NEOREALISMO, CHE SUCCESSO IN AMERICA
(IL TEATRO NEOREALISTA)
di Enrico Bernard
Neorealismo, che passione! La parafrasi del celebre titolo ("Marionette,
che passione!") dell'opera teatrale di Rosso di San Secondo sintetizza il
rinnovato interesse per il Neorealismo italiano negli Stati Uniti e in Canada.
Nei dipartimenti di italianistica nordamericani gli studi sui romanzi di Bernari,
Alvaro, Moravia, Silone, Vittorini e sul cinema di Visconti, Rossellini, Lizzani,
De Santis ripropongono e reinterpretano la grande stagione culturale italiana
che va dai primi Anni Trenta ai primi Cinquanta. Un elenco completo degli
studiosi e docenti che incoraggiano i loro studenti americani ad approfondire
questi temi di italianistica sarebbe lungo. Cito alcuni nomi che primi mi
vengono in mente per stima e amicizia: Mario Mignone a Stoney Brook New
York, Andrea Ciccarelli alla Indiana University, Sergio Ferrarese in Virginia,
Rocco Capozzi e Michael Lettieri a Toronto, Roberto Dainotto a Duke, - e mi
scuso con tutti coloro che non ho nominato.
Il principale promoter - se non proprio il "guru" del Neorealismo
italiano in terra americana - di questa rinnovata passione per la cultura italiana
e' senz'altro Antonio Vitti, docente presso la Wake Forrest University in North
Carolina, nonche' direttore della Scuola Italiana del prestigioso Middlebury
College nel Vermont. Da anni Vitti si dedica a ricerche in campo letterario e
cinematografico sul Neorealismo ed e' il maggior studioso dell'opera di
Giuseppe de Santis ("Riso Amaro", "Non c'e' pace tra gli ulivi", "Caccia
tragica"). Ma a questa attivita' di ricerca, Vitti aggiunge un'intensa capacita'
organizzativa nel promuovere momenti di incontro e di discussione sui temi
importanti della nostra cultura contemporanea. Nel dicembre scorso Vitti ha
promosso, organizzato e presieduto un convegno sul Neorealismo italiano
presso la sede veneziana della Wake Forrest University. Il titolo del convegno
e' molto suggestivo e foriero di un rilancio tematico anche in Italia: "Ripensare
il Neorealismo: cinema letteratura mondo".
La "scaletta" del convegno e' strutturata in modo da presentare il tema
dell'attualita' del Neorealismo sotto profili diversi e da punti di vista differenti.
Cosi' mentre gli interventi di Gino Tellini su Aldo Palazzeschi, di Domenico
Scarpa su Giuseppe Berto e dello stesso Antonio Vitti su "Fontamara" di
Silone ripropongo autori storici della nostra letteratura contemporanea, altri
contributi sono concentrati sul cinema. Claudio Bondi' (regista in proprio e gia'
aiuto di Rossellini) e Tonino Valeri (regista di "My name is Nobody", grande
affresco dell'ultimo western all'italiana, ambientato al tramonto del mito della
Grande Frontiera) trattano, ad esempio, i temi dell'evoluzione delle tecniche
cinematografiche e narrative in Rossellini e il rinnovamento del genere
neorealista nel nuovo Millennio.
Gli atti del convegno sono stati opportunamente appena pubblicati
dall'editore Metauro (Pesaro, pp. 294 Euro 20,00) a cura di Antonio Vitti.
Fornisco subito l'indirizzo elettronico dell'editore perche' consiglio fortemente
la lettura di questo libro a studiosi e appassionati di cinema e letteratura di
qualsiasi livello: www.metauroeditore.it.
Effettivamente gli interventi e i contributi del convegno "pensato" da
Vitti sono vari, eterogenei eppero' legati da un filo conduttore, come dicevo,
originale: l'attualita', nonche' il futuro del Neorealismo nelle diverse arti,
letterarie e visive. In questo senso vanno, ad esempio, gli interventi assai
precisi di Gian Piero Brunetta ("Dal neorealismo al neorealismo"), Andrea
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Ciccarelli ("Fra (neo/)realismo e sogno: Io non ho paura"), Roberto Ellero ("Il
Neorealismo che non passa - di moda"), Giuliana Minghelli ("Neorealismo:
Anacronismo/ Avanguardia"). In discussione e', in ultima analisi, non tanto e
non solo la parte critico-storica dell'esperienza neorealista, bensi' la sua facolta'
di autorigenerarsi nell'interpretazione del presente, paradossalmente anche in
chiave onirica come in "Miracolo a Milano" o in "Uccellacci" di Pasolini fino
al tragico sogno di "Io non ho paura" riproposto dall'intervento di Ciccarelli.
Inoltre, al di la' di una critica spesso superficiale che vede un passaggio,
un travaso fin troppo "naturale" e scontato del Neorealismo dal romanzo al
cinema, gli studi e le analisi stimolati da Vitti mettono in risalto un aspetto
meno didascalico in cui si considerano i vari e determinanti contributi del teatro
e della fotografia allo sviluppo delle tecniche cinematografiche
e
dell'evoluzione del genere letterario neorealista.
Il libro e' peraltro di piacevole lettura perche' i contributi, passando
dall'analisi storico-critica al tono meno accademico, piu' discorsivo e
illustrativo di addetti ai lavori nelle varie arti, registi, sceneggiatori e uomini di
teatro, nonche' attori come Lino Capolicchio ("L'attore nell'ottica neorealista"),
rendono bene conto di uno "spaccato" del Neorealismo a 360 gradi. Prospettiva
costituita sulla base di esperienze personali ed opinioni che non rappresentano,
ripeto, solo una "commemorazione" critica della nostra letteratura e del
cinema. Rappresentano bensi' una riproposta culturale ed artistica di un
"genere" di forte attualita' e in continua evoluzione, - nonostante oggi si
consideri il Neorealismo genere storicizzato e conchiuso. Idea, quest'ultima,
fuorviante poiche' le recenti opere letterarie di Ermanno Rea ("La dismissione",
"Napoli ferrovia") e Roberto Saviano ("Gomorra") e i film di Gianni Amelio
("La stella che non c'e'") e di Matteo Garrone ("Gomorra") testimoniano,
ancora una volta, un ritorno ed una ripresa dei temi e stili propriamente
neorealisti.
Bisogna del resto ricordare che perfino registi hollywoodiani si
richiamano al Neorealismo, come i fratelli Cohen o Tarantino. L'attualita' del
dibattito e' tanto piu' evidente, poi, se si pensa che il Neorealismo e' oggi un
marchio culturale del nostro Paese nel mondo, insieme alla Commedia
dell'Arte, al mito della "Dolce Vita", alla moda, al Rinascimento, al design. Per
questo gli incontri promossi da Antonio Vitti vanno ben oltre
l'approfondimento di un fenomeno artistico e letterario "storicizzato", bensi'
fungono da stimolo alle nuove leve della letteratura e del cinema impegnate
nella formazione di nuovi stili espressivi.
Devo pure segnalare al lettore, per dovere di cronaca, una mia
osservazione ad Enrica Vigano' autrice del contributo dedicato a
"NeoRealismo-la nuova immagine in Italia 1932-1960", argomento, quello
dell'influenza della fotografia sul cinema, peraltro molto originale ed
innovativo. La Vigano' cita l'esempio della rivista "Tempo" fondata da Alberto
Mondadori. Sarebbe stato il caso di segnalare che a fondare, creare e dirigere
le rivista soprattutto sotto l'aspetto fotografico fu chiamato Carlo Bernari,
autore di "Tre operai" del 1932, considerato l'incunabolo del neorealismo.
Bernari fu anche giornalista e fotografo (medaglia di bronzo al Valor Militare
quale fotoreporter nella guerra in Albania) e sceneggiatore ("Le quattro
giornate di Napoli") e in tale veste coordino' come art director proprio la
nascita di "Tempo". I rapporti ancora non ben sviluppati dalla critica letteraria
tra Carlo Bernari e Alberto Mondadori sono importanti per capire un pezzo
della nostra storia culturale. Per dare idea della profondita' di questi rapporti,
anche personali, faccio solo presente che Alberto Mondadori e' il padrino del
primogenito di Carlo Bernari, Eugenio Alberto. Sarebbe stato facile per la
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studiosa Enrica Vigano' sviluppare un discorso piu' approfondito consultando
la Fondazione Mondadori o l'Archivio Bernari presso l'Archivio del '900 alla
Sapienza di Roma, dove sono conservati i carteggi tra queste due grandi
personalita' dell'editoria e della letteratura italiana. Oltretutto la storia di questa
amicizia e' stata, non in tempi remotissimi, raccontata dal Corriere della Sera
(il cui archivio storico e' da tempo facilmente consultabile in rete) che ha pure
pubblicato l'inedito di Bernari "Notti insonni alla Mondadori". E sarebbe stato
pure interessante conoscere i motivi "politici" che spinsero Bernari a
rinunciare alla direzione di "Tempo" offertagli da Alberto Mondadori.
Oltretutto una precisazione in questo senso avrebbe meglio fatto capire
l'importanza della fotografia nella rappresentazione cinematografica neorealista
anticipata nelle opere degli scrittori dei primi Anni Trenta (Alvaro, Bernari,
Moravia). Sono del resto convinto che gli autori del cinema neorealista hanno
potuto realizzare i loro capolavori in quanto la letteratura degli Anni Trenta ha
loro fornito un modello di scrittura tendente inevitabilmente al cinema, cioe'
alla sceneggiatura e allo script, nonche' un modello di rappresentazione del
reale appunto "fotografico".
Personalmente mi sono occupato nel convegno di questo argomento
chiamando in causa un "terzo escluso" tra cinema e letteratura, il Convitato di
Pietra che, forse per ignoranza, la critica tende sempre a lasciare in disparte,
ma che poi alla fine si riprende la sua colossale rivincita: il teatro. La domanda
che mi sono posto e': esiste un teatro neorealista? E come e' riuscito il teatro ad
influenzare il cinema? Ebbene, la risposta e' proprio nello stetto rapporto che
ho individuato tra Raffaele Viviani e Carlo Bernari.
Per gentile concessione dell'editore Metauro e del curatore Antonio Vitti
ripropongo qui di seguito il mio intervento.
ESISTE IL TEATRO NEOREALISTA?
di ENRICO BERNARD
Come premessa generale, bisogna tener presente, a proposito di
neorealismo cinematografico e letterario, che la rivendicazione da parte della
"realtà" di una rappresentazione non artefatta viene posta per la prima volta nel
XX° secolo in un'opera teatrale, dai "Sei personaggi in cerca d'autore" (1921)
di Luigi Pirandello. Sia nel suo teatro che nella narrativa, Pirandello riprende
la grande tradizione del realismo e del verismo italiano (Manzoni e Verga), ma
supera entrambi per l'innesto di tematiche surreali, espressioniste e, soprattutto,
dell'esperienza cinematografica che si concretizza in Pirandello con una serie di
soggetti e sceneggiature, - nonché con la realizzazione di un film "Acciaio" del
1934. Un film che, pur con tutte le manomissioni e le apologie possibili del
fascismo, si svolge in una moderna fabbrica. Questo per dire che il cinema
neorealista, che muove le prime esperienze dal 1942-1943, non ha solo un back
ground letterario, ma anche teatrale e cinematografico.
Oltretutto l'innesto del cinema nella letteratura è un'idea anch'essa di
Pirandello che, col romanzo Si gira! del 1915, realizza l'esperimento di un
romanzo scritto con la cinepresa. Quando nel 1925 due grandi narratori italiani
- Alberto Moravia e Carlo Bernari, considerati i precursori del neorealismo leggono il romanzo pirandelliano nella versione del 1925 (rieditato col titolo
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"I quaderni di Serafino Gubbio operatore") naturalmente non possono
prescindere - sono giovanissimi e stanno elaborando le loro opere di esordio dalla novità del romanzo e dal fascino del cinema. I risultati saranno quelli di
una scrittura molto affine, mimetica del cinema, con l'invenzione di due generi
di modernità assoluta: la novellizzazione (Moravia) e il trattamento (Bernari).
Esperienze che affondano le radici nello sperimentalismo e nella genialità del
Siciliano che riesce a fondere, sintetizzare cinema, teatro, letteratura. Sintesi
che viene rielaborata dagli Autori de "Gli indifferenti" e "Tre operai" in modo
del tutto originale e con un occhio ed un orecchio al teatro contemporaneo.
I "neorealisti" Moravia e Bernari, in effetti, non hanno mai gradito una
schematizzazione rigida. Pur apprezzando il cinema del dopoguerra, questi
scrittori hanno ripetutamente insistito sulle diversità tra le loro opere e il
cinema neorealista. E più la critica ha puntato per comodità ad un “contenitore”
unico per il cinema neorealista del dopoguerra e la letteratura del periodo
1927-1934, più Moravia e Bernari hanno mostrato insofferenza ed hanno preso
anche strade diverse e contraddittorie rispetto a certe "riduzioni" scolastiche
delle rispettive più complesse poetiche. Entrambi, insomma, si sono sempre
sentiti costretti nel ruolo degli eterni "antesignani" delle arti della seconda
metà del XX secolo.
Di quali differenze si tratti, è presto detto. Il primo cinema neorealista
del Rossellini di "Paisà" e "Roma città aperta", dei De Santis, Lizzani,
Maselli de "Il sole sorge ancora", tende per scelta ideologica al documento e
ad una visione critica della realtà, ma con un soggettivismo limitato allo stretto
necessario (con alcune significative eccezioni come "Umberto D." e
"Sciuscià" di De Sica, grazie anche alla collaborazione con Zavattini che
modifica lo stile neorealista). Al contrario la letteratura di Moravia e Bernari
non può prescindere da una visione psicologica, interiorizzata, esistenziale e
surreale del mondo, come scrive Bernari:
"Per voler dare un ristoro esistenziale (alla Camus, ante litteram,
si'intende, ché allora non esisteva nel nostro orizzonte) ai miei Tre operai non
li mandai a bagnarsi nel mare di Mergellina, nel quale si erano immersi tanti
artisti… che avevano adoperato quelle acque per le loro
scampagnate
estetiche… ma li mandai a tuffarsi nelle acque di Torre Annunziata, sulla
spiaggia prospiciente una grande e nera ferriera occupata dagli operai."
(Carlo Bernari, Napoli silenzio e grida, Editori Riuniti Roma 1977, pag. 246247).
Letteratura e cinema neorealisti perseguono dunque la stessa etica, e
sono pure esteticamente affini, ma si dividono su un punto essenziale. Per la
letteratura il rapporto con la realtà è una porta di accesso al contenuto
esistenziale dei personaggi, invece il cinema neorealista degli anni '44-'50
“usa” l’individuo per descrivere una realtà storica o sociale. Così, mentre
nelle opere d'esordio di Moravia e Bernari, "Gli indifferenti" del 1929 e "Tre
operai" del 1934, il contesto fa da sfondo al dramma interiore dei personaggi,
nel cinema il “contesto sociale” è "ideologicamente" prevalente. Il che non è
una critica, ma una constatazione oggettiva delle diversità tra i due generi, film
e romanzo neorealisti. Differenze che, peraltro, si manifestano e si attenuano di
volta in volta essendo ovviamente ogni caso e a se stante, soprattutto parlando
di artisti legati dalle tante vicissitudini umane, dalla lotta politica e
dall'ideologia. Senza poi contare che il romanzo scritto con la penna o con la
macchina da scrivere non può fotografare con poche istantanee un ambiente
come invece fa il cinema.
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In una conferenza tenuta negli Stati Uniti e raccolta da Antonio Vitti,
uno dei Maestri del neorealismo, Peppe De Santis, spiega che le influenze
letterarie sul suo cinema sono prevalentemente "americane" (Steinbeck,
Hemingway ecc.), limitando il suo rapporto con la letteratura italiana a soli due
casi: "Gente in Aspromonte" di Alvaro e "Tre operai" di Bernari.
"… ma insomma, salvo questi rari esempi in cui la narrativa italiana
prendeva contatto con la grande realtà italiana, soprattutto delle classi
subalterne, bisogna risalire solo ad un grande scrittore che è Giovanni Verga".
(Antonio Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Metauro, Pesaro 2006, pag.
24).
La questione di un critico distacco tra la letteratura italiana e il cinema
neorealista è evidente nelle parole e nei pochi riferimenti testuali citati da De
Santis. E' d'altra parte pur vero che il cinema “neorealista” ha avuto una
sintonia di intenti ideologici, un comune sentire con gli scrittori considerati
precursori di questo genere. Allora la stretta parentela tra il cinema e la
letteratura neorealisti è data dalla "posizione" etica e morale dell'autore che si
esprime ideologicamente e politicamente, tanto per cominciare dalla scelta del
tema del racconto o dello scenario, nonché dalle finalità "impegnate" che si
propongono queste opere, certamente non realizzate per l'intrattenimento.
Non si tratta quindi di minimizzare i legami tra letteratura e cinema
neoralisti, bensì di riesaminarli nella loro giusta luce. Non è del resto un caso se
delle tre opere narrative considerate "antesignane" del neorealismo ("Gli
indifferenti" di Moravia, "Gente in Aspromonte" di Alvaro e "Tre operai" di
Bernari), nessuna ha avuto una significativa trasposizione cinematografica. E
ciò nonostante i tentativi non pienamente riusciti di un regista del calibro di
Citto Maselli che cerca di fare letteratura col cinema, mentre Bernari e
Moravia pensavano piuttosto a far cinema con la letteratura. Scrive
Mereghetti (cito il parere di un critico poco affidabile solo per dar l'idea del
problema) a proposito della versione filmica de "Gli indifferenti" girata da
Citto Maselli del 1964:
"la lettura
è discutibile perché non riesce se non in parte a far
affiorare il groviglio malato delle psicologie dei suoi personaggi" (Dizionario
dei film, Milano 2005, pag. 1295).
Naturalmente questo giudizio, da prendersi con beneficio d'inventario,
verte sul fatto che il regista, in pieno pathos neorealista, coglie sì l'aspetto
sociale della critica alla classe borghese, ma lascia come in sospeso il rovello
interiore dei personaggi. Maselli descrive insomma l'ambiente sociale e le
"contraddizioni", ma perde di vista il dramma esistenziale fortemente presente
nell'opera di Moravia. Aggiungo che l’unico esempio di un felice incontro
letteratura\cinema neorealisti resta il film scritto da Bernari e Pratolini per
Nanni Loy: "Le quattro giornate di Napoli". Si tratta però di un evento
conclusivo del primo neorealismo: siamo infatti nel 1962 e il cinema sta per dar
vita alla "Commedia all’italiana" di cui lo stesso Loy, con la sua vena surreale,
sarà protagonista, fino al grottesco "Mi manda Picone" del 1983.
Occorrono del resto venti anni dal 1962 delle "Quattro giornate" e quasi
mezzo secolo dall'uscita di "Tre operai", affinché il cinema recuperi il vero
contenuto esteticamente espressionista e ideologicamente "socioesistenziale", l'ossimoro rende l'idea di una crisi individuale che scaturisce dal cortocircuito
con la società, - della letteratura neorealista degli Anni ’20 e ’30. Mi riferisco
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a “Le occasioni di Rosa” di Piscicelli del 1981 in cui la Napoli grigia e
postindustriale di “Tre operai”
trova un possibile
corrispettivo
cinematografico. Non a caso il cosiddetto "neo-neorealismo" di Salvatore
Piscicelli è molto più affine alla letteratura "neorealista" di quanto non lo sia
stato il cinema di Rossellini, De Santis, Lizzani, Maselli.
Non si tratta allora di scarsa sintonia tra gli scrittori precursori del
neorealismo e i cineasti dell’immediato dopoguerra: inutile sottolineare le
affinità, le simpatie, le collaborazioni, insomma il "comune sentire", l'impegno
e gli ideali dei protagonisti della letteratura e del cinema tra il 1927 e il 1950.
Resta il fatto, però, che parlando di rapporti cinema-letteratura neorealista
bisognerebbe chiamare in ballo un terzo soggetto, o meglio un alleato: il
teatro. Naturalmente non mi riferisco ad un parallelismo strutturale tra la
rappresentazione teatrale e il cinema: sarebbe fin troppo facile osservare che
entrambe le arti sono costituite da immagini e dialoghi; e che la scrittura
teatrale (il copione) è in realtà una forma di sceneggiatura che Bernari
sperimenta in "Tre operai". Non mi dilungo su questo argomento che ho già
trattato in uno scritto apparso sul Nr. 4 - 2006, pag. 5-26 di "Esperienze
Letterarie" direttore Marco Santoro.
In sintesi, la letteratura neorealista ha attinto dal teatro a piene mani, ad
esso restituendo – ecco come la letteratura considerata "incunabolo del
neorealismo" perviene all'anticipazione del cinema contemporaneo – una
costruzione letteraria più per la scena che per la pagina o, se vogliamo, più
cinematografica, cioè fatta di didascalie, punti di vista, espressioni fortemente
evocatrici di immagini e dialoghi. Le arti naturalmente si toccano sul piano
temporale della conteporaneità e si influenzano vicendevolmente; così i fumi
delle ciminiere e i chiaroscuri delle ombre umane della pittura di Sironi si
trasferiscono nell’immaginario narrativo di Bernari che anticipa il bianconero
neorealista (per altro difficilmente raffigurabile a colori). Ma il teatro – e di ciò
si è parlato finora poco – interviene ben più in profondità sulla scrittura di
Bernari e di Moravia. Il teatro determina uno “spostamento” ideologico
dell’autore che non è più come in Manzoni o come nel verismo di Verga
osservatore esterno e passivo dei drammi umani e sociali. Grazie al teatro, nella
narrativa neorealista lo scrittore scende in campo, sale alla ribalta, partecipa al
dramma come un protagonista sulla scena. L'influenza del dramma
pirandelliano "Sei personaggi in cerca d'autore" del 1921 è in questo contesto
indiscutibile, quando la realtà si presenta sul palcoscenico rivendicando il suo
diritto ad essere rappresentata oltre ogni finzione teatrale.
La narrativa del '900 che si apre al soggettivismo e al relativismo coglie
così l'attualità della scrittura teatrale - e vi si adegua - trasformando la figura
del narratore nel tipico "deus ex machina" del Teatro, cioè l'Autore che non è
mai - drammaturgicamente parlando - estraneo alla rappresentazione.
Ricordiamo che Dioniso - Autore per eccellenza - è sempre presente nella
tradizione teatrale con un posto in sala a lui dedicato.
Ho già brevemente accennato all'argomento formale della scrittura
teatrale (dialogica e per didascalie utili ad immaginare la scena) di cui si serve
la narrativa del '900 che assorbe anche dalla pittura, oltre che dal teatro, per
tendere ad una forma creativa oserei dire "cinematografica", non
semplicemente neorealista, ma anche espressionista, surrealista, ecc.
nell'ambito di una contaminazione delle arti (vedi il romanzo del 1915 Si gira!
di Luigi Pirandello). Aggiungo che la passione teatrale e cinematografica di
Bernari e Moravia è testimoniata da molti testi, saggi, recensioni anche di
mostre e di pittori ed artisti del presente e del passato. Soprattutto Moravia è
stato autore teatrale di una certa importanza nel panorama della drammaturgia
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italiana (ricordo solo per brevità La cintura, Beatrice Cenci, Il Dio Kurt)
dedicandosi al cinema, al pari di Bernari - che pure qualche testo teatrale lo ha
prodotto (Roma 335, L'angelo vendicatore), - come autorevole voce critica.
Insomma, i due scrittori antesignani del neorealismo, come vengono definiti
dalle antologie, hanno sempre tenuta aperta la loro bottega rinascimentale ad
una forma di creatività sintetica di più arti.
Non può perciò stupire che mentre i Maestri del cinema del dopoguerra
hanno accolto senza riserve l'etichetta di "neorealisti", lo stesso non è
avvenuto per Moravia e Bernari che hanno sempre percepito riduttiva e
fuorviante una simile definizione.
Proprio un grande personaggio del teatro ci offre un chicca a proposito
del malumore nei confronti degli schematismi critici che servono solo a fare di
ogni erba un fascio, forse facilitando il compito degli studiosi ma alterando e
travisando il significato ed il valore delle opere letterarie. Eduardo in "Ditegli
sempre di sì" del 1932 fa dire al Poeta provinciale e pedante Luigi Strada una
frase molto ironica e significativa sull'abuso della critica:
"Avverto subito l'uditorio che, mentre la tematica delle mie
composizioni è un fatto tutto personale, il ritmo, al contrario, si stacca, è vero,
dalla formula ermetica, ma si aggancia alla corrente realistica e
impressionistica, fatta di chiazze opache e di spiragli allucinanti, il cui filone
trova larvati riscontri in tutta la letteratura valida avanguardistica degli ultimi
vent'anni..." ("Ditegli sempre di sì", in "Cantata dei giorni pari", Einaudi
Torino 1956, pag. 165).
Posso aggiungere un curioso episodio di cui sono testimone oculare.
Nel settembre dei primi Anni '60 accompagnai mio padre Carlo Bernari in gita
a trovare Eduardo nella sua villa sulla costiera amalfitana. Mettendoci a tavola
per la cena ci fu una scherzosa disputa tra mio padre e Eduardo che rifiutavano
di sedersi a capotavola in qualità di "Maestri" - tantomeno del neorealismo.
Etichetta che Bernari definì "un pressappochismo dei critici". La risposta di
Eduardo non si fece attendere: "Carlé, chille, 'e criteche, 'n capiscon 'nu
cazzo". L'episodio ebbe un seguito perché Eduardo scrivendo la sceneggiatura
di "Ditegli sempre di sì" per la versione televisiva corresse il termine
"Realismo" pronunciato dallo pseudopoeta Luigi Strada in "Neorealismo",
volendosi comunque agganciare ad una "querelle"
che era nell'aria.
Certamente, al di là del goliardismo con cui Eduardo vuol rappresentare il suo
personaggio, il riferimento è degno di nota perché l'Autore mette alla berlina
una certa ottusità della critica che parla di "letteratura neorealista antesignana
del cinema neorealista", dimenticando la grande tradizione "realista e popolare"
del teatro napoletano di Antonio Petito e del grande Raffaele Viviani, di cui
Eduardo - figlio di un altro notevole autore e attore napoletano, Scarpetta - a
partire dalla seconda metà degli Anni '20 è il prosecutore ideale e naturale.
Questa "prosecuzione" del realismo della tradizione teatrale napoletana
da parte di Eduardo sfocia nel 1932, - Moravia ha appena esordito e "Tre
operai" di Bernari è in corso di stampa, - in un capolavoro della letteratura
teatrale contemporanea: "Natale in casa Cupiello". Il fatto curioso è che la
genesi di "Natale" procede di pari passo con quella del romanzo "Tre operai"
di Bernari, cioè a partire dal 1929 circa, da un punto di vista non solo
temporale, ma anche tematico e ideologico. Il protagonista del romanzo di
Bernari, Teodoro, è uno "spostato" che tra l'altro ha grandi difficoltà ad alzarsi
la mattina, proprio come "Nenniniello" di Eduardo il cui ossessivo "Non mi
soso" (non mi alzo) fa eco alla lamentela di Teodoro: "Chi ha stabilito che
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bisogna alzarsi la mattina presto per andare al lavoro!". Entrambi, Teodoro e
Nenniniello, aspirano ad una vita migliore, rifuggono il lavoro e finiscono per
vivere di espedienti. Certo, le esigenze teatrali spingono la figura di Eduardo
verso la macchietta, mentre a Teodoro spetta il dramma esistenziale dell'eterno
fanciullo insoddisfatto e irrealizzato nella società. Ma al di là delle diverse
esigenze narrative, i due personaggi hanno insospettabili punti in comune,
anche sotto l'aspetto fisico: a loro manca sempre terreno sotto i piedi, sono
instabili e come in bilico sull'orlo del destino (Nenniniello si attacca alle
"cinche lire" rubate allo zio, così come Teodoro invece di realizzare i sogni
rivoluzionari si accontenta della speranza di minimi aumenti salariali). E se ci
si chiedesse da dove derivino queste due figure, la risposta sarebbe semplice:
naturalmente dalla tradizione napoletana di Felice Sciosciammocca ripresa dal
padre di Eduardo, Scarpetta, che Bernari (nato nel 1909), napoletano e avido
di cinema e teatro, ben conosce fin da ragazzo.
Ma le affinità tra il romanzo di Bernari e l'opera teatrale di Eduardo non
finiscono qui. La figura del padre laborioso di Teodoro trova un'eco nel
personaggio di "Lucariello", l'industrioso protagonista alle prese col suo
presepe. Ed anche la figura morale della madre di Nenniniello, così
tragicamente consapevole del proprio ruolo e del dramma esistenziale che si
sta vivendo al di là della farsa, ha tanto da spartire con la madre di Teodoro che
assolve nel romanzo di Bernari ad una funzione di voce della coscienza del
protagonista. Le ambientazioni popolari del romanzo nella sua prima versione
intitolata "Gli stracci" e dell'opera teatrale sono pressoché identici, la piccola
borghesia napoletana. Con l'unica benché forte variante del tema politico e la
raffigurazione di una nuova classe sociale a Napoli: il proletariato e la fabbrica.
Infatti nei "Tre operai" (versione ultima del romanzo di Bernari) - e in ciò
consiste lo "scarto" in fatto di modernità critica di Bernari rispetto ad
Eduardo, - compare un mondo nuovo e già disastrato, la fatiscente
industrializzazione del sud, di fronte alla quale lo Sciosciammocca-Teodoro è
un disadattato non solo sociale (Eduardo) ma anche e soprattutto politico e
ideologico (Bernari). Ma in "Napoli milionaria" del 1945 Eduardo affronterà
con più vigore i temi ideologici e politici del neorealismo cari al cinema
coevo: la guerra, la resistenza e la ricostruzione. Temi che pure Bernari tratta
in un romanzo che vede la luce in questi anni, "Prologo alle tenebre" scritto tra
il 1943 e il 1946, a cui farà seguito "Speranzella" nel 1949.
Tra buio e luce, sole e notte, speranza e delusione, la visione di Eduardo
e Bernari è pessimistica: la liberazione non ci ha liberati dal moderno nemico
dell'umanità, il Capitalismo, di cui il fascismo è una delle tante facce, come
insinua anche il pasoliniano intellettuale-corvo in "Uccellacci-uccellini" del
1966. Allora, la vera liberazione non può avvenire che "per magia" come
allude il capolavoro del neorealismo magico del binomio De Sica-Zavattini,
"Miracolo a Milano".
La questione che però ponevo inizialmente è quella legata allo stretto
rapporto tra la tradizione teatrale napoletana e il primo "neorealismo" di
Bernari. Vi sono innumerovoli riscontri di questi fermenti e delle atmosfere
che passano da un'opera all'altra, da un genere all'altro. Basti pensare che se il
teatro napoletano popolare fu osteggiato dalla corrente intellettualisticoborghese del verismo della Serao e dell'estetismo lirico di Di Giacomo, è
proprio Bernari a schierarsi contro la poesia digiacomiana a favore del crudo e
cupo lirismo popolare sia di Viviani che di Ferdinando Russo, poeta del quale
Bernari ha curato nel 1986 l'opera completa (Ferdinando Russo, Poesie, a cura
di Carlo Bernari, edizioni Bideri, Napoli 1984).
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Non e' oltretutto passato inosservato il fatto che l'impianto scenico di
"Natale in casa Cupiello" di Eduardo anticipi di molti anni il neorelismo del
cinema postbellico. Ne parla ad esempio Mario Mignone notando che nel
momento stesso in cui si alza il sipario nella stanza da letto di casa Cupiello ci
troviamo in una ambientazione e in uno stile narrativo neorealista. E siamo nel
1932!
E' comunque evidente che Bernari ed Eduardo (ricordiamo che Bernari
è di nove anni più giovane di Eduardo che nasce nel 1900) attingono a piene
mani alla tradizione popolare del teatro napoletano. Realismo che tocca punti di
grande modernità con diverse opere di Raffaele Viviani, ad esempio " I
pescatori" del 1926 che forse ha pure ispirato qualcosa a Rossellini per
"Stromboli". Posso del resto personalmente testimoniare l'influenza di Viviani
su Bernari, il quale amava spesso citare alcune battute del grande autore
teatrale partenopeo, atteggiandosi spassosamente anche ad imitare la vivianesca
figura di "Scartellatiello" nel fingere un'inesistente zoppìa che mandava in
bestia mia madre. Ma Bernari spiega bene il senso di questo suo apparente
infantilismo:
"Che cosa dunque faceva più ridere: il mio essere napoletano, cioè
interprete e portatore di una naturale condizione umana, per quanto dolente e
beffarda; oppure il mio fare il napoletano, vale a dire quel mio recitar la parte
del napoletano che fa il napoletano?… è proprio nel fare il napoletano… che
noi avvertiamo anche meglio il tanfo di miseria che la maschera ha
acquistato, dall'avvicendarsi in essa di generazioni e generazioni di
personaggi, vittime della sorte e spropositati: Pulcinella, Pascariello o
Sciosciammocca…" (C. Bernari, Napoli silenzio e grida, op.. cit. , pag. 249250).
Il capitolo del volume appena citato in cui Bernari affronta il tema della
"teatralità" della sua narrativa si intitola significativamente "Il teatro delle tre
Napoli" che introduce alla tradizione teatrale che Bernari stesso dichiara di
avere nel sangue. Dicevo prima di Viviani: il critico e pittore napoletano Paolo
Ricci sostiene che il teatro di Viviani:
"nella sua folgorante sintesi anticipa uno stile che avrà poi sviluppi
illustri nella letteratura come nel teatro e che troverà riconfermati,
successivamente, in Brecht e Garcia Lorca, fino a Gadda, Pasolini e Bernari,
gli esempi più convincenti del modo come, alimentandosi di linfe popolari,
accogliendo il linguaggio e a volte il gergo della plebe, si possano raggiungere
contenuti universali e livelli poetici sorprendenti". (Paolo Ricci, "Ritorno a
Viviani", Editori Riuniti Roma 1979, pag. 64).
Paolo Ricci è fin da giovane amico, compagno e ispiratore di Bernari.
Sono proprio Ricci e Bernari, col filosofo Guglielmo Pierce, a firmare nel 1929
il manifesto dell'UDA, Unione Distruttivisti Attivisti, un movimento che cerca
di spostare l'asse del futurismo verso il socialismo, anticipando il tema della
Macchina che può trasformarsi in forma di oppressione se non viene utilizzata
per liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro. Ed è proprio Paolo Ricci a
mostrare l'anello di congiunzione mancante tra il neorealismo di "Tre operai"
e il realismo popolare napoletano di Viviani, un rapporto che crea come effettocatena un successivo passaggio, cioè da Viviani -Bernari ad Ugo Betti:
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"...tentai di sviluppare un discorso inteso alla valorizzazione del teatro
vivianesco. A questo proposito, nei miei rapporti con Carlo Bernari, anch'egli
estimatore di Viviani, ebbi più volte occasione di parlarne. Era il momento del
grande successo teatrale di Ugo Betti e in particolare del dramma "Frana allo
scalo nord"... Betti era amico di Bernari, pregai perciò quest'ultimo di invitare
Betti a considerare l'ipotesi di una sua collaborazione con Viviani. Il 14
giugno del 1937 Bernari mi scrisse: Caro Paolo, ho parlato a Betti di Viviani.
E' entusiasta... Viviani ha qui, nell'ambiente intelligente, degli amici
insospettati. E molti già parlano di un Betti vivianizzato..." (P. Ricci, op. cit. p.
172).
Se Bernari esagera un po' nel parlare a Ricci di un Betti "vivianizzato",
pur se dal carteggio Viviani-Ricci-Betti-Bernari emerge una forte sintonia tra
questi scrittori, è anche vero che Ricci stesso mischia le carte in tavola con
qualche enfasi parlando di un Viviani "bernarizzato" :
"Non a caso Viviani si aggancia ai temi della letteratura mitteleuropea
del primo novecento, riallacciandosi. peraltro, allo scrittore a lui più affine,
cioè a Carlo Bernari e ai suoi Tre operai". (P. Ricci, op. cit. p. 174).
L'opera di Viviani è però, in gran parte, antecedente alla data di
pubblicazione di "Tre operai", 1934. Il che significa che è Viviani, (nato nel
1888) il punto di riferimento di Bernari e, naturalmente, di Eduardo, - non
viceversa. E' altresì interessante notare come il teatro di Viviani non subisca
solo una osmosi "naturale" in Eduardo ma, attraverso un narratore come
Bernari, vada ad influire su un altro autore, diverso per origine, estrazione,
cultura e tematiche, come Ugo Betti, che di professione fa il giurista.
Betti (nato nel 1892) ottiene il primo successo con "Frana allo scalo
nord", dramma scritto nel 1932, pubblicato nel 1935 e rappresentato la prima
volta al Teatro Goldoni di Venezia nel 1936. L'opera drammatica di Betti
suscita subito l'interesse di Bernari che scorge nell'autore originario di
Camerino un "alter ego" teatrale. Cosa collega Bernari a Betti? Guarda caso: tre
operai. Infatti il dramma di Betti inizia da un "neorealistico" fatto di cronaca:
una frana che ha sepolto tre operai. Ora, il romanzo di esordio di Bernari si
intitola nella prima versione del 1929-1930 "Gli stracci", mentre il titolo e la
stesura definitiva di "Tre operai" sono del 1932. C'è di più: mentre il Teodoro
de "Gli stracci" è un giovane di estrazione piccolo-borghese, improvvisamente
nella stesura successiva del 1932 ("Tre operai" appunto) diventa il figlio di
una famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze non escludono,
anzi sembrano proprio avvalorare l'ipotesi di un continuo rapportarsi della
letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. Certo, stilisticamente
"Frana allo scalo nord" e "Tre operai" sono differenti. Tanto per cominciare
Betti ambienta il suo dramma in un'aula di tribunale dove si crea un'atmosfera
kafkiana già dai nomi dei protagonisti: l'imprenditore Gencker, l'operaio Bert,
il pubblico ministero Goetz e il giudice Parsc. Invece Bernari tende ad una
visione che definerei più un'anticipazione dell'esistenzialismo politico di Sartre.
Aggiungo, tanto per complicare le cose, che il secondo romanzo di Bernari
"L'ombra del suicidio ovvero Lo strano Conserti" (del 1936 data stesura, ma
pubblicato postumo) rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che
porteranno anche Betti al suo capolavoro teatrale, "Corruzione a Palazzo di
Giustizia" del 1945. Non posso qui dilungarmi su questo argomento, perché un
confronto tra l'opera rimasta a lungo inedita di Bernari e "Corruzione" di Betti
necessiterebbe di uno studio più approfondito. Basti sapere che gran parte della
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successiva narrativa di Bernari, fino alla metà degli Anni '80, sarà dedicata al
tema della corruzione e della caduta degli ideali ("Era l'anno del sole quieto",
"Tanto la rivoluzione non scoppierà", "Il giorno degli assassinii").
In conclusione è possibile affemare che come il teatro di Machiavelli,
Aretino e soprattutto Goldoni ha creato i presupposti del grande realismo
manzoniano, cosi' il teatro di Viviani anticipa gli elementi "neorealisti" del
teatro di Eduardo e di Betti e della narrativa di Bernari che sarà protagonista
dell'apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l'osmosi di temi, atmosfere e
personaggi dal teatro al cinema trova in "Tre operai" di Bernari, come pure
nei tre operai protagonisti della "Frana" di Betti, un esempio della possibilità
di trasformare il romanzo in cinema partendo dal teatro. Come? Attraverso
l'invenzione di una nuova forma di scrittura: il trattamento. Uno stile che
Bernari elabora proprio nel suo capolavoro d'esordio sotto l'influenza del
cinema surrealista, della pittura di Sironi e - soprattutto - del teatro popolare di
Viviani.
Sembra quindi impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla
letteratura neorealista senza capire l'importanza del teatro nella formazione
della narrativa di Bernari e Moravia che trovano in Viviani e in Pirandello
modelli drammaturgici di riferimento. Gli stessi modelli che Eduardo e Betti
hanno ben presenti nell'elaborazione di una drammaturgia che a buon diritto
possiamo definire "incunabolo neorealista".
ENRICO BERNARD
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