Progetto di ricerca Alessandra Mallamo
PROGETTO DI RICERCA PER LA “SCUOLA DOTTORALE INTERNAZIONALE DI
STUDI UMANISTICI” – XXVIII CICLO, INDIRIZZO: FILOSOFIA DELLA COMUNICAZIONE E
DELLO SPETTACOLO: TEORIA E STORIA DEI LINGUAGGI
Candidata: Alessandra Mallamo
LA
SOGGETTIVITÀ RIPENSATA SUL PIANO D’IMMANENZA: SINGOLARITÀ ED EMERGENZE NEL
CINEMA ITALIANO.
Ipotesi di ricerca
Nella mia ricerca intendo indagare i processi di vivibilità e di visibilità che si ritrovano in alcuni
autori del cinema italiano in vista delle possibilità che essi aprono nella formulazione del discorso
sulla natura della soggettività.
I recenti sviluppi di una parte della filosofia italiana elaborano una lettura del presente che, partendo
dal nodo tra verità e potere e dalla sua presa sulla vita, si focalizza sulla formulazione di una
filosofia dell’impersonale, così com'è stata definita nella teoria di Roberto Esposito a partire da
autori come Deleuze, Foucault, Merleau-Ponty (Esposito, 2007).
Muovendo dalle categorie che caratterizzano tale filosofia, è utile chiedersi quali siano le
configurazioni possibili di una soggettivazione che non sia mero assoggettamento al dispositivo
biopolitico e dualistico della modernità, analizzando quel particolare rapporto tra immagine
cinematografica e vita vissuta che innerva la produzione italiana.
La possibilità dello sguardo
Il baratro che si apre nel pensiero occidentale a partire da Nietzsche e che si istalla prepotentemente
nel cuore del Novecento è quello della forme con cui avviene la soggettivazione. Mi chiedo se sia
immaginabile un’intersezione, una modalità del divenire che reinserisca il soggetto(?) in un
orizzonte di verità, tra singolarità e pluralità. Tale modalità potrebbe avere la forma di un nastro di
Moebius? La figura topologica della striscia che può essere attraversata con un solo movimento su
entrambi i lati, poiché in essa non esiste un dentro o un fuori ma solo una superficie, è usata da
Jacques Lacan per indicare il paradosso dell’inconscio, il suo essere dentro e contemporaneamente,
nello stesso movimento, fuori rispetto al soggetto, e rimanda all’idea di extimité, che a sua volta si
avvicina alla categoria di impersonale (Bazzicalupo, 2008 pp. 57-76). Una delle prime linee di
ricerca da approfondire è rappresentata dall’incrocio della riflessione lacaniana sul soggetto con la
teoria dell’immanenza di Deleuze.
L’introduzione della topologia nella teoria psicoanalitica serve a Lacan per manifestare ciò che nel
soggetto è esterno al linguaggio, e dunque non riducibile al piano della rappresentazione o del
significante. Le distinzioni classiche tra interiorità e esteriorità vengono abolite, con il conseguente
svuotamento dell’inconscio da ogni tipo di psicologizzazione. L’elemento materiale non
rappresentabile ed enigmaticamente esterno è lo sguardo, l’invisibile che disturba lo spazio del
visibile; grazie al rovesciamento operato da Sarte e Merleau-Ponty, la prospettiva non è più quella
trascendente “soggetto-sguardo-rappresentazione” ma “Altro-sguardo-oggetto”, dove lo sguardo
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non è più funzione della rappresentazione del soggetto, ma operazione di spossessamento che
determina un modo di essere del soggetto come operatore evanescente. L’evento dello sguardo
esclude la possibilità di presupposizione del soggetto, ed è questa impossibilità che esprime il reale
lacaniano, ovvero il centro-esterno non raffigurabile nella configurazione della soggettività.
L’operatore evanescente di Lacan può quindi essere elemento su cui riflettere per riuscire a pensare
la soggettivazione sul piano d’immanenza, ma, se vogliamo schivare il rischio di una deriva
ideologica, bisognerà collocare tale soggettivazione in quella congiuntura di politica, storia e vita
posta in Pensiero Vivente (Esposito, 2010) come ciò che caratterizza il pensiero italiano, in ogni sua
forma.
Il libro si apre con una netta critica di Esposito alla centralità che la sfera del linguaggio assume in
molta della filosofia contemporanea, ciò fa sembrare incompatibile un suo accostamento a Jacques
Lacan, tuttavia, d’accordo con Davide Tarizzo, credo esista “un divenire lacaniano di Esposito”1
che si rivela come un punto nevralgico di questa ipotesi di ricerca. Gli aspetti della teoria lacaniana
messi in evidenza sono proprio quelli non riconducibili alla struttura linguistica della sua
concezione del soggetto. In Lacan il centro esterno del reale cui il linguaggio non accede può
significativamente essere messo in forma dal dispositivo dell’arte, capace di restituire il resto
invisibile che disturba il campo della visibilità.
Il trade union è chiaramente Gilles Deleuze, con lui l’arte cinematografica è riconosciuta come uno
dei piani su cui si è sviluppato, anche con anticipo rispetto alla filosofia2, un pensiero
dell’impersonale, avendo essa saputo accogliere un nuovo modo di essere dell’uomo e del mondo
che muoveva da percorsi di desoggettivazione e de-figurazione nella con-figurazione del sensibile.
È proprio la sua torsione del trascendentalismo kantiano verso lo spazio virtuale del piano
d’immanenza a spiegare il legame di Deleuze con il cinema, poiché egli vi intravede la possibilità di
una liberazione dello sguardo dal predominio rappresentativo del soggetto. Inoltre, nella
formulazione del concetto di interstizio (un vuoto di sguardo che rimane non visto tra le immagini
visibili), Deleuze assume una posizione rispetto al rapporto tra visibile e invisibile vicina a quella
dell’estetica lacaniana e individua nel nero, nel buco della rappresentazione, nel non-vedere stesso,
lo spazio in cui passano e respirano le immagini, contro il dispositivo che pur agisce nella macchina
cinema come costruttrice di visioni illusorie e deprivate della vita che credono di catturare.
Se il cinema è un'arte che sporge oltre i suoi confini, la grande summa di Deleuze, L’immaginemovimento e L’immagine-tempo, nelle ultime battute dà una forma precisa a questa sporgenza: “C’è
sempre un’ora […] in cui non bisogna più chiedersi ‘che cos’è il cinema?’ ma ‘che cos’è la
filosofia?’”(Deleuze, 1985, p.308). Mentre rimanda ad un'altra tappa cruciale del suo percorso
(Cfr.Deleuze-Guattari,1990) contemporaneamente richiama André Bazin. Alcuni aspetti
fondamentali dell’analisi di Esposito in Terza Persona, rimbalzano, tramite il concetto di scrittura,
sulla formulazione dell’evoluzione del linguaggio cinematografico in direzione della realtà
sviluppata dal teorico francese. La scrittura rimanda immediatamente al tema dell’autonomia logica
del testo, quindi al modo con cui l’immagine si fa teorematica e impersonale. In questo senso si può
interpretare la puntuale riflessione di Bazin: “Al tempo del muto il montaggio evocava ciò che il
realizzatore voleva dire, il découpage del 1938 descriveva, oggi finalmente si può dire che il regista
1
Questa ipotesi è stata formulata da Tarizzo durante il convegno “La vita e le forme. Giornate di studio con e su
Roberto Esposito” organizzato dalla Scuola Dottorale di Studi Umanistici di Cosenza il 30 e 31 aprile 2011.
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Cfr. Più approfonditamente questo tema è trattato in De Gaetano et al. (a cura di), 2006.
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scrive direttamente in cinema. […] il cineasta non è più soltanto il concorrente del pittore o del
drammaturgo, ma finalmente l’eguale del romanziere.” (Bazin, 1958, p.92)
In Bazin, il piano sequenza in profondità di campo destituisce il predominio del significato e
dell’autore sulla materia filmata, rendendo più liberi sia l’opera che lo spettatore, si tratta qui di
intravedere le conseguenze filosofiche ed esistenziali di tale apertura.
Assumendo l’opera d’arte come composizione creativa di percezioni, sensazioni, affetti che
vengono strappati all’opinione e all’individuale, e approfondendone le sue metamorfosi, si può
riflettere sulla soggettività nel suo essere corporeità, desiderio, relazione, immaginario. Tutto ciò
avviene dentro lo spazio del politico: se le forme dell'impersonale si reggono perfettamente dal
punto di vista dell’analisi e della teoria, esse restano assolutamente problematiche sul piano della
pratica politica (Bazzicalupo, 2012). Il nodo è già colto perfettamente dallo stesso Esposito: “Come
potrebbe mai darsi politica – e, tanto più, storia – in un mondo privo di soggetti definiti, all’interno
del piano di immanenza, dalla loro stessa singolarità vivente?”(Esposito, 2010, p. 32). Non è questa
la domanda circa le forme di sopravvivenza di una soggettività che è inevitabilmente intrisa di
storia, vita e politica?
Se è vero che “Il problema della filosofia futura è, piuttosto, ripensare un soggetto libero dal
dispositivo – antico ma continuamente riprodotto - che lo separa dalla propria sostanza corporea, e
di riannodare, allo stesso tempo, il suo nesso costitutivo con la comunità” (Esposito, 2010, p. 33),
provando a ribaltare l’invito deleuziano, possiamo trovare nella formulazione della domanda su
cosa sia il cinema una nuova declinazione e una possibile chiave di lettura di questo problema.
Cinema vivo
Così si intitola una pubblicazione apparsa nel 2009 che interroga direttamente una “generazione di
registi” sul ruolo del cinema nella società e che colpisce proprio per il titolo scelto dai suoi curatori,
Emiliano Morreale e Dario Zonta. Questa semplice locuzione chiarisce nettamente il senso della
ricerca: il tema è riemerso con forza e in maniera problematica in questi ultimi anni, a partire dalle
innovazioni nel campo del documentario fino a toccare un cinema di finzione che rivolge
insistentemente la sua attenzione al mondo reale in cui appare.
Se gli studi critici di Marco Bertozzi sul documentario si soffermano sugli aspetti di
sperimentazione linguistica capaci di agire sul nodo tra verità e potere, la connotazione storica,
politica ed esistenziale dell’ibrido cinematografico come opera che guarda oltre le categorie
classiche viene sempre più spesso dibattuta in riviste di settore e in opere, anche collettive, di
ricercatori e critici (cfr. Guerrini et al., a cura di, 2009).
Vivo è dunque il cinema in quanto luogo di intersezione di politica, storia e vita prese nella loro
immanenza. Le forme di messa in scena che caratterizzano il cinema italiano e ne segnano il
destino evidenziano come esista un modo peculiare di fare e pensare l’arte cinematografica che
inequivocabilmente si apre a tale congiuntura.
Fondativa per il Neorealismo, essa viene continuamente ripensata in luoghi cinematografici di
confine, più liberi e più aperti alla sperimentazione. L’idea è quella di iniziare questa ricognizione a
partire da alcuni autori, senza precludere altre possibilità e ulteriori sviluppi. È chiaro che si tratta di
una scelta personale e necessaria a delimitare forzatamente il campo di azione di un discorso, che è
in primo luogo un problema da porre, e a farlo funzionare..
Su questi temi la questione è stata aperta e la strada battuta da nomi ineludibili: Zavattini per quel
che concerne la riflessione sul Neorealismo, Rossellini per lo stesso motivo e, nello specifico, per
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quel che riguarda la sua svolta televisiva e il naturale afflato documentario del suo cinema, la
questione della popolarità, il carattere storico-dialettico della sua didattica, incorniciata
teoricamente dal Manifesto del 1965 e dal Programma per un’educazione permanente del 1972,
nonché il suo significativo fraintendimento da parte di molti critici e intellettuali.
Pier Paolo Pasolini verrà preso in considerazione non solo perché della sua teoria del cinema la
relazione di politica, storia e vita costituisce il fondamento, ma perché il suo intero esistere e
pensare è in essa coinvolto fino a toccare il vertice rappresentato da Salò o Le centoventi giornate di
Sodoma: opera-teorema che mentre riflette sulle possibilità impersonali dello sguardo costruisce il
soggetto come impotenza singolare. Inoltre è significativo che una parte di Pensiero Vivente sia
dedicata proprio a questo film. (Cfr. Esposito, 2010, pp. 192-206).
Dunque, dopo aver individuato e reinterrogato i momenti chiave di queste riflessioni si potrà
costruire una riflessione più articolata su tre autori tanto importanti quanto poco approfonditi,
almeno rispetto alle categorie di vita, politica, storia e al loro ruolo nella formazione di nuove
forme di soggettività. Credo che Alberto Grifi, Vittorio Cottafavi e Vittorio de Seta rappresentino
tre singolarità che, sebbene differenti tra loro, costituiscono una diversità di concepire l’arte
cinematografica, oltre il suo essere linguaggio, in un modo nuovo di essere pensiero vivente.
Alberto Grifi (1938-2007), autore sul quale esistono pochi studi specifici, è stato uno dei
primi a mettere in luce la natura sperimentale e radicale del cinema documentario. Film
come Anna e Verifica Incerta sono solo due delle tante opere che praticano pienamente
l’invito eretico a “smettere i linguaggi cinematografici e aprire i linguaggi della vita”, la
ricerca intorno alla sua opera costituisce un momento importante della domanda circa le
possibilità di una messa in scena aperta sul problema di una creatività che non si costituisce
in opera ma si fa nella realtà, nel suo rapporto con la memoria e con l’azione.
Vittorio Cottafavi (1914-1998) autore neorealista, riflette e agisce all’interno di un confine,
quello tra cinema e televisione, riuscendo di fatto ad abolirlo e trasformarlo. È a suo modo
un regista sperimentale, lucidissimo circa le perversioni del mezzo televisivo, che credeva al
contempo “miracoloso strumento […] perché è riuscito a rendere molteplice il singolo
[corsivo mio] attraverso una comunicazione che si rivolge alla persona”. Il ruolo della
televisione è sviluppato quindi a partire da questa sua inaspettata peculiarità politica.
Vittorio de Seta (1923-2011) ha messo in scena le possibilità del cinema antropologico,
politico e civile attraverso il documentario. Nella sua opera è possibile recuperare un nuovo
concetto di autenticità del reale che fuoriesce dal mito dell’origine e, soprattutto, dal fascino
folklorico, in direzione della costruzione di un sé politico e sociale, individuale e collettivo.
Non solo, di De Seta si può dire lo stesso che è stato detto di Rossellini, e cioè che essere un
grande documentarista gli ha donato uno sguardo straordinario nella messa in scena di film
narrativi: Diario di un maestro (1972), che è - significativamente rispetto a quanto appena
detto - uno sceneggiato televisivo, va riconosciuto a tutti gli effetti come capolavoro capace
di far deflagrare quella che, con il linguaggio di Esposito, potremmo definire la separazione
più immunitaria di tutte in ambito cinematografico, ovvero la distinzione tra documentario e
cinema narrativo.
Mettendo insieme queste occasioni si intravede un modo di essere mondanizzante che ritorna in un
certo cinema contemporaneo italiano, come quello di Paolo Sorrentino, di Giorgio Diritti o Pietro
Marcello, per citare solo alcuni dei nomi più interessanti.
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Operando sul mondo e sulla vita, sul dato documentario e storico, la concretezza, la verità e la
storicità dell’immanente si pongono come problema ineludibile nel processo creativo e ricettivo che
rimette in questione l’autore e lo spettatore; in questo cinema si evidenzia con più insistenza
l’aporia dell’essere dell’immagine la quale è sempre contemporaneamente dentro e contro la vita.
La teoria del cinema che riflette sull’essere in vita storico-politico porterà a sviluppare
ulteriormente questa ricerca verso la riflessione di Jacques Rancière. Il filosofo francese è
sicuramente uno degli studiosi che affronta nel modo più radicale il rapporto tra politica e arte e di
quest’ultima il cinema è manifestazione e insieme sporgenza che va oltre il suo confine.
L’arte mette in gioco “la partizione del sensibile” (Cfr. Rancière, 2000): con tale locuzione Rancière
indica il dispositivo secondo cui si organizzano i ruoli e le identità, il tempo e lo spazio, il visibile e
l’invisibile all’interno di una comunità.
Se “la politica consiste nel riconfigurare la partizione del sensibile che definisce ciò che è comune
in una comunità, […] nel rendere visibile ciò che non lo era” (Rancière, 2004, p. 80) , l’arte fa
politica nel momento in cui fa dissenso e crea eterotopie, ritagliando in maniera nuova lo spazio
materiale e simbolico, così che tra le due sfere non ci può mai essere una deduzione diretta; tuttavia,
piuttosto che il rapporto tra arte e politica, che rischia di riconfigurarsi in derive tanatologiche di
estetizzazione della politica e politicizzazione dell’arte (Esposito, 2006, p. 21), quello da pensare è
il nesso tra l’estetica della politica, che caratterizza la partizione del sensibile, e la politica
dell’estetica, il modo con cui le forme di visibilità intervengono a decostruire, dentro e contro, il
sensibile dato: de-figurando l’attuale attraverso il virtuale, sospendendo le coordinate, aprendo spazi
a tutto ciò che è senza-parte. In questo si può ritrovare l’affermazione di Roberto Esposito secondo
cui “La scrittura, la filosofia, la letteratura, il cinema possono avere una funzione di decostruzione
quando aprono l’orizzonte su ciò che viene negato” (Esposito, 2006, p.23) .
Il fine della mia ricerca consiste nel comprendere come ciò avviene in quello spazio di sapere che
abbiamo ritagliato del cinema italiano, pensando, con Ranciére, sia il cinema che la filosofia come
“cose tra le cose”. Si tratta dunque di interrogare le possibilità di vivibilità e visibilità attraverso
l’analisi di una messa in scena che depone le formule dello sguardo come dominanza, che muove
verso una narrazione “impersonale” (nel significato che Deleuze ha dato a questo concetto) e
investe la separazione più radicale e immunitaria della storia del cinema: quella tra fiction e
documentario, in un certo senso tra immaginazione e immanenza, rendendo ormai inutile ogni
discussione sui film ibridi, che di fatto non sono né documentari ne opere di finzione, ma
semplicemente cine-oggetti.
Fasi preventivate della ricerca
Appare evidente che questo progetto di ricerca ha una natura bicefala: da un lato la problematica
circa la fondazione del soggetto, dall’altra le possibilità offerte da uno sguardo immanente che
attraversa il cinema, nel mio caso specifico, il cinema italiano. Tuttavia il corpo che lo sorregge è
uno solo e riguarda il modo con cui la nostra stessa vita è visibile ovvero come la nostra arte è
vivibile. Il lavoro procederà quindi su due territori diversi, non avrà uno sviluppo lineare ma farà
interagire di volta in volta gli elementi del discorso. La ricognizione storiografica e critica condotta
con metodo archeologico foucaltiano abbandona l’idea di continuità ed evoluzione ma compie
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invece uno scavo sugli autori fino a segnare una mappatura che ne descriva i meccanismi di
relazione.
1. La ricerca sarà caratterizzata da una fase di analisi che interesserà la problematica filosofica
delineata: a partire dai testi di Roberto Esposito, dalle aperture che è possibile individuare
nella sua produzione in direzione del cinema e di una teoria dello sguardo.
2. Verranno analizzate le poetiche della messa in scena e le teorie del cinema sviluppate dai
registi presi in esame. Ciò richiederà, sicuramente per Grifi, Cottafavi e De Seta, la raccolta
di dati presso gli enti che ne conservano il materiale autografo. Altrettanto necessario sarà lo
spoglio delle riviste di critica cinematografica che hanno aperto dibattiti sul tema in esame.
3. L’accostamento tra la teoria dello sguardo e la dimensione immanente in Lacan e Deleuze
convergerà nella riflessione sul rapporto tra estetica e politica, riprendendo le posizioni di
Rancière (senza poter escludere quelle di Alain Badiou, Jean-Luc Nancy e Slavoy Zizek) e
continuando a dialogare con le categorie chiave del pensiero di Roberto Esposito.
4. Infine, l’analisi delle opere filmiche creerà (invece di sciogliere in risposte) i nodi tra i due
luoghi del discorso determinandosi come campo di interazione dei concetti indagati. Tale
territorio, nuovamente di confine, costituirà la superficie di emergenza in cui verranno fatti
agire i risultati delle prime fasi della ricerca fino a giungere a una descrizione del rapporto
tra arte cinematografica e vita immanente, cioè impersonale e collettiva, storica, politica e
sensibile, e del suo ruolo nella costruzione della soggettività contemporanea.
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11/11/2012 Alessandra Mallamo
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