La costruzione di sé 20
La saggezza pagana. Fiducia nell’educazione razionale.
Seneca:
“la natura ci ha fatto educabili (dociles) e ci ha dato una ragione imperfetta, ma suscettibile di
perfezionamento (sed quae perfici posset) (Epistola 49, 11)
Epicuro:
“Né il giovane indugi a filosofare, né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è troppo giovani
o troppo vecchi per la salute dell’anima” (Lettera a Meneceo, 122)
“Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene ed ogni male è nella
sensazione e la morte è provazione di questa” (ivi 124)
“Quando diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto non intendiamo i piaceri dissoluti
o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o interpretano male
la nostra dottrina, ma il non aver dolore nel corpo, né turbamento nell’anima” (ivi 151).
Clemente Alessandrino:
“La conversione (metastrophé) verso il divino gli Stoici dicono che dipende da un rivolgimento
(metabolé) dell’anima verso la sapienza.” (“Stromata” IV 6)
Epitteto:
“Le cose sono di due maniere; alcune in nostro potere, altre no. […] Le cose poste in nostro
potere sono di natura libere, non possono essere impedite né ostacolate. Quelle altre sono
deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e infine sono cose di altri” (Manuale, I)
Possiamo preoccuparci dunque solo di ciò che dipende da noi, che perciò possiamo anche
risolvere. In generale le scuole filosofiche della tarda antichità, pur partendo da presupposti
diversi, insegnano il controllo di sé, come se il sé fosse “un altro” da curare e tenere a bada
(accentuazione del dualismo anima – corpo, anima – mondo, bene – male). La conseguenza è
un vivere riflessivo e – come si è detto – al servizio del sé. La parte razionale dell’anima deve
imporsi su quella emotiva irrazionale, ma si tratta di una lotta infinita.
E il sé è in realtà la alienazione simbolica di un’impotenza. Come attestano questi versi
dell’imperatore Adriano:
Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula rigida nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos 1
Il sé è il capriccioso, l’imprevedibile, l’indomabile “differenza interna” con cui è necessario
imparare a convivere. La pratica filosofica ha come meta l’atarassia (imperturbabilità) o
anche l’adiaforia (indifferenza) in cui si attua l’equidistanza da tutto. ma questa non è più la
condizione umana simile all’onnipotenza 2 . Ha mutato di senso: è divenuta difensiva. L’uomo
ora deve stare dentro se stesso come entro una fortezza ben munita.
Oltre il dualismo della ragione
Le difficoltà della disciplina stoica, di quella scettica e del continuo calcolo epicureo, ecc. (il
sé sfuggente e difficile da dominare) favoriscono l’impazienza, la ricerca di vie rapide e
risolutive, l’estasi (l’uscita dal dualismo io – sé). L’uomo divino ricercato con la ragione resta
un modello inarrivabile. Perché la “scienza del sé” - come dice Platone – non è come le altre:
“non si può in nessun modo comunicare, ma come fiamma si accende come fuoco che
balza: nasce d’improvviso nell’anima, dopo lungo tempo di discussioni sull’argomento,
e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se stessa” (lettera VII 341 c, d)
Il risultato raggiunto dalla filosofia classica greca era che il sé non è un punto nello spazio
ideale, da raggiungere e da “conoscere”, ma la pratica della giustizia, ovvero dell’equanimità,
essendo la pratica della giustizia e la padronanza di sé (autarchia) che ne è la condizione
l’equivalente umano della onnipotenza divina.
1
“Piccola anima volubile, dolce, ospite e compagna del corpo. In quali luoghi andrai ora Tu pallida,
fredda e nuda? E non potrai giocare, come al solito”.
2
secondo il criterio per cui l’equidistanza da tutto significa pari possibilità verso tutto, e questa pari
possibilità (“equipotenza”) è l’equivalente umano (una sorta di “proiezione ortogonale”)
dell’onnipotenza. Per il formalismo mitico il “pari potere verso tutto” appare analogo al “potere verso
tutto”: equipotenza = onnipotenza. AlbertoMadricardo–Lacostruzionedisé2014‐20151di4
Ma questo distacco assoluto da sé è “impossibile” da tenere entro l’ambito simbolico, che
sostituisce la pratica del soggetto con un’immagine spaziale del suo sé (come “punto interno”
da “scoprire”). Il saggio è l’uomo “senza sé”, identificato con la sua pratica della giustizia.
Questa impotenza ad essere uomini divini si può solo elaborare tragicamente “soffrendo”.
L’immedesimazione nella sorte “dell’altro” (l’eroe tragico) sostituisce l’equidistanza, la
catarsi (vedi schede precedenti) sostituisce l’equanimità. Ma poi la “cura di sé” evita anche
l’immedesimazione e non conosce catarsi. Essa pare essere allora la gestione
dell’”impotenza”, l’alienazione simbolica non più dell’equanimità, ma dello scacco. Perciò il
sé della tarda antichità è “pesante”, sempre più decisamente identificato con il senso della
colpa e del peccato. La saggezza pagana ha il suo ancoraggio nella fiducia nell’ordine
cosmico, di cui lo spirito, come ordine interiore dell’anima, è il corrispettivo. Lo spirito
partecipa dell’ordine del tutto per analogia. Cicerone (il più grande oratore romano, filosofo
eclettico):
“Quando ammiriamo le innumerevoli meraviglie (del mondo n.d.r.) possiamo forse dubitare che
ci sia qualcuno che le governa, e cioè un creatore (effector) (…) o un governatore (moderator)
di una costruzione e di un’impresa così grandiosa? Così succede per lo spirito umano (…) dalla
memoria, dall’invenzione, dalla velocità di movimento e dalla bellezza di ogni sua qualità devi
riconoscere la forza (vim) divina dello spirito (mentis) (Tusculanae Disputationes I, XXVIII).
Ma poi si diffonde una diffidenza e disistima verso questo mondo, e la voglia di fuggire da
esso come da una prigione. Il pessimismo è di origine sia politico sociale:
“Solo la democrazia è buona nutrice delle grandi opere, e che – in un certo senso –insieme ad
essa sola fiorirono i grandi della letteratura, e con essa morirono (…) noi uomini del nostro
tempo sembriamo invece essere stati sin da bambini allevati a una grande schiavitù (…) per
questo noi finiamo con il non essere altro che sublimi adulatori” (Longino “Del sublime”
XLIV, 2-3).
che cosmica:
“…terram atque ignem mortalia sumpsi
esse, neque umores dubitavi aurasque perire” 3
Lucrezio “De rerum natura” V 249
“Denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo
Non altas turris ruere et putrescere saxa,
non delubra deum simulaccraque fessa fatisci (…)? 4 ,
Denique non monimenta virum dilapsa videmus (…)?” 5
(ivi, 306- 311)
sul reale ordine del mondo (acosmismo) e il senso di estraneità ad esso è connesso
particolarmente al platonismo, alla Gnosi, all’escatologia ebraica e cristiana e al mazdaismo.
Come e perché è avvenuto questo mutamento di senso? E’ una domanda aperta.
Oltre la conoscenza del logos, che è “dianoetica” (conoscenza discorsiva) c’è quella
“noetica” (la conoscenza intellettuale, intuitiva, estatica ed ineffabile), che propone la énosis
(l’unione) con il tutto divino.
Nella tarda antichità si diffonde la convinzione che la saggezza sia “preclusa” all’uomo solo
razionale, e possa essergli comunicata solo per rivelazione (apokálupsis - apocalissi) 6 .
Insieme al crescere del senso di colpa si radicalizza l’idea del “dio incognito” (ágnostos
theós, deus incognitus ), che “ignora e disprezza l’analogia entis” 7 (la familiarità con il
creato) – proposta. Come abbiamo visto per esempio da Cicerone e in genere dalla filosofia -
“Sostengo che la terra e il fuoco sono mortali, e non dubito che le acque e l’aria periscano” “Non vedi che anche le pietre sono vinte dal tempo, che anche le alte torri e le rocce si logorano?”
5
“Infine non vediamo che anche i monumenti dei grandi uomini crollano?”
6
La rivelazione può avvenire in diversi modi. Uno dei più apprezzati è quello del sogno, vedi per
esempio Cicerone (“Somnium Scipionis”),Elio Aristide (“Discorsi sacri”), Artemidoro che scrive un
trattato (“Onirocritica”) sull’interpretazione dei sogni, ecc. 7
G. Filoramo “L’attesa della fine Storia della Gnosi” Ed. Laterza, Roma Bari 1987 p. 42. 3
4
AlbertoMadricardo–Lacostruzionedisé2014‐20152di4
e sta infinitamente lontano da questo mondo, essendo il suo rapporto con esso sempre più
mediato da potenze intermedie 8 .
L’elaborazione dello scacco del logos è la fede (pistis), che costituisce un‘indiretta radicale
critica del logos. In quanto esso – la filosofia - ha dimostrato di non saper andare oltre ad una
gestione “tecnica” (la cura) della differenza. Nel logos c’è un presupposto sbagliato, che
l’uomo possa chiedere conto all’essere del suo essere, mentre in realtà egli è in “debito
d’essere”, debito che egli può ripagare solo per mezzo della fede, che nasce dalla
consapevolezza che l’esistenza umana non può appoggiarsi a nulla, “non ha base”. Perché il
mondo non è eterno, come credevano Aristotele e almeno in parte e in vario modo tutta la
filosofia, ma creato ex nihilo. Alla base di tutto c’è dunque l’assurdo (il tutto dal nulla), la
dipendenza assoluta da dio, al quale si può solo affidarsi “nello slancio” (hormé).
Filone, quando dice: “a noi non resta che tenerci a mezza strada tra il compimento e il
principio” (vedi cit. scheda 19) propone una rinuncia dell’uomo alla posizione “onnipotente” onnivedente dello “spettatore” del tutto 9 , perché è proprio dello spettatore di pretendere di
riunire in un’unica visione panoramica il principio e la fine. Propone anche la rivalutazione
della parzialità “consapevolmente vissuta”, quando aggiunge: “imparando, insegnando,
lavorando la terra e facendo ogni cosa come se conducessimo davvero a termine qualcosa, in
modo che, anche ciò che appartiene al divenire sembri fare qualcosa” (ibidem).
Qui non è detto che imparare, insegnare, lavorare la terra, ecc. conduca a temine qualcosa,
ma è “come se conducesse a termine qualcosa”: l’uomo non impara davvero, non è un vero
contadino, non è un vero insegnante, ma è un “attore” della sua parte sulla scena del mondo:
“in modo che, anche ciò che appartiene al divenire sembri fare qualcosa”. La differenza viene
esteriorizzata (chi è nulla non è nemmeno differente) riconsegnata a dio e, per quanto
riguarda l’umano, ridotta ad apparenza.
Si può forse affermare che in Filone c’è un’indiretta rivalutazione della tecnica ( come “fare
per il fare”). Non è la tecnica che si occupa di mezzi e non di principi e di fini, ma sta “in
mezzo” tra di essi: “en tõ methorìo télous kaì archês”? 10 Non riduce essa la differenza alla
infinita ripetizione della macchina?
L’estasi è l’esperienza di trascendimento dell’umano sia nel campo della filosofia, sia in
quello della religione. Ma si tratta di estasi diverse: per autoannullamento o per unione di sé
con il tutto.
Nell’esperienza religiosa la pistis, a differenza del logos, non ha base (il mondo è creato dal
nulla), è infondata, consiste in un affidarsi che riconosce nell’estasi la nullità dell’umano
(Filone).
Sulla via filosofica (il mondo è, in vario modo, eterno) il logos lascia il campo al nous,
all’intelligenza che è la facoltà dell’unire e dell’intuizione intellettuale, con cui l’uomo in
quanto reso simile al divino esce da se stesso e si congiunge al divino 11 . L’alternativa è
8
“Il problema della mediazione, che caratterizza in modo così acuto il pensiero dell’epoca, riceve, a
seconda delle situazioni, risposte diverse. L’elemento in comune che queste offrono è dago dal
generale moltiplicarsi di principi intermedi, potenze mediatrici tra il Dio ineffabile, sconosciuto e
trascendente, e il mondo della materia transeunte e corruttibile.” (ivi. p.42-43). 10
Qui non c’è, come in Aristotele la ricerca del “giusto mezzo”: per calcolare il giusto mezzo è
necessario vedere sia il principio che la fine. In Filone c’è la proposta all’uomo di riconoscersi perduto
nella parte che gli è capitato di avere, e di agire “come se” essa fosse connessa ad un principio e ad una
fine. Ma sapendo che così non è - come il contadino che zappa la terra sulla scena teatrale non zappa
davvero - in modo che “sembri”. L’uomo che “fa dei gesti” è disancorato dal tutto e perciò annullato.
Ma proprio attraverso l’annullamento
raggiunge l’onnipotenza, per il principio mitico della
intercambiabilità degli opposti. Del resto non aveva detto Eraclito che “la via che scende e la via che
sale sono la stessa cosa”(fr. 60)? La via dell’ascesa alla visione panoramica del tutto e quella del suo
negativo annullarsi nella parte coincidono. 11
Già Platone aveva esaltato la conoscenza estatica. Nello “Ione”: “il poeta è un essere leggero, alato,
sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio, se prima non sia uscito di senno e più
non abbia in sé intelletto. Chi possegga intelletto è incapace di poetare e vaticinare” (534 b). Nel Fedro:
“Ora i più grandi doni ci provengono da quello stato di delirio (manía) datoci per dono divino”(244b). AlbertoMadricardo–Lacostruzionedisé2014‐20153di4
dunque tra l’abbandono al divino (religioso) e l’unione con il divino (filosofica) in particolare
dal Neoplatonismo e nella Gnosi, che crede di realizzare finalmente lo spettatore universale:
“prima di essere un procedimento cognitivo del solo intelletto, la conoscenza gnostica è
esperienza, un’esperienza vissuta di rigenerazione spirituale. E’ una conoscenza trasformante,
che ha per effetto immediato la salvezza. Chi conosce, infatti conosce ora la propria origine,
chi egli era veramente agli inizi. E conoscendo la propria arché, conosce anche il proprio télos:
il destino che d’ora in avanti lo attende sarà il ricongiungimento con la controparte celeste del
suo Io, il ritorno definitivo al mondo divino, la sua vera patria” (…)“Conoscere” significa ora
“diventare quella stessa realtà che si conosce”, trasformarsi mediante l’illuminazione
nell’oggetto stesso della conoscenza, superando e annullando la dicotomia tra soggetto e
oggetto” (Filoramo, cit. nota 3, p.67).
L’ansia è in ogni modo quella di salvarsi, di uscire da questo mondo destinato al naufragio e
risalire alla “vera patria” “lassù” come dice Plotino:
“sono due le ragioni per cui l’unione dell’anima con il corpo appare insopportabile: perché essa
è di ostacolo al pensare (empódion pròs tàs noéseis), e perché riempie l’anima di piaceri, di
brame e di dolori” (Enneadi IV 8, 2, 40)
(per l’anima)”il corpo è prigione e sepolcro e il mondo è caverna ed antro” (ivi 2, 50 - 3 5)
Qual è la salvezza? Per Plotino l’estasi e la contemplazione dell’Uno, che è ineffabile. La vita
dell’uomo divino è “fuga di solo a solo” e il veggente è “una cosa sola con l’oggetto visto”.
Per l’approccio gnostico l’uomo può avere la visione panoramica del tutto, ma per acquisire il
marchio di salvezza:
“Per acquisire il marchio di salvezza, per entrare a far parte della comunità dei “figli della luce”
occorre allora una conversione, un mutamento radicale interiore prima che esteriore, nella
propria vita” (Filoramo cit. p.48)
Per quello religioso è impossibile “l’uomo che diventa simile al divino”, come pretendono i
Greci e gli gnostici. E’ l’umano che fa da ostacolo. Tolto il quale, sarà il divino, in virtù della
grazia (charis), a discendere nell’uomo in sé annullato.
La fede (che nasce dal sapere di non sapere, non la credenza, che è “non sapere di non
sapere”) si attua nello slancio della rinuncia a sé.
La tendenza generale dei primi secoli dell’Impero, è la svalutazione della ragione e della
conoscenza dianoetica a vantaggio dell’intuizione, dell’ispirazione, della possessione estatica:
insomma della mistica). Il superamento della differenza, il superamento dell’umano, sia per
“unificazione” (hénosis) con l’indiviso: il divino. Ma senza più il vaglio critico del logos c’è
spazio per ogni sedicente profeta e “uomo divino”, per ogni impostura.
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