Il Nabucco, l’opera verdiana al “Massimo “ di Palermo é moleskine 50 la produzione firmata da Saverio Marconi e già andata in scena per la Stagione 2010 che il Teatro Massimo decide di presentare al pubblico per il Nabucco verdiano che, dopo i primi due titoli wagneriani della Teatralogia (Das Reingold e Die Walkurie), ha aperto le celebrazioni per il bicentenario della nascita del compositore di Busseto. Qui ripresa e riadattata da Alberto Cavallotti, con la riconferma di scene (ideate da Alessandro Camera) e costumi (realizzati da Carla Ricotti), la messa in scena sembra rispondere alle esigenze di risparmio che la crisi induce a coniugare, ma come non aveva convinto la prima volta convince ancora meno la seconda, anche per una mancata mobilità coreica delle masse, che invece era presente nel 2010. L’impianto monolitico creato da Camera, fatica, nonostante gli apparati girevoli, a dare linearità e movimento allo svolgimento delle azioni, come anche la mancanza di un opportuno gioco di luci, che avrebbe potuto alleggerire se non smussare certe “durezze” sceniche. Sul palco coro, ballerini, cantanti sembrano muoversi quali marionette, a tratti quasi estranei a quanto accade loro intorno. La concertazione musicale, affidata alla bacchetta di Renato Palumbo, sembra seguire la visione monolitica della scena. In una corsa quasi contro il tempo. Palumbo lancia un’orchestra tutt’altro che affiatata (in particolare la sezione dei fiati) su toni più bandistici che drammatici. E’ chiaro infatti sin dalla Sinfonia d’apertura che lo “zum pa pa” con cui spesso il povero Verdi ha dovuto fare i conti in oltre centocinquanta anni di esecuzioni, sarebbe stato lì dietro l’angolo ad imperversare. Tutto a dispetto di una partitura che nelle sfumature più sommesse cela i suoi segreti interpretativi, e che Palumbo ha dato prova di non saper cogliere. Mancanza nel cogliere le diverse dinamiche e strutture della partitura che non ha certo aiutato gli interpreti, a parte la Fenena di Annalisa Stroppa dalla vocalità interessante, e una certa predisposizione naturale alla recitazione, grazie alla quale è riuscita e rendere più vivido e partecipe il suo personaggio. George Gagnidze, nel ruolo del titolo, ha cercato di sopperire alla mancanza scenica con una vocalità alta e rotonda, tuttavia priva di Laura Donato sfumature tali da disperdere il senso di un canto monotono ed inespressivo, come nei concertati del primo e secondo atto e nella splendida Dio di Giuda. Stesso problema per l’Abigaille di Anna Pirozzi che pur affrontando le tessiture alte con sicurezza, veniva a mancare di una certa robustezza e fermezza nella zona centrale e bassa, riuscendo così a cogliere solo i momenti “furiosi” del personaggio e mancando di delineare il dramma segreto di donna abbandonata dall’uomo che ama e da colui che crede padre, a favore della sorella. Il basso Luiz Ottavio Faria, tornava a vestire i panni del Gran sacerdote, come già in The Greek Passion del 2011. Buona la sua linea di canto nell’esprimere la solennità del ruolo, ma anche nelle cabalette, quando il fraseggio richiede movimenti più snelli e incalzanti, imposti dal desiderio di spronare il suo popolo. L’Ismaele di Gaston Rivero rientrava nella norma del ruolo. Anche se la voce tenorile risente di una non sempre favorevole risonanza nasale ed di un’arretratezza nei suoni in quasi tutti i registri. Grande protagonista il coro – preparato dal nuovo maestro, Piero Monti – in particolare ne celebre Va’ pensiero…, bissato dal protagonistico Palumbo - che ha così spezzato uno dei momenti drammaturgici più alti dell’opera, interrompendo l’entrata di Zaccaria che arringa i suoi spingendoli alla lotta piuttosto che alla rassegnazione - ma soprattutto nel Immenso Jehova finale a cappella. L’omaggio Verdiano del Teatro Massimo di Palermo è continuato con Aida (andata in scena dal 12 al 18 di aprile) e con Rigoletto (dal 3 al 9 maggio) delle quali si dirà nel prossimo numero.