Caso clinico La simulazione della malattia mentale in ambito penitenziario Mental illness malingering in prison NINO ANSELMI, VALERIA SAVOJA Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, III Clinica Psichiatrica, Università di Roma, La Sapienza RIASSUNTO. La simulazione di malattia mentale è da sempre stata la via regia per evitare o alleviare responsabilità penali. Questa modalità nasce e si alimenta nell’ambito giudiziario per il coinvolgimento del detenuto ma anche per la compiacenza delle figure professionali che contribuiscono all’amministrazione della giustizia stessa (avvocato, medico, giudice). Il simulatore espone i sintomi senza partecipazione affettiva e sempre finalizzati a una richiesta; altre volte, prevalendo la componente dissociativa-isterica, la sintomatologia manifestata è così assurda da rendere chiaro come la produzione dei sintomi scaturisca dall’assimilazione teatrale del “fare il matto”. PAROLE CHIAVE: simulazione, disturbo di conversione, disturbo fittizio, sindrome di Ganser, refrattario, distanza psicopatologica, sindrome ganseriforme, struttura psicopatologica. SUMMARY. The simulation of mental disorders, which arises from legal field, is always used to avoid or reduce the penal responsability, and involves not only the prisoner but also the professional figures that contribute to the manegement of justice (lawyers, doctors and judges). The simulator exhibits the symptoms without affective participation and these symptoms are aimed at one request. Sometimes, when the dissociation prevails and the symptoms are expressed so absurdly, it is clear the intention to simulate. KEY WORDS: malingering, conversion disorder, factitious disorder, Ganser syndrome, refractory, psychopathological distance, psychopathological structure. INTRODUZIONE Questo lavoro è finalizzato ad apportare un ulteriore contributo sulle dinamiche che alimentano e sostengono la simulazione di malattia mentale in ambito carcerario. Questa modalità, che è sempre stata la via regia per evitare o alleviare responsabilità penali, nasce e si alimenta nell’ambito giudiziario per il coinvolgimento del detenuto ma soprattutto per la compiacenza delle figure professionali che contribuiscono all’amministrazione della giustizia stessa: avvocati, medici, giudici. La simulazione di malattia è un’antica modalità comportamentale umana nella quale il rapporto medico-paziente decade per assumere l’aspetto del con- fronto in cui il medico cerca di evitare la diagnosi di simulazione in quanto fonte di dubbio e complicazioni legali ed il paziente cerca di mostrare la realtà della sua patologia. Oltre al problema diagnostico, la simulazione pone un problema deontologico dal momento che tende a travalicare il rapporto tra medico e assistito e, anche se il medico riceve mandato che non è quello di soccorso all’infermo, prevale in lui la psicologia assistenziale. Altre volte è l’incapacità del medico ad assumersi le responsabilità e quindi la paura a pronunciarsi con determinazione a far sì che la simulazione sia ampiamente sottodiagnosticata. La storia ci insegna che già nell’antica Roma (V-IV secolo a.C.), in applicazione alla dottrina di Ippocra- E-mail: [email protected] Rivista di psichiatria, 2004, 39, 3 208 La simulazione della malattia mentale in ambito penitenziario te, i folli erano considerati dei malati (1). Esistevano due gruppi: i “furiosi”, che comprendevano qualsiasi forma di patologia mentale, e i “pateri”, ossia gli sciocchi, i deboli di mente, ecc. Gli individui che appartenevano a questi due gruppi se commettevano reato non erano punibili. La legislazione giustinianea affermava che l’alienazione mentale implicava l’impunità per il delitto. Detta legge entrò in vigore il 28 dicembre del 534 d.C. e fu estesa all’Italia tra il 530 e il 540 d.C. Allo stesso modo della alienazione mentale erano considerati gli “intensi reati delle passioni”. Anche l’ubriachezza era tenuta in considerazione, nel senso che i reati commessi in stato di intossicazione acuta venivano considerati come colposi e non come dolosi. Il malato veniva considerato comunque responsabile se, pur affetto da malattia mentale, commetteva reato in un “lucidum intervallum”. In maniera del tutto diversa era impostato il diritto penale germanico che riteneva responsabile del fatto commesso anche il malato di mente e solo le prime leggi scritte dai Visigoti (450-420 a.C.) accolsero il principio romano secondo il quale non poteva esistere crimine quando il fatto non era stato commesso con volontà. Anche per il diritto penale (35 d.C.) la mancanza di intenzione criminosa (volontà) escludeva l’imputabilità. I pazzi erano ritenuti non responsabili del reato commesso. Alla malattia mentale era equiparata qualsiasi altra condizione che togliesse al soggetto la coscienza dei propri atti come la febbre violenta, il sonnambulismo, il dolore intenso, il furore improvviso e transitorio e l’ubriachezza, se era tale da togliere la coscienza dei propri atti. Nel Medioevo, solo nel periodo successivo all’anno Mille, si prese in considerazione l’elemento soggettivo del reato. Con Federico (1194-1250), in una costituzione riguardante l’omicidio, fu dichiarato che: “la persona priva di ragione non era capace di dolo, al pari di un fanciullo”. In una costituzione di Clemente V (1260-1314) si dichiarava immune da pena chi avesse ferito o anche ucciso in stato non solo di perduto intelletto ma anche di sonno. Quindi per secoli valse il principio secondo il quale il reato ed il conseguente danno potevano addebitarsi come reato ad un individuo solo se questi ne aveva avuto coscienza ed intenzione. In epoca comunale (1056-1494), in Europa ed in Italia la Chiesa era al massimo della sua potenza ed i delitti erano considerati peccati così come ogni forma di dissenso, e pertanto neutralizzati attraverso l’Inquisizione. La malattia mentale era considerata effetto di stregoneria ed opera diabolica, pertanto doveva essere estirpata con la violenza fisica della persona posseduta. Solo nel 1532 Carlo V d’Asburgo (15501558), imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna, promulgò un codice noto con il nome di Carolina Lex o Constitutio Criminalis Carolinae. In essa vennero dichiarati immuni da pena il furioso come l’infante, ed in questo periodo, per definire lo stato mentale del reo, si iniziò a consultare i medici. I giuristi italiani del XVI e XVII secolo diedero massima importanza alle condizioni soggettive dell’imputabilità nonché alle malattie mentali. METODOLOGIA L’esperienza diretta in ambito detentivo ci ha permesso di evidenziare segni clinici e comportamenti salienti che consentono di orientare verso la diagnosi di simulazione. La simulazione è, per definizione, la produzione cosciente ed intenzionale di sintomi fisici e psichici amplificati ed esagerati al fine di richiamare l’attenzione ed ottenere determinati benefici lucidamente perseguiti (2). Secondo la nostra osservazione va tenuta distinta la sindrome di Ganser dalla simulazione; quest’ultima è sempre sotto il controllo della volontà, mentre nella prima i pazienti iniziano più o meno coscientemente a presentare sintomi per evolvere progressivamente nella psicosi autonoma e coerente (“il gioco che prende la mano”). Inoltre, chi sviluppa la sindrome di Ganser è già predisposto in quanto personalità immatura, insufficiente mentale, ipoevoluta, primitiva, abulica, mitomane, fanatica, esplosiva. Il DSM-IV (3) include la simulazione tra le “condizioni che richiedono attenzione o trattamento ma non sono attribuibili a disturbo mentale”. Seguendo il DSM-IV, si definisce simulazione “la presentazione o produzione volontaria di sintomi psichici o fisici esagerati. I sintomi sono prodotti per perseguire uno scopo che è riconoscibile attraverso la comprensione della situazione dell’individuo piuttosto che attraverso la sua psicologia”. Il manuale specifica inoltre: “In alcune circostanze la simulazione può rappresentare un comportamento adattivo, per esempio simulare una malattia quando si è prigionieri del nemico in guerra”. In questi casi la simulazione ha uno scopo difensivo analogo al mimetismo degli animali anche se non così accentuato. Quindi, la simulazione è un comportamento cosciente e sotto controllo della volontà, finalizzato ad un obiettivo che è evidente e che spesso presenta il carattere di vantaggio illecito. La diagnosi Rivista di psichiatria, 2004, 39, 3 209 Anselmi N, Savoja V differenziale, seguendo il DSM-IV, va fatta con il “disturbo di conversione” in cui vi è una perdita o un’alterazione del funzionamento fisico tale da assomigliare ad una malattia fisica; la sintomatologia non è spiegabile in base ad una malattia organica e non è sotto il controllo della volontà. Viceversa il, “disturbo fittizio” (4) si caratterizza per la produzione intenzionale dei segni o sintomi psichici o fisici per assumere il ruolo del malato senza essere presenti incentivi esterni. L’esperienza di lavoro in carcere rende edotto il medico di come sia caratteristico dei gruppi mafiosi e camorristici presentare disturbi mentali, consigliati e incoraggiati da consulenti compiacenti che aiutano il soggetto ad affinare la sua capacità simulativa o amplificativa (2) che ai fini forensi implica proscioglimenti e/o internamenti in Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). In questi casi una analisi psicopatologica accurata e tempestiva impedisce al periziando il contatto con ambienti dove ci sono malati mentali veri, e quindi l’indottrinamento alla malattia che, nel corso di mesi o anni, può assumere caratteristiche di autenticità. Il simulatore, almeno all’inizio, presenta sintomi singoli, slegati, privi di correlazione patologica. I sintomi – quelli che il simulatore pensa siano i sintomi della malattia – sono prodotti, esibiti, elencati, non sono compenetrati a livello emotivo, non sono vissuti ma sono esagerati, amplificati, riferiti con coloritura di bardatura, parametro di sofferenza. Il vero malato vive i sintomi e semmai li dissimula e li minimizza. Nella relazione con il paziente si avverte e si mantiene la distanza psicopatologica che nasce dalla frattura e sospensione nei confronti della realtà. Nel simulatore manca la coerenza, la costanza e il sintomo riferito non ha risonanza emotiva. Il simulatore tende a richiamare l’attenzione dell’esaminatore denunciando stati di ottundimento, oniroidi, perdita di nozioni, disorientamento temporo-spaziale, dimenticanze (atteggiamento pseudo-demenziale). Questi atteggiamenti presentati non vengono conservati – almeno completamente – al di fuori dell’intervista con l’esaminatore. Il simulatore può riferire dispercezioni e deliri definendoli con termini appropriati e soprattutto rimarcandone la presenza. Il contenuto dei deliri e delle allucinazioni in genere è bizzarro e infantile, grossolano, privo di quel vissuto psicopatologico che li genera e li alimenta. La mimica, la gestualità e il comportamento palesano lo sforzo a richiamare l’attenzione dell’esaminatore (5). Vengono elencati disturbi psicosomatici e cenestopatici. Le amnesie non sono uniformi ed in ge- nere vengono conservati gli aspetti vantaggiosi. Ci possono essere risposte assurde (parlare di traverso), alterazioni del ritmo sonno-veglia, perseverazioni motorie, disforia, arresto psicomotorio, manierismi, stereotipie verbali e gestuali, comportamenti puerili come cercare la mamma, disegnare o fare versi ai giocattoli, parlare farfugliando. L’eventuale somministrazione di psicofarmaci non sortisce effetti. L’evoluzione della malattia che in genere si rappresenta non c’è e subisce variazioni che non sono in assetto con il decorso della malattia stessa; il simulatore guarisce o si ammala in relazione all’andamento del procedimento penale. Il simulatore è refrattario a qualsiasi trattamento (traspare il meccanismo finalistico) ed il quadro può durare fino al raggiungimento dello scopo oppure fino a quando il detenuto non comprende di trovarsi davanti ad un muro di gomma costituito da medici in grado di assumersi la responsabilità del caso. In genere, dopo un braccio di ferro che può durare a lungo, si può avere o un cedimento ed un abbandono graduale della simulazione o una brusca ammissione di simulazione con richiesta di negoziare eventuali accomodamenti nell’ambito detentivo. A parte le malattie neurologiche e internistiche per le quali è possibile obiettivare la patologia tramite le indagini di tecnica diagnostica, la sintomatologia psichiatrica si presta meglio alla simulazione al fine del riconoscimento di una riduzione della pena o della non idoneità. È indispensabile tener presente che la reclusione di per sé può soltanto slatentizzare una pregressa condizione precaria di equilibrio mentale, provocare disturbi reattivi, peggiorare o migliorare quadri psicotici preesistenti. Essendo soltanto i quadri psicotici rilevanti ai fini di un eventuale accertamento dell’imputabilità del soggetto al momento del fatto reato, è importante, oltre che una attenta raccolta anamnestica, poter tenere sotto osservazione clinica in ambiente idoneo e tempestivamente il periziando in quanto, con il passare del tempo, questi può entrare in contatto con malati veri, oppure, indottrinato, potrebbe affinare le capacità simulatorie rendendo difficoltoso stabilire se il soggetto è un simulatore o no, oppure quanto è simulato e quanto no. Non è raro che l’inizio di una simulazione si evolva verso un quadro sovrapponibile ad una psicosi specie in soggetti deboli di mente o in personalità fragili e disturbate (sindrome di Ganser) (6). Invece, nella simulazione c’è la piena coscienza di produrre sintomi fisici e psichici al fine dell’ottenimento di vantaggi lucidamente perseguiti fino alla fine. Nella sindrome di Ganser la componente intenzionale, determinante all’inizio, finirebbe in seguito per lasciare posto a quel- Rivista di psichiatria, 2004, 39, 3 210 La simulazione della malattia mentale in ambito penitenziario la isterica, dissociativa, confusionale e/o crepuscolare. Tipico è il “rispondere di traverso”, che rimane importante come sintomo per l’identificazione del disturbo. Il simulatore in genere inizia a esibire i sintomi, quelli che lui crede siano i sintomi della malattia mentale, sempre in corrispondenza di richiesta di benefici ottenibili attraverso la malattia. In pratica il simulatore ha sempre uno scopo. Molte volte chi simula richiama l’attenzione facendo trovare lettere in cui si esprimono intenti suicidari, presenta lesioni, in genere al collo o ai polsi, con atteggiamento vago ma che mira appositamente a lasciare presentire atti estremi. All’osservatore risalta la mancanza della distanza psicopatologica che il malato di mente dà immediatamente, risalta la mancanza di partecipazione affettiva al sintomo. Il sintomo viene “elencato”, “snocciolato”, “presentato” senza essere vissuto; la mimica e la gestualità tradiscono lo sforzo mentale richiesto. I sintomi vengono elencati reiterativamente come a riempire un vuoto imbarazzante in assenza di una struttura psicopatologica autentica sostituita da una sovrastruttura sublimante che dovrebbe sostenere il sintomo della malattia. Questo ingenera nell’ascoltatore una sensazione di superficialità, di inconsistenza, di ricerca vuota che si contrappone al senso di essenzialità della psicopatologia vera che nasce da una esistenza alienata. Frasi tipiche ripetute sono “dottore sto male, mi sento impazzire, sbatto la testa al muro, la faccio finita, parlo al muro, ho i bambini nella cella, vedo sangue, ho paura che mi faccio del male”. A volte prevale il mutismo, il rallentamento motorio nettamente in contrasto con lo sguardo che rimane attento e vigile e che tradisce la componente volitiva. I sintomi, come delirio e/o allucinazioni, sono riferiti con il loro termine preciso e quando si chiede chiarezza sul sintomo il simulatore, non sapendo cosa dire, risponde dicendo “sto male, non so, sto in paranoia”, oppure sono riferite allucinazioni aspecifiche e mal definite come: “vedo nero, vedo sangue, tanto sangue, vedo luce, vedo i bambini, mi parlano i bambini, vedo la mamma che mi chiama, il pavimento mi schiaccia”. Alcuni simulatori più scaltri e tenaci, affinati dall’ambiente detentivo, scelgono la strategia della chiusura, del silenzio, del digiuno, rifiutano la terapia, esprimono idee suicidarie, puntano in maniera sottile sul senso di responsabilità e di colpevolizzazione facilmente suscettibile nel “medico” con richieste di aiuto per famiglie rovinate, disperate, dissestate economicamente e con figli che sono dovuti andare dallo psicologo o che rifiutano di andare a scuola, ecc. IL CASO Un detenuto di anni 52 con una condanna a nove anni, dopo circa un anno di detenzione ha iniziato a rifiutare cibo e controlli clinici: allettato, trascurava completamente la cura della persona rifiutando di recarsi a visita e obbligando il medico al proprio letto. Nel contempo, di tanto in tanto, si esibiva in accuse, rivendicazioni e ricatti soprattutto nei riguardi dell’area sanitaria. Questa situazione si è protratta per circa due anni e mezzo fino a quando un evento drammatico, il suicidio di un altro detenuto, ha creato una condizione emotiva esterna a lui favorevole. Infatti, a breve termine, il detenuto ha simulato un tentativo di suicidio con conseguenti pressioni da parte di legali e familiari presso gli organi competenti ottenendo, sulla base di una presunta incompatibilità con la detenzione, gli arresti domiciliari. Si è avuta dopo la certezza che il detenuto in questione produceva volontariamente e scientemente la condizione descritta non mangiando e procurandosi il vomito in casi di alimentazione; nello stesso tempo consumava circa 4 litri di acqua minerale al giorno ed una quantità di caffè e zucchero imprecisata. Inutile dire che il paziente non aveva nulla di organico e che lo stato depressivo rappresentato non si giovava di nessun tipo di terapia farmacologica. Questo quadro appare nella sua complessità come la fantastica, fredda e sconcertante elaborazione della malattia mentale. La risposta ad eventuali presidi farmacologici dà benefici parziali o non dà nessun risultato positivo in quanto il simulatore non vuole guarire. Una buona parte delle volte si ha un effetto paradosso con pronta strumentalizzazione da parte dell’interessato. CONCLUSIONI Il detenuto può iniziare a simulare: Casualmente. La simulazione si può sovrapporre a patologia mentale preesistente oppure iniziare spontaneamente solo per il fatto che il detenuto ha assimilato quella cultura carceraria, comprendente anche la psicopatologia, che lo porta a produrre la malattia finalizzata. Premeditatamente. Spontaneamente o per suggerimento di amici, famiglia, clan, consulenti (avvocati e medici). Il soggetto in pericolo di detenzione si premunisce, tramite visite specialistiche ed eventuali ricoveri in ambiente psichiatrico, di documentazione clinica utile tendente a rafforzare e dimostrare la propria patologia mentale onde usufruirne in carcerazione. Dietro suggerimento. Consulenti compiacenti (avvocati e medici), giudice accondiscendente, famiglia, clan criminale. Rivista di psichiatria, 2004, 39, 3 211 Anselmi N, Savoja V La diagnosi di simulazione in ambito penitenziario poggia su tre dati sicuri. Il primo è che c’è sempre una richiesta a monte nell’interesse del detenuto; il secondo dato riscontrabile è che le terapie restano senza effetti positivi sui sintomi; in terzo luogo c’è l’assenza della distanza psicopatologica. La diagnosi di simulazione non è mai facile per il medico psichiatra che opera in condizioni diverse da quelle abituali in un rapporto di fiducia caratterizzato da affettività e solidarietà nell’interesse del paziente. Lo psichiatra deve rispondere alle esigenze giudiziarie e di difesa sociale venendo meno al rapporto assistenziale ed entrando così in una posizione ambigua e conflittuale. Al problema dell’identità professionale si aggiunge il dubbio dell’errore. Premesso che per svolgere questo tipo di lavoro è necessaria l’esperienza clinica, meglio se acquisita in ambito penitenziario, i dubbi non sono mai troppi. È l’esperienza clinica stessa che ci sollecita alla prudenza, alla cautela, alla modestia e alla consapevolezza dei propri limiti, trattandosi di scienza dell’uomo e del carattere relativo delle conoscenze. BIBLIOGRAFIA 1. Ponti G, Merzagora I: Psichiatria e Giustizia. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993, pp. 3-16. 2. Fornari U: Trattato di psichiatria forense. UTET, Torino, 1997, pp. 128-138. 3. American Psychiatric Association: DSM-IV. Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali. Quarta ed. italiana. Masson, Milano, 1996. 4. Ferracuti S, Tatarelli R: Psichiatria e sistema della giustizia. Nòos. Aggiornamenti in Psichiatria, 2001, 7, 145-165. 5. Wise EA: Relationship of personality disorders with MMPI-2 malingering, defensiveness, and inconstistent response scales among forensic examine. Psychological Reports. 2002, 90, 760-766. 6. Ferracuti S: Simulazione e malattie simulate. In: Ferracuti F (ed) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense. Giuffrè Editore, Milano, 1987-1991. Rivista di psichiatria, 2004, 39, 3 212