato finora poco – interviene ben più in profondità sulla scrittura di Bernari e di Moravia. Il teatro determina uno “spostamento” ideologico dell’autore che non è più come in Manzoni o come nel verismo di Verga osservatore esterno e passivo dei drammi umani e sociali. Grazie al teatro, nella narrativa neorealista lo scrittore scende in campo, sale alla ribalta, partecipa al dramma come un protagonista sulla scena. L'influenza del dramma pirandelliano "Sei personaggi in cerca d'autore" del 1921 è in questo contesto indiscutibile, quando la realtà si presenta sul palcoscenico rivendicando il suo diritto ad essere rappresentata oltre ogni finzione teatrale. La narrativa del '900 che si apre al soggettivismo e al relativismo coglie così l'attualità della scrittura teatrale - e vi si adegua - trasformando la figura del narratore nel tipico "deus ex machina" del Teatro, cioè l'Autore che non è mai - drammaturgicamente parlando - estraneo alla rappresentazione. Ricordiamo che Dioniso - Autore per eccellenza - è sempre presente nella tradizione teatrale con un posto in sala a lui dedicato. Ho già brevemente accennato all'argomento formale della scrittura teatrale (dialogica e per didascalie utili ad immaginare la scena) di cui si serve la narrativa del '900 che assorbe anche dalla pittura, oltre che dal teatro, per tendere ad una forma creativa oserei dire "cinematografica", non semplicemente neorealista, ma anche espressionista, surrealista, ecc. nell'ambito di una contaminazione delle arti (vedi il romanzo del 1915 Si gira! di Luigi Pirandello). Aggiungo che la passione teatrale e cinematografica di Bernari e Moravia è testimoniata da molti testi, saggi, recensioni anche di mostre e di pittori ed artisti del presente e del passato. Soprattutto Moravia è stato autore teatrale di una certa importanza nel panorama della drammaturgia 6 italiana (ricordo solo per brevità La cintura, Beatrice Cenci, Il Dio Kurt) dedicandosi al cinema, al pari di Bernari - che pure qualche testo teatrale lo ha prodotto (Roma 335, L'angelo vendicatore), - come autorevole voce critica. Insomma, i due scrittori antesignani del neorealismo, come vengono definiti dalle antologie, hanno sempre tenuta aperta la loro bottega rinascimentale ad una forma di creatività sintetica di più arti. Non può perciò stupire che mentre i Maestri del cinema del dopoguerra hanno accolto senza riserve l'etichetta di "neorealisti", lo stesso non è avvenuto per Moravia e Bernari che hanno sempre percepito riduttiva e fuorviante una simile definizione. Proprio un grande personaggio del teatro ci offre un chicca a proposito del malumore nei confronti degli schematismi critici che servono solo a fare di ogni erba un fascio, forse facilitando il compito degli studiosi ma alterando e travisando il significato ed il valore delle opere letterarie. Eduardo in "Ditegli sempre di sì" del 1932 fa dire al Poeta provinciale e pedante Luigi Strada una frase molto ironica e significativa sull'abuso della critica: "Avverto subito l'uditorio che, mentre la tematica delle mie composizioni è un fatto tutto personale, il ritmo, al contrario, si stacca, è vero, dalla formula ermetica, ma si aggancia alla corrente realistica e impressionistica, fatta di chiazze opache e di spiragli allucinanti, il cui filone trova larvati riscontri in tutta la letteratura valida avanguardistica degli ultimi vent'anni..." ("Ditegli sempre di sì", in "Cantata dei giorni pari", Einaudi Torino 1956, pag. 165). Posso aggiungere un curioso episodio di cui sono testimone oculare. Nel settembre dei primi Anni '60 accompagnai mio padre Carlo Bernari in gita a trovare Eduardo nella sua villa sulla costiera amalfitana. Mettendoci a tavola per la cena ci fu una scherzosa disputa tra mio padre e Eduardo che rifiutavano di sedersi a capotavola in qualità di "Maestri" - tantomeno del neorealismo. Etichetta che Bernari definì "un pressappochismo dei critici". La risposta di Eduardo non si fece attendere: "Carlé, chille, 'e criteche, 'n capiscon 'nu cazzo". L'episodio ebbe un seguito perché Eduardo scrivendo la sceneggiatura di "Ditegli sempre di sì" per la versione televisiva corresse il termine "Realismo" pronunciato dallo pseudopoeta Luigi Strada in "Neorealismo", volendosi comunque agganciare ad una "querelle" che era nell'aria. Certamente, al di là del goliardismo con cui Eduardo vuol rappresentare il suo personaggio, il riferimento è degno di nota perché l'Autore mette alla berlina una certa ottusità della critica che parla di "letteratura neorealista antesignana del cinema neorealista", dimenticando la grande tradizione "realista e popolare" del teatro napoletano di Antonio Petito e del grande Raffaele Viviani, di cui Eduardo - figlio di un altro notevole autore e attore napoletano, Scarpetta - a partire dalla seconda metà degli Anni '20 è il prosecutore ideale e naturale. Questa "prosecuzione" del realismo della tradizione teatrale napoletana da parte di Eduardo sfocia nel 1932, - Moravia ha appena esordito e "Tre operai" di Bernari è in corso di stampa, - in un capolavoro della letteratura teatrale contemporanea: "Natale in casa Cupiello". Il fatto curioso è che la genesi di "Natale" procede di pari passo con quella del romanzo "Tre operai" di Bernari, cioè a partire dal 1929 circa, da un punto di vista non solo temporale, ma anche tematico e ideologico. Il protagonista del romanzo di Bernari, Teodoro, è uno "spostato" che tra l'altro ha grandi difficoltà ad alzarsi la mattina, proprio come "Nenniniello" di Eduardo il cui ossessivo "Non mi soso" (non mi alzo) fa eco alla lamentela di Teodoro: "Chi ha stabilito che 7 bisogna alzarsi la mattina presto per andare al lavoro!". Entrambi, Teodoro e Nenniniello, aspirano ad una vita migliore, rifuggono il lavoro e finiscono per vivere di espedienti. Certo, le esigenze teatrali spingono la figura di Eduardo verso la macchietta, mentre a Teodoro spetta il dramma esistenziale dell'eterno fanciullo insoddisfatto e irrealizzato nella società. Ma al di là delle diverse esigenze narrative, i due personaggi hanno insospettabili punti in comune, anche sotto l'aspetto fisico: a loro manca sempre terreno sotto i piedi, sono instabili e come in bilico sull'orlo del destino (Nenniniello si attacca alle "cinche lire" rubate allo zio, così come Teodoro invece di realizzare i sogni rivoluzionari si accontenta della speranza di minimi aumenti salariali). E se ci si chiedesse da dove derivino queste due figure, la risposta sarebbe semplice: naturalmente dalla tradizione napoletana di Felice Sciosciammocca ripresa dal padre di Eduardo, Scarpetta, che Bernari (nato nel 1909), napoletano e avido di cinema e teatro, ben conosce fin da ragazzo. Ma le affinità tra il romanzo di Bernari e l'opera teatrale di Eduardo non finiscono qui. La figura del padre laborioso di Teodoro trova un'eco nel personaggio di "Lucariello", l'industrioso protagonista alle prese col suo presepe. Ed anche la figura morale della madre di Nenniniello, così tragicamente consapevole del proprio ruolo e del dramma esistenziale che si sta vivendo al di là della farsa, ha tanto da spartire con la madre di Teodoro che assolve nel romanzo di Bernari ad una funzione di voce della coscienza del protagonista. Le ambientazioni popolari del romanzo nella sua prima versione intitolata "Gli stracci" e dell'opera teatrale sono pressoché identici, la piccola borghesia napoletana. Con l'unica benché forte variante del tema politico e la raffigurazione di una nuova classe sociale a Napoli: il proletariato e la fabbrica. Infatti nei "Tre operai" (versione ultima del romanzo di Bernari) - e in ciò consiste lo "scarto" in fatto di modernità critica di Bernari rispetto ad Eduardo, - compare un mondo nuovo e già disastrato, la fatiscente industrializzazione del sud, di fronte alla quale lo Sciosciammocca-Teodoro è un disadattato non solo sociale (Eduardo) ma anche e soprattutto politico e ideologico (Bernari). Ma in "Napoli milionaria" del 1945 Eduardo affronterà con più vigore i temi ideologici e politici del neorealismo cari al cinema coevo: la guerra, la resistenza e la ricostruzione. Temi che pure Bernari tratta in un romanzo che vede la luce in questi anni, "Prologo alle tenebre" scritto tra il 1943 e il 1946, a cui farà seguito "Speranzella" nel 1949. Tra buio e luce, sole e notte, speranza e delusione, la visione di Eduardo e Bernari è pessimistica: la liberazione non ci ha liberati dal moderno nemico dell'umanità, il Capitalismo, di cui il fascismo è una delle tante facce, come insinua anche il pasoliniano intellettuale-corvo in "Uccellacci-uccellini" del 1966. Allora, la vera liberazione non può avvenire che "per magia" come allude il capolavoro del neorealismo magico del binomio De Sica-Zavattini, "Miracolo a Milano". La questione che però ponevo inizialmente è quella legata allo stretto rapporto tra la tradizione teatrale napoletana e il primo "neorealismo" di Bernari. Vi sono innumerovoli riscontri di questi fermenti e delle atmosfere che passano da un'opera all'altra, da un genere all'altro. Basti pensare che se il teatro napoletano popolare fu osteggiato dalla corrente intellettualisticoborghese del verismo della Serao e dell'estetismo lirico di Di Giacomo, è proprio Bernari a schierarsi contro la poesia digiacomiana a favore del crudo e cupo lirismo popolare sia di Viviani che di Ferdinando Russo, poeta del quale Bernari ha curato nel 1986 l'opera completa (Ferdinando Russo, Poesie, a cura di Carlo Bernari, edizioni Bideri, Napoli 1984). 8 Non e' oltretutto passato inosservato il fatto che l'impianto scenico di "Natale in casa Cupiello" di Eduardo anticipi di molti anni il neorelismo del cinema postbellico. Ne parla ad esempio Mario Mignone notando che nel momento stesso in cui si alza il sipario nella stanza da letto di casa Cupiello ci troviamo in una ambientazione e in uno stile narrativo neorealista. E siamo nel 1932! E' comunque evidente che Bernari ed Eduardo (ricordiamo che Bernari è di nove anni più giovane di Eduardo che nasce nel 1900) attingono a piene mani alla tradizione popolare del teatro napoletano. Realismo che tocca punti di grande modernità con diverse opere di Raffaele Viviani, ad esempio " I pescatori" del 1926 che forse ha pure ispirato qualcosa a Rossellini per "Stromboli". Posso del resto personalmente testimoniare l'influenza di Viviani su Bernari, il quale amava spesso citare alcune battute del grande autore teatrale partenopeo, atteggiandosi spassosamente anche ad imitare la vivianesca figura di "Scartellatiello" nel fingere un'inesistente zoppìa che mandava in bestia mia madre. Ma Bernari spiega bene il senso di questo suo apparente infantilismo: "Che cosa dunque faceva più ridere: il mio essere napoletano, cioè interprete e portatore di una naturale condizione umana, per quanto dolente e beffarda; oppure il mio fare il napoletano, vale a dire quel mio recitar la parte del napoletano che fa il napoletano?… è proprio nel fare il napoletano… che noi avvertiamo anche meglio il tanfo di miseria che la maschera ha acquistato, dall'avvicendarsi in essa di generazioni e generazioni di personaggi, vittime della sorte e spropositati: Pulcinella, Pascariello o Sciosciammocca…" (C. Bernari, Napoli silenzio e grida, op.. cit. , pag. 249250). Il capitolo del volume appena citato in cui Bernari affronta il tema della "teatralità" della sua narrativa si intitola significativamente "Il teatro delle tre Napoli" che introduce alla tradizione teatrale che Bernari stesso dichiara di avere nel sangue. Dicevo prima di Viviani: il critico e pittore napoletano Paolo Ricci sostiene che il teatro di Viviani: "nella sua folgorante sintesi anticipa uno stile che avrà poi sviluppi illustri nella letteratura come nel teatro e che troverà riconfermati, successivamente, in Brecht e Garcia Lorca, fino a Gadda, Pasolini e Bernari, gli esempi più convincenti del modo come, alimentandosi di linfe popolari, accogliendo il linguaggio e a volte il gergo della plebe, si possano raggiungere contenuti universali e livelli poetici sorprendenti". (Paolo Ricci, "Ritorno a Viviani", Editori Riuniti Roma 1979, pag. 64). Paolo Ricci è fin da giovane amico, compagno e ispiratore di Bernari. Sono proprio Ricci e Bernari, col filosofo Guglielmo Pierce, a firmare nel 1929 il manifesto dell'UDA, Unione Distruttivisti Attivisti, un movimento che cerca di spostare l'asse del futurismo verso il socialismo, anticipando il tema della Macchina che può trasformarsi in forma di oppressione se non viene utilizzata per liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro. Ed è proprio Paolo Ricci a mostrare l'anello di congiunzione mancante tra il neorealismo di "Tre operai" e il realismo popolare napoletano di Viviani, un rapporto che crea come effettocatena un successivo passaggio, cioè da Viviani -Bernari ad Ugo Betti: 9 "...tentai di sviluppare un discorso inteso alla valorizzazione del teatro vivianesco. A questo proposito, nei miei rapporti con Carlo Bernari, anch'egli estimatore di Viviani, ebbi più volte occasione di parlarne. Era il momento del grande successo teatrale di Ugo Betti e in particolare del dramma "Frana allo scalo nord"... Betti era amico di Bernari, pregai perciò quest'ultimo di invitare Betti a considerare l'ipotesi di una sua collaborazione con Viviani. Il 14 giugno del 1937 Bernari mi scrisse: Caro Paolo, ho parlato a Betti di Viviani. E' entusiasta... Viviani ha qui, nell'ambiente intelligente, degli amici insospettati. E molti già parlano di un Betti vivianizzato..." (P. Ricci, op. cit. p. 172). Se Bernari esagera un po' nel parlare a Ricci di un Betti "vivianizzato", pur se dal carteggio Viviani-Ricci-Betti-Bernari emerge una forte sintonia tra questi scrittori, è anche vero che Ricci stesso mischia le carte in tavola con qualche enfasi parlando di un Viviani "bernarizzato" : "Non a caso Viviani si aggancia ai temi della letteratura mitteleuropea del primo novecento, riallacciandosi. peraltro, allo scrittore a lui più affine, cioè a Carlo Bernari e ai suoi Tre operai". (P. Ricci, op. cit. p. 174). L'opera di Viviani è però, in gran parte, antecedente alla data di pubblicazione di "Tre operai", 1934. Il che significa che è Viviani, (nato nel 1888) il punto di riferimento di Bernari e, naturalmente, di Eduardo, - non viceversa. E' altresì interessante notare come il teatro di Viviani non subisca solo una osmosi "naturale" in Eduardo ma, attraverso un narratore come Bernari, vada ad influire su un altro autore, diverso per origine, estrazione, cultura e tematiche, come Ugo Betti, che di professione fa il giurista. Betti (nato nel 1892) ottiene il primo successo con "Frana allo scalo nord", dramma scritto nel 1932, pubblicato nel 1935 e rappresentato la prima volta al Teatro Goldoni di Venezia nel 1936. L'opera drammatica di Betti suscita subito l'interesse di Bernari che scorge nell'autore originario di Camerino un "alter ego" teatrale. Cosa collega Bernari a Betti? Guarda caso: tre operai. Infatti il dramma di Betti inizia da un "neorealistico" fatto di cronaca: una frana che ha sepolto tre operai. Ora, il romanzo di esordio di Bernari si intitola nella prima versione del 1929-1930 "Gli stracci", mentre il titolo e la stesura definitiva di "Tre operai" sono del 1932. C'è di più: mentre il Teodoro de "Gli stracci" è un giovane di estrazione piccolo-borghese, improvvisamente nella stesura successiva del 1932 ("Tre operai" appunto) diventa il figlio di una famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze non escludono, anzi sembrano proprio avvalorare l'ipotesi di un continuo rapportarsi della letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. Certo, stilisticamente "Frana allo scalo nord" e "Tre operai" sono differenti. Tanto per cominciare Betti ambienta il suo dramma in un'aula di tribunale dove si crea un'atmosfera kafkiana già dai nomi dei protagonisti: l'imprenditore Gencker, l'operaio Bert, il pubblico ministero Goetz e il giudice Parsc. Invece Bernari tende ad una visione che definerei più un'anticipazione dell'esistenzialismo politico di Sartre. Aggiungo, tanto per complicare le cose, che il secondo romanzo di Bernari "L'ombra del suicidio ovvero Lo strano Conserti" (del 1936 data stesura, ma pubblicato postumo) rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che porteranno anche Betti al suo capolavoro teatrale, "Corruzione a Palazzo di Giustizia" del 1945. Non posso qui dilungarmi su questo argomento, perché un confronto tra l'opera rimasta a lungo inedita di Bernari e "Corruzione" di Betti necessiterebbe di uno studio più approfondito. Basti sapere che gran parte della 10 successiva narrativa di Bernari, fino alla metà degli Anni '80, sarà dedicata al tema della corruzione e della caduta degli ideali ("Era l'anno del sole quieto", "Tanto la rivoluzione non scoppierà", "Il giorno degli assassinii"). In conclusione è possibile affemare che come il teatro di Machiavelli, Aretino e soprattutto Goldoni ha creato i presupposti del grande realismo manzoniano, cosi' il teatro di Viviani anticipa gli elementi "neorealisti" del teatro di Eduardo e di Betti e della narrativa di Bernari che sarà protagonista dell'apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l'osmosi di temi, atmosfere e personaggi dal teatro al cinema trova in "Tre operai" di Bernari, come pure nei tre operai protagonisti della "Frana" di Betti, un esempio della possibilità di trasformare il romanzo in cinema partendo dal teatro. Come? Attraverso l'invenzione di una nuova forma di scrittura: il trattamento. Uno stile che Bernari elabora proprio nel suo capolavoro d'esordio sotto l'influenza del cinema surrealista, della pittura di Sironi e - soprattutto - del teatro popolare di Viviani. Sembra quindi impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla letteratura neorealista senza capire l'importanza del teatro nella formazione della narrativa di Bernari e Moravia che trovano in Viviani e in Pirandello modelli drammaturgici di riferimento. Gli stessi modelli che Eduardo e Betti hanno ben presenti nell'elaborazione di una drammaturgia che a buon diritto possiamo definire "incunabolo neorealista". ENRICO BERNARD 11