Vargas Llosa bacchetta il Cavaliere: «È frivolo» Minorenni e successi: Polanski fa 80 anni e un film su Dreyfus «L’Italia conosce bene la frivolezza della politica: ha Berlusconi, che orrore!». Così il Nobel 2010 per la letteratura, Mario Vargas Llosa, che ha tenuto una conferenza stampa a Palermo alla vigilia della consegna del premio «Giuseppe Tomasi di Lampedusa» che riceverà a Santa Margherita di Belice (Agrigento). «Sono un liberale - spiega lo scrittore - e dunque non posso sentirmi rappresentato da Berlusconi». Mentre sta per compiere 80 anni (festeggerà domenica) Roman Polanski lavora a un film sul caso Dreyfus. Il premio Oscar per «Il pianista» (2003), che ha avuto gravi problemi con la giustizia a seguito di una condanna per abuso di minore è tornato alla ribalta quest’anno con «Venere in pelliccia», in concorso a Cannes, tratto dal romanzo-feticcio di Leopoldo Von Sacher Masoch. Tra i progetti futuri, un film sul caso Dreyfus. Ridere è uno strumento cognitivo Manifesto contro la filosofia triste Storicamente lo studioso è serioso, goffo, poco pratico. Eppure l’umorismo aiuta il pensiero a cambiare punto di vista. Ed è come il liberalismo, perché non può diventare una teologia ::: CORRADO OCONE lettale e il latinorum degli avvocati di provincia. L’umorismo presuppone la capacità di uno sguardo distanziato. La distanza è però qui un movimento del corpo e non della testa come quello del filosofo astratto: egli non vuole immunizzarsi dalle passioni, ma vuole guardarle da un angolo prospettico diverso e più generale. L’umorismo perciò combacia alla fine, anche se questo può sembrare un ulteriore paradosso, con un sentimento tragico o non conciliato della vita. I grandi comici, toltasi la maschera, sono spesso tristi perché sanno che non hanno opposto una verità all’altra ma hanno semplicemente mostrato, con la loro arguzia, il darsi della verità come divenire, pluralità, non meccanicità. «Non la collera, col riso si uccide. Ora uccidiamo lo spirito di gravità». È il celebre incipit dello Zarathustra di Nietzsche. E, d’altronde, il profeta scende fra gli uomini non per affermare una verità ma prima di tutto per danzare, ridere e gioire con loro. In questo scarto c’è tutta la differenza con i suoi predecessori: la filosofia e la religione occidentali non hanno mai preso sul serio l’umorismo. Non bisogna preoccuparsi, diceva Socrate, dell’ilarità che la goffaggine dei comportamenti del filosofo, per sua natura poco pratico, genera fra il popolino. Essere filosofi, ma anche uomini di scienza, prima che porsi certe particolari domande ha significato storicamente darsi una certa postura, entrare nel consesso degli umani con uno stile e dei comportamenti che ponevano una differenza fra sé e gli altri. Il filosofo, scrive Croce, si viveva, ed era vissuto dagli altri, come un Buddha o un Illuminato. Ma, aggiungeva, «il puro filosofo è un puro asino». GUAI A CHI RIDE Non c’è perciò dubbio che, nell’ultimo secolo e mezzo, l’umorismo sia stato visto, dai filosofi prima e nella società poi, con un occhio diverso e più benevolo rispetto a quello della tradizione. Basti pensare all’Italia odierna, ove le vignette sui giornali e le trasmissioni di satira in tv non sono un semplice intermezzo, come erano un tempo, ma hanno lo stesso spazio e dignità delle notizie e delle trasmissioni classiche. Senza contare il fatto che un comico palesemente inadatto alla politica abbia potuto creare un suo movimento capitalizzando la popolarità che aveva conquistato sui palcoscenici. Ma tutto questo, questa accresciuta presenza del comico nelle nostre vite, significa che il mondo futuro annunciato da Zarathustra sia stato attuato? Che il programma nietzschiano di filosofare ridendo sia stato unanimemente accolto? Secondo Lucrezia Ercoli, autrice di una «Filosofia dell’umorismo» che esce in questi giorni per l’editore romano Inschibboleth, è vero il contrario: un meccanismo mentale inconscio continua ad operare in noi portandoci se non a gerarchizzare, certo a tener ben separati gli ambiti del serio da quelli del comico. In ufficio, in laboratorio, a lezione, non si ride: se lo si fa si è considerati persone leggere. L’umorismo ci si presenta perciò come «un mondo frivolo e superficiale che ci consente di evadere, temporanea- mente, dalla pesantezza del pensare; uno spazio «insensato» dove il pensiero si riposa prima di riprendere le fatiche della riflessione. Insomma, ogni concessione alla levitas non sarebbe altro che una momentanea, e inaspettata, sospensione della gravitas». Ecco allora che si può persino accettare che si faccia filosofia sul ridere, ma mai filosofia ridendo. La cosiddetta filosofia analitica, che è la più coerente erede della metafisica classica con l’aggravante che non lo sa e non se ne accorge, ha prodotto una mole impressionante di testi sul ridere, soprattutto in America. Senza mai però lasciarsi coinvolgere. Il fatto è che il ridere mette in crisi il concetto di verità ed etica a cui questi filosofi, che non a caso sono per lo più liberal o radical chic, e quindi si prendono molto sul serio, aderiscono. Verità ed etica si danno infatti per loro come fossero un’equazione matematica. Tesi a trovare regole e schemi nel pensiero e nell’azione, essi non considerano quell’ecceità o costitutiva irregolarità che è propria dell’umano. Che perciò non capiscono fino in fondo. E, come spesso accade, in . IL CAPOLAVORO DEI MONTY PYTHON Nel fotoracconto, quattro fotogrammi del filmato della finale di calcio tra filosofi, secondo episodio del «Monty Python’s Fliegender Zirkus» (1972), apparso anche nel film «Monty Python Live at the Hollywood Bowl». I geniali comici immaginano una irresistibile sfida tra Grecia e Germania: nei primi due riquadri le formazioni. Finirà uno a zero per la Grecia (terzo fotogramma: l’esultanza di Socrate, che segna di testa su invenzione di Archimede). Nell’ultima scena, Nietzsche accusa l’arbitro Confucio di non avere una libera volontà, e viene ammonito. Completano la terna i guardalinee San Tommaso e Sant’Agostino. Le immagini sono tratte da Youtube. loro l’ignoranza si unisce all’arroganza. Bernard Williams, che della filosofia analitica è stato uno dei critici più implacabili, si divertiva ad esempio a mettere alla berlina, prima che confutare razionalmente, le pretese di costoro di trovare un «linguaggio definitivo» (una buona introduzione al suo pensiero, e anche al ruolo dell’ironia in esso, è la raccolta di saggi «La filosofia come disciplina umanistica», Feltrinelli 2013). Il fatto è che l’umorismo adempie alla funzione di far vedere un lato diverso delle cose. Esso ci porta a rimettere in discussione i nostri pregiudizi. Non è un caso che l’umorismo si fondi per lo più sul paradosso, con la sua forza spiazzante rispetto alle ferree regole della logica e del moralismo astratto. Paradosso che a volte è nella realtà e che va semplicemente mostrato, senza troppe spiegazioni. L’umorismo non è mai didascalico. La telefonata del giudice Esposito è satira allo stato puro per lo stridore che si crea fra la retorica che ha accompagnato in certi ambienti la condanna di Berlusconi, un politico presentato come alieno agli standard europei, e la realtà di un giudice che parla in un gergo fra il dia- LA LEZIONE DI BERLIN Ecco, un’altra delle caratteristiche del comico è l’assoluta spontaneità. Se uno studia a tavolino per esserlo, non ci riesce quasi mai. Può così succedere che l’abbondanza di interventi satirici non sempre coincida con l’abbondanza di vera satira. E non è questione di destra o sinistra. È la satira a tesi, quella che si pone una missione e che deve avvalorare un argomento a prescindere, che non funziona. Quella che con piglio severo grida «vergogna!» e fustiga. Il riso che riesce a produrre è un ghigno acerbo che maschera a malapena un’etica del risentimento per la vita. L’umorismo vero invece smonta ma non dà ricette: si accontenta di fermare l’arroganza di chi crede di averle a portata di mano, sentendosi casomai anche in dovere di offrirla agli altri à la carte. In questo senso l’umorismo è simile alla filosofia, è filosofia come sanno gli organizzatori del festival Popsophia che a fine mese sbarcano a Tolentino, nello storico Castello della Rancia, per discutere di questi temi in collaborazione con la Biennale dell’Umorismo nell’Arte (interverranno, fra gli altri, Giorello, Veneziani, Curi, Donà, Regazzoni). L’umorismo è però anche simile al liberalismo, il quale, al contrario delle altre dottrine, non può trasformarsi mai in una teologia e deve essere sempre percorso dal dubbio e dallo spirito critico. Chi più di tutti lo ha capito è stato Isaiah Berlin. Come emerge dalle sue «Lettere inedite» del periodo fra il 1960 e il 1975 (escono ora per Chatto & Windus), il concetto di wit, che possiamo tradurre con ironia o arguzia, diventa centrale a un certo punto nel suo pensiero. L’uomo libero è, in definitiva, per lui chi sa ridere di sé e degli altri.