TIBOR SZABÓ “…BONUS ESSE QUAM DOCTUS” ASPETTI DI FILOSOFIA APPLICATA IN PETRARCA …ex literis nichil amplius quesisvi, quam ut bonus fierem” (Petrarca, De ignorantia) 1. Sul concetto di filosofia applicata Prima di entrare nell’analisi dettagliata delle opere di Francesco Petrarca, l’umanista italiano per eccellenza di cui ricorre adesso il settimo centenario della nascita, bisogna chiarire e definire bene il concetto di “filosofia applicata”. Nella storia della filosofia italiana si sono radicati diversi concetti che rassomigliano parecchio a questa nozione di “filosofia applicata”. È per questo ci sono veri fraintendimenti in Italia quando uno studioso vorrebbe servirsi di questo concetto. La causa è che finora nel tradizionale discorso filosofico italiano non si usava tale concetto, anche perchè si tratta di una nozione del tutto nuova, di origine anglo-sassone (applied Philosophy)1. Invece, quando si sente in Italia questo concetto, secondo le mie esperienze personali, gli studiosi italiani lo associano almeno a due altri concetti, di significato del tutto diversi. Nella tradizione filosofica di orientamento crociano la “filosofia della pratica” viene usata comunemente, con un significato preciso e molto diverso dalla “filosofia applicata”. Secondo Benedetto Croce la filosofia dello spirito non può essere completa senza il momento dell’utile-economico che è la sfera pratica dello Spirito. In modo dialettico non separa mai la teoria dalla pratica. Dice: “Non si può pensare il pensiero in astratto, perché pensare è pensare lo spirito nella sua inscindibile unità teoretico-pratica, nella complicata 1 Sulla nozione di “applied Philosophy”, vedi: Singer 1986, Almond – Hill 1991. In Ungheria è uscito recentemente il volume degli Atti di un Convegno svoltosi a Kecskemét, v. Karikó 2002. 155 dialettica di pensiero e volontà” (Croce 2002:153). Ma nei Pensieri vari e anche negli altri scritti, il tardo Croce difende il diritto della Filosofia teoretica malgrado nella sua grande Estetica parli, in un senso molto specifico, di teoria “applicata” cioè non-scientifica. Per Croce ciò vuol dire una conoscenza filosofica alla quale seguono operazioni concrete.2 Croce parla in questo contesto del pompiere che si trova a domare un incendio. Nella tradizione filosofica di origine marxiana, a partire da Antonio Labriola e da Antonio Gramsci si è già radicato il concetto molto diffuso di “filosofia della prassi”. Ma la filosofia della prassi non ha niente a che vedere con la “filosofia applicata”. La filosofia della prassi viene usata spesso come sinonimo del materialismo storico. Un punto che potrebbe essere vicino alle due nozioni sarebbe il riferimento sia del materialismo storico che della filosofia applicata alla realtà concreta. Ma le divergenze fra le due sono notevoli. Mentre il materialismo storico (o la filosofia della prassi) si basa su una ben definita concezione del mondo, esplicita nelle Tesi su Feuerbach di Marx, la filosofia applicata è un nuovo metodo di accostamento ai temi tradizionali della filosofia e ai problemi nuovi, morali prima non esistenti, della realtà sociale come la bioetica, l’eutanasia, il terrorismo ecc. Al contrario di queste nozioni, la filosofia applicata, oltre di essere un nuovo metodo di indagine, per chi scrive non è altro che la saggezza morale della vita. E proprio in questo senso si adopera questo concetto nella letteratura filosofica recente, anglo-sassone. La nozione di “applied Philosophy” viene usata in questo senso in Inghilterra a partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Uno dei centri più importanti della filosofia applicata si trova all’Università di Hull dove si pubblica anche una rivista dallo stesso nome. Questa vocazione della filosofia applicata significa anche un ritorno esplicito al contenuto originale, greco della filosofia, cioè all’“amore della saggezza”. Cioè che la filosofia applicata preferisce studiare la vita di 2 La posizione di Croce viene ricordata in un dibattito fatto con chi scrive sull’ultimo Abbagnano (v. Paolini Merlo 2001, e la risposta al mio articolo, in Paolini Merlo 2002). 156 oggi e i principi morali della vita di un autore che analizzare i testi di un pensatore secondo i metodi accademici della scienza filosofica senza il loro riferimento alla vita.3 E le opere latine di Francesco Petrarca si adattano bene a questa analisi, perché in esse si trovano i principi morali di vita del Poeta che potrebbero essere ricostruite in base a questo nuovo tipo di pensiero filosofico. Il Poeta si autoconfessa non soltanto nei suoi bellissimi sonetti e opere liriche, ma anche nelle sue opere filosofiche in lingua latina. Continua così una tradizione che ebbe inizio nelle Confessiones di Sant’Agostino a cui Petrarca è molto legato. Nella nostra analisi non teniamo conto di problemi filologici come: quando ha scritto Petrarca queste opere, o com’è la sua latinità, ecc. Ci interessa solo il contenuto della saggezza della vita di Petrarca nelle sue opere di filosofia morale, intitolate De ignorantia e Secretum. 2. La polemica di Petrarca con Aristotele e con gli aristotelici Aristotele fu uno dei teorici morali più importanti dell’Antichità. L’Etica Nicomachea costituisce anche oggi un punto di riferimento per le ricerche morali. Ma Petrarca critica molto severamente Aristotele e la sua concezione filosofico-morale. Proprio questa sua critica costituisce il punto di partenza della sua teoria morale nel De ignoranzia. Certamente, come succede con altri pensatori e poeti dell’epoca (per citarne un esempio tipico: Francis Bacon), questa polemica si orienta verso un Aristotele diverso dall’originale. Sappiamo bene che Petrarca fu molto erudito nella conoscenza dei testi antichi, ma – probabilmente – nel suo libro De ignorantia, è stato ispirato più dall’antipatia dei suoi avversari che si richiamavano ad Aristotele che dallo stesso pensatore greco. E come anche alcuni altri poeti e pensatori dell’Umanesimo, anche Petrarca voleva distanziarsi da una figura che aveva dominato, insieme con Platone, parecchi secoli del 3 Abbiamo offerto alcuni esempi per questo tipo di analisi in un nostro volume (Szabó 1999). 157 Medio Evo. Insomma, voleva demistificare la figura di Aristotele e ricominciare daccapo la fondazione della morale. Petrarca, in questa sua volontà di demistificazione, dice che Aristotele fu un grande personaggio e sapeva praticamente tutto, ma fu solo un uomo e perciò non poteva sapere tutto. Anzi, Aristotele ha fatto degli sbagli non piccoli, anzi grossolani, e ha perso la strada in molte direzioni (DI:55). I seguaci di Aristotele, contemporanei del Poeta, lo adorano, lo ritengono Dio e non si rendono conto di questi sbagli ed ignoranze del Filosofo. Nella sua grande Etica, Aristotele parla della felicitá, ma secondo Petrarca, lui ignorava completamente la “vera felicitá” nella vita. Come nel caso di Dante che tenne nell’Inferno i filosofi, i drammaturghi, i commediografi e i poeti nati prima del Cristianesimo, anche Petrarca pensa che Aristotele non può essere accettato come filosofo autentico, perché, nato prima dell’era cristiana, non poteva capire che per la vera felicità ci vogliono i principi morali della fede e dell’immortalità. Secondo Petrarca, i seguaci di Aristotele e nello stesso tempo, i suoi critici, disprezzano tutto quello che concerne il Cristianesimo. Però, per il Poeta fiorentino, credente praticante, i valori assoluti della morale sono la pietà (pietas) e il culto della fede (fidelis cultus), propri della Chiesa cattolica. (DI: 79.) Conosce una sola eccezione: Cicerone. Anche lui è nato prima (e visse intorno) all’era cristiana, ma nelle opere dell’ultimo periodo della sua attività, pone il problema non soltanto degli Dei, ma dell’esistenza di “un solo Dio vero”. Anche secondo Petrarca esiste un solo Dio, che è l’oggetto e l’essenza della filosofia. “Deus nosse, non deos, ea demum vera et summa philosophia est.” (DI: 64.) Non c’è alcun dubbio per Petrarca che tutto quello che vediamo, testimonia l’esistenza di Dio che è il creatore e il governatore dell’Universo. (DI: 79.) Partendo proprio da questo punto di vista cristiano, Petrarca non può accettare la concezione dei seguaci di Aristotele, secondo i quali la fede sarebbe uguale all’ignoranza, e i fedeli sarebbero ignoranti e stupidi. (DI: 93) Al contrario, Petrarca li chiama “cechi e sordi”, perché – come il loro Maestro, Aristotele – non vedono e non capiscono il mondo divino e l’eternità, ma solo il mondo umano effimero. 158 Dunque, per Petrarca, fede e virtù sono la stessa cosa. Dio è la fonte inesaurabile del Bene morale (“omnis boni fontem lucidissimum, sapidissimum, amenissimum, inexhaustum”) e costituisce l’origine di ogni virtù, della pietà e della devozione umana, perché Dio è l’unico Creatore non soltanto del mondo ma anche di ogni valore umano. Infatti, questa posizione teorica di Petrarca differisce molto da quella aristotelica. Dopo aver condannato la maggioranza delle idee morali e filosofiche di Aristotele, alla fine del suo libro sull’ignoranza dice di apprezzare certe tesi del filosofo greco, ma in questa sede voleva fare la critica degli “aristoteliani stolti” che ogni giorno ripetono le frasi di Aristotele, senza capirne l’essenza. (DI:119.) Condanna ugualmente Averroè, il grande“Commentatore” di Aristotele che non ha il corraggio di scrivere neanche una riga indipendentemente dal Filosofo. Questa polemica condotta contro l’averroismo segna veramente il distacco di Petrarca dal mondo del Medio Evo e inizia in pieno, come sostiene Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia, l’umanesimo (Abbagnano 1993:16). Poi, fa un paragone tra Platone ed Aristotele. Secondo Petrarca, ai principi e ai nobili piace di più Platone, mentre Aristotele viene laudato dalla plebe. In fin dei conti, tutti e due meritano di essere giudicati positivamente dalla gente, anche perché sia Platone che Aristotele sono giunti al massimo della conoscenza della natura e dell’uomo. Ma se uno dovesse scegliere fra i due filosofi, Petrarca consiglierebbe di accettare Platone più che Aristotele, per la sola ragione che Platone e i platonici hanno capito meglio l’importanza di Dio. (DI:125.) La maggiore obiezione ad Aristotele, oltre alla mancanza del concetto di fede, è che non si realizzò quella speranza che il Filosofo aveva promesso nel primo libro della sua grande Etica. E ciò è fondamentale per tutta la sua filosofia morale, e cioè che questa parte della filosofia viene studiata non per saperne di più, ma per diventare buoni (“non ut sciamus, sed ut boni fiamus”). (DI:110-111.) 159 3. Virtù, fede e felicità secondo Petrarca Secondo Petrarca, dunque, la cosa più importante non è solo conoscere la virtù, ma vivere in modo virtuoso. I veri filosofi della morale possono essere considerati solo quelli che non soltanto conoscono le virtù, i valori morali, ma che hanno anche l’intenzione di indurre i loro studenti a diventare buoni e a condannare il peccato. (DI:115.) Petrarca dice ancora che non desidera essere giudicato buono dalla gente, ma essere buono davvero (“ut sim bonus”) e vivere in questo modo. (DI:33.) Per il poeta fiorentino e per tutti coloro che vogliano vivere in modo virtuoso, l’ideale morale è appunto “diventare buono”. Questo ideale deve realizzarsi nella realtà concreta e non deve rimanere un principio astratto, e perciò rifiuta ogni intellettualismo morale. Dice che la volontà del buono è più importante che la conoscenza della verità. Anzi, la volontà del buono vuol dire in parte anche il raggiungimento di esso (“pars est bonitatis velle bonum fieri”). (DI:49) Secondo noi, se sappiamo cosa vuol dire il “buono” e il “vero” non è sicuro che nelle nostre azioni vogliamo concretizzare questi ideali, ma se vogliamo il “buono” e il “vero”, allora abbiamo già fatto un passo avanti per ottenere il “buono” e il “vero”. L’antiintelletualismo di Petrarca si manifesta anche nelle sue note sull’amor di Dio. Secondo lui, fanno uno sbaglio grossolano quelli che sprecano tempo ed energia a conoscere la virtù e non a possederla, così sbagliano ancora di più quelli che vogliono conoscere Dio e non amarLo (DI:115-117). La “vera fede” presuppone e risulta la pietà e solo essa ci conduce alla felicità. La precondizione per essere “buoni” è l’amor di Dio che presuppone il rispetto pietoso del Creatore. È per questo che Petrarca voleva essere durante tutta la sua vita piuttosto un uomo buono che uno scienziato puro (“bonus esse quam doctus”). (DI:31) 160 4. I valori etici dell’uomo buono Quali devono essere veramente i valori da rispettare e gli sbagli ed errori da evitare dell’uomo buono? A questa domanda Petrarca raccoglie una lunga lista di valori che potrebbero essere analizzati da noi in base alla filosofia applicata, staccandosi un po’ dal contenuto originale dell’opera. Il valore più alto è, per Petrarca, senza dubbio la saggezza divina che non può essere paragonata a nessun altro valore mondano. Questo è che regola l’ordine delle stelle e il moto del cielo. È la Provvidenza divina che crea e governa il mondo, (DI:75-77) con la sua alta intelligenza. Sulla Terra, lo scopo dell’uomo è la felicità – ripete che può essere realizzata solo attraverso l’amor di Dio e la pietà. Come ci si rivela in questo libro l’uomo Petrarca? Quali sono le sue doti? Dice di sè di essere “affettuoso, virtuoso e amico fedele” (“ipsi autem mitem, bonis moribus et multa me asserunt amicitiarum fide”) (DI:18.). Non è altezzoso, superbo e orgoglioso, ma al contrario, dispone di un valore molto importante del Cristianesimo, cioè dell’umiltà.4 Accanto a questi valori fondamentali, è importante per lui la facoltà e la capacità educativa che si basa sulla “luce del sapere e della ragione”. Nella condotta umana è da evitare soprattutto l’invidia. Ha scritto il suo libro proprio contro l’invidia dei suoi quattro amici, perché – come testimoniano i suoi avversari e rivali – l’invidia inonda anche il loro cuore. (DI:141.) Nell’amicizia deve affermarsi l’uguaglianza che, poi, presuppone l’affetto e la fedeltà. Fra amici, non si può dissimulare niente e nessun sentimento, ma bisogna dividere in maniera uguale e con buona volontà le nostre conoscenze. (DI:51.) Caratterizzando l’uomo buono, Petrarca ritorna spesso alla condanna di Aristotele e dei suoi seguaci e discepoli che sono, secondo lui, presuntuosi, libertini, vantatori. L’uomo buono deve evitare le qualità umane negative degli aristoteliani, cioè l’arroganza, l’immodestia e la spudoratezza. Sono valori da condannare anche la 4 Questo valore morale di cui Petrarca è molto fiero, non si trova tra le virtù, le così dette mesótés enumerate da Aristotele nella sua Etica Nicomachea. 161 mancanza della sincerità, del pudore e l’alterezza che possono essere osservati anche fra amici. Non si può accettare neanche l’audacia e l’impertinenza che servono per alcuni a fare filosofia e a giudicare. (DI:145). La libertà del giudizio dovrebbe essere accompagnata anche dalla responsabilità, ma sono molti, secondo Petrarca, che non conoscono questa verità, sebbene proprio ciò sia uno dei mali più gravi del comportamento umano. Vero è che l’ignoranza della gente è immensa, ma questo fatto non basta a spiegare questa loro volontà di attaccare, come nella realtà succede spesso, uomini perbene senza alcun motivo. In questa ricostruzione degli elementi morali dell’epoca e del personaggio di Petrarca, possiamo vedere che prevalgono i valori negativi della condotta morale, accanto ai pochi positivi. Il libro De ignorantia può essere considerato come la testimonianza di un momento della vita del Poeta, quando i problemi etici sono diventati centrali per lui. Come si vede, però, a causa della sua situazione privata, è costretto a fare un’analisi di sé stesso, dei suoi sentimenti e principi morali. Anche in questo fatto possiamo scoprire un tratto caratteristico del Petrarca umanista. Come ricorda lo scrittore e saggista Vittorio Vettori, in ambedue i valori, sia positivi che negativi si può scoprire la teorizzazione della “dignitas hominis” tanto cara, poi a Pico della Mirandola. Vettori dice; “Petrarca, che sul piano psicologico non pare esente da turbamenti e incertezze, idealmente poi risulta ancorato a un sentimento fermissimo di ciò che è vero e di ciò che è falso”(Vettori 1975:7). Un altro momento da considerare qui è il suo ritorno all’Antichità. Come ricorda Michel Foucault nei suoi volumi scritti sulla storia della sessualità, la nozione di cura sui era stata sempre diffusa e molto popolare già dai Greci e anche dai Romani.5 La “cura di sé” è importante anche per Petrarca che si occupa di sé stesso in molte sue opere, come per esempio nel Secretum, ma anche 5 Recentemente su questo argomento ho scritto il saggio A létezésművészet kánonjai Foucault filozófiájában per un Convegno svoltosi a Kecskemét. Gli Atti del Convegno sulle possibilitá della filosofia applicata sono in corso di stampa. 162 nelle liriche del Canzoniere.6 È convinto – anche in base alle Confessiones di Sant’Agostino, suo maggiore ispiratore anche in questo libro da noi trattato- che bisogna fare “un’autoanalisi sempre a occhi aperti”. (DI:151) Anche perchè l’autocoscienza costituisce la base del riconoscimento della nostra propria imperfezione e della nostra ignoranza. Siamo d’accordissimo con Petrarca su questa sua affermazione. 5. L’amore e la morte Lo stesso avviene se analizziamo brevemente, e solo dal punto di vista della filosofia applicata, un’altra sua opera latina, forse ancora più conosciuta, il Secretum.7 In questo libro pone i problemi eterni della filosofia: quelli della vita, l’amore e la morte . L’ignoranza e la sciocchezza più grandi dell’uomo sono proprio il trascurarsi, il non curare il corpo e l’anima. Il primo passo per capire bene la nostra esistenza caduca e transitoria è di riflettere il problema della vita e della morte.8 Petrarca dedica molto tempo e spazio all’analisi della morte. La sua concezione è molto vicina a quella degli stoici. Al contrario dell’epicureismo, che è molto diffuso nel Rinascimento (per esempio in Montaigne9). L’umanista Petrarca rifiuta praticamente in questi casi il ruolo dei sensi (tanto centrale dagli epicuriani) e consiglia ai suoi lettori di non essere disturbati mai dal pensiero della finitudine dell’uomo, ma conservare la tranquillità dell’anima, e sopportare con calma l’idea della mortalità. (S:35) Ma nella vita, non si deve pensare sempre alla morte, ma se ci si pensa, ci si rivelano e diventano coscienti i valori morali della vita. In quest’opera, dà preferenza alla rassegnazione, al rifiuto dell’odio e dell’orgoglio. 6 Vittorio Vettori, nel saggio appena citato, ricorda che “il “Canzoniere” è un libro, un grande grandissimo libro, insieme storia di un’anima e documento di una civiltà, opera di bellezza orientata verso la salvazione”. (Vettori 1975:8) 7 Tradotta anche in ungherese, v. S 1999. 8 Tema ricorrente nei filosofi dell’esistenzialismo di Heidegger, Abbagnano e altri. 9 Secondo Michel Montaigne, “lo scopo della vita è la gioia”. 163 Prorompe soprattutto contro il potere dei sensi e dei desideri carnali. Ripensa qui, in questo libro il suo amore per Laura. L’anima dell’uomo, dice adesso Petrarca, deve essere esente dai desideri dell’amore che costituiscono un peccato imperdonabile. Ma a differenza degli stoici, Petrarca proibisce i desideri per un’altra ragione che gli stoici, cioè per quella cristiana. Dice, e si riferisce qui a Platone, che i desideri carnali e le passioni dell’amore ci fanno allontanare parecchio dalla conoscenza di Dio che è un valore assoluto nella filosofia morale di Petrarca. “Il rapporto con Venere impedisce il riconoscimento di Dio” – dice. (S:66) Altrimenti, nella vita bisogna rassegnarsi a tutto e sopportare anche le sciagure, il pensiero della morte. Invece, cosa si vede nella vita quotidiana della gente? Si vede che la maggioranza è sempre scontenta della sua situazione ed è disperata vedendo gli altri che la sorpassano. Qui, Petrarca formula un principio molto degno della nostra attenzione. Dice, sulla scia di Seneca, che “se vedi che c’è tanta gente davanti a té, pensa un po’ quanti ce ne sono dietro di té”. (S:72.) Questo fatto ti assicura la fiducia in te stesso. In una delle postfazioni ai due volumi delle opere latine di Petrarca, László Szörényi dice che queste opere sono una specie di autoritratti del Petrarca. Siamo d’accordo con tale opinione, perché come abbiamo visto in questi testi è lo stesso Poeta fiorentino a farci una presentazione intima e personale. Questa manifestazione dell’individualità che si legge in queste opere è un altro tratto caratteristico dell’Umanesimo di cui Petrarca è un rappresentante di spicco. Così, pensiamo di aver portato delle prove secondo noi sufficienti contro un’interpretazione assai diffusa in un tempo remoto, per esempio di A. Gaspary, che le opere in lingua latina appartengono al Medio Evo. Gaspary scrive: “i trattati morali del Petrarca per la loro tendenza sono perfettamente medioevali…” (cit. da Venturi 1946:59). Al contrario, noi pensiamo che molti valori morali professati da Petrarca non invecchiano, anzi, meritano di essere considerati in molti punti validi anche oggi. Anche perché lo scopo e l’essenza della filosofia (e anche di quella applicata) è proprio la presa di coscienza della nostra esistenza e dei nostri principi morali. Anche l’esempio dei libri di Petrarca serve a farci riflettere e renderci più coscienti dei valori da noi adottati. 164 Bibliografia N. Abbagnano, Storia della filosofia, (vol. II), Torino Almond – Hill 1991 Applied Philosophy. Morals and Metaphisics in Contemporary Debate (a cura di Brenda Almond e Donald Hill), London, 1991 Croce 2002 B. Croce, Dal libro dei pensieri, Milano DI 2003 Petrarca, De sui ipsium et multorum ignorantia, Önmagam és sokak tudatlanságáról, Szeged Karikó 2002 Az alkalmazott filozófia esélyei, (a cura di Sándor Karikó), Budapest Paolini Merlo 2001 S. Paolini Merlo, “Dalla saggezza alla fondazione del finito. Note in margine alla pubblicazione di un volume su Abbagnano”, Diritto e cultura – Miscellanea (Napoli), lugliodicembre 2001. n. 2, pp. 153-163 Paolini Merlo 2002 S. Paolini Merlo, “La “sensibilità” del pensiero filosofico di Abbagnano”, Idee (Lecce), n. 49, pp. 45-54 S 1999 Petrarca, Kétségeim titkos küzdelme (Secretum), (trad. di István Dávid Lázár), Szeged Singer 1986 P. Singer, Applied Ethics, Oxford Szabó 1999 Szabó T., Naiv ország. Filozófiai és politikai írások, Szeged Szabó c.d.s. Szabó T., “A létezésművészet kánonjai Foucault filozófiájában”, in Atti del Convegno di Filosofia Applicata, Kecskemét (in corso di stampa) Venturi 1946 G.A. Venturi, Storia della letteratura italiana, Firenze Vettori 1975 V. Vettori, Petrarca e Boccaccio oggi, Capua (Centro d’Arte e di Cultura l’Arione, n. 12) Abbagnano 1993 165