Domenico Turco
La fine della Filosofia
Sommario
1. Introduzione
2. Dalla filosofia al pensiero: Heidegger
3. Derrida e l'orizzonte della "fine".
4. Rorty e la "fine" della filosofia.
Bibliografia
Note
1. Introduzione
Le teorie del testo e del testo filosofico occupano lo stesso spazio della questione
della fine, nel senso che si situano nel contesto della metafilosofia e delle sue
prospettive. Per metafilosofia si deve intendere la tematica, ancora filosofica, in cui
la speculazione si interroga su sé stessa, sui propri fini e sui propri confini. La
discussione stessa sul testo filosofico è possibile in una cultura post-filosofica, cioè
quella forma di pensiero nella quale il lavoro filosofico riconosce come suo compito
specifico il tema della fine in filosofia. Già il fatto stesso di mettere in discussione la
nozione classica di filosofia impone comunque alcune riflessioni preliminari di
carattere generale, che anticipano i temi della presente trattazione.
Innanzitutto, interpretare la "fine" della filosofia significa constatare il compimento
di un secolare processo di erosione che trova i suoi antecedenti nell'Età moderna.
L'Illuminismo, che si può considerare il primo movimento di pensiero apertamente
anti-metafisico, tenta infatti di opporsi alla tradizione con un programma
riformatore che si estendeva alle varie espressioni della cultura vigente, ancora
impregnata di scolasticismo e non collegata organicamente con le scienze
sperimentali. Ma se l'Illuminismo è il punto di partenza, il punto di arrivo non è
riducibile dietro una formula unitaria e un movimento di pensiero monolitico, ma si
scandisce in tempi e modalità diverse in una direzione ellittica (non più lineare).
Queste pagine riguarderanno appunto l'apertura di una pista collaterale, di un
percorso molto impervio che si è definito come fine della filosofia ma che in realtà
nasconde forse un "nuovo inizio" per la filosofia e i suoi particolari linguaggi.
Il tema della fine in filosofia, infatti, indica in modo radicale una rottura
epistemologica di carattere epocale, che può significare la fine del pensiero
classicamente inteso, anche se il rifiuto del pensiero tradizionale nasconde in molti
casi una visione scettica che, sbarazzandosi del concetto di verità, accentua la crisi
del soggetto e la relativa, nichilistica svalutazione dei valori più elementari della
spiritualità umana. La filosofia contemporanea si avvale di tre vie diverse per
giungere a proclamare la sua fine.
Con la dialettica hegeliana, la filosofia speculativa sembra essersi dissolta in un
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raggiunto compimento, una apoteosi che corrisponde ad un oltre-passamento
(Aufhebung, cioè compimento e realizzazione) dei suoi fini per una destinalità
intrinseca al suo processo evolutivo. Tipici protagonisti della linea
dell'autosuperamento come cifra per comprendere la fine della filosofia sono -pur
con esiti e stili di pensiero molto differenti- Heidegger e Derrida, i quali propongono
un analogo percorso speculativo di emancipazione dal pensiero tradizionale. La
seconda via è intimamente connessa con la "rivoluzione scientifica" e alla
conseguente trasmutazione del sistema dei saperi, risalente a fine Ottocento.
La filosofia è finita perché ha dato vita ad una serie di scienze particolari che si
prendono cura delle sue tematiche classiche, scienze fisico-biologiche ma anche
scienze umane; è una fine -per così dire- per frammentazione e concentrazione su
obiettivi più particolaristici che ha limitato sensibilmente il campo d'azione della
filosofia, con il rischio di fornire delle spiegazioni incomplete e settoriali (tipiche
delle scienza) in luogo di una comprensione completa e universale (tipica della
filosofia) della realtà nelle sue varie sfaccettature.
La terza via dipende in parte dalla prima e in parte dalla seconda, e scaturisce
dall'inadeguatezza della filosofia a fronte di un mondo dominato dalla scienzatecnica, che dovrebbe far preferire un tipo di conoscenza pragmatica che si fondi
sul riconoscimento della natura empirico-fattuale dei diversi saperi e sul primato
della frammentazione della ragione in una molteplicità di ragioni profondamente
differenziate tra di loro. È la via del post-moderno, teorizzata da Lyotard1 , ma su
cui non intendo soffermarmi -a causa dei limiti di spazio imposti al presente lavoro, concentrandomi sui tre interpreti più significativi del tema della fine in filosofia:
Martin Heidegger, Jacques Derrida e Richard Rorty. Il tratto più caratteristico di
questi filosofi è di essere in qualche modo collegati alla prima linea, post-hegeliana,
che si è definita come linea dell'autosuperamento.
L'idea stessa di una fine della filosofia come autosuperamento, benchè non nuova,
viene integrata da questi pensatori con la tematica del post-moderno, con esiti
originalissimi.
2. Dalla filosofia al pensiero: Heidegger
Nel testo di Heidegger "La fine della filosofia e il compito del pensiero2, incluso in
Tempo ed essere, la tematica (hegeliana) della fine, per autosuperamento, della
filosofia, viene integrata con la tesi della dispersione di quest'ultima nelle ontologie
regionali rappresentate dalle scienze.
La filosofia è finita.
Ma per Heidegger questo non deve indurre a trovare delle cause esterne alla fine
della filosofia; essa è morta in seguito ad un fisiologico esaurimento delle sue
energie.
In origine la filosofia fu inventata per sopperire alla ricorrente interrogazione sui
diversi significati dell'essere.
L'intensificarsi di tal pratica -una serie quasi interminabile di domande- ha spinto
la filosofia a dissolversi-realizzarsi nelle varie scienze, che hanno preso il suo posto.
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La storia della filosofia, di questa continua interrogazione relativa all'essere, è
anche storia di un progressivo oblio dell'essere da sé stesso. La fine della filosofia
era implicita nell'interrogazione sull'essere che per tanto tempo essa è stata,
toccando l'apice con l'avvento dell'età umanistica della speculazione greca, l'età dei
Sofisti, di Socrate e di Platone. Con questi filosofi l'asse dello speculativo si
concentra non più su una generica physis, ma si tipicizza in relazione all'uomo, alle
sue possibilità di essere e ai suoi atti di vedere (prospettive).
Il destino della filosofia era segnato già nelle sue origini post-mitiche, in quanto,
per Heidegger, una attenzione impropria (possessiva) verso l'uomo è indice di una
negazione dell'essere, che coinvolge la realtà originaria, precategoriale.
La dissoluzione del sapere filosofico nei saperi scientifici è una dissoluzione della
"domanda sull'essente" in categorie strutturate in vista dei loro oggetti di ricerca.
Queste categorie, o "concetti strutturali", valgono solo ed esclusivamente per
determinati ambiti (le ontologie regionali di Husserl): alle scienze, infatti, non
occorre approfondire la questione dell'essere. Alle categorie fondanti la scienzatecnica Heidegger attribuisce unicamente funzione orientativa (cibernetica),
negando che possano pervenire al senso ontologico.
L'analisi heideggeriana del mondo tecnico-scientifico ne rileva i caratteri di sapere
metodico, strumentale, perdutamente scisso in una varietà di ambiti discreti
incapaci di pervenire alla verità autentica. Questa concezione potrebbe richiamare
l'idea del Croce, di un valore economico delle scienze, cioè principalmente pratico
(funzionale), e ancor più la visione della scienza-tecnica di Husserl, da un lato, e di
Adorno/Horkheimer dall'altro.
Tuttavia ci sono delle differenze di non poco momento.
Mentre i teorici della Scuola di Francoforte ritenevano indispensabile una presa di
coscienza filosofica che fosse rivolta al mondo non filosofico per causarne il
livellamento, Husserl pensava invece che la filosofia fosse portatrice di un certo
valore di scientificità, anche se detto valore si contrapponeva del tutto alla
scientificità delle Naturwissenshaften.
Entrambi -sia Husserl che i Francofortesi- concordavano sulla necessità di
mantenere una razionalità discorsiva, e non avevano particolari problemi nel
definire questa razionalità come filosofia. Heidegger non la pensava così, o almeno
non nel trattatello La fine della filosofia e il compito del pensiero.
L'autore di Sein und Zeit pone ora il problema dei rapporti tra filosofia e scienza, in
termini di contiguità piuttosto che di sfida. Infatti filosofia e scienza si trovano
collegate per il comune riferimento alla semplice-presenza, e come questa possono
e devono essere bandite. Dal punto di vista speculativo, Heidegger fa valere la
dialettica filosofia-pensiero. La filosofia, intesa come l'onda lunga che va dalla
metafisica alla scienza, deve finire proprio perché il pensiero se ne svincoli
assumendo il suo ruolo.
Ciò che Heidegger rimprovera alla filosofia, confluita poi nella scienza-tecnica, è di
aver preteso che l'oggettivismo scientifico costituisse l'unica via per raggiungere la
comprensione del reale. Heidegger non crede che le scienze esatte riescano a
comprendere, tutt'al più riescono a conoscere. La filosofia tradizionale recepisce
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l'essere come datità rivolta di fronte al modo-di-vedere umano come sguardo non
problematico sul Tutto-avvolgente, per usare un termine caro a Jaspers. La realtà è
un plesso di cose presenti, di cui si può liberamente disporre in vista di un'azione
immediata. Heidegger spera di imprimere al pensiero una svolta pre-filosofica, che
lo liberi dalle impenetrabili maglie dell'oggettivismo antropocentrico (filosoficoscientifico).
"C'è per il pensiero -scrive Heidegger- oltre l'ultima possibilità così definita (la
risoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate), una prima possibilità, da cui il
pensiero metafisico dovette certamente partire, ma che proprio in quanto filosofia
non fu in grado di esperire e di intraprendere?"; il Filosofo ipotizza che, a seguito di
quanto appena detto, "celato in tutta la storia della filosofia, dal suo inizio alla sua
fine, dovrebbe essere ancora riservato al pensiero un compito che non era
accessibile né alla filosofia in quanto metafisica, né, vieppiù, alle scienze, che da
essa derivano3. Il fatto che, muovendo dal rifiuto della tecnica moderna, spunti
all'orizzonte la possibilità di un "nuovo inizio", esemplificato dalla trasformazione
della filosofia in pensiero, non rende tuttavia positivo il compito delle scienze.
Heidegger ha sempre un atteggiamento polemico verso la visione del mondo
suggerita dalla scienza-tecnica, soprattutto negli scritti successivi alla Kehre.
In Che cosa significa pensare?4 Heidegger aveva già scritto che la scienza non
pensa, appunto per rilevare la scarsa attitudine delle scienze ad un
approfondimento delle leggi che regolano l'essere, approfondimento impossibile alla
scienza-tecnica data la sua natura particolaristica, il suo continuo frammentarsi in
ontologie sempre più regionali. L'atomizzazione del sapere rende improponibile la
ricostruzione di una filosofia pura, aliena dalla tendenza oggettivistica. Una
rifondazione più sicura del sapere potrà aversi su nuove basi; dalle ceneri della
filosofia nasce il pensiero.
L'ambiguità con cui Heidegger descrive l'emancipazione del pensiero dalla tecnica e
dalla filosofia moderne ha fornito due chiavi di lettura molto differenziate. Mentre
alcuni rilevano una positività della tecnica come giusto compimento della filosofia,
altri mettono l'accento soprattutto sul momento negativo costituito dal tratto finale
della metafisica, la tecnica o scienza, come selva oscura in cui si aggira un
inquietante oblio dell'essere. La filosofia di Heidegger è presentata come un
pensiero libero più vincolante del pensiero post-originario; ciò potrebbe far credere
tutto e il contrario di tutto, e la critica fa quello per cui è stata creata: tessere il
vento, esattamente come Stephen Dedalus nell'Ulisse di Joyce.
In primo luogo, esiste la posizione di chi caratterizza il pensiero pre -filosofico o
post-filosofico di Heidegger come la riscoperta di un'altra ontologia, quella proposta
da Parmenide prima della svolta umanista del V secolo, che dovrebbe ri(con)durre
l'umanità ad un rapporto autentico con l'essere, che la modernità ha travolto e
stravolto senza avere contezza delle sue disfunzioni. In secondo luogo, c'è la
posizione -molto ingenua e pretestuosa- di chi caratterizza questo nuovo pensiero
heideggeriano come una sorta di razionalità ancestrale, veggente e rapsodica, in
ogni caso riconoscibile per un certo stile retorico, originario, privo di radici con la
cultura e la civiltà, profondamente a-storico e pregno di una arcaicità che sta
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stretta a Heidegger, principalmente per la sua straordinaria modernità di vedute. In
terzo luogo, vi è una posizione che secondo me potrebbe costituire la risposta
probabile (non la più vera) alle tesi di "La fine della filosofia e il compito del
pensiero", cioè la spiegazione per la quale l'altro pensiero di Heidegger corrisponda
al pensiero credente. Questa soluzione si collega al giovanile interesse di Heidegger
per la teologia e al tono kerygmatico con cui ama presentare le sue tesi più
caratteristiche.
Infine, c'è la posizione di un nutrito gruppo di neo-nietzschiani che vede
nell'attenzione al pensiero la volontà di ripristinare uno spirito conforme a un certo
riso e a un certo passo di danza, con la conseguente messa in primo piano della
triade "folle-artista-bambino", con la sua vis polemica diretta al dominio delle
istituzioni politico-sociali. Questi temi, tutti derivanti da interpretazioni differenti
della stessa opera in cui l'autosuperamento della filosofia si risolve in una
indeterminata speranza rivolta alla fondazione di un pensiero post-filosofico,
definiscono lo spazio vitale di un dibattito ancora aperto.
3. Derrida e l'orizzonte della "fine".
L'ultimo Heidegger si sentiva investito da una missione storica: tentare, se
possibile, di superare l'autosuperamento della filosofia. Risultato immediato di
questo estremo, non più nichilistico punto di vista, è la nascita del pensiero dallo
spirito della filosofia. Un esito del genere, che oppone il polo (negativo) della filosofia
al polo (positivo) del pensiero, è segno di una costruzione artificiosa che rimane pur
sempre correlata al filosofico.
Il compito del pensiero è presentato come un "nuovo inizio", post-filosofico, della
cultura non (più) scientifica; tuttavia questa rifondazione post-filosofica del sapere
ha un sostrato (nel senso, greco, di upokèimenon) che la lega indissolubilmente alla
filosofia. È questo che fa di Heidegger un "metafisico", almeno nell'interpretazione
di Derrida.
Lo stesso concetto di fine è -per l'autore di Marges de la philosophiecontraddittorio. Ciò che perviene alla fine muove da un principio impensabile,
indicibile, ecc…inoltre, la parola fine ha un che di apocalittico, una tonalità
kerygmatica che Derrida valuta in termini, apparentemente, negativi. In realtà, la
contraddizione di una fine che presuppone un principio dall'aria vagamente
metafisica, viene giustificata come sfondo di una congiuntura a-temporale o pretemporale, malamente recepita come un processo finito, irripetibile, definitivo (dato
una volta per tutte). Per Derrida la stessa fine della filosofia non è un evento tra gli
altri, un evento di tipo storico o temporale.
Nel testo "Su un tono apocalittico adottato di recente in filosofia5", Derrida sviluppa
con insolita chiarezza il tema della fine nella cultura umana (non solo filosofica) :
"L'Occidente è stato dominato da un potente programma che era anche un
contratto non rescindibile fra discorsi della fine. I temi della fine della storia e della
morte della filosofia ne sono semplicemente le forme più comprensive, massicce e
compatte […] Non è forse vero che tutti i dissidi hanno preso l'aspetto di un
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sovrappiù di eloquenza escatologica, che ogni nuovo venuto, più lucido dell'altro,
più vigilante e anche più prodigo aggiungeva: ve lo dico io, non è solo la fine di
questo ma anche e soprattutto e anzitutto di quello, la fine della storia, la fine della
lotta di classe, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del
cristianesimo e della morale […] la fine del soggetto, la fine dell'uomo, la fine
dell'Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra […] e anche la fine della
letteratura, la fine della pittura, l'arte come cosa del passato, la fine dell'università,
la fine del fallocentrismo e del fallogocentrismo, e di che altro?".
I differenti temi della cultura occidentale non sono che punti più determinati di un
progetto più vasto, che si eventua nel solco di una coscienza della fine che è
costitutiva al sapere in sé. I processi riscontrabili nell'ambito della cultura si
organizzano sotto forma di un auto-superamento, di una "fine" come constatazione
del trascendimento che le varie attività dello spirito operano sui propri orizzonti. La
fine della filosofia è anzitutto fine di un certo tipo di filosofia, ma non è una fine che
si collochi nel tempo, è una fine che va al di là del tempo e della storia.
La vera filosofia è negazione di tutte le filosofie, presa di coscienza anti-filosofica
che "gioca" con i termini della lingua filosofica tradizionale. Derrida "usa" la filosofia
contro sé stessa, e la sua prosa svolge le fila di un progetto unitario:
l'autosuperamento della filosofia mediante la sua De-costruzione. La Decostruzione è per un verso riscrittura "ironica" dei testi filosofici, e per l'altro
esercizio atipico di quella tradizione filosofica che si vorrebbe negare.
Il termine De-costruzione è stato introdotto nel linguaggio filosofico da Heidegger in
Sein und Zeit (1927). In quest'opera la Destruktion corrisponde all'atto di
distruggere e de-costruire la "storia dell'essere" come semplice presenza. La parola
assume una tonalità diversa, in Derrida, già nel libro del '67, "Della
grammatologia6".
Qui la De-costruzione indica la contestazione del logocentrismo, cioè della tendenza
ad ipostatizzare (rendere reale) l'essere inautentico della presenza e a privilegiare
l'identificazione phonè/lògos. Derrida rileva la correlazione tra decostruzionismo e e
scrittura, corrispettivo non-metafisico al binomio voce (presenza) e logocentrismo. Il
rapporto tra decostruzione e scrittura è molto importante proprio perché ha fornito
una chiave di lettura in termini decostruzionistici alla teoria del testo e alla critica
letteraria. Frutto del ritrovato connubio tra filosofia (decostruzione) e scrittura
(letteraria) è la trasformazione della filosofia in retorica dell'elocuzione,
trasformazione così radicale che può far parlare non già di una concezione originale
della filosofia ma della fine di questa pratica millenaria.
Il Filosofo fa sue le parole di Nietzsche: la verità è divenuta favola; della stessa
favola i meta-fisici sono sempre stati narratori e contraffattori. Tuttavia ciò che
rimane al vero filosofo (di cui Derrida vuol essere il prototipo, nel senso etimologico
di primo modello valido) non è di invalidare del tutto la tradizione, ma di giocare
con i suoi frammenti per costruire un nuovo progetto di senso nel quale l'esigenza
stessa di un senso o di una verità non è che cifra di una trama irreale,
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affabulatrice. Dalla tradizione filosofica Jacques Derrida eredita la possibilità che il
filosofo sia narratore e contraffattore; diversamente, però, sa che la verità è
metafora, sortilegio, carezzevole inganno.
Venuto subito dopo di loro (si tratta dei meta-fisici), Derrida sembra attratto da
quella tradizione filosofica che costituisce il sottofondo, ironico e mistico (non
teosofico), del suo ininterrotto poema sinfonico. L'opera del filosofo-artista (un
inarrestabile work in progress) non somiglia per niente a un concerto, bensì a una
melode unitaria che si divide di continuo in frammenti esplosivi di suono, un
incendio di note o fuochi di parole che indicano un processo dialettico che si è
sbarazzato ormai della sintesi. La tesi, soppiantata dalla diffèrence, non è -come ci
si potrebbe aspettare- controbilanciata dalla identità ma dalla diffèrance, termine
negativo che sembra indicare un permanente stato d'assedio costitutivo della realtà
pre-originaria.
La fine della filosofia è l'inizio di una rivoluzione che confonde, senza assolutizzarle,
parole e cose. La diffèrance è un concetto trans-specifico e trans-generico, non
inserito in una specie o un qualsiasi genere, dunque non si pone mediante gli
schemi consueti della metafisica e della logica tradizionali, rappresentando così
l'immagine sensibile della desuetudine e l'orizzonte tipico dell'Inarticolato.
Come la de-costruzione, anche la diffèrance -che è più originaria e conclusiva
dell'essere stesso- è una posizione di op-posti che si ritrae dall'armonia senza
indulgere alla disarmonia. Nella prospettiva derridiana la storia dell'essere è
metafisica, mentre la filosofia della diffèrance trascende metafisica e filosofia per
farsi annuncio kerygmatico di un èschaton irraggiungibile. L'apparente
contraddizione ( essenza dello stile, tra il rapsodico e il parodistico, di Derrida) è in
realtà indizio di una contra-differenza assoluta, ma che ha di gran lunga trasceso
l'assolutezza di principio del principio (fondamento) e della conclusività della fine,
pur che sia, ontico-ontologica.
Né l'ontico, né l'ontologico possono fornire l'ultima parola sul mondo e le sue regole
senza regola propria che non sia la diffèrance. La diffèrance non è semplicemente
l'esasperazione della differenza come antitesi dell'identità classica, ma si presenta
in termini di radicale -nel linguaggio dei botanici, ciò che si collega alle radicialterità. "Ora la parola diffèrence (con la e) -scrive Derrida- non ha mai potuto
rinviare né al differire come temporeggiamento né al dissidio [diffèrend] come
polemos. È questa perdita di senso che la parola diffèrance (con la a) dovrebbe economicamente- compensare. Essa può rinviare nello stesso tempo alla
configurazione dei suoi significati; e immediatamente e irriducibilmente polisemica
e ciò non sarà indifferente all'economia del discorso che cerco di tenere7". Derrida
non intende definire la differànce, perché quello di diffèrance è un senso altro, si
identifica con l'Altro -la struttura originaria del reale- e come tale si sottrae allo
sguardo di chi intende esplorarlo.
Il rinvio della diffèrance al temporeggiamento, quasi una reminiscenza -piuttosto
evanescente- del tempo come durata alla Bergson, e al polemos come guerra
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reciproca delle parti e del Tutto-avvolgente, guerra a-storica e pre-storica dove in
tutte le battaglie non si fa mai menzione del vincitore. Quel qualcosa che si lascia
additare come diffèrance, non ha forma né attiva né passiva, con più adeguatezza
essa proclama e ri-chiama la voce media.
Nel designare i modi della diffèrance Derrida fa uso di antinomie che colorano la
sua prosa di un tono mistico, tipico del linguaggio sacro o sapienziale.
La diffèrance è un'operazione che non è un'operazione, e inoltre non si lascia
pensare dalle categorie del pensiero ordinario, né come azione né come passione di
un soggetto su un oggetto, né muovendo da un agente né muovendo da un
paziente.
In tal modo, la diffèrance è forse una espressione -più intuitiva che razionale- della
molteplicità del reale.
L'autosuperamento della filosofia, la sua docile fine, sembra confondersi con la
diffèrance stessa.
L'orizzonte della diffèrance è come un cerchio in cui principio e fine convergono, e
l'orizzonte della fine è traccia di un "nuovo inizio". La filosofia, evolutasi in una
sorta di euristica post-moderna, può esprimere ancora la sua vitalità nel momento
della sua fine mediante le parole di T.S. Eliot "nella mia fine è il mio principio"…
4. Rorty e la "fine" della filosofia.
La filosofia di Derrida era fondata su un punto di vista non (più) filosofico. In effetti,
questa filosofia tendeva a risolversi in una retorica dell'elocuzione, erede sia della
filosofia che della letteratura e come queste collegata a un nuovo protagonista della
speculazione post-filosofica: il testo. Vicino ad alcune posizioni di Derrida,
l'americano Richard Rorty propone una analoga trasformazione della filosofia in
una teoria del testo, o testualismo, del tutto aliena da tentazioni di stampo
metafisico. Rorty si ricollega alla linea, post-hegeliana, dell'autosuperamento come
cifra della fine in filosofia. Per Rorty l'epistemologia mantiene ancora una specifica
funzione "filosofica", benchè si tratti soprattutto di una funzione tecnica o
descrittiva.
Ma dopo la critica di Heidegger all'oggettivismo scientifico non è più possibile
credere in una filosofia in qualche modo scientifica. Rorty fonda la sua concezione
post-Filosofica della filosofia sulla base di due tradizioni contrapposte: da un lato il
pensiero continentale, dall'altro quello analitico.
Dal pensiero continentale eredita la posizione anti-scientifica, mentre dal pensiero
analitico ricava una tendenza implicitamente anti -filosofica. Questo non implica
affatto, come avveniva in Heidegger, una svalutazione della filosofia mirante alla
creazione di un pensiero che da essa derivi come sua logica prosecuzione, ma -più
precisamente e concretamente- il riconoscimento di un ruolo debole della filosofia
nella società moderna.
In un mondo sempre più post-filosofico, dove è definitivamente venuta meno
l'esigenza dell'universalismo e della filosofia cosmovisionale, intesa come una teoria
che pretende di fondare una visione globale della realtà circostante, Rorty crede in
una necessaria trasformazione della filosofia militante.
La filosofia non dev'essere interpretata come ricerca della verità, ma piuttosto come
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una grande conversazione tra liberi pensatori, anche se Rorty ritiene che, in genere,
l'intellettuale non dialoghi mai direttamente con altri intellettuali, avvalendosi
sempre della mediazione del testo per raggiungere le tesi altrui.
Il post-filosofo è scrittore di un "genere letterario" particolare, la filosofia, che deve
pur sempre fare i conti con la tradizione del pensiero occidentale. Narratore e poeta
che insegue i sogni dell'umanità e li trasforma in pensieri, il post-filosofo incarna la
figura dell'ironista, cioè di chi sperimenta la situazione storico-temporale e lo
status di revocabilità delle sue posizioni, le quali possono sempre essere poste in
dubbio, e nonostante questo rischio le espone riconoscendone la loro intrinseca
contingenza.
Il post-filosofo (come già il filosofo tradizionale, ma con un grado d'intensità
maggiore) sa che il suo theorèin è una pratica auto-confutatoria, costitutiva al
compito del pensatore che va al di là del pensiero forte e della verità inautentica.
Con Rorty sembra aprirsi una nuova via per oltre-passare la filosofia, un percorso
che trascende dal tema della fine per concentrarsi sul day after, il giorno-dopo
come fondamento di un diverso ordine intellettuale e morale, che nella triade
Dewey-Heidegger-Wittgenstein ammette di voler trovare qualcosa in più di tre punti
di riferimento, cioè una nuova concezione terapeutica (antifondazionale) della
filosofia, diretta non solo o non tanto a chiarificare il pensiero, bensì ad ampliarne i
confini, fino a riconoscere un ruolo edificante alla filosofia.
La filosofia diventa così un'attività costruttiva, volta a far riflettere il lettore del
filosofo sui motivi che ha per interrogarsi sui problemi filosofici. In tal modo le
incongruenze dell'Ermeneutica sono integrate da uno sguardo empirico-concreto,
che deriva in ultima istanza dalla visione strumentalistica tipica del vecchio
pragmatismo e dalla rilettura, in termini testualistici, della stessa corrente
filosofica. Quella di Rorty è una riflessione impensabile senza l'apporto
fondamentale degli altri due teorici della fine della filosofia, cioè Heidegger e
Derrida. Scartata l'ipotesi di una fine della filosofia che sia propedeutica alla
genealogia del pensiero, tipica di Heidegger, Derrida e Rorty convergono su un
punto determinante: la filosofia del futuro è la prospettiva in cui l'essenziale per la
filosofia è inventare mondi anziché scoprirli. L'invenzione di thèmata, il fabbricare
mondi speculativi sempre nuovi, potrebbe diventare il fine ultimo della filosofia
della fine.
BIBLIOGRAFIA:
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Note:
1
Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna, trad.it. di C.Formenti, Feltrinelli,
Milano 1981.
2
Cfr. M.Heidegger, Tempo ed essere, op.cit.
3
Cfr. M.Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed
essere, op.cit. (p.167).
4
Cfr.M.Heidegger, Che cosa significa pensare? , op.cit., p.41.
5
Cfr.J.Derrida, Di-Segno, trad.it. di G.Dalmasso,Jaca Book, Milano 1983 (p.p.58-60).
6
Cfr. J.Derrida, Della grammatologia, op.cit.
7
Cfr.J. Derrida, Margini della filosofia, op.cit.
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06/01/2005