Vignette e storielle

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delle religioni
Vignette e storielle
Umorismo e religioni
V
i è stato un piccolo ritorno di fiamma del grande incendio legato alla vicenda delle vignette su Muhammad che nel febbraio del 2006 fece il giro del mondo (cf. Regno-att. 4,2006,73). Uno dei caricaturisti danesi è
stato minacciato, si è dovuto barricare in casa ed è intervenuta la Polizia che del resto da tempo gli ha fornito una scorta.
Sotto la cenere qualcosa continua a bruciare; le differenze
culturali tra Occidente secolarizzato e islam ideologizzato sono infatti lungi dal placarsi. Entrambi i poli costituiscono un
inedito rispetto alla storia che li ha preceduti: il
confronto/scontro sarà ancora lungo. In relazione alla vicenda di quattro anni fa, questo punto specifico è stato ben sintetizzato da Jean Delumeau quando scrisse: «Il disaccordo
profondo che chiarisce l’attuale affaire viene dunque da questo: i musulmani accusano di bestemmia delle persone per le
quali essa non esiste affatto…».1
Sul piano culturale – che resta il meno determinante per
interpretare quella non estinta vicenda – l’interesse si è appuntato sulle vignette e quindi sul tema di quanto e come siano raffigurabili i personaggi religiosi o Dio stesso all’interno di
ebraismo, cristianesimo e islam.2 Si è pensato perciò più alle
caricature e alle vignette che alla dimensione più estesa dell’umorismo. Nella civiltà dell’immagine, del resto, sarebbe poco
comprensibile che un giornale mettesse in prima pagina un riquadro con una battuta di spirito – risorsa alla quale sono riservate, al più, le pagine interne. Tuttavia è chiaro che le vignette sono una declinazione particolare di quel senso dell’umorismo e dell’ironia che è parte costitutiva della civiltà umana. Proprio per questo, come tutte le realtà preziose, esso può
degenerare.
Il prendersi in giro delle tre grandi religioni
È un dato acquisito che tra ebrei, cristiani e musulmani
siano i primi a essere associati in modo particolare all’umorismo, mentre esso sembra una pianta piuttosto gracile nell’islam. Ovviamente ci sarà sempre qualcuno che si impegnerà
a dire che questo è un pregiudizio: in base a studi approfonditi si sono trovati anche nel mondo musulmano giacimenti di
battute di spirito di vastissime proposizioni. Queste ricerche
hanno a un tempo ragione e torto. Stanno dalla parte del giu-
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sto perché inducono a emettere giudizi meno drastici, sbagliano perché pretendono che le sfumature, lungi dal limitarsi a
ritoccarlo, possano effettivamente mutare il colore di fondo.
Come in ogni gruppo umano l’umorismo non è assente neppure tra i musulmani, questa presenza non è però sufficiente
a renderlo un tratto caratterizzante di un mondo che pare
prendersi molto sul serio: ciò almeno per quanto concerne
l’età contemporanea in cui l’islam è costantemente sotto pressione. Non a caso i dotti studiosi che sondano i giacimenti devono scavare in profondità e spingersi verso epoche piuttosto
remote.
Jean-Jacques Schmidt nel suo saggio Le livre de l’humour
arabe (Actes Sud, Arles 2005) scrive: « “Lo humour e il senso
della facezia sono esistiti dal VII secolo, cioè da Muhammad.
Alcuni libri dei primi secoli dell’islam riportano aneddoti in
cui il profeta mostra un vero e proprio senso dell’umorismo
(…). Su questi temi esiste un patrimonio letterario molto importante, una quantità di antologie che mescolano il serio e il
faceto al fine di istruire, in particolare soprattutto nei periodi
omayyade e, poi, abasside (XIII secolo)”. A essere presi di mira in queste raccolte sono sempre i religiosi, non la religione
in sé».3 Antologie, espedienti didattici, facezie, tempi antichi,
tutte realtà vere, ma che non formano un ethos collettivo capace di ridere di se stesso.
L’ebraismo, o meglio la grande civiltà del distrutto ebraismo dell’Europa orientale, sembra essere nel ricordo la prova
vivente del fatto che l’umorismo diviene l’abilità di prendersi
in giro solo se accompagnata dalla capacità di fare altrettanto
nei confronti della propria tradizione religiosa. Si potrebbe ricavare più di un’analogia interessate dal paragonare le modalità in cui le storielle nascono all’interno delle varie culture religiose. Probabilmente da questa indagine deriverebbe una
costante: quella di legittimare il racconto interno e di bollare
quello esterno. Le barzellette dei preti sono diverse da quelle
sui preti – specie se raccontate da anticlericali – e quelle sull’antisemitismo differiscono molto se dette da ebrei o pronunciate da antisemiti. Tuttavia l’epopea della storiella ebraica e
il mondo del witz (barzelletta) furono più corali. È vero che
nell’umorismo ebraico i rabbini sono largamente rappresentati, ma non sono certo i soli: gli autentici protagonisti sono
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tutti coloro che definiscono l’ambito di vita collettivo ebraico,
a cominciare da Dio stesso. Il proprio delle storielle ebraiche
«aniconiche» – le vignette non vi svolsero un ruolo decisivo –
fu di essere destinate a passare di bocca in bocca. Esse costituirono una parte della definizione del «sé», atto che può avvenire solo se, direttamente o indirettamente, ci si confronta
con gli «altri».
Ampiezza, ostilità e poliedricità:
tre condizioni per lo humour
Perché sorgesse l’epopea dell’umorismo ebraico occorrevano almeno tre condizioni che finora non hanno trovato riscontri precisi nell’islam e nel cattolicesimo (almeno italiano).
La prima tra esse è che ci fosse un mondo di vita ebraico dotato di dimensioni sociali sufficientemente ampie; la seconda,
che si fosse in correlazione stretta e quotidiana con un ambiente non ebraico di cui si conoscevano gli stili di vita e che
sovente, ma non sempre, si presentasse ostile nei confronti degli ebrei; la terza è che, al proprio interno, il mondo ebraico
fosse variegato e ricco di contrasti dovuti anche al fatto che
non pochi ebrei avevano introietatto i modi di pensare e di
agire propri dell’ambiente gentilico circostante. In questi casi
o ci sono lacerazioni e guerre – come all’epoca dei maccabei
– o ci sono l’ironia e l’autoironia, alternativa quest’ultima più
alla portata di mano se si vive in diaspora. Così per esempio
la famosa storiella del piissimo ebreo che, dopo aver chiamato in punto di morte il prete al fine di farsi battezzare, risponde alla scandalizzata perplessità di moglie e figli affermando:
«È meglio che muoia uno dei loro che uno dei nostri», presuppone, oltre che l’esistenza di un clima di frizione tra le due
comunità religiose, anche la diffusione di spinte assimilatorie
in virtù delle quali un numero crescente di ebrei diveniva cristiano proprio per cercare di diventare «uno di loro».
Naturalmente le tre condizioni appena indicate non vogliono presentarsi come base esclusiva dell’esistenza di ogni
forma di storiella ebraica, esse però pretendono di indicare i
presupposti grazie ai quali l’umorismo ebraico ha potuto assumere la dimensione dell’epopea, diventando specchio privilegiato di un’intera civiltà. Lo comprova il fatto che quella
matrice, se trasportata altrove, da un lato perde via via mordente nel suo essere espressione di un ethos collettivo e, dall’altro, si conforma sempre più alle modalità proprie di altri
umorismi propensi a diventare letteratura e spettacolo a teatro o al cinema.
Gli ebrei dell’Est Europa e d’Israe le
La terra di elezione dell’umorismo ebraico resta la Ostjüddishkeit. Si tratta cioè del mondo ebraico dell’Est Europa tra
XIX e inizi del XX secolo entro il quale convivevano (e litigavano) ortodossi e atei, sionisti e antisionisti, marxisti e chassidim, talmudisti e letterati, pochi ricchi e molti poveri. Rispetto all’esterno quel mondo conosceva sia le convivenze secolari sia le vampate devastanti dei pogrom. A partire da esso si sono avute varie diramazioni a seconda dei flussi migratori, il
più importante dei quali – come è ben noto – lo si ebbe in direzione degli Stati Uniti: la terra di elezione dell’umorismo
ebraico divenuto letteratura e spettacolo.
Altro il discorso su Israele, vale a dire sull’unica nazione al
mondo in cui la società ebraica è largamente maggioritaria e
coniugabile in termini nazionali. La polarizzazione in atto in
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quella terra tra ortodossi e laici in realtà sembra non essere
ancora giunta al punto di lacerazione più a motivo di un’ideologia nazionalista che a causa del witz. A quel che è dato di
vedere, la contrapposizione tra i due schieramenti pare infatti farsi ogni giorno più radicale, cosicché da un lato sembra esserci spazio soprattutto per un’ortodossia seriosamente fondamentalista, mentre, dall’altro, vi è una laicità che trae i propri
titoli di credito innanzitutto dall’essere contro i religiosi. In
questo contesto non è facile saper ridere di sé stessi e della
propria tradizione. Anche perché, come indica la storiella che
segue, pure in Israele, come in larga parte dell’Occidente, una
parte consistente della popolazione è sulle soglie di perdere la
memoria della matrice religiosa vista anche solo come componente del proprio imprinting culturale.
Per comprendere la battuta bisogna tener presente due
fatti: primo che Israel è un nome proprio alquanto diffuso; secondo che lo Shem’ Israel («Ascolta Israele») (cf. Dt 6,4) è il celeberrimo inizio della cosiddetta «professione di fede» ebraica. Due israeliani si trovano all’improvviso di fronte a un edificio in fiamme, ovunque si alzano rumori e grida. Uno dei
due casuali spettatori, preso dallo sbigottimento, esclama:
«Shem’ Israel» e l’altro gli risponde: «Senti un po’! Prima di
tutto non mi chiamo affatto Israel e in secondo luogo non ho
proprio nulla da ascoltare da parte tua».
Piero Stefani
1
J. DELUMEAU, in Le Point, n. 1.743, 9.2.2006, 49.
F. BOESPFLUG, La caricatura e il sacro. Islam, ebraismo e cristianesimo a
confronto, Vita e pensiero, Milano 2007. Il libro è costituto in realtà per la
massima parte da una serie di riproposizioni di temi già più volte trattati dal
suo autore in altri contributi legati alla raffigurabilità o meno del divino.
3
Cit. in F. BOESPFLUG, La caricatura e il sacro, 43.
2
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