in collaborazione con Fondazione Teatro della Città di Livorno “Carlo Goldoni” Teatro di Tradizione Manifatture Sigaro Toscano con il patrocinio di Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni www.pietromascagni.com Associazione Accademia degli Avvalorati Mascagni forever l’autore gli interpreti la critica a cura di Giulia Perni ISBN 978-88-8347-685-3 © 2013 s i l l a b e s.r.l. www.sill­­­abe.it direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare progetto grafico: Laura Belforte redazione: Ethel Santacroce con la consulenza editoriale di Fulvio Venturi Nei mesi di preparazione e redazione del volume ho contattato, incoraggiato e talvolta anche assillato gli Autori che oggi sono presenti nel libro per dedicarci un po’ del loro Mascagni ed ora che devo scrivere la premessa non trovo le parole adatte. Perché questa pubblicazione su Mascagni dopo gli studi di una vita effettuati da Mario Morini, uno dei più attenti studiosi del melodramma verista? Livorno è città di mare, solare, quasi ‘musicale’. A Livorno è nato e cresciuto musicalmente il giovanissimo Pietro, per poi “perfezionarsi” a Milano e “maturare” a Roma. Tre città tanto diverse, ma che sono unite da un forte legame, l’amore per la ‘Musica’. I grandi compositori sono tali non solo grazie alle loro straordinarie composizioni, ma anche grazie a chi li ha amati e interpretati in vita e resi immortali dopo la loro scomparsa. Ecco che entrano in scena gli interpreti (cantanti e strumentisti), i direttori d’orchestra, i registi, i giornalisti-critici e i musicologi. Così nasce questo libro, con la volontà di continuare a percorrere la strada iniziata da altri studiosi e rendere più familiare e vicino un musicista come Mascagni, compositore e direttore d’orchestra, uomo di famiglia, ma allo stesso tempo anche uomo alla moda, un vip a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso. Il suo ritratto completo, sia sull’uomo che sul musicista, emerge con semplicità e spontaneità dagli scritti – saggi, interviste, dichiarazioni – dei nostri Autori. Il libro è strutturato in più sezioni: l’autore dove musicologi, studiosi e familiari di Mascagni tracciano il profilo del compositore soffermandosi sulla vita, le composizioni (dall’opera alla musica sacra, dalla musica per film alla musica da camera), i rapporti con i musicisti, gli editori e i musicisti dell’epoca, i viaggi in Europa e in America; gli interpreti con le loro esperienze sul palcoscenico, i loro ricordi ed emozioni: dai cantanti agli strumentisti, dai direttori d’orchestra ai registi-scenografi. Non solo espressioni e sensazioni personali, ma anche un vademecum sulla tecnica vocale mascagnana e sull’interpretazione delle melodie del compositore; grazie a critici e a giornalisti ci soffermiamo anche sul valore che Mascagni ha avuto e ha nel mondo musicale. Infine una panoramica su Mascagni nella penna dei responsabili di alcuni dei grandi teatri italiani con i quali il Maestro ebbe importanti rapporti artistici e che lo resero famoso in tutta Italia e, di conseguenza, all’estero, fino al Metropolitan di New York. Un testo importante infine quello sul Progetto Mascagni della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno, che dagli anni Novanta ha dato grande risalto alla figura e all’opera del musicista livornese. Giulia Perni M’uccide il tedio! da Zanetto l’autore 15 Pietro Mascagni. Percorso artistico e biografico Fulvio Venturi 64 Le opere liriche Giulia Perni 73 Mascagni tra Cavalleria rusticana e Guglielmo Ratcliff: originalità ed eclettismo creativo di un musicista del Novecento Alberto Paloscia 156 Onoranze a Pietro Mascagni 158 Bibliografia citata e monografie essenziali 160 Didascalie delle tavole a colori 79 Quattro librettisti per Mascagni Roberto Iovino I - XVI Tavole a colori 85 Amilcare Ponchielli nei ricordi di Mascagni Marta Crippa 91 Incursioni e saccheggi ‘nel e dal’ cinema Francesca Bianchi 95 Mascagni: non solo un grandissimo musicista, ma un grande personaggio Francesca Albertini Mascagni 111 Mascagni e i suoi ‘amici’ pittori Guia Farinelli Mascagni 114 Un Mascagni per bisnonno Guia Farinelli Mascagni 117 Il teatro di Mascagni Gianandrea Gavazzeni 125 I mutevoli volti di Parisina Raffaele Monti 133 Il Mascagni “sacro” Fulvio Venturi 139 Lorenzo Perosi e Mascagni 141 Mascagni, non solo lirica! Cesare Orselli le testimonianze gli interpreti 163 Fabio Armiliato tenore 165 Carlo Bergonzi tenore 167 Andrea Bocelli tenore 168 Vinicio Capossela cantautore 170 Fiorenza Cossotto mezzosoprano 171 José Cura tenore 172 Daniela Dessì soprano 174 Mirella Freni soprano 176 Cecilia Gasdia soprano 178 Luciano Pavarotti tenore 147 Mascagni e il Verismo Enrico Fubini 179 Danilo Rea pianista jazz 151 Un ‘recupero’ possibile Guido Salvetti 181 Manrico Signorini basso i direttori la critica 183 Daniel Barenboim direttore 221 Mascagni: una storia nuova Angelo Foletto 183 Bruno Bartoletti direttore 225 Ricordando Mascagni Roman Vlad 184 Carla Delfrate direttore 227 Attualità di Mascagni: una testimonianza Sabino Lenoci, «Opera» 185 Roberto Gabbiani direttore di coro 187 Gianluigi Gelmetti direttore 191 Angelo Inglese direttore 193 Zubin Mehta direttore 194 Mario Menicagli direttore 195 Ennio Morricone direttore 196 Paolo Olmi direttore 198 Alessandro Pinzauti direttore 199 Jonathan Webb direttore 201 Mascagni e Toscanini i registi 203 Ivan Stefanutti scenografo, costumista, regista 210 Federico Tiezzi regista 229 Intervista a Filippo Michelangeli, «Suonare news» 231 Intervista a Gaetano Santangelo, «Amadeus» 232 Iris, un sublime ikebana Paolo Isotta, «Corriere della Sera» 234Una Cavalleria da Premio Abbiati Andrea Estero, «Classic Voice» 235 Amica (Monte Carlo, 16-03-1905) Didier Pieri i teatri 240 Livorno e il Progetto Mascagni: oltre vent’anni di “Mascagni-Renaissance” Alberto Paloscia 269 Mascagni e il Teatro alla Scala Stéphane Lissner 273 Cavalleria rusticana: Franco Zeffirelli e il Met John Pennino 277 Gli “schiaffi al Colonnello” Francesco Reggiani 285 Mascagni e il Maggio Musicale Fiorentino Giovanni Vitali Pietro Mascagni. Percorso artistico e biografico Fulvio Venturi La mia voce vibra nell’aria da Iris 15 l’autore Pietro Mascagni, cartolinaPietro caricaturale. Mascagni, 1895. Chi è stato Pietro Mascagni? L’autore di Cavalleria rusticana… E poi? E poi è stato l’autore di altre quattordici opere almeno, ma oggi non se ne sa più nulla. Credo che questa sia una risposta verosimile alla domanda con la quale inizia questo scritto. Eppure pochi altri compositori hanno avuto la popolarità che Mascagni ebbe in vita e bisogna anche dire che di quelle “altre” quattordici sue opere, tre hanno avuto fino a mezzo secolo fa una diffusione planetaria e una di queste, Iris, sfiora la ragguardevole cifra di ottocento diverse produzioni in meno di 120 anni di vita teatrale. Le altre due opere ad aver goduto di popolarità sono L’amico Fritz ed Isabeau. I collaboratori letterari di Mascagni sono stati all’incirca una dozzina e fra gli autori dei testi che egli ha messo in musica figurano personaggi appartenenti alla storia della letteratura come Heine e D’Annunzio, se non François Coppée. Altri, come Luigi Illica, sono famosi nello specifico dei “librettisti” d’opera. Ma c’è di più. Ogni opera di Mascagni ha avuto i suoi momenti di notorietà e questa ci sembra la sede opportuna per ricordarlo, anche se certi tempi sembrano irrimediabilmente trascorsi e la volontà che anima questo scritto non è quella saggistica bensì quella informativa. 16 Un aspetto fondamentale per la conoscenza di Mascagni è quello dell’interpretazione. Pochi altri autori si reggono su un filo tanto sottile quanto tenace dato dalla risultante fra esecuzione ed interpretazione. Mascagni non scrisse per interpreti preordinati come molti dei suoi predecessori ottocenteschi, ma, da uomo di teatro, ebbe sempre presente la questione interpretativa affidandosi talvolta ad artisti molto qualificati e in altre occasioni forgiando giovani di talento, funzionali al proprio progetto artistico. Presto, appena dopo l’insorgere di Cavalleria rusticana, s’iniziò a parlare di cantanti specializzati e già all’inizio del Novecento fu coniato il termine “stile mascagnano” a proposito dell’insieme delle loro caratteristiche. Tale stile era dato non tanto dalle qualità vocali, quanto da quelle attitudinali e non poteva prescindere da temperamento vibrante, resistenza, musicalità sopraffina – richiesta dai molteplici cambiamenti di “tempo” e di modulazione – valenza tecnica – poiché le tessiture cui si è fatto cenno impegnano in modo essenziale il cosiddetto “passaggio di registro” – e non escludeva – neppure ai tempi in cui verso il “tonnellaggio” dei cantanti lirici non si guardava per il “sottile” – un adeguato physique du rôle ed abilità scenica che talvolta, seguendo i dettami della moda liberty allora imperante poteva raggiungere certamente una fastidiosa enfasi, ma anche un’eleganza straordinaria. Ogni opera di Mascagni ha avuto i suoi eroi e questa ci sembra la sede opportuna per ricordare tali cantanti, anche se qualche nome, almeno per il pubblico vasto, si è irrimediabilmente perduto nel tempo. Lo stile “mascagnano” cui si è fatto cenno si è coagulato attorno ai titoli ‘forti’ del Livornese, vale a dire alle opere dove la robustezza strumentale, così come la dimensione della partitura sia particolarmente marcata, e queste sono sicuramente Guglielmo Ratcliff (1895), Iris (1898), Amica (1905), Isabeau (1911), Parisina (1913), Il piccolo Marat (1921) e Nerone (1935). Voci taglienti, vibranti, accentate, ricche di timbro sono necessarie per tali opere, in altri termini, per omologarsi ad un termine oggi di moda, “voci grandi”. Sembra questa anche la giusta dimora per puntualizzare che nel catalogo di Mascagni, accanto a codeste opere, ve ne sono tuttavia altrettante – L’amico Fritz (1891), I Rantzau (1892), Silvano (1895), Zanetto (1896), Le Maschere (1901), Lodoletta (1917), Pinotta (1932), e vi aggiungerei anche l’operetta Sì (1919) – che richiedono caratteristiche più liriche, fantasiose, eleganti, sfumature che si connotino anche con la tinta delicata, marina, lunare, con le brezze e i vapori che avvolgono i paesaggi. Come se Mascagni impugnasse – e lo fa – il cesello dell’incisore piuttosto che lo scalpello dello scultore, o i delicati acquerelli in luogo della tavolozza crassa. Pare dunque giusto parlare di uno stile intimistico, elegiaco e di uno eroico, se non tragico. Fra le due linee estetiche rimane Cavalleria rusticana che, in quanto capolavoro, sembra riunire endemicamente le due tendenze. Addentriamoci adesso nella conoscenza di questo musicista, bilanciandoci tra la biografia, l’opera e l’interpretazione. Pietro Mascagni nasce a Livorno in piazza delle Erbe, l’attuale piazza Cavallotti, il 7 dicembre 1863. Perde presto la madre e quando frequenta ancora il ginnasio (il padre voleva farne un avvocato) inizia a comporre nella sua città sotto la guida di Alfredo Soffredini, presso l’Istituto musicale “L. Cherubini”. In questo periodo i lavori più rilevanti hanno carattere religioso. Il 9 febbraio 1881, a Livorno, si esegue la cantata In filanda, la prima composizione profana di ampie dimensioni composta da Pietro Mascagni su testo Una delle ultime immagini della casa natale di Pietro Mascagni prima della demolizione. Livorno, piazza Cavallotti, gennaio 1972. 17 l’autore La produzione di Mascagni oltre Cavalleria rusticana è oggi scomparsa in un mare d’oblìo e solo ogni tanto riemerge come una cattedrale sommersa, così prima di rivisitare architetture incrostate di calcare e licheni, o evocare leggende medievali, sarà forse bene soffermarci sulla personalità precipua di Pietro Mascagni. Il compositore livornese fu un uomo sanguigno, propenso all’esteriorità e con aspetti contraddittori. Un ribelle in gioventù, un giovane non troppo attento alle tradizioni e all’autorità precostituita, come dimostrò subito negli anni dell’alunnato presso il Conservatorio milanese, caratterizzati da contrasti aspri con alcuni docenti e da improvvise “levate di testa”, che poi giunse ad un fatalismo stanco e rassegnato, quasi decadente, nell’ultima parte dell’esistenza. Un carattere eruttivo, portato ai litigi con direttori, cantanti, impresari, editori, stampa – alcuni dei quali, come quelli con Toscanini, Mascheroni, Walter Mocchi, rimasti famosi – ed ai subitanei ripensamenti e pacificazioni, ma anche tenace nelle passioni e negli amori. E tendente a un sentimentalismo non di maniera, ma suffragato dai fatti. Queste poche righe non sono sufficienti a delineare il tipo psicologico legato a Mascagni, – dovremmo almeno citare anche l’autoreferenzialità ed una certa tendenza all’enfasi –, ma talune di queste caratteristiche si ritrovano trasferite nei personaggi che popolano le opere del Livornese. Oltre ad una certa smania di volersi necessariamente diversificare dai colleghi e persino da quanto egli stesso avesse fatto in precedenza. 18 Cavalleria rusticana e il successo, 1890 Dramma lirico in un atto, libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, da Giovanni Verga. Editore: Sonzogno. Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 17 maggio 1890, direttore Leopoldo Mugnone. Nell’ottobre 1888 Pietro Mascagni, dopo aver letto la notizia su un quotidiano, decise di partecipare al concorso indetto dalla casa musicale Sonzogno di Milano, per un’opera in un atto. Appresa tale notizia Mascagni si rivolse ad un amico livornese, il poeta Giovanni Targioni Tozzetti, per averne il libretto. Il musicista pensò in un primo momento di comporre un’opera dal titolo Serafina, tratta da Marito e sacerdote di Nicola Misasi. Giovanni Targioni Tozzetti suggerì invece la riduzione della novella Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, nella sua versione teatrale, che aveva visto recitare all’Arena “Labronica” dalla compagnia di Cesare Rossi, dopo che era stata portata all’onore delle cronache teatrali da Eleonora Duse. Mascagni, che in precedenza aveva vagheggiato quel soggetto, accettò con entusiasmo. Targioni Tozzetti si mise a lavoro coinvolgendo un altro personaggio livornese, Guido Menasci, insegnante di francese presso il ginnasio. Pittoresco il modo con il quale Mascagni entrò in possesso del testo da musicare, a lui inviato da Targioni Tozzetti e Menasci su cartoline postali, per stati di avanzamento del lavoro. Mascagni iniziò la composizione il 4 gennaio 1889 appena ricevuti per via epistolare i primi versi da Giovanni Targioni Tozzetti. Il musicista, trovandosi in difficoltà perché avrebbe avuto bisogno di un buon pianoforte che non poteva acquistare, si rivolse a un familiare. Fu la zia Maria, di San Miniato, a mandargli un vaglia da 150 lire con il quale Mascagni riuscì nel suo intento. La genesi di Cavalleria rusticana trasse poi eccezionale vigore nella notte del 3 febbraio 1889 dal lieto evento della nascita di Domenico, il bambino di Lina e Pietro, subito chiamato affettuosamente Mimì, in onore del sindaco di Cerignola, don Domenico Cannone. A Mimì faranno seguito Edoardo (Dino) nel 1891 ed Emilia (Emy) nel 1894. La composizione dell’opera, per quanto marciasse speditamente, soffriva nondimeno delle insicurezze del suo giovane ed inquieto autore, il quale, una volta ultimato il lavoro, fu assalito da dubbi talmente forti che quasi lo indussero a desistere dall’inviare la partitura al vaglio della giuria. Fu la moglie, con una decisione felicissima, a spedire la partitura a Milano in una giornata terribile di pioggia e di vento. L’opera fu terminata nel maggio 1889 e posta al vaglio della giuria fu dichiarata finalista del concorso nel marzo successivo, insieme con altre due opere, Rudello di Vincenzo Ferroni e Labilia di Nicola Spinelli. Due mesi più tardi le tre opere andarono in scena al Teatro Costanzi di Roma nell’ordine seguente: 8 maggio 1890, Labilia; 17 maggio, Cavalleria rusticana; 28 maggio, Rudello. Le opere di Ferroni e Spinelli ricevettero un’accoglienza assai tiepida, mentre Cavalleria rusticana ebbe l’esito trionfale che sappiamo e risultò vincitrice del primo premio. Ne furono interpreti principali due grandi cantanti, Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, e un celebre direttore d’orchestra, il maestro Leopoldo Mugnone. Nell’agosto 1890 l’opera fu poi rappresentata al Teatro Goldoni di Livorno, città natale di Pietro Mascagni, dagli stessi interpreti. Fu come un secondo debutto e da quella data, nel volgere di breve tempo, Cavalleria compì il ‘giro’ delle grandi capitali europee giungendo a Berlino, Londra, Parigi, Vienna per traversare l’oceano ed andare in scena a Philadelphia, New York e Buenos Aires. Una cavalcata trionfale che dura tutt’oggi. Come abbiamo visto dopo la prima rappresentazione romana la seconda “piazza” di Cavalleria rusticana fu Livorno, dove l’opera andò in scena al Teatro Goldoni il 14 agosto 1890, ancora con Gemma Bellincioni, Roberto 19 l’autore dello stesso Soffredini. Il successo è vibrante. Alcuni mecenati livornesi, primo fra tutti il conte Florestano de Larderel, decidono di aiutare Mascagni per completare gli studi. Nell’ottobre 1882 supera l’esame d’ammissione al Regio Conservatorio di Milano. Subito dopo, pensando di comporre un’opera per un concorso del Conservatorio, s’invaghisce di Guglielmo Ratcliff, la tragedia di Heinrich Heine, nella traduzione di Andrea Maffei. Frequentando le lezioni conosce Giacomo Puccini, allievo del Conservatorio dal 1880. L’esperienza in conservatorio, tuttavia, si esaurisce dopo tre anni in seguito ad un grave diverbio con Antonio Bazzini, e Mascagni sbarca il lunario “lavorando” come direttore d’orchestra presso diverse compagnie di operette itineranti per la penisola. Nel 1887, durante i suoi pellegrinaggi artistici, in questo caso al seguito della compagnia Cirella, Pietro Mascagni raggiunse Cerignola, vasto centro agricolo del Tavoliere di Puglia. In questa cittadina pugliese gli fu offerta da parte del sindaco la possibilità di un lavoro stabile, una posizione che sarebbe stata retribuita dignitosamente, assumendo la direzione della filarmonica locale. Mascagni, che nel contempo si era unito ad una ragazza parmigiana, Argenide Marcellina Carbognani (detta Lina), dalla quale aspettava un figlio, accettò. Il bambino, che nacque nel mese di maggio, sopravvisse solo quattro mesi. Quel fortissimo dolore tuttavia recò profondi cambiamenti nella vita di Pietro Mascagni. Il 7 febbraio 1888 si unì in matrimonio con Lina. Nel mese di aprile, con un’orchestra di giovani da lui formata, fece eseguire una sua Messa nel duomo di Cerignola. Il lavoro, riproposto anni dopo, quando egli aveva ormai conquistato la celebrità, prese il nome di Messa di Gloria (in fa magg.). Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, la celebre coppia di artisti che si esibì nella prima di Cavalleria rusticana al Teatro Costanzi, Roma, 17 maggio 1890. 20 Cafiero Filippelli, Galliano Masini e Giuseppina Cobelli in Cavalleria rusticana al Teatro Colón di Buenos Aires, olio su tela, 1932. Cavalleria rusticana, riduzione per canto e piano, edizione originale, 1890. 21 l’autore Emma Calvé, la Santuzza prediletta dalla regina Victoria al tempo delle rappresentazioni di Cavalleria rusticana a Londra e al castello di Windsor. 22 23 l’autore Stagno, Leopoldo Mugnone ed una sola variante tra le parti principali poiché il baritono Mario Ancona, livornese e promettentissimo (non tradirà le attese), sostituì il collega Gaudenzio Salassa. Si trattò di un successo addirittura più grande di quello romano, un entusiasmo travolgente. La produzione, organizzata da un comitato cittadino, fu addirittura sospesa per eccesso di pubblico. Incredibile, ma vero. In occasione della quinta recita il bagarinaggio raggiunse punte elevatissime e fuori dal teatro si registrarono tafferugli che il prefetto sedò con la sospensione delle repliche. Si trattò di “buoni cazzotti toscani” come ebbe a dire Gemma Bellincioni nelle sue memorie (Bellincioni 1920, p. 106), ma il cammino di Cavalleria rusticana era ormai diventato inarrestabile. Passando rapidamente di città in città nel gennaio 1891, la “giovine” opera di Mascagni giunse sul palcoscenico del Teatro alla Scala, dove fu eseguita per 23 serate trionfali. “Un delirio di applausi, di acclamazioni, di urli da far rintronare la sala” (Gatti 1964, vol. 1, p. 167), guidato da un cast rinnovato e ugualmente prestigioso, formato da Romilda Pantaleoni, Fernando Valero, Tito Scipione Terzi, ancora sotto la bacchetta di Leopoldo Mugnone. Un livornese, ma non Pietro Mascagni, bensì Augusto Vianesi, pilotò invece l’approdo di Cavalleria al Metropolitan di New York (30 dicembre 1891) con una compagnia di canto internazionale nella quale spiccò il soprano Emma Eames (in seguito questa cantante sarà anche un’ottima Iris al fianco di Enrico Caruso). Negli stessi giorni (gennaio 1892), alla presenza di Mascagni, Cavalleria rusticana arrivò anche a Vienna dove, in compagnia dell’Amico Fritz, destò l’interesse di Eduard Hanslick, il “Petronius arbiter” dei critici di lingua tedesca, al cui Vom Musikalisch-Schönen qualcuno fa riferimento tutt’oggi, e la sincera ammirazione di Gustav Mahler. Il definitivo imprimatur internazionale di Cavalleria rusticana avvenne infine in Inghilterra nell’estate 1893 dove, dopo una serie di rappresentazioni al Covent Garden di Londra con la direzione dell’autore, l’opera fu eseguita al Castello di Windsor, dietro personale richiesta della regina Victoria. Dopo la rappresentazione Mascagni fu ricevuto dalla regina stessa che a lui, agli interpreti – Emma Calvé, Francisco Viñas, Mario Ancona – e al direttore artistico del Covent Garden, Sir Augustus Harris, donò un ritratto con dedica in segno d’apprezzamento. In occasione del lungo soggiorno londinese a Mascagni fu anche ascritto un flirt con la celeberrima cantante australiana Nellie Melba, fonte d’inarrestabile gossip. In quegli anni si assiste anche alla nascita di un fenomeno teatrale fortunatissimo, dato dall’esecuzione in una stessa serata dell’opera mascagnana con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Attorno al fin du siècle e nel decennio successivo, poi, si assiste a un’eccezionale fiorita d’interpreti che diremmo, tout-court, capeggiata da Enrico Caruso ed Eugenia Burzio. Tanto è vasto il successo di Cavalleria rusticana che, in uno spazio breve, è possibile ricostruire la storia esecutiva di quest’opera per ciò che riguarda il Novecento solo per sommi capi, dunque focalizziamo sugli episodi più popolari, o sugli eventi che sono rimasti negli annali. Ci soffermiamo così sul vero “bagno di folla” registrato nell’estate 1935 in occasione della prima rappresentazione presso l’Arena di Verona con una produzione di assoluto pregio diretta da Gino Marinuzzi, e un travolgente assieme vocale formato dalla grande Santuzza Cavalleria rusticana, stampa popolare (1890 ca). Incursioni e saccheggi ‘nel e dal’ cinema Francesca Bianchi Sei tu la danzatrice che morrai della tua stessa danza folle come d’un sottile veleno senza nome da Rapsodia satanica (Fausto Maria Martini) 90 91 l’autore Locandina di Melodie immortali di Giacomo Gentilomo, 1952. La prima vera colonna sonora del cinema italiano. Il primo compositore professionista che scrive musica da film sincronizzandola con le immagini. Un “[…] lavoro improbo, lungo e difficilissimo” come dichiarò lo stesso Pietro Mascagni. L’anno è il 1915, il film Rapsodia satanica di Nino Oxilia. Primo assaggio di quell’affinità elettiva che lega Mascagni e il grande schermo ancora oggi, fino a contagiare grandi registi che hanno scelto le note del compositore livornese – e in particolare di Cavalleria rusticana – per accompagnare pellicole entrate nella storia del cinema internazionale. Compreso Toro scatenato di Martin Scorsese e il terzo capitolo de Il Padrino di Francis Ford Coppola. In origine non fu, però, Rapsodia satanica, perché delle opere di Mascagni il cinema si era già impossessato qualche anno prima. Enrico Guazzoni aveva attinto alla sua Amica per una riduzione filmica muta con Leda Gys e due Cavalleria (firmate da Victorin Jasset e Claude Chautard) avevano già conquistato il grande schermo tra il 1909 e il 1910. Rapsodia satanica è, però, qualcosa di più. Una scommessa, un “poema cinema-musicale” in cui per la prima volta è la musica ad adattarsi alle esigenze della pellicola. Mascagni cronometrò la durata delle immagini. In una lettera alla moglie Lina del 22 maggio 1914 il compositore scrive: “Trovo i temi e li sviluppo: ma poi li debbo tagliare, aggiustare, ripetere, allungare ecc. fino a tanto che non abbia ottenuto la perfezione nel far collimare la musica con la proiezione”. In questo senso quella composta per Rapsodia satanica è da considerarsi la prima vera colonna sonora italiana. Mascagni: non solo un grandissimo musicista, ma un grande personaggio Francesca Albertini Mascagni Vice Presidente Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni Ferrea è la tempra del mio volere da Guglielmo Ratcliff 94 Mascagni nell’estate 1910 a Castell’Arquato durante la composizione di Isabeau. Gli eleganti si vestivano come lui, le donne correvano a vederlo, le ragazze ritagliavano le sue fotografie dalle riviste, all’estero era l’italiano più noto. Ebbe sul costume dell’epoca il peso che avrà in seguito il principe di Galles, i suoi abiti, i suoi capelli (il grande ciuffo fluente ed ondulato), le sue scarpe, anche il suo vezzo di non farsi crescere barba e baffi (in realtà perché non ne aveva in quantità adeguata) verrà poi imitato in tutto il mondo per essere à la page. Le sue battute fulminanti correvano per il paese, i giornali le riportavano e tutti ne ridevano, ammirandolo. Lo cercavano dovunque. Lo volevano nelle corti reali, nei salotti, nelle città più lontane. Gli piaceva la gente, viaggiare e ritrovare italiani. Era l’uomo del giorno, il “fenomeno”. Nella fantasia popolare Mascagni s’identificava con ‘l’immagine mitica dell’uomo’ felice che associava in sé la giovinezza e la fama, un prototipo irresistibile della razza latina, estrosamente calzato, vestito e 95 l’autore Sono passate tre generazioni dal nostro bisnonno Pietro Mascagni, ma nella nostra grande famiglia il ricordo è quanto mai vivo, accompagnato dalla sua musica e dagli aneddoti che i nostri genitori e nonni ci hanno raccontato. Mia madre, Maria Teresa, per tutti Mitì, era la più piccola dei nipotini e mi dice sempre che nonno Pietro è stato un nonno adorabile, molto affettuoso e premuroso verso tutte le necessità delle famiglie, un lavoratore instancabile e un amministratore preciso. Ed è per questo che vogliamo ricordarlo nel 2013, anno di celebrazione del 150° dalla nascita, per quello che fu: non solo un grandissimo compositore, ma un grande personaggio, una moda, il simbolo di un successo travolgente! Le cronache di quel tempo ci dicono: Mascagni al pianoforte, con il suo amato sigaro toscano. 96 pettinato. Il musicista si confessò ad un suo tardo memorialista (De Carlo 1946): “L’uomo che il mondo conosce in me non è quello reale. Tutti credono che io sia fatto soltanto per lo spirito e l’allegria, ma non è così: io sono piuttosto un malinconico e ho sempre fatto uno sforzo enorme per non mostrarmi quello che sono veramente”. Lo scopone Anche quella dello scopone era una vera e propria mania, “croce e delizia” per i familiari, gli amici ed i collaboratori costretti il più delle volte a doversi sottoporre a lunghe ed estenuanti partite soprattutto notturne. Il sigaro Da buon toscanaccio, la sua passione per i sigari arrivava quasi all’ossessione: prima di partire infatti verificava le scorte preparate in specifiche valigie e valigette fabbricate espressamente per trasportarle. Lo infastidiva soltanto l’idea di rimanerne sprovvisto, anche perché la dose quotidiana era di circa 36 “mezzi-Toscani”. Tutti noi abbiamo qualche immagine nella Copertina della rivista «Time», settembre 1926. 97 l’autore Spontaneo ed immediato, il Livornese ignorò sempre l’arte della diplomazia, non imparò mai l’opportunità di tacere e nonostante questo seppe conquistarsi simpatie e farsi corteggiare. Nel 1897 Giulio Ricordi diceva: “Nulla mi stupisce di Mascagni! Non lo ritengo cattivo, anzi tutt’altro; ma è come una pila elettrica non ancora completa, per modo che se ne hanno scosse, scintille, schioppettate così a casaccio, di sorpresa! […]. Speriamo che platino rame, zinco, acidi ecc. trovino poi il giusto equilibrio ed allora la pila funzionerà bene (Morini 1964)”. Come tutti gli uomini passionali, viveva di passioni ed oltre alla musica adorava il sigaro, il gioco dello scopone, il biliardo, il tamburello, la bicicletta, il collezionismo (quadri, orologi, pipe, penne, scatole per sigari, cravatte, gilet, bacchette per dirigere, strumenti musicali) e… le donne! mente di Mascagni con il sigaro saldamente tenuto tra le labbra, mentre gioca a scopone, compone musica, chiacchiera con gli amici. È proprio la figlia Emy a raccontarci, nel suo libro autobiografico, che il papà conservava i suoi sigari nella propria camera, in un enorme armadio nel quale custodiva anche sigarette, cerini e fiammiferi ed un enorme Avana della lunghezza di 40 centimetri. Lo stesso armadio conteneva poi cassette con speciali sfiatatoi, atti a far seccare a giusto punto i Toscani. Senza contare la sua collezione di pipe e bocchini. Sempre la nipote Mitì (mia mamma) racconta di quando, da bambina, andava ogni domenica a trovare i nonni all’Hotel Plaza: “Nonno pasteggiava con il Carpano Punt e Mes: come entrée, d’inverno, prendeva sempre due uova sbattute con il parmigiano e stracciate dentro il brodo, poi degli spaghetti con olio e parmigiano ed una fettina di vitella in padella espressamente fatta dal suo cameriere Valentino. Subito dopo si accendeva il sigaro e chiamava ogni nipote. A me, che ero la più piccola, dava uno scudo (5 lire), a mio fratello Pierino due scudi, al cugino Bubi tre scudi, per le piccole spese della settimana. Poi un bacio sulla fronte a noi tre, ci salutava e noi tornavamo a casa con il piccolo tesoro, quasi inebriati dal profumo del sigaro”. Mascagni e i suoi ‘amici’ pittori Guia Farinelli Mascagni Direttore artistico Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni Ognun pel suo cammino va spinto dal destino da Iris 110 111 l’autore Angelo Tommasi, Pietro Mascagni, olio su tela, 1898, Livorno, Museo Civico “G. Fattori”. Durante l’Ottocento e soprattutto tra il 1880 e i primi decenni del Novecento, pittori, letterari e musicisti furono spesso in stretto contatto tra loro scambiandosi impressioni, creando movimenti, trovando ispirazioni comuni e suggestionandosi a vicenda. Pittura, musica e letteratura affrontarono parallelamente la modernità cercando nuove soluzioni, nuovi stimoli. Pietro Mascagni è stato, tra i musicisti di quel tempo, un appassionato di pittura e scultura e amico di alcuni tra i pittori italiani più rappresentativi del periodo. Raccolse una collezione notevole, oltre venti Fattori, varie opere di Plinio Nomellini, di Gaetano Previati, Vittorio Matteo Corcos, Francesco Paolo Michetti, Aleardo Villa, Giuseppe Casciaro, Angiolo Tommasi, Silvestro Lega. Opere che in gran parte furono rubate al Maestro, prima e durante la guerra. Il collezionismo è un interesse personale, ma in Mascagni l’amore per le opere d’arte andò senz’altro oltre. Fu proprio lui a volere la partecipazione dei pittori che amava per i manifesti e le illustrazioni dei libretti delle sue opere. Previati illustrò il libretto di Parisina con cinque dipinti, Nomellini fece il manifesto sempre per Parisina. Anche per il Nerone, Nomellini collaborò per il libretto con tre grandi I mutevoli volti di Parisina Raffaele Monti (1932-2008) Amico mio bello così di noi è né tu senza me né io senza te da Parisina (Gabriele D’Annunzio) 124 Parisina, atto IV (foto di scena). Livorno, Teatro Goldoni, settembre 1952. 125 l’autore Gaetano Previati, Decapitazione (IV atto di Parisina). Livorno, Museo Civico “G. Fattori”. Un nostro vecchio amore per questa straordinaria e sfortunata creatura, nata dalla spericolata collaborazione fra D’Annunzio e Mascagni, ci ha spinto ad aprir su questa nuova rivista un singolare e, speriamo, costante settore “oltre” l’immagine, proponendo un tema non solo di straordinario e intricato fascino, ma esemplare e pressoché unico tra gli eventi della cultura italiana d’inizio secolo. Parisina, tragedia lirica in quattro atti di Gabriele D’Annunzio musicata da Pietro Mascagni, andò in scena alla Scala il 15 dicembre del 1913 dopo un anno di lavoro in stretta collaborazione tra il poeta, che si trovava in quei tempi costretto “all’esilio” di Arcachon, e Mascagni, che per star vicino al suo eccezionale librettista si era a lungo trasferito in una villa a Bellevue, nei pressi di Parigi. Non vogliamo, d’altra parte, ripercorrere in questa sede le note vicende di una siffatta collaborazione; ricorderemo solamente l’ambiguo carattere del testo letterario nato, nella volontà del poeta, come seconda parta di una trilogia drammatica, I Malatesti, della quale la Francesca da Rimini, pubblicata nel 1902, costituiva la prima giornata. Esso era stato sviluppato e steso come libretto d’opera sin da quando nel 1906 Tito Ricordi aveva proposto al poeta la collaborazione con Giacomo Puccini, rivelatasi presto impossibile per la netta e singolarissima coscienza drammaturgica del musicista. Una seconda collaborazione con Alberto Franchetti andò anch’essa a vuoto e così una terza con Claude Debussy, che proprio Un ‘recupero’ possibile Guido Salvetti Quando volevano ci dividessero l’odio, il dispetto da I Rantzau 150 151 l’autore Filiberto Scarpelli, Pietro Mascagni all’attacco, caricatura. Per tracciare un bilancio della presenza di Mascagni nella vita culturale dell’Italia di oggi, dobbiamo essere meglio coscienti di due fenomeni che congiurano nel rendere problematico un giusto apprezzamento di un musicista che, piaccia o non piaccia, è stato uno dei protagonisti dell’opera italiana nel mondo. Il primo dato su cui riflettere è l’esistenza di un mondo in sé concluso, quello dei cultori dell’opera cosiddetta verista: hanno memorizzato i minimi dati biografici; collezionano ogni possibile reperto; vi parlano con sicurezza del timbro, dell’estensione, delle doti sceniche di mitici cantanti, basandosi sui giudizi dei contemporanei e su qualche gracchiante rullo d’epoca. Ricordano a memoria ogni libretto in ogni sua parte. Vi possono citare all’istante i passi celebri di ogni spartito (non solo le romanze, ma anche le ruggenti irruzioni delle ‘parole sceniche’). Affrontano ogni disagio per essere presenti ovunque ci sia un nuovo allestimento di opere che considerano pur sempre non abbastanza riconosciute. Una simile dedizione a Leoncavallo, Cilea, Giordano e, soprattutto, Mascagni è, naturalmente, benemerita e ammirevole (anche Puccini era della schiera, ma per lui da qualche decennio ogni ‘esclusiva’ è andata in frantumi con l’irruzione di interessi internazionali, pluri-ramificati nei diversi livelli della cultura musicale dei nostri anni). Si deve a loro se è rimasta memoria di titoli un tempo famosi e poi travolti dalla storia; oppure di 152 iniziativa culturale) su simili argomenti comportava uno “schierarsi”. Per fortuna di tutti, il clima è non poco cambiato, almeno da quando sono stati coinvolti degli outsider, come ad esempio poté essere considerata Fiamma Nicolodi, la massima autorità sul versante della Generazione dell’Ottanta, quando fu chiamata a collaborare alla pubblicazione su Mascagni di Electa, nel 1983. Sono stato testimone (in quanto compartecipe all’impresa) di come quello sconfinamento di campo non sia stato affatto gradito a Livorno, luogo principe dell’ortodossia mascagnana. A partire da quegli stessi anni anche Leoncavallo, con la formazione di un Fondo a lui dedicato nella biblioteca di Locarno, fu oggetto di studi e di pubblicazioni aperti all’apporto di studiosi non appartenenti al “mondo in sé concluso” da cui abbiamo preso le mosse. Giacomo Puccini, come accennavamo, era già stato affrancato da quel mondo almeno dal 1958, quando il direttore d’orchestra e critico musicale Mosco Carner, interessato a un ampio spettro di argomenti del primo Novecento (tra cui Alban Berg), uscì con la sua capitale biografia critica. Cilea, Giordano e Alfano uscirono dal ghetto agiografico nel 1999, quando apparve il ponderoso volume (1008 pagine) curato da Johannes Streicher, con l’apporto di studiosi di tutte le ‘tendenze’, tra cui, per fare un nome, un altro campione della Generazione dell’Ottanta, il compianto John Waterhouse. Questo è il contesto favorevole in cui si colloca l’odierno ricordo di Mascagni nel 150° anniversario dalla nascita. È un contesto in cui si registrano alcune indiscutibili riuscite sul piano della rappresentazione di opere diverse dalla pur sempre vitale Cavalleria rusticana. Ne citerò una per tutte: l’allestimento di Iris all’Opera di Roma nel 1996 con la regia di Hugo De Ana e la direzione di Gianluigi Gelmetti. Ma l’attenzione verso il complesso della sua creazione è di attualità, tanto è vero che un musicista come Roman Vlad, certo non sospetto di mascagnismo, ha dichiarato («La Repubblica», 1° dicembre 2011) che “nella programmazione futura del Teatro dell’Opera dovrebbe essere previsto il recupero di tutta la produzione di Mascagni”. A questo incoraggia anche la recente ottima monografia di Cesare Orselli (Orselli 2011), in cui trovano spazio molteplici motivi per la valorizzazione di opere degne di essere pienamente accolte nel repertorio corrente. Si tratta, prima di tutto, di porre nella giusta luce Cavalleria rusticana, che appartiene alla breve fase verista della nostra cultura nazionale al termine del decennio dominato da Giovanni Verga; poco prima che avvenisse la trasmutazione simbolista e decadente di quegli stessi presupposti, ad esempio con La figlia di Jorio. Mascagni rischiò e rischia di rimanere prigioniero della fortuna clamorosa, vastissima e duratura, di quest’opera; e 153 l’autore titoli già subito dimenticati nei loro anni e da loro considerati degni di essere oggi recuperati e rivendicati. Si deve a loro se sono stati raccolti e pubblicati epistolari, diari, rassegne critiche, discografie. Si deve a loro se il campanilismo delle città natali è stato sollecitato a onorare gli illustri concittadini con tutti i possibili mezzi (lapidi, monumenti, annulli filatelici, giornate di studio, esecuzioni in concerto o, nei casi più fortunati, con allestimenti teatrali). Non c’è chi non veda che le indiscutibili benemerenze di questi cultori abbiano dovuto scontare da sempre il sospetto che le loro prospettive siano, sostanzialmente, di tipo agiografico. Questo è però un rischio sostanzialmente ingiusto, perché, se la cautela è una delle virtù che si richiedono allo storico e al critico, è da evitare che essa degeneri in diffidenza, che è, tra tutti gli atteggiamenti possibili, il meno culturalmente fecondo. Il secondo fenomeno di cui essere coscienti, e di cui rammaricarsi, è che, a fronte degli agiografi e del loro mondo che dicevamo “in sé concluso”, si è schierato l’esercito ben altrimenti potente degli strenui nemici della tradizione operistica nazionale, pronti a ingaggiare le loro guerre in nome della ‘nobiltà’ dell’arte. La storia è antica e non riguarda solo i Veristi. Non fu solo un eccesso giovanile il Brindisi in cui Boito dichiarava che Verdi aveva lordato l’altare dell’arte. Né si devono a puro malanimo gli articoli orripilati di D’Annunzio nei confronti delle opere di Stanislao Falchi e, poi, le apostrofi contro il “capobanda” Mascagni. E poi le geremiadi di Torrefranca e di Pizzetti contro Puccini, gli insulti del giovane Casella contro la musica di Verdi, giù giù sulla china di una diffusa adorniana assimilazione dell’opera di tradizione ai prodotti di consumo privi di artisticità. Siamo reduci, quindi, da un contenzioso – tra gli studiosi, tra i critici, tra gli editori e tra i pubblici – che ha ragioni profonde, molto più di quello che si possa dire in questo breve spazio; un contenzioso che si complica e si frammenta, contrapponendo non solo modernisti e antimodernisti, strumentalisti e operisti, ma anche mascagnani contro pucciniani, gli ammiratori di Leoncavallo contro quelli di Zandonai; e via all’infinito. Questo lungo e ramificato dibattito, che ha in sostanza attraversato tutti i 150 anni dell’Italia unita, ha rivelato solo a tratti serie motivazioni culturali (tra cui le opposte idee su quale sia l’autentico animo della nazione), mostrando più frequentemente ragioni meno nobili quali lo spirito di campanile, l’innata partigianeria dei loggionisti, le immotivate idiosincrasie di questo o di quello, e soprattutto la diffusa convinzione che sia un dovere morale battersi per l’innovazione, contro coloro che si credono custodi della tradizione; e viceversa. Fino a pochi decenni fa ogni pubblicazione (o anche ogni possibile Andrea Bocelli tenore 167 le testimonianze: gli interpreti Connazionale e corregionale, porto Pietro Mascagni e le sue immortali melodie nel cuore fin da quand’ero bambino. Ancor prima che la vita adulta rendesse razionalmente comprensibili quelle dinamiche dei rapporti umani che l’autore di Cavalleria rusticana ha esaltato e narrato in musica con il proprio travolgente talento, posso dire d’aver percepito cosa sia la passione, negli aspetti finanche più impetuosi e potenzialmente insalubri, anche attraverso le sue partiture: musica che si fissa a fuoco nella memoria, grazie alla spontaneità illuminata della scrittura, alla bellezza ineffabile delle linee melodiche. Il venerato Maestro toscano esprime una genialità la cui portata rende il suo profilo artistico degno d’essere posto, senza rossori, nell’Olimpo della lirica accanto a colleghi del calibro di Giacomo Puccini e Giuseppe Verdi. Tuttavia, a differenza dei compositori citati, il musicista livornese chiede ancora ai posteri, ormai ad un secolo e mezzo dalla nascita, che si compia con la debita dedizione una piena renaissance del suo corpus compositivo. Da fruitore, ascoltatore innamorato del melodramma, frequento ed amo tante sue opere (Iris, Guglielmo Ratcliff, Zanetto, giusto per citarne alcune). Da cantante lirico, ho affrontato L’amico Fritz e Cavalleria rusticana. In particolare, ho interpretato Cavalleria, sia incidendola sia portandola sulla scena, negli Stati Uniti e presso la Deutsche Oper di Berlino. Sono molto legato a questa partitura, che chiede tanta dedizione ed altrettanta cautela: infatti, se è facile calarsi in un ruolo così ardente come quello di Turiddu, altrettanto facile è perdercisi dentro, smarrendo quella lucidità dell’atleta che un cantante deve necessariamente mantenere. La passione che si percepisce affrontando gli spartiti mascagnani può portare alla tentazione di oltrepassare i confini consentiti dalla propria vocalità. Interpretare Mascagni impone di rimanere ligi a quelli che sono i principi fondamentali della tecnica del canto, considerando la voce come uno strumento… Strumento che possiede una propria fisiologica estensione e dinamica, che richiede maggiore o minore pressione sulla corda in relazione al fatto che si voglia ottenere un forte o un piano, ma che non deve mai accondiscendere alla tentazione 168 Vinicio Capossela cantautore Lo chiamano Verismo, ma per me è solo l’inizio del grande cinema epico. I grandi temi orchestrati che ricongiungono al lato epico della nostra vita, quello dove le scelte sono irreparabili, le conseguenze gigantesche. La gran mareggiata della vita. Puccini, Mascagni, hanno questa tessitura orchestrale che porta dritta al “Nutless” nel teatrino per fumatori di oppio di C’era una volta in America di Sergio Leone. Come descrivere il miracolo di Cavalleria rusticana? Nella successione di accordi del miracoloso Intermezzo, è il cromosoma, la bios, dell’altro lato della vita. Del rovescio della vita, il negativo fotografico. Quello dove la vita si rivela nella sua interezza, per noi che ne saggiamo continuamente i momenti, brancolandoci dentro come cuccioli ciechi. Ci sono momenti in cui la vita si mostra per intero, come il Leviatano. Il suo gran sbuffo. Il destino, proprio come la balena, si comprende dalla coda, quando è già passato, e l’onda che solleva ha la musica di quell’Intermezzo. Al grande Martin Scorsese il merito di avercelo rivelato in quell’inizio magistrale del suo Racing bull, Toro scatenato. Su un bianco e nero alla Weggie, il fotografo, l’occhio indiscreto, che dormiva sintonizzato sulla radio della polizia. Su quel bianco e nero l’inizio a rallentatore del riscaldamento sul ring di De Niro-La Motta, avvolto nel suo accappatoio da leopardo. Metà del film sono le note di quell’Intermezzo. Ognuno di noi può disporre dei suoi dieci minuti di epica, tirando pugni a vuoto, avvolto nell’Intermezzo di Mascagni. Apprendere che lo abbia composto un giovane che aveva abbandonato il conservatorio per “lo spettacolo delle vanità altrui, di tante nullità che valevano pressappoco la mia”. E che si dà alla vita del saltimbanco tra le compagnie di operetta, per poi rimanere senza il becco di un quattrino in Ascoli… ma che si affida fiducioso al destino perché, come per i bevitori, c’è una Provvidenza anche per i maestri di musica. E che poi si affranca da questa vita di nomade, con una famosa fuga notturna, nientemeno che da Cerignola, nelle Puglia e poi in corsa realizza questa Cavalleria per un concorso e si precipita nella fama istantanea e continentale. Un avvenimento senza precedenti il tentativo di un giovane italiano, festeggiato in tutta Europa, non soltanto come un capolavoro, ma meritevole di venire rappresentato sulle scene tedesche. Mascagni, il solo che aveva saputo sfuggire al fascino wagneriano creando un’opera libera e sincera. E in questo ricorda il suo concittadino più alto, Amedeo Modigliani, che nella Parigi di Picasso, aveva saputo estrarre da se stesso uno stile unico, stagliato come un cristallo, pur soggetto all’influenza della più formidabile concentrazione di artisti di tutti i tempi. Affacciarsi a Livorno alla terrazza Mascagni è già come prendere il largo, quel mare da grandi spruzzi di Piroscafo, quell’arrivare del formidabile Novecento, come idea di lume, di elettricità e transatlantico… C’è già l’America su un fondale, che appare magnificente, e lascia orfani subito dopo. Nostra piccola e semplice tragedia, questo affacciarsi al più grande di noi, che miracoli come la Cavalleria rusticana ci regalano, insieme ai fazzoletti, agli ombrelli da sole, ai bagni pubblici, ai palloni aerostatici. Le grandi invenzioni dell’umanità. 169 le testimonianze: gli interpreti di forzare i suoni. In questo caso sventurato, il cantante, credendo di dare qualcosa di più in termini emozionali, viceversa impoverisce la voce delle sue armoniche. Personalmente, l’incontro professionale con la musica di Mascagni ha rappresentato, oltre ad un’avventura foriera di grandi soddisfazioni sul versante squisitamente artistico, una preziosa palestra dal punto di vista della tecnica, della gestione del suono… Ho acquisito maggior consapevolezza del fatto che la voce – mentre l’orchestra verista suona a pieno regime – non “passa” mai forzandola, bensì mettendola nelle migliori condizioni per liberarsi, individuando quel confine oltre al quale il suono anziché correre avanti, rischia persino di tornare indietro. Poiché appassionato divulgatore dei grandi tesori musicali italiani, poiché artista orgoglioso d’essere nato e cresciuto nella terra che è stata culla dell’opera lirica, non posso che auspicare una crescente consapevolezza del valore eccezionale delle partiture mascagnane, anche quelle che hanno avuto, quanto a circuitazione nei teatri, una minor fortuna; il tempo darà loro senz’altro ragione. Alcuni anni fa, in ambito pop, ho voluto offrire il mio umile omaggio al genio livornese, attraverso una canzone (nell’album Cieli di Toscana), proprio in ragione della mia convinzione che Mascagni sia un colosso della musica lirica la cui arte, tumultuosa e senz’altro rilevante anche per le generazioni future, non è ancora sufficientemente compresa. Un compositore la cui eredità musicale, al di là del suo fortunatissimo incipit operistico, rappresenta un bene comune che può ed anzi deve arrivare quanto prima al grande pubblico. Daniel Barenboim pianista e direttore Mascagni è stato uno straordinario uomo di teatro, il calore e l’intensità mediterranea della cui musica hanno pochi simili nell’Italia dell’epoca. Che Mahler abbia confessato per scritto di avere “molti punti in comune” col compositore di Livorno è segno del fatto che, anche per Mascagni, il tempo della giusta rivalutazione presto verrà. Sono sicuro che, a partire da questo anniversario, l’Italia saprà far ancor meglio valere uno dei suoi più illustri compositori. Bartoletti e l’opera popolare direttore (1925-2013) i direttori 182 Leopoldo Mugnone il primo direttore di Cavalleria rusticana, Roma, 1890, Teatro Costanzi. C’è sempre una prima volta nella vita, anche quando si è direttori d’orchestra con una carriera lunga e irresistibile dietro le spalle. Per Bruno Bartoletti, sestese purosangue e anche un po’ americano (dal 1964 è capo del Lyric Opera di Chicago), quello che andrà in scena il 19 ottobre sarà un vero e proprio debutto. Dirigerà, infatti, per la prima volta nel “suo” Comunale (sì, dice proprio così, “mio: che vuole, qui ho fatto di tutto prima di diventare direttore d’orchestra, persino il suggeritore”) sia Cavalleria rusticana di Mascagni che Pagliacci di Leoncavallo. “Due opere – spiega Bartoletti – segnate da una bella differenza. Cavalleria ha una drammaturgia perfetta ma nei Pagliacci ci sono maggiori rifiniture, soprattutto nell’orchestrazione. Altro che opera volgare, come ha detto qualcuno: in certe sfumature Leoncavallo ha anticipato l’Espressionismo”. Anche su Mascagni pesano molti pregiudizi. Per lungo tempo la critica l’ha considerato con fastidio perché “popolaresco”, e per di più fascista: “Quando un musicologo raffinato come Vlad e Muti decisero, al Comunale, di mettere in scena Cavalleria, si gridò allo scandalo. Oggi qualcosa sta cambiando: c’è un recupero di Mascagni al di là delle posizioni politiche e della sua grande fruibilità, che tanta noia ha dato agli snob. Credo anche che certe opere siano vittime di cattive esecuzioni, della routine, che non significa tradizione. Quando Karajan fu chiamato a dirigere Cavalleria alla 183 Ricordando Mascagni Roman Vlad 225 le testimonianze: la critica Arrivai a Roma nel 1938 per studiare con Alfredo Casella. Avevo diciannove anni ed ero desideroso di conoscere gli esponenti della vita musicale italiana. Tra questi, ovviamente, Pietro Mascagni. Ebbi la fortuna di assistere a un concerto che Mascagni dirigeva al Teatro Adriano con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il programma comprendeva, tra l’altro, la Quinta Sinfonia di Beethoven. Mascagni non l’eseguiva con la stereotipata perfezione tecnica di un ‘routinier’ della direzione d’orchestra, ma la interpretava con la profonda comprensione e la libertà di un compositore. Ne parlai con i miei colleghi di corso e rimasi stupito della freddezza che mostravano nei suoi confronti. Mi consigliarono pure di non lodare Mascagni davanti a Casella, perché i due compositori appartenevano a tendenze agonistiche e ostili. Non seguii i loro consigli e ne parlai con Casella, del quale avevo già intuito l’intelligenza, la saggezza e l’imparziale serenità. E Casella mi spiegò subito la situazione. Nell’Ottocento il trionfale dilagare dell’operismo aveva interrotto e fatto obliare la grande tradizione sinfonico-strumentale italiana dei secoli precedenti. Sicché all’inizio del Novecento l’Italia era totalmente priva di un repertorio sinfonico atto a reggere il confronto con quello di altri paesi europeo e particolarmente con la grande tradizione musicale germanica, che va dalla classica scuola viennese di Haydn, Mozart e Beethoven a quella romantica che da Schubert, Schumann e Mendelssohn porta a Brahms e a Mahler. Ad iniziare la rinascita di un peculiare sinfonismo italiano furono quattro compositori: Respighi, Pizzetti, Malipiero, Casella, nati nell’ottavo decennio dell’Ottocento e definiti perciò come la Generazione dell’Ottanta. Ad aiutarli nella non facile impresa ci fu una schiera di musicologi e critici che seguivano l’esempio di Fausto Torrefranca, che per parecchi anni fu l’unico titolare di una cattedra universitaria di Storia della Musica in Italia. Egli pensò che per far rinascere il sinfonismo bisognava attaccare, svalutare e dichiarare defunto l’operismo, non solo quello verista di Mascagni, Leoncavallo e Puccini, ma persino quello di Verdi. Casella condannava la faziosità di simili giudizi. Stimava Mascagni e mi spronò ad avvicinarlo. Riuscii ad avere un appuntamento con l’anziano compositore grazie all’intermediazione del critico musicale del «Il Giornale d’Italia», Fernando Se mi commuovo è perché t’amo... da Zanetto embre 2013 presso finito di stampare nel sett Genesi, Città di Castello per conto di sillabe da un’idea di Giulia Perni e Massimo Signorini