LA FILOSOFIA MEDIOEVALE E L’APOGEO DELLA SCOLASTICA 1. Introduzione storica Nella storia della filosofia, così come nella storia in generale, non è possibile stabilire con esattezza linee di confine rigidamente demarcate tra le varie epoche (nel nostro caso, tra antichità e Medioevo), la cui suddivisione è puramente convenzionale, nel senso che è il risultato di interpretazioni prese a posteriori dagli storici. Con queste riserve, sappiamo che il Medioevo si colloca tra il VI ed il XV secolo, sebbene alla metà del XIV si inizi già a parlare di autunno del medioevo. Comunque sia, ci sono alcuni errori da evitare quando si parla di quest’epoca: primo fra tutti, credere che il pensiero medioevale sia solo quello latino – cristiano. In realtà, in questo contesto estremamente ricco e articolato, sotto tutti i punti di vista, possiamo distinguere quattro ambiti socio – culturali: 1. quello greco – bizantino, perché, nonostante la chiusura delle ultime scuole filosofiche pagane nel VI secolo (nel 529 d.C l’imperatore Giustiniano chiude la Scuola di Atene, impedendo a eretici e pagani di insegnare), gli studi filosofici non scompariranno mai del tutto nei territori di lingua greca; 2. quello arabo – islamico, grazie al quale è stato trasmesso fino a noi, come vedremo tra poco, il patrimonio della filosofia antica; 3. quello ebraico, che per le circostanze storiche a tutti note trova spazio nei territori conquistati dall’islam (i maggiori filosofi ebrei medioevali usano l’arabo come lingua filosofica colta, specie in Spagna) e in quelli cristiani; 4. quello latino – cristiano, che resta piuttosto marginale fino all’XII secolo e si rivitalizza proprio grazie all’incontro con la cultura araba (nella penisola iberica e in Sicilia). Questi ambiti socio – religiosi così diversi tra di loro entrano in contatto e danno vita a scambi culturali estremamente fecondi, caratteristica che si perderà nel mondo moderno, quando i rapporti tra l’Europa e la cultura arabo – islamica si interromperanno. Dunque, un Medioevo assai complesso, eterogeneo; così è anche per l’effettiva circolazione dei testi all’interno del mondo latino, dove occorre distinguere un primo periodo, dal VI al XII secolo, caratterizzato da una conoscenza molto limitata dei testi filosofici antichi, in cui il ruolo della filosofia consiste per lo più nell’impiegare la logica nell’ambito della riflessione teologica (caso emblematico, quello di Anselmo d’Aosta); e un secondo periodo, quello propriamente scolastico, dal XIII secolo in poi, in cui lo studio della filosofia trova largo spazio all’interno delle Università e può accedere al corpus dei testi greci (in particolar modo aristotelici). Gli arabi, viceversa, già nel IX secolo avevano dato vita ad un processo imponente di traduzione delle opere filosofiche e scientifiche greche (Baghdad recitò una parte fondamentale in questo processo). Gli arabi svolsero un ruolo essenziale nella conservazione e trasmissione delle opere filosofiche greche: non è un caso che i manoscritti più antichi delle opere aristoteliche in nostro possesso non siano greci, ma arabi. Dunque, senza la mediazione araba probabilmente il mondo latino – cristiano non sarebbe riuscito ad accedere al patrimonio filosofico che costituisce il suo DNA. Testi aristotelici come Fisica, Metafisica ed Etica nicomachea (oltre al resto del corpus aristotelico) furono tradotti nel corso del XIII secolo da studiosi cristiani come Michele Scoto, Roberto Grossatesta e Guglielmo di Moerbecke in latino da versioni 1 arabe già esistenti, soprattutto quella di Averroè, il cui commento ad Aristotele è ricordato anche da Dante nell’Inferno. Tutto questo per dire come il Medioevo è contrassegnato da una straordinaria produzione filosofica e non coincide certo con un’epoca buia. Per la prima volta la filosofia divenne oggetto di insegnamento pubblico nelle Università, che sancirono la libertà d’insegnamento e lo stesso filosofo di professione nasce in questo periodo. Sicuramente si verificarono censure dottrinali ed episodi di controllo ideologico, ma non in modo tale da far coincidere quest’epoca con i roghi, la caccia alle streghe e l’Inquisizione. La caccia alle streghe è essenzialmente un fenomeno moderno e si diffonde soprattutto a partire dal 1486 con una bolla papale di Innocenzo VIII e raggiunge il suo culmine nel ‘500 e ‘ 600. Il tribunale dell’Inquisizione nasce nel ‘200, ma con una giurisdizione e un potere piuttosto limitato, specie se paragonato al suo uso tremendo e pervasivo che avrà a partire dal XVI secolo. I roghi ci furono nel Medioevo, ma raramente condanne di questo tipo colpirono filosofi e teologi: Giordano Bruno e Galilei vivono in epoca moderna. Infine, gesti quotidiani a cui oggi noi neanche facciamo più caso si forgia in epoca medioevale, come inforcare gli occhiali, aprire un libro, abbottonarsi una camicia, mangiare la pasta (con la forchetta), giocare a carte, andare in banca, ecc. Tutto ciò a smentire lo stereotipo di un’epoca buia e oscurantista. 2. Il quadro culturale del XIII secolo Il quadro culturale del mondo latino nel XIII secolo si trasforma in modo radicale almeno per tre motivi: a) le traduzioni dal greco all’arabo, che permettono a tutto il mondo latino – cristiano di conoscere le opere di Aristotele; b) la fondazione e la diffusione degli Ordini mendicanti, in particolare Francescani e Domenicani; c) la fondazione delle Università. La reintroduzione di Aristotele nel mondo occidentale grazie alle traduzioni arabe rappresenta un elemento decisivo per la cultura del mondo latino – cristiano. Mentre Platone continuò di fatto ad essere ignorato, a parte le traduzioni del Timeo (parziale), del Fedone e del Menone (rimaste peraltro prive di una circolazione significativa), Aristotele torna prepotentemente alla ribalta e tutte le sue più importanti opere furono in breve tempo accessibili. Fino a questo momento l’Occidente latino aveva conosciuto solo le opere logiche dello stagirita, tradotte da Boezio (476-525 d. C), ministro del re ostrogoto Teodorico. Due domande si impongono a questo punto: primo, per quale motivo il mondo arabo fu spinto alla traduzione di un filosofo apparentemente così lontano da quello islamico? Secondo, quale impatto ebbero le opere aristoteliche entrando in contatto con il mondo cristiano? Riguardo al primo aspetto, la causa è di carattere ideologico – politico: i califfi della dinastia abbaside dettero vita a quello straordinario fenomeno socio – culturale della traduzione in arabo di gran parte del patrimonio filosofico e scientifico greco per la volontà di confrontarsi (dall’VIII-IX secolo in poi) anche a livello culturale con il mondo bizantino, accreditandosi in alternativa ad esso come i veri eredi della civiltà greca: in altri termini, l’intento di fondo dei califfi era quello di presentare la fede islamica come assolutamente compatibile con la ragione, a differenza di ciò 2 che era accaduto nell’impero bizantino, dove le principali scuole filosofiche erano state chiuse e interdetta la lettura di molti testi filosofici. Dunque fu l’arabo, ben più che il latino, la prima lingua in cui la filosofia tornò ad esprimersi dopo il greco, rappresentando un effettivo momento di internazionalizzazione della filosofia. Per quanto concerne la seconda questione, l’accettazione del corpus aristotelicum da parte del mondo cristiano fu tutt’altro che scontata. Già nel 1210 e 1215 le autorità ecclesiastiche intervennero per proibire l’insegnamento della Fisica e della Metafisica, in quanto alcune tesi di queste opere, come quella dell’eternità del cosmo, furono giudicate incompatibili con l’autentica fede cristiana. In realtà, va subito chiarito che questi e altri interventi che ci furono non riuscirono in alcun modo ad arginare la diffusione degli scritti aristotelici, i quali, pur non potendo ancora essere insegnati pubblicamente, continuavano ad essere richiesti e letti. A distanza di pochi anni, e cioè dal 1255, la situazione si ribaltò completamente: con i nuovi statuti universitari, lo studio delle opere aristoteliche fu reso obbligatorio nel curriculum degli studi della Facoltà delle Arti, quella che tutti gli studenti universitari avrebbero dovuto frequentare prima di iscriversi alle altre facoltà. L’aristotelismo poneva così le basi per divenire il pilastro della formazione universitaria. Peraltro, l’autorità di Aristotele venne messa in discussione anche in seguito, tanto dalle autorità religiose, con la condanna nel 1277 emanata dall’arcivescovo di Parigi Tempier nei confronti di molte proposizioni insegnate alla Facoltà delle Arti (buona parte delle quali legate alla tradizione greco – araba), quanto dai maestri universitari: del resto, lo stesso metodo di insegnamento esigeva che qualsiasi passaggio dei testi studiati fosse sottoposto al vaglio del dubbio e della discussione. Veniamo adesso agli Ordini mendicanti. Nel 1259 L’Ordine domenicano pose grandissima attenzione alla preparazione culturale dei propri membri, prevedendo un nuovo curriculum di studi che imponeva lo studio sistematico e approfondito della filosofia in tutti i conventi: ciascuna provincia avrebbe poi selezionato gli studenti più brillanti da avviare alla formazione universitaria. Anche i Francescani seguirono la stessa via, sebbene in modo meno rigoroso. Ciò consentì ai due Ordini di produrre generazioni di intellettuali di notevole livello, che avrebbero assunto una posizione dominante all’interno delle Università e assicurato una capillare diffusione degli studi filosofici e teologici nelle varie province, grazie alla politica di rotazione continua dei maestri nelle varie sedi adottata da entrambi gli ordini. L’attitudine sviluppata da Domenicani e Francescani nei confronti della filosofia sarà diversa, specie riguardo all’aristotelismo: i primi, specie grazie ad Alberto Magno e Tommaso d’Aquino si impegnano nel commento delle opere aristoteliche e dei testi dei filosofi arabi, convinti come sono che la teologia cristiana non possa prescindere, per la sua costituzione, dall’assimilazione della tradizione filosofica aristotelica; i secondi, da Bonaventura da Bagnoregio a Pietro di Giovanni Olivi, pur conoscendo Aristotele, ne mettono in evidenza i pericoli per la fede cristiana, mostrando scetticismo sulle possibilità di cooperazione tra teologia e filosofia. Una breve parentesi, adesso, sulla fondazione delle università prima di parlare di questioni filosofiche in senso stretto: parentesi che permetterà ulteriormente di dissipare luoghi comuni sbagliati sul medioevo. Innanzitutto, quando si parla di fondazione, non si deve intendere la costruzione di un luogo fisico (una sede), ma la costituzione di corporazioni (universitas=corporazione), che vengono mano a mano riconosciute formalmente dal potere laico o ecclesiastico. Si tratta di un fenomeno nuovo: fino al XIII secolo, la società medievale aveva conosciuto la 3 formazione di corporazioni di lavoratori manuali (fabbri, tintori, carpentieri, ecc.). Adesso, per la prima volta, veniva riconosciuta una corporazione di lavoratori intellettuali, alla quale l’autorità civile o religiosa concede privilegi giuridici, in modo da garantire autonomia rispetto alla legislazione ordinaria e ai poteri locali. Ecco che la nascita delle università coincide con la costituzione di intellettuali di professione, che si dedicano all’insegnamento e alla ricerca. Una precisazione è opportuna: se fino al XIII secolo il mondo latino si trovava in condizioni di netta inferiorità culturale rispetto al mondo arabo, a partire da questo periodo le posizioni si rovesciano: il fatto che la cultura si radichi nelle istituzioni grazie alle Università consente un rapido e duraturo progresso scientifico, permettendo tra l’altro che la filosofia potesse continuare ad essere praticata fino ai nostri giorni. Il mondo arabo non riuscì a fare la stessa cosa: gli studi filosofici, dal IX al XII secolo, sono prerogativa degli arabi e figure come quelle di Avicenna e Averroè non hanno uguali nel mondo cristiano. Tuttavia, questi due studiosi, in primo luogo non sono filosofi di professione, visto che uno è medico e l’altro è giudice presso una moschea (quindi, massima autorità giuridico – religiosa); in secondo luogo, essi avevano solo discepoli privati, come i filosofi greci. Alla loro morte, la cerchia dei discepoli iniziò a dissolversi. In Occidente, invece, la professionalizzazione della filosofia apre scenari opposti: nascono un pubblico numeroso di fruitori della filosofia, cioè gli studenti; un vero e proprio mercato di libri filosofici, che ne assicura ampia circolazione e dunque la stessa sopravvivenza; da ultimo, scuole e tradizioni che non sono legate solo alla figura di un maestro, ma destinate a durare per secoli. Dunque, il motivo della scomparsa degli studi filosofici dal mondo islamico non è legato alla presunta incompatibilità tra razionalità e islam, come spesso si afferma in modo assai pregiudiziale. Pertanto, con le Università si passa da una dimensione privata ad una pubblica dell’insegnamento: esistono un corso rigoroso che prevedeva lo studio di discipline e di testi determinati, secondo programmi pubblici e verificabili, oltre al superamento di esami e il rilascio di un titolo di studi giuridicamente valido in tutta la cristianità. Il carattere pubblico delle lezioni cambiava l’essenza stessa dell’insegnamento, che non era più cosa da coltivare privatamente, ma da sottoporre alla verifica di studenti, colleghi, avversari. Lo stesso modo di condurre le lezioni prevedeva una lectio, ossia la lettura pubblica del testo da parte del maestro, che lo spiegava e commentava frase per frase (quaestio), oltre ad una disputatio, mediante cui si sollevano dubbi e quaestiones sui temi suggeriti dalla lettura. Scopo della disputa era abituare i propri studenti a saper argomentare e difendere le proprie tesi, comprendendo che una conclusione poteva essere considerata vera solo quando veniva sottoposta alla prova del dubbio e della messa in questione. Tutto ciò ci fa comprendere il motivo per cui, contrariamente a quanto si possa pensare, l’Università medievale era caratterizzata da un livello di interazione tra docenti e studenti assi più elevato a quello riscontrabile ai giorni nostri. A Natale e Pasqua, poi, si tenevano dispute straordinarie, nel senso che venivano aperte anche a cittadini del tutto estranei alle Università. Ciò ci fa comprendere il carattere estremamente vivo della cultura basso – medievale. L’università rappresentava inoltre un fattore importante di mobilità sociale: in una società piuttosto statica, a queste istituzioni non si accedeva per censo o nobiltà, ma esclusivamente per merito, con borse di studio che i collegi universitari assicuravano ai più bisognosi. La cultura diventava così un formidabile strumento di ascesa sociale. A livello pratico, le Università medievali si articolavano in quattro facoltà: Arti, Medicina, Diritto (canonico e civile), Teologia. Quasi tutte le sedi 4 universitarie si sono specializzate in un ambito (ad eccezione di Oxford): Parigi ha avuto ben presto il predominio nella teologia (senza avere però diritto civile), Bologna eccelleva per il diritto (senza avere teologia), Montpellier ha assunto posizione dominante nella medicina. La Facoltà delle Arti era propedeutica a tutte le altre (si pensi che in generale uno studente vi entrava a 14 – 15 anni rimanendovi per circa sette anni), per potersi iscrivere alle quali occorreva averla frequentata (solo i frati degli ordini mendicanti ne erano esentati, perché ricevevano una formazione parallela molto simile nei conventi). A poco a poco, quella delle Arti divenne una vera e propria facoltà di filosofia, dove si studiavano essenzialmente quasi tutte le opere di Aristotele: la filosofia diveniva così fondamento di ogni sapere. Fu Boezio a suddividere le Arti nel trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica), anche se poi si assistette alla trasformazione di cui parlavamo sopra. Si diventava inoltre maestri in teologia non prima dei 35 anni: un percorso impressionante, che dovrebbe far comprendere la solida preparazione della cultura e della teologia tardo – medievale. 3. I problemi filosofici del Medioevo: la disputa sugli universali A partire dal XII secolo, uno dei temi di discussione più frequenti tra gli scolastici medioevali fu il cosiddetto problema degli universali. In filosofia per universali si intendono quei concetti generali che possono essere riferiti a più individui o cose, come ad esempio i generi (animale) o le specie (uomo). Il problema in questione è relativo allo status ontologico di tali concetti, vale a dire: essi hanno un corrispettivo nella realtà e se sì, fino a che punto? Il primo a dar vita alla diatriba fu Boezio nel corso del VI secolo d. C. Essa fu poi ripresa nel Medioevo. Sintetizzando una questione che è decisamente più complessa di come la presentiamo, nel corso dei secoli le soluzioni fondamentali sono le seguenti: a) Il realismo, che fu l’interpretazione prevalente nel Medioevo, di stampo platonico – agostiniano e facente capo ad Anselmo d’Aosta e Guglielmo di Champeaux: agli universali corrispondono realtà o forme ideali effettivamente esistenti nella mente di Dio. I termini del pensiero rimandano dunque ad una struttura ontologica che sta al di sopra della realtà materiale e ne funge da essenza e da modello creazionistico. L’universale è una res o essenza trascendente. L’inconveniente di questa soluzione è presto detto: se l’universale è separato dagli individui, come può essere presente in essi, pur rimanendo uno e identico? (che poi era stato il problema di fondo del Platone dei dialoghi ‘dialettici’). b) Il nominalismo, facente capo a Roscellino e seguaci, che considerano gli universali come puri segni convenzionali o nomi delle cose. Essi non hanno altra realtà al di fuori del movimento d’aria che la voce impiega nel pronunciarli: flatus vocis, come diceva appunto Roscellino. Anche per i nominalisti l’universale è una cosa, ossia è una presenza, ideale per i realisti, fisica per i loro avversari: è semplice vox. L’inconveniente di questa soluzione è il seguente: se le specie sono solo nomi vuoti e arbitrari, cosa ci permette di distinguere ad esempio il cane Fido da Socrate e Platone? E cosa ci impedisce 5 di accomunarlo ad essi? Quale ragione comune impedisce di collocare Fido tra gli uomini, se alla base di tutto c’è una mera convenzione arbitraria? c) Concettualismo. A queste tesi si oppose Abelardo. Contro i realisti, egli obietta che una stessa essenza (es. animale) non può trovarsi al tempo stesso e realmente sia in un uomo che in un cavallo, perché ciò viola il principio di non contraddizione; contro i nominalisti, egli sostiene che se essi avessero ragione, non potremmo né pensare né parlare, perché sarebbe impossibile operare collegamenti e confronti: per predicare una cosa di un’altra è necessario un termine comune che mi consenta di includere x in y, un termine medio che è appunto l’universale. Esso, per Abelardo, è un sermo, un discorso, un significato logico e linguistico, ossia “ciò che si può predicare di molti”. Questa soluzione giustifica il motivo per cui il concetto ‘uomo’ viene adoperato per indicare gli uomini e non gli asini: ciò accade perché i primi hanno in comune il loro essere uomini, che non è una realtà sostanziale, ma la condizione uniforme in cui si trovano tutti gli enti individuali designati con un unico concetto. Questo costituisce la realtà oggettiva del concetto stesso e giustifica la sua validità (non la sua essenza oggettiva al di fuori delle menti). Le conseguenze sulla disputa degli universali, che pareva essere inizialmente una semplice questione linguistica, furono enormi e andarono ben oltre il Medioevo. Da un punto di vista gnoseologico e logico, sappiamo che la soluzione della filosofia greca era stata di tipo realistico, per cui il pensiero è la riproduzione e il rispecchiamento dell’essere e della realtà (ciò che si chiama realismo gnoseologico). Esiste così una stretta corrispondenza tra pensiero, essere e linguaggio, almeno da Parmenide in poi: se il pensiero è in grado di fotografare la realtà (il pensiero, si badi bene, e non i sensi, che ci ingannano), la filosofia diviene metafisica, disciplina in grado di cogliere l’essenza delle cose, la loro struttura più profonda. La filosofia cristiana riprende tale presupposto di fondo, adattandolo al nuovo contesto, per cui il realismo si presta molto bene a giustificare il dogma trinitario e l’esistenza reale delle persone della divinità. I primi a mettere in dubbio che pensiero e linguaggio abbiano la capacità di rispecchiare la reale struttura dell’essere furono i sofisti, seguiti dai sopracitati nominalisti del Medioevo. Tale concezione, viceversa, evidenziando il sostanziale divorzio tra pensiero e realtà, mina alle basi il fondamento della metafisica e la stessa teologia. Come vedremo, la questione tornerà in forma dirompente nella filosofia moderna, da Cartesio in poi, sebbene in un contesto del tutto diverso, a testimonianza che il dibattito medioevale non aveva affatto esaurito la questione. 6 4. La Scolastica del XIII secolo Si è già avuto modo di precisare il significato del termine ‘scolastica’. Entrando nel dettaglio, va notato che individuare correnti o scuole precise all’interno di questo grande movimento è impresa ardua e rischiosa, perché porterebbe con sé il difetto di semplificare eccessivamente e dunque di banalizzare alcune posizioni. Come criterio di massima, si può comunque utilizzare l’appartenenza istituzionale dei vari maestri: così è possibile distinguere tra teologi e artisti (ossia tra coloro che insegnano alla facoltà di Teologia e coloro che lo fanno a quella delle Arti). Poi, all’interno dei teologi, possiamo distinguere tra francescani e domenicani, sebbene non ci sia ad esempio un’unica scuola francescana o un’unica scuola domenicana. Riguardo all’insegnamento dei maestri francescani di Parigi, specie per quel che riguarda il rapporto tra teologia e filosofia, proviamo a riassumere qui le caratteristiche essenziali: a. Un atteggiamento di diffidenza, se non di critica severa, nei confronti della rapida diffusione dell’aristotelismo, di cui i francescani criticano soprattutto l’eternità del mondo, la negazione della provvidenza divina, una concezione del rapporto tra dio e cosmo basata sulla necessità (Il motore immobile non crea il mondo dal nulla in virtù di un atto di volontà), l’unicità dell’intelletto possibile ( su cui apriremo un capitolo a parte), l’esclusione di ogni forma di destino ultraterreno per gli uomini; b. L’idea che la nostra conoscenza non derivi dai sensi, attraverso un processo di astrazione, ma da una forma di illuminazione interiore, come Agostino suggeriva. c. L’anima è concepita non come una pura funzione o principio organizzatore immanente al corpo, bensì come sostanza autonoma e perciò immortale; d. La convinzione che la non eternità del mondo possa essere dimostrata razionalmente, oltre che essere creduta per fede; la stessa creazione dal nulla deve essere intesa anche come creazione nel tempo; e. Il primato della volontà sull’intelletto: la volontà prende le sue decisioni senza lasciarsi determinare da ciò che l’intelletto le propone, mentre invece in Aristotele e per certi aspetti in Tommaso d’Aquino, ogni errore della volontà dipende da un errore di analisi dell’intelletto. f. La teologia è scienza pratica, non speculativa: essa non serve a conoscere Dio, ma ad amarlo e a meritare così in qualche modo la salvezza; g. Dio è il primo oggetto (nel senso di concetto) conosciuto dall’intelletto: perciò essi privilegiano le prove a priori dell’esistenza di Dio rispetto a quelle a posteriori. Come si potrà notare, alla base dei maestri francescani vi è un atteggiamento di fondo platonico – agostiniano: l’aristotelismo è incompatibile con il 7 cristianesimo, nel senso che lo snatura e lo secolarizza. Essi evidenziano il carattere mistico del rapporto con la divinità: la ragione ha certo i suoi compiti, ma l’ascesa a Dio è un’esperienza interiore non giustificabile razionalmente. La ragione può svolgere un lavoro preparatorio, di chiarimento di taluni concetti, ma la fede va oltre le capacità della ratio. La razionalità, quindi, è insufficiente per comprendere la fede. I maestri francescani costituiranno un centro fondamentale di insegnamento e ricerca anche ad Oxford, dove gli studi teologici saranno affiancati da quelli scientifici. Oltre a quello francescano e domenicano (di quest’ultimo ci occuperemo tra poco nei dettagli), si sviluppa in questo periodo un altro filone culturale autonomo, che manifesta la sua originalità specialmente nell’ambito del rapporto tra fede e ragione: il cosiddetto averroismo latino, così (impropriamente) definito dai suoi avversari francescani. I suoi esponenti più significativi sono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, che vivono nella seconda metà del ‘300 e insegnano alla Facoltà delle Arti. Per questi studiosi la filosofia è un sapere autonomo (si ricordi che a poco a poco la suddetta facoltà arrivò in pratica a coincidere con una facoltà di filosofia, dunque non meravigli la difesa che questi studiosi ne fanno) e non funzionale alle esigenze della teologia: il filosofo deve occuparsi di questioni che implicano la discussione razionale e non risolvere problematiche relative al senso della rivelazione. Tuttavia, può accadere talvolta che le sue conclusioni possano essere o almeno apparire in contrasto con quelle della rivelazione, com’è il caso dell’eternità del cosmo, affermata dalla filosofia greca. Come può conciliarsi una teoria del genere con la dottrina cristiana? Fedele alla lezione di Aristotele (per cui questi studiosi andrebbero chiamati più opportunamente aristotelici radicali), Sigieri sostiene che ogni scienza muove da principi autonomi, che sono propri solo di essa. Pertanto, le conclusioni relative saranno valide solo in riferimento a quei principi. Il filosofo deve muovere dai fondamenti naturali, che può cogliere con la sua ragione e ha il diritto – dovere di non varcare questa sfera; tuttavia, se qualcuno muove da principi diversi, potrà pervenire a conclusioni diverse, senza che tra queste e le prime (quelle del filosofo) ci sia contraddizione. I Francescani, nel condannarla, chiamarono questa teoria della doppia verità, in riferimento alla presunta dottrina originale di Averroè: in realtà, come già puntualizzato, non ci sono due verità, ma due ambiti distinti, di cui uno (quello della fede) è senz’altro più ampio dell’altro, senza svuotarlo affatto di senso e di dignità. Pertanto, là dove la ragione rimane nel dubbio, è preferibile affidarsi a ciò che insegna la fede: il filosofo deve, in altri termini, procedere secondo la ragione, ma questo non significa che sia sempre possibile trovare a tutto una spiegazione razionale. Pur dichiarando di volere riprendere Averroè, in realtà la concezione di Sigieri e Boezio è piuttosto diversa da quella del commentatore arabo: per quest’ultimo un contrasto effettivo tra religione e ragione non può aver luogo, perché la rivelazione è sicuramente vera in quanto ispirata da Dio, ma anche le dimostrazioni razionali sono indubitabilmente vere, se condotte correttamente. Quindi, visto che la verità non può essere in contraddizione con se stessa, religione e filosofia conducono entrambe alla medesima verità. Come si vede, avergli attribuito da parte del mondo latino – cristiano una teoria della doppia verità è totalmente fuorviante. Così, i contrasti tra filosofia e rivelazione sono puramente apparenti e quando si dà un conflitto anche soltanto apparente, sarà il testo del Corano a dover essere sottoposto ad un’interpretazione 8 che lo renda compatibile con la verità filosofica, visto che qualsiasi dimostrazione razionale, se ben condotta, è indubitabile. I filosofi saranno sempre in grado di trovare un’interpretazione metaforica del testo sacro che risulti compatibile con ciò che è possibile dimostrare scientificamente (Averroè a tal proposito definisce filosofia e religione “sorelle di latte”). Come si noterà, quella averroistica è una concezione più spiccatamente razionalistica della dottrina dei suoi seguaci cristiani: Sigieri vuol preservare l’autonomia assoluta della ragione, senza mettere affatto la fede in secondo piano; Averroè lascia alla ragione e alla logica la parola decisiva, Sigieri non pensa che la razionalità possa avere voce in capitolo nell’interpretare il testo sacro. Nel 1277 la condanna dell’arcivescovo di Parigi Tempier, oltre all’eccessiva preponderanza di una ragione che sembrava uscire dal controllo della fede, si focalizzerà sull’eternità del mondo e sul fatto che questo discenda da Dio tramite un processo necessario, perché tesi incompatibili con l’autentica dottrina cristiana. Guardiamo adesso il contributo che i Domenicani portano al dibattito tra fede e ragione: a tal fine, concentriamoci sulla soluzione che al problema dette il massimo filosofo del Medioevo cristiano, membro di spicco dell’Ordine su menzionato, ossia Tommaso d’Aquino. Secondo lui, è possibile un sapere razionale autonomo che si coordini con la fede: Dio concede agli uomini la ragione, così come il dono della fede, perciò la ragione stessa, contrariamente a quanto credono i Francescani, è perfettamente in grado di funzionare senza una speciale illuminazione divina di agostiniana memoria. Così, sia la filosofia che la teologia parlano di Dio, dell’uomo e del mondo, anche se la prima ce ne offre una conoscenza imperfetta: per ribadire il rapporto di cooperazione che c’è tra i due ambiti, Tommaso puntualizza che la Grazia (cioè la fede) perfeziona la natura (ossia la ragione), non la soppianta. La fede orienta la ragione, la guida, non la elimina. Se si manifestano dei conflitti, questi saranno puramente apparenti, nel senso che a contrastare con la verità di fede non sarà la dimostrazione razionale propriamente detta, ma solo una ragione probabile o addirittura sofistica, quindi falsa. La soluzione tomistica è molto diversa da quella di Averroè: per il filosofo arabo i conflitti apparenti si dirimono prendendo per vera la dimostrazione filosofica e con la logica si deve spiegare in un altro senso il Corano, che non sia quello letterale; per Tommaso qualora si dia un contrasto si tratterà di riconoscere in quella razionale una pseudo – dimostrazione. La ragione si presenta quindi come ancella della fede: il compito del sapiente sarà quello di occuparsi di entrambi gli ambiti di verità e di confutare gli errori di coloro che si oppongono sia alla fede che alla ragione. La teologia può utilizzare la filosofia per almeno tre scopi: a) per dimostrare alcuni preamboli o presupposti della fede, come ad esempio l’esistenza o l’unicità di Dio; b) per illustrare per mezzo di similitudini alcune verità di fede altrimenti difficili da esprimere; c) per confutare chiunque si opponga alla fede, denunciandone la falsità delle rispettive tesi. La concezione di Tommaso punta alla costruzione di una filosofia cristiana che adatti ad essa l’aristotelismo: in questo contesto avviene il grandioso incontro tra cristianesimo e filosofia, tra ricerca e rivelazione, cui accennavamo quando abbiamo introdotto il 9 cristianesimo. Limitiamoci qui sinteticamente ad indicare alcuni punti in cui avviene questo incontro. - a) La conoscenza e la concezione dell’anima La conoscenza umana, aristotelicamente parlando, parte dai sensi: nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu. Una concezione chiaramente empiristica. In un secondo momento, interviene l’intelletto per rielaborare i dati sensibili, sottoponendoli ad un processo di astrazione. Tesi chiaramente aristotelica. Riguardo all’anima, Tommaso offre un’interpretazione radicalmente diversa del de anima aristotelico rispetto a quella di Averroè: mentre quest’ultimo (senza scendere nel dettaglio) aveva sostenuto che il testo del filosofo stagirita propenderebbe per la mortalità individuale dell’anima, destinando al solo intelletto agente l’immortalità (una sorta di mente universale che è di carattere divino e trascendente e permette agli uomini di tramutare la loro conoscenza dalla potenza all’atto), Tommaso chiama Averrroè “depravatore” di Aristotele. Per il filosofo aquinate, il De anima attesta chiaramente l’immortalità individuale dell’anima. Ci permettiamo in questa sede di far notare che la questione, assai complessa e ancora oggi dibattuta tra gli studiosi, andrebbe affrontata con onestà intellettuale e rigore filologico: il testo aristotelico, letto al di là delle successive interpretazioni cristiane, è piuttosto chiaro, pur nella sua sinteticità, nel sostenere che l’anima non ha una vita dopo la morte. Se l’anima è la forma del corpo, sappiamo bene che per lo stagirita forma e materia sono tra di loro strettamente unite. L’unico essere a far eccezione è il Motore Immobile. A livello gnoseologico, Tommaso, rifiutando l’innatismo platonico, fa propria quella teoria che sarà poi chiamata realismo gnoseologico, che riassume la classica concezione della conoscenza, che resterà valida almeno fino a Kant: la verità è adaequatio rei et intellectus, cioè adeguamento o corrispondenza dell’intelletto al mondo esterno. La mente rispecchia dunque la realtà empirica. b) Il primato dell’intelletto sulla volontà Il primo motore dell’uomo è l’intelletto, perché è esso a muovere la parte appetitiva, ossia la volontà, proponendole un oggetto da ricercare. Se il fine dell’intelletto costituisce lo scopo di ogni azione umana, il fine ultimo dell’uomo sarà quello di conoscere Dio. Si possono, sostiene l’aquinate, desiderare ed amare dei falsi beni, perché la volontà da sola non è in grado di distinguere il vero dal falso: ecco che amare semplicemente Dio non può essere il fine ultimo degli uomini, bensì conoscerlo. L’amore e il godimento spirituale saranno la logica conseguenza. Tuttavia, è chiaro che tale conoscenza non riguarda la vita terrena, ma la felicità umana sta nella visione di cui ognuno potrà godere alla fine dell’esistenza terrena. In essa, infatti, noi possiamo con la ragione conoscere al massimo che Diò è, non cosa è (la sua essenza). 10 - d) Le prove a posteriori dell’esistenza di Dio Tommaso non accetta l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, in virtù del seguente ragionamento: ci sono due modi diversi in cui una cosa può essere di per sé evidente: 1) in sé, ma non per noi 2) in sé e anche per noi Una proposizione è evidente quando il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come nella frase “l’uomo è un animale”, poiché animale fa parte della definizione e dunque della nozione stessa di uomo. Tale proposizione è del secondo tipo, ossia evidente in sé (oggettivamente) e anche per noi (per gli uomini che fanno buon uso dell’intelletto). Però, se il soggetto e il predicato non sono noti a tutti, la proposizione sarà evidente di per sé (nella misura in cui il predicato è incluso nel soggetto), ma non lo sarà per coloro che ignorano predicato e soggetto. La frase “Dio esiste” è di questo tipo: in sé è immediatamente evidente, poiché il predicato non solo è incluso, ma coincide con il soggetto, dato che Dio dà l’essere a se stesso; tuttavia, non lo è per noi, in quanto non possiamo conoscere l’essenza di Dio e dunque i termini della proposizione. Quindi, in quanto non evidente (per noi), la proposizione deve essere dimostrata per mezzo di elementi più noti a noi, anche se paradossalmente in sé meno evidenti. Dio, pertanto, sarà per noi il primo nell’ordine ontologico, in quanto è fondamento di tutto, ma non in quello gnoseologico, poiché deve essere raggiunto muovendo dagli effetti, cioè dal mondo: ecco che Tommaso elabora 5 prove a posteriori, che partono dal particolare per giungere all’universale. Noi ne scegliamo due per esemplificare il procedimento del filosofo aquinate. 1. Dal mutamento Ogni mutamento può essere definito un passaggio dalla potenza all’atto. Ora, tale passaggio non può essere effettuato da ciò che si muove: se una cosa si muove, secondo un principio chiave della fisica aristotelica, vuol dire che è mosso da altro, ossia da chi è già in atto ed è quindi capace di far passare qualcosa dalla potenza all’atto stesso. Se nulla muove se stesso in senso stretto, nel senso che per muoversi ha sempre bisogno di altro, ecco che il rischio risulta essere il regresso all’infinito. Dunque, occorre ammettere un primo motore che muove e a sua volta non è mosso da nulla: appunto, Dio. 2. Dalla causalità efficiente Nulla, in natura, può essere causa di se stesso. Anche qui Tommaso prende le mosse da Aristotele. Gli effetti rimandano a cause intermedie le quali, a loro volta, nella catena causale che governa il mondo, rinviano a prime cause efficienti. Vi è dunque un ordine tra le cause efficienti, ma nulla può essere causa efficiente di se stessa: se nell’ordine delle cause non vi fosse una causa prima incausata, non vi sarebbero neppure cause intermedie né effetti. Ecco la necessità di una causa prima che produce senza essere prodotta da altro 11 3. Dalla contingenza Le cose che esistono in natura, uomo compreso, sono in linea di massima contingenti, ossia possono esistere, ma non hanno di per sé il carattere della necessità: ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Ora, se tutte le cose che esistono fossero di natura simile, non potrebbe esistere nulla, visto che niente è causa di se stesso. Bisogna cioè che nella realtà vi sia qualcosa di necessario e di non contingente, che trae la sua esistenza da se stesso e non da altro: Dio come Essere necessario. 4. Dai gradi di perfezione Osservando il mondo che ci circonda, notiamo che esistono vari livelli o gradi di essere: questo perché gli enti partecipano diversamente dei caratteri essenziali dell’essere, i trascendentali, ossia le proprietà strutturali dell’essere stesso: l’uno (cioè il semplice, il non contraddittorio), il buono, il vero. Allora, se le cose sono più o meno semplici, più o meno vere e più o meno buone, lo saranno in relazione ad un essere che possiede tali caratteri in modo assoluto e funge da suprema pietra di paragone per tutto il resto: Dio come Sommo Bene. 5. Dal finalismo Osservando la natura, ci rendiamo conto che alcune cose agiscono come se tendessero verso un fine: notiamo un ordine, un’armonia, una regolarità in ciò che ci circonda. Quale può essere la causa di tale finalità? Non può trovarsi negli enti, perché essi sono privi di intelligenza. Essi debbono quindi essere diretti da un Essere intellegibile, che li dirige come la freccia è mossa dall’arciere. Come già anticipato, la condanna dell’arcivescovo di Parigi Tempier, nel 1277, coinvolgerà alcuni aspetti della filosofia tomistica, giudicata troppo vicina a quella dei maestri della Facoltà delle Arti (gli aristotelici radicali). La condanna in sostanza andava contro la possibilità di una qualche forma di autonomia e di autosufficienza della filosofia. Tuttavia, con il passare del tempo, nonostante l’opposizione dei francescani e più tardi dei gesuiti, la fortuna dottrinale di Tommaso in seno al cristianesimo andò consolidandosi: tra il ‘400 e il ‘600 furono prodotti, specie in Italia e in Spagna, molti approfonditi commenti alle sue opere e nel 1567 il maestro domenicano fu proclamato da papa Pio V dottore della Chiesa. Il 4 agosto 1879 papa Leone XIII promulgò un’enciclica, dal titolo Aeterni Patris, in cui si proponeva, contro i pericoli e le deviazioni della filosofia moderna, un ritorno all’equilibrio tra fede e ragione raggiunto con la Scolastica e soprattutto si raccomandava di diffondere la sapienza dell’Aquinate, “principe” di tutti i maestri scolastici. Nelle università cattoliche prese poi piede un movimento chiamato neoscolastica o neotomismo, che ebbe lo scopo di riportare in auge nel ‘900 la filosofia di Tommaso, diventato il più autorevole punto di riferimento dottrinale della Chiesa cattolica. Questo privilegio ha peraltro prodotto, almeno in parte, un effetto opposto, facendo sì che il tomismo venisse identificato con un sistema ben definito e 12 rigido, tale da conservare nei secoli a venire la propria validità a prescindere dalle condizioni storiche effettive in cui Tommaso si era trovato ad operare. Ecco allora che la sua figura ha assunto i contorni di un filosofo dogmatico e conservatore, quando in realtà noi abbiamo visto quanto sia artificiosa e ingannevole una simile interpretazione: Tommaso è stato un pensatore originale e innovativo, spesso addirittura in contrasto con molte posizioni comunemente accettate nel suo tempo, fino ad attirare contro la sua dottrina il sospetto di eterodossia. 5. Il XIV secolo e la dissoluzione della Scolastica Nel corso del ‘300 il tentativo operato da Tommaso e dai maestri domenicani di conciliare fede e ragione andrà incontro ad una progressiva dissoluzione. Duns Scoto separa nettamente teologia e filosofia, delimitandone rigorosamente i rispettivi ambiti di ricerca e riservando alla prima uno scopo pratico o morale: la verità razionale della metafisica è propria della ragione umana e valida per tutti gli uomini, la verità della fede è valida solo per i cattolici e ha lo scopo di persuaderli ad agire per la loro salvezza. L’ultima grande figura della Scolastica e nello stesso tempo la prima figura di studioso dell’età moderna è quella di Ockham: quello che era stato il primo problema della Scolastica, cioè l’eventuale accordo tra fede e ragione, è dichiarato da Ockham impossibile, senza soluzione. La ragione non può cogliere le verità di fede, le quali non sono di per sé né evidenti né dimostrabili: credo et intelligo è la terminologia che meglio riassume tale posizione. La ragione, inoltre, non è in grado di cogliere l’essenza delle cose e quindi non ha senso che essa produca enti artificiali che moltiplicano la realtà contribuendo a complicarla, anziché a spiegarla (di qui il cosiddetto rasoio di Ockham, che taglia alla radice la possibilità di entità metafisiche prive di senso: nella spiegazione della natura non si deve accreditare l’esistenza di entità che non siano suffragate dall’esperienza). La crisi della scolastica apre le porte alla filosofia moderna e all’antinomia tra fideismo e razionalismo: tra le due sfere di ragione e fede vi sarà d’ora in avanti la necessità di una scelta drastica e si potrà o accettare o rifiutare la fede, in nome di una razionalità assoluta e omnicomprensiva. Anche quei filosofi che avranno fede comprenderanno di non poter giustificare la stessa tramite la razionalità umana. 13