TERZO INCONTRO INDUISTI LUOGO ORIGINE DI INDIA EPOCA 3000 a.C. TESTO SACRO VEDA INDIA 3000 a. C. SHINTOISTI GIAPPONE IV sec. d. C. TRIPITAKA GIORNO SACRO LUOGO CULTO BUDDISTI DI AUTORITA’ RELIGIOSA SABATO DOMENICA VENERDI’ TEMPIO PAGODA TEMPIO BRAMINO MONACO MONACO 2 BUDDISMO Al pari del Cristianesimo e dell'Islam, il Buddismo, nato da un’altra religione, dal Bramanesimo; si è sviluppato come dottrina universale del riscatto dal dolore e della salvezza, nel lungo periodo di tempo che ha visto sorgere, affermarsi e decadere il sistema sociale basato sulla schiavitù, tra il sec. VI a.C. e l'VII d.C. Oggi è praticamente la quarta comunità religiosa mondiale, dopo Cristianesimo, Islam e Induismo, e conta almeno 3-400 milioni di seguaci. Il periodo storico che ha caratterizzato questa prima religione veramente universale è stato ricchissimo di fermenti culturali mondiali. Fra l'VIII e il VI sec. a.C. sono accaduti dei veri terremoti spirituali in tutte le civiltà superiori, dal bacino del Mediterraneo alla Cina. Prendendo come punto di riferimento l'Illuminazione di Siddartha Gotama (circa 523 a.C.), abbiamo che in Grecia tramontano le antiche monarchie di origine sacrale e si sviluppa la filosofia di Pitagora, Eraclito da Efeso. In Cina, ove insegnano Confucio e Lao Tsu, si estingue l'idealizzato periodo di "Primavere e Autunni". In Persia domina la religione di Zarathustra. A Roma crolla la monarchia. Nel Vicino Oriente declinano le civiltà teocratiche come quella egizia e assiro-babilonese. In pratica gli uomini abbandonano progressivamente il primato dell'intelligenza intuitiva e ispirativa, e tendono a sviluppare l'intelligenza logico-discorsiva. Questa nuova intelligenza delle cose cerca la verità delle cose nell'interiorità dell'essere umano o in un mondo visto con occhi più disincantati, con una mente meno disponibile a credere in spiegazioni mistiche o in tradizioni arcane. Più in particolare si deve dire che il Buddismo conseguì un immediato successo perché nell'India del VI a.C. la religione brahmanica non solo esprimeva interessi di casta, ma anche perché i sacerdoti, da mediatori tra uomini e divinità, avevano esaltato l'atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, facendo dipendere la salvezza da un ritualismo alquanto formale e complicato. La letteratura buddista attribuisce la nascita del movimento al principe indiano Siddharta, poi conosciuto col nome di Gotama, che sarebbe vissuto nel VI sec. a.C. (pare sia nato intorno al 563 a.C.) Siddartha era figlio del governatore di uno dei piccoli e bellicosi regni dell'India del nord, tra il Gange e il Nepal. La stirpe guerriera era quella degli Sakya ("potenti"). Egli trascorre la prima parte della sua esistenza nel lusso e nella mondanità della casa paterna, dove riceve un'educazione legata al suo rango, acquisendo anche nozioni di legislazione e di amministrazione. A 16 anni il padre lo fa sposare e dopo 13 anni ha un figlio, ma proprio all'età di 29 anni decide di abbandonare tutto e tutti. Non avendo mai conosciuto alcun aspetto veramente negativo della vita, in quanto non era mai uscito dai confini del proprio palazzo, rimase un giorno letteralmente sconvolto al vedere, in un villaggio, un vecchio decrepito, un malato grave e un corteo funebre. Improvvisamente capì che esistevano anche le malattie, la vecchiaia e la morte come destino universale degli esseri umani. Infine incontrò un povero asceta che aveva rifiutato volontariamente ogni ricchezza e piacere della vita e che errava felice per la campagna: decise così di seguire il suo esempio. In quei tempi, che segnavano l'inizio della speculazione filosofica indiana, svincolatasi dal ritualismo vedico, non erano pochi gli uomini (specie della casta dei guerrieri), e talvolta anche le donne, che abbandonavano il mondo per dedicarsi a una vita di meditazione e ascesi secondo le ben collaudate tecniche dello yoga. Il Buddha dunque visse per sette anni nella foresta, sottoponendosi - sotto la guida di vari maestri -a digiuni, sofferenze e privazioni d'ogni genere, al fine di conseguire la pace interiore e la conoscenza della verità. Ma non rimase soddisfatto di questa vita. Abbandonò ogni maestro e decise di ricercare da solo la via della Liberazione (mukti). A 35 anni, giunto alla soglia della morte per esaurimento, una notte -secondo la tradizione-, mentre era seduto ai piedi di un albero, sprofondò nei suoi pensieri pervenendo all'"Illuminazione" 3 (Buddha infatti significa "illuminato" o "risvegliato"). Essa consisteva nel rifiutare sia una vita di piaceri, perché troppo effimera, che una vita di sofferenza volontaria, perché fonte di orgoglio. Al momento del "Risveglio" Siddartha credette di riconoscere quattro verità fondamentali dell'esistenza: la realtà dell'esistenza personale e del mondo esteriore è dolore, consistente nell'invariabilità delle sue condizioni: nascita, malattia, morte, mancanza di ciò che si desidera, unione con ciò che dispiace, separazione da ciò che si ama; l'origine del dolore è il desiderio di esistere, il bisogno del piacere e anche il suo rifiuto; questa sete generatrice delle rinascite va estinta nel Nirvana (il desiderio va eliminato); la via che conduce all'arresto del dolore è il Dharma (cioè l'Ottuplice Sentiero). Insomma, Siddartha ad un certo punto s'era reso conto che l'ascetismo estremo non faceva che respingere a livelli più profondi di coscienza, rafforzandoli, gli impulsi e gli istinti ch'egli presumeva di sradicare. La retta via -disse Buddha- sta nel mezzo (Via Mediana). Il segreto della felicità sta nell'accettarsi così come si è, rinunciando ai desideri, la cui consapevolezza rende infelici non meno della loro realizzazione. Infatti ogni desiderio soddisfatto porta a maturarne un altro ancora più grande. Rinunciare ai desideri significa rinunciare ad una inutile sofferenza. La condizione suprema della felicità è quella del Nirvana, in cui l'uomo è felice pur non desiderandolo, è felice perché ha vinto l'Illusione cosmica (maya). Nel Sermone di Benares, con cui il Buddha inizia la sua predicazione, viene chiaramente negata l'essenza a tutte le cose, motivando ciò col fatto che ogni cosa trae la propria realtà da altre cose che ne sono la causa. Solo il Nirvana sfugge a tale destino, in quanto non è uno "stato", bensì una "condizione" di assenza (non c'è morte e vita, gioia e dolore…). Lo stesso "io" non è che una successione di stati di coscienza fondati su un insieme di psichismi, sensazioni e parvenze fisiche. L'io, se lo si intende come "realtà", non è che un'illusione. Il Buddismo infatti parte dal presupposto che tutta la vita è dolore, esso cioè da per scontato che i desideri non possono realizzarsi e che, anche quando lo sono, non procurano la felicità, poiché ne sorgono altri di grado superiore o di diversa natura. In tal senso anche il piacere è dolore, in quanto implica adesione a qualcosa di estraneo. L'origine del dolore è la "sete" o desiderio, che può essere di tre tipi: piacere, voler esistere, non voler esistere, e vi sono tre radici del male: concupiscenza (brama), ira (odio) e ottenebramento (cecità mentale). L'io che non riesce a sottrarsi a questa schiavitù, è destinato a reincarnarsi (samsara) in eterno, almeno fino a quando non si sarà purificato interamente. Secondo i buddisti l'io non è un'entità individuale (come nelle Upanishad), ma è una combinazione di particelle diverse (dharma o qualità spirituali), di tipo sensitivo, volitivo, percettivo e di impulsi innati: non esiste l'unitarietà dell'io né la sua personale immortalità. Le parti costitutive dell'io, o meglio, i fenomeni psico-fisici dell'esistenza vengono classificati come Aggregati, Basi ed Elementi. Gli Aggregati sono cinque: Forma o Materia (il proprio corpo, elementi fisici del mondo); Sensazioni; Nozioni o Ideazioni; Costruzioni psichiche soggettive o propensioni karmiche (complessi innati derivati dall'ignoranza); Coscienza (scorrere dei pensieri). Le Basi sono dodici: sei sono interne: occhio, orecchio, naso, lingua, corpo e mente, cui corrispondono sei basi esterne: visibile, suono, odore, sapore, tangibile, idee. Gli Elementi sono diciotto: sei basi interne; sei basi esterne e le rispettive conoscenze che tuttavia costituiscono l'elemento mentale: le idee, per cui si può parlare di 17 elementi effettivi. In altre parole i dharma costituiscono l'infinita varietà dei modi della realtà e quindi gli infiniti accadimenti della nostra esistenza, frutto di azioni compiute in passato e semi di eventi futuri. Io e Mondo sono il risultato dell'unione di vari dharma, che fluiscono continuamente in un perenne gioco di associazioni e dissociazioni, di aggregazioni e disgregazioni, guidato dalla legge etica del karman, che è una sorta di principio retributivo (preso dal Brahmanesimo), secondo cui i dharma sono costretti a reincarnarsi finché l'io non si è purificato: l'uomo deve 4 rispondere sia della vita trascorsa che della vita passata nelle generazioni precedenti. Questa circolazione o flusso dei dharma è la ruota della vita da cui appunto ci si deve liberare. Sul piano pratico il buddista, per arrivare all'eliminazione dei desideri, deve seguire le otto vie fondamentali del Dharma: 1. retta visione, per cui si contempla la realtà com'è, senza inquinarla coi propri complessi inconsci, abitudini inveterate, pregiudizi, ripugnanze innate, limitazioni caratteriali, memoria automatica ecc. 2. retto pensiero, possibile solo con un esercizio ininterrotto del controllo della propria rappresentazione concettuale; 3. retta parola, cioè sua perfetta corrispondenza, senza enfasi né sciatteria, con l'oggetto enunciato; 4. retta azione, che è l'agire esattamente quando e quanto sia necessario; 5. retta forma di vita, cioè il saper mediare fra le necessità della vita fisica sulla terra e i fini spirituali che ognuno si propone di conseguire; 6. retto sforzo, cioè saper adeguare esattamente ogni iniziativa all'importanza dello scopo da conseguire; 7. retta presenza di spirito, cioè costante ricordo di quanto si pensa, si fa e si sente, in modo da essere continuamente presente a se stesso; 8. retta pratica della meditazione, senza sostare con la mente in stati d'animo depressi o esaltati. Seguendo queste otto strade l'uomo giunge alla perfezione e sprofonda nel Nirvana, il quale secondo la scuola Mahayana- rappresenta il completo annientamento o non-essere, raggiungibile anche in vita e quindi definibile in senso positivo, come stato di pace totale e di gioia assoluta e di verità ultima, che però solo gli illuminati scorgono. Viceversa, seconda la scuola Hinayana, il Nirvana sfugge a qualsiasi definizione, poiché rappresenta la fine della vita accessibile alla coscienza e il passaggio a un'altra esistenza, inconsapevole, possibile solo dopo la morte. In entrambi i casi Nirvana significa interruzione della catena delle reincarnazioni (samsara). Secondo i buddisti, lo stesso Buddha, prima di nascere come Gotama, avrebbe subìto una lunga serie di rinascite. Egli fu però anche il primo uomo a raggiungere l'Illuminazione, per cui la sua morte ha rappresentato l'immediato passaggio al Nirvana. Nirvana dunque, anche se letteralmente significa "estinzione", spiritualmente significa "beatitudine". I testi sacri riconosciuti come autentici dal Buddismo sono raccolti in due Canoni, denominati, in base alle scritture usate, Pali e Sanscrito. Il Canone Pali (deciso nel I sec. a.C.) è chiamato anche Tripitaka, perché raggruppa il corpus in tre parti (o "Tre canestri": infatti i libri di ogni raccolta, scritti su fogli di palma, potevano essere contenuti in una cesta). Esso rappresenta una sintesi delle dottrine predicate dal Buddha o a lui attribuite e delle teorie elaborate dalla scuola Hinayana. La prima cesta (Vinaya) comunica le regole da osservare nelle comunità monastiche; essa si compone di tre raccolte di libri: sono talmente voluminosi che per leggerli tutti, al Concilio di Rangoon (1954), ci vollero 169 sedute in 46 giorni; la seconda cesta (Sutra) parla delle conversazioni di Buddha coi suoi discepoli ed è il doppio della prima; la recita dei sutra è la base del culto e della meditazione di monaci e laici. Il loro linguaggio è poetico, le composizione sono ritmiche, molto convincenti le spiegazioni di difficili tematiche spirituali e psicologiche. Questa cesta contiene anche 547 leggende relative alle esistenze precedenti del Buddha; la terza cesta (Abhidarma) fornisce la spiegazione dei principali dogmi del Buddismo contenuti appunto nel Sutra (metafisica). Questi testi sono stati composti da ignoti autori dal III al I sec. a.C. e sono ad uso degli specialisti. Il Canone Sanscrito, nato circa sei secoli dopo la morte del Buddha, varia molto, come suddivisione e denominazioni, da Stato a Stato. Esso sostanzialmente è legato alla scuola 5 Mahayana. Questa tradizione, i cui testi sono molto estesi, sostiene che Buddha avrebbe riservato la parte più sottile della sua verità alle generazioni posteriori. Un'edizione del Canone buddista, il Taisho Shinshu, stampato a Tokyo, comprende ben 100 volumi e fa capire la necessità di dover scegliere una "pars pro toto" per la fede personale. Tra le numerose scritture del Mahayana meritano d'essere ricordate La sutra della perfetta sapienza e soprattutto il Libro tibetano dei morti, che suscitò grande interesse in Occidente. I precetti fondamentali del Buddismo, per quanto riguarda le regole etiche di vita (sila) sono divisi in tre gruppi: i cinque divieti, gli otto comandamenti e le dieci condotte morali. In pratica si tratta degli stessi comandamenti, cui ogni volta se ne aggiungono altri. I cinque divieti sono: 1. non uccidere alcun essere vivente, 2. non prendere l'altrui proprietà, 3. non toccare la donna altrui, 4. non dire menzogne, 5. non bere bevande inebrianti. Gli otto comandamenti includono i suddetti cinque divieti, cui se ne aggiungono altri tre: non mangiare cibo nei tempi non dovuti; astieniti dal canto, dalla danza, dalla musica e da ogni spettacolo indecente; non ornare la tua persona con ghirlande, profumi e unguenti; non usare sedili alti e lussuosi. Gli ultimi due precetti morali sono: non adoperare letti grandi e confortevoli; non commerciare cose d'oro e d'argento. Naturalmente questi precetti diventano tanto più esigenti quanto più uno cerca di purificarsi spiritualmente: il divieto di uccidere si estende fino a tutti gli animali, nessuno escluso; l'acqua può essere bevuta solo se filtrata; non si può usare l'aratro perché potrebbe ferire i vermi della terra; la castità sessuale deve essere completa; la povertà dev'essere assoluta ecc. È bene però precisare che per raggiungere la Liberazione, più che una vita moralmente ineccepibile, la quale al massimo può dar luogo a un buon karman, il buddista deve dedicarsi alla Meditazione, che comporta un'energica disciplina ascetica (yoga), la cui esperienza in un certo senso va al di là di ogni morale. L'io deve liberarsi dell'Illusione circa la realtà del mondo e soprattutto circa la sua personalità, per sprofondare nel "non-io", nel "non-essere". Ciò tuttavia non ha impedito a molti monaci d'impegnarsi attivamente a favore delle rivendicazioni democratiche e dell'indipendenza nazionale (vedi p.es. in Vietnam al tempo della guerra contro gli USA). Poiché nel Buddismo non esiste alcunché di etnocentrico, la sua diffusione fu quasi immediata. Nel I sec. della nostra era aveva già raggiunto la Cina; i cinesi lo portarono in Corea e, nel VI sec., i coreani lo introdussero in Giappone, dove, in meno di 50 anni, divenne la religione di stato (VII sec.). Al di fuori dell'India, il Buddismo riuscì facilmente a soppiantare i vecchi culti, ma a condizione di trasformarsi in una religione emotiva e ritualistica, disposta ad accettare varie divinità celesti e spiriti infernali, facendo altresì largo uso della musica e delle arti figurative, delle danze sacre e di fastose processioni. La decadenza del Buddismo cominciò a verificarsi a partire dal VII sec., dapprima in India, con la rinascita del Brahmanesimo, poi, soprattutto nei secoli IX-XV, in Asia centrale, Afghanistan, Indonesia e di nuovo in India, a causa delle invasioni musulmane. Si calcola che almeno 200 milioni di buddisti, che si trovavano in Pakistan e Bangladesh, vennero convertiti a forza all'Islam. A tutt'oggi è rimasto religione di stato solo in Thailandia e Buthan. 6 INDUISMO È difficile dare una corretta e precisa definizione dell'induismo, essendo un vasto insieme di movimenti religiosi, concezioni filosofiche e pratiche sociali che si sono trasformate e consolidate nell'arco di 4000 anni. Anche la terminologia della parola "induismo" è piuttosto complicata e non è semplicissimo darne una corretta traduzione; probabilmente questo vocabolo potrebbe trovare le sue origini in un termine persiano che significa "fiume" e indicare appunto l' Indo e le terre nate attorno alle sue sponde, in cui si sviluppò questa antichissima interpretazione della vita e del divino. L'induismo conta circa 700 milioni di seguaci, è prevalentemente diffuso in India e in tutto il subcontinente indiano e si esprime sia attraverso l'adorazione di numerose divinità, sia attraverso gli atteggiamenti quotidiani dei fedeli e i riti celebrati. In india, fin dalla notte dei tempi, sono esistite popolazioni con idiomi diversissimi l'uno dall'alto, potremmo però dividerli fondamentalmente in tre forti ceppi linguistici: le lingue munda , ovvero quelle "non scritte" fino a poco tempo fa ma solamente parlate da popolazioni sparse in tutto il paese. Le lingue dravidiche, ovvero quelle che interessano principalmente il sud del paese e sono di origine molto antica. Le lingue indo-arie , più diffuse tra gli indiani moderni e portate dai conquistatori ancora prima della nascita di Cristo. Furono proprio le popolazioni che usavano queste lingue indo-europee e che invasero la valle del fiume Indo, a dare vita ad una nuova cultura religiosa. Esse, infatti, non sopraffecero le civiltà antiche allora presenti nel territorio ma le assorbirono e, dalla loro fusione, nacque appunto l'induismo. A questo periodo si fanno risalire i Veda (da vid, sapere) che sono i primi documenti religiosi (pur non fissando alcun canone religioso). Essi sono piuttosto documenti e inni che parlano anche della storia del paese e delle guerre che lo hanno coinvolto. Per semplicità, inoltre, potremmo individuare quattro punti fondamentali sui quale si fonda l'induismo ma che non sono certo sufficiente a descriverlo completamente: la fede nella "rivelazione" e nella "tradizione e negli dei, la credenza nella trasmigrazione delle anime e del Karma, la divisione in caste e delle tappe della vita la celebrazione di alcuni riti e pratiche religiose. La tradizione Per gli indù e un elemento chiave della loro religione e la chiamano "memoria". Grazie ad essa vengono raccolti tutti i trattati che perpetuano l'esatto svolgimento dei riti sociali e domestici e che completano i Veda, oltre ai Sûtra (sentenze morali) e due grandi epopee chiamate Mahâbhârata e Râmâyana. La Rivelazione Essa è avvenuta tramite i veggenti (rishi) che hanno "ascoltato" i testi attraverso un'intuizione mistica e che sono poi stati raccolti in quattro "opere" (Samhitâ): Veda propriamente detti, Brâhmana, Â ranyaka e Upanishad. Tali libri sono assolutamente autoritari, non possono essere alterati o messi in dubbio, derivano da una fedele e minuziosa tradizione orale e trattano di molti argomenti: dai commenti liturgici alle preghiere, da brani filosofici a formule "esoteriche", da cronache storiche a metafore di vita. Shiva Gli dei In termini semplicistici potremmo definire l'induismo come una religione politeistica che intreccia considerazioni filosofiche e realtà cosmiche all'esistenza umana, definendo una concetto preciso della società e dei suoi individui. Tutte le preghiere e gli inni dei Veda sono rivolti a divinità appunto "vediche" e i fedeli si distinguono per la loro particolare devozione al dio Shiva piuttosto che a Vishnu o alla dea madre Devi e dall'assenza di un'unica e uniforme dottrina con un"credo" convenzionale ed esercitato da tutti. Gli dei vedici, inoltre, sono molto diversi e ognuno ha una funzione e un'importanza differente: alcuni sono fortemente legati alla natura, ai suoi mutamenti e 7 agli elementi, altri hanno caratteristiche più umane e si sono addirittura incarnati e discesi sulla terra, altri ancora sono personificazioni di antichi poteri e hanno caratteristiche più ambigue, con valenza sia positiva che negativa, ovvero possono portare vita come distruzione. Il karman, la trasmigrazione delle anime e le caste A seconda dei meriti o dei demeriti accumulati in vita e dovuti alle proprie azioni, ogni uomo è destinato a reincarnarsi in un essere di qualità superiore o inferiore. In questo modo il karman (che noi chiamiamo karma) che è fondamentalmente il rapporto fra un atto e le sue conseguenze (ogni azione produce, infatti, un effetto) si imprimerà sulla persona determinando il bene o il male che la stessa persona subirà nella vita presente o in quelle future. Quindi chi in una vita commette atti negativi, li sconterà nella vita successiva reincarnandosi in un altro corpo o anche in animali o vegetali (per questo gli indù non mangiano carne e rispettano gli animali) e affrontando poi una realtà molto più difficoltosa della precedente, che lo porterà ad espiare il suo peccato e a purificarsi. Chi accetta il karman accetta quindi la propria condizione di vita come applicazione di questa legge e di conseguenza la propria situazione sociale, la fortuna, il sesso o la casta di appartenenza sono determinati dalle vite anteriori. Il passaggio da un avita precedente ad una successiva è chiamato samsâra e per purificarsi dei suoi atti, per lo più limitati e malvagi, un uomo abbisogna di molte reincarnazioni. Da questa visione della vita e dell'accettazione di essa, scaturisce il concetto induista di varna, ovvero delle "caste", una vera e propria suddivisione in classi sociali che coinvolge ogni individuo dalla sua nascita, senza alcuna possibilità di sfuggire alle sue severe norme gerarchiche. Al vertice di queste caste, un ruolo di assoluta preminenza è attribuito infatti ai sacerdoti (brahmani), seguono i dei guerrieri (ksatriya), quindi lavoratori qualificati (vaisya) e nella discesa verso il basso della scala sociale troviamo poi chi fa parte delle caste inferiori, da quelle considerate servili (sudra) fino a quelle, disprezzate come impure, degli "intoccabili". Esistono poi i "paria" termine riferito propriamente a chi si trovi nella condizione di "fuori casta" perché nato dall'unione illecita fra una donna di casta brahmanica e un uomo di casta servile. Chi appartiene ad una casta superiore infatti, tende a non sposarsi con individui di caste inferiori, ma soprattutto mai con gli intoccabili. I riti e le pratiche religiose Anticamente la religione vedica non prevedeva l'edificazione di templi e monumenti religiosi, ma venivano utilizzate aree all'aperto. Con l'avvento dell'induismo vennero invece costruiti templi di dimensioni e stili molto differenti. All'interno dei templi avviene la venerazione delle immagini divine a cui i fedeli portano omaggi quali fiori o anche animali da sacrificare (ma solo in alcuni luoghi). In questi edifici si celebrano riti e pratiche religiose come da tradizione e i sacerdoti si incaricano di prendersi cura della divinità, servendola e onorandola. Inoltre molti sono i luoghi sacri nelle città. Il simbolo OM I fiumi (il Gange è quello più venerato e nelle sue acque gli indù si purificano), alcuni specchi d'acqua, i santuari. Anche lo Yoga fa parte in un certo senso di riti che portano all'elevazione. Esso è infatti una disciplina regolata da tecniche e metodi che inducono ad una meditazione profonda. Tramite determinate posizioni del corpo, respirazioni ed esercizi che regolano la concentrazione e l'amplificazione delle attività sensoriali si arriva ad una sorta di consapevolezza e conoscenza sia di se stessi che di Dio. Lo Yoga, conosciuto ormai in tutto il mondo e praticato anche nelle nostre palestre nasce anticamente proprio dall'induismo e da alcune delle regole di vita e di esercitazione spirituale. 8 LE RELIGIONI CINESI Caratteristiche generali del pensiero cinese Con quella indiana e quella ebraica, la cultura cinese è fra le più antiche civiltà che si siano perpetuate senza interruzioni sino ad oggi. Essa ha mantenuto una serie di caratteri peculiari che ne hanno salvaguardato l'originalità. I differenti atteggiamenti mentali coinvolgono l'idea stessa di religione e di divinità, di bene e di male, di trascendenza e di spirito, e il rapporto individuo-società e individuo-universo. A differenza della storia europea in cui il ruolo della Chiesa è stato determinante, e così pure l'antagonismo tra Stato e Chiesa e le guerre di religione, in Cina la religione non soltanto è stata subordinata allo Stato, ma è stata funzionale più alla condizione sociale dell'uomo piuttosto che allo sviluppo di una dimensione individualistica. La storia cinese non ha in pratica conosciuto la contrapposizione fra un ordinamento politico ed uno soprannaturale che lo trascende e travalica (come nel caso della Chiesa) ed i rapporti fra Impero e Chiesa buddhista non sono paragonabili a quelli fra le Chiese cristiane e gli Stati europei. Del resto, se per religione intendiamo un fenomeno analogo a quello giudaico-cristiano, difficilmente potremmo rintracciarlo in Cina. Religioni istituzionali e religioni diffuse si equilibrano e si intersecano a differenti livelli, nel sincretismo della cosiddetta religione popolare come nell'interazione tra taoismo, buddhismo e confucianesimo. Il cinese può venerare più divinità di religioni diverse senza che questo gli crei dei problemi perché è fondamentale per lui la funzione pratica della religione, e non la sua identificazione. Esempi di religione istituzionale sono il buddhismo e il taoismo, in quanto posseggono una propria organizzazione ecclesiastica, propri culti e dottrine. La religione diffusa, invece, è costituita da culti come quello rivolto agli antenati o alle divinità celesti. In campo religioso non esiste una fede monoteistica, né l'idea di un Dio personale in diretta relazione con l'individuo. Ciò significa inoltre l'assenza dell'esclusivismo di un "Dio geloso", di un'assoluta opposizione fra una divinità identificata con il Bene e il demonio identificato con il Male. Significa anche assenza di un rapporto personale e individuale con la divinità, che in campo etico si traduce in un diverso concetto di responsabilità che deve fare i conti con i legami fra il soggetto e il suo gruppo sociale. Anche l'idea di retribuzione ne viene influenzata perché è spesso intesa come una conseguenza automatica di un certo comportamento umano, ed il ruolo degli spiriti e delle divinità popolari è ridotto ad una funzione contrattualistica e propiziatoria. La multifunzionalità dei templi contribuisce quindi al consolidamento dei legami familiari, alla protezione della comunità locale e del suo benessere, della salute individuale, dell'ordine morale, dello Stato e dell'ordinamento politico. Il pensiero cinese non ha neppure conosciuto il dualismo spirito-materia e l'opposizione fra anima e corpo - caratteristici della tradizione occidentale - e la conseguente distinzione fra il sensibile ed il razionale. Il termine xin indica la mente ma anche il cuore, vale a dire la sede del pensiero e allo stesso tempo delle emozioni e delle reazioni sensoriali. La funzione razionale non è intesa in Cina come la più alta nell'uomo, contrapposta alle passioni e agli istinti. La ragione non è neppure prerogativa dell'anima che, secondo la dottrina ad es. cristiana, avrebbe la capacità di discernere fra il bene e il male, e di compiere liberamente il bene o il male. In Cina si preferisce un universo in continua trasformazione, costituito da una sostanza fondamentale, la cui dinamicità (evoluzione ed involuzione, nascite e morti, contrazione ed espansione) è dovuta alla polarità di energie opposte ma complementari. In Cina è assente una concezione assoluta ed esclusiva degli opposti, intesi piuttosto come bipolarità complementari, come interazione e alternanza. Confucio In Cina la filosofia non è staccata dalla vita, e la sua pratica è considerata inseparabile dalla teoria. In Cina vi sono stati pochissimi filosofi di professione. Quasi tutti i grandi filosofi cinesi hanno ricoperto delle cariche amministrative nel governo, oppure sono stati artisti. In Cina, insomma, i filosofi vengono ritenuti tali soprattutto per le loro caratteristiche morali. Non è concepibile che un uomo cattivo possa essere un buon filosofo, o che un buon filosofo possa essere un uomo malvagio. La prova reale di una filosofia è la sua capacità di trasformare i suoi sostenitori in uomini più grandi. 9 Biografia di Confucio Il nome Confucio è dovuto ai missionari del secolo 17° che latinizzarono il nome del saggio cinese K'ung fu tzu (ovvero maestro Kung) in Confucius. Confucio nacque a Tsou, una borgata dello stato di Lu (odierna Chueh-li nello Shantung) nel 551 a.C (il 27 agosto o il 28 settembre). Suo padre era governatore di Tsou e di stirpe nobile. Confucio rimase orfano di padre a tre anni. La famiglia si trovò in condizioni disagiate e Confucio dovette fare molti sacrifici e lavori umili. Si sposò a 19 anni, ed ebbe due figli, un maschio e una femmina. Nello stesso periodo ricoprì modesti incarichi governativi. Ma la sua vocazione era l'insegnamento e nel 530 a.C. aprì una scuola in cui erano ammessi tutti quelli che dimostravano di avere intelligenza, buona volontà e dai quali si faceva pagare a seconda delle possibilità. La sua era una scuola di tipo tradizionale, in cui si insegnavano le sei arti: riti, musica, tiro con l'arco, guida dei carri, annali, calcolo. Quando, nel 528 a.C., gli morì la madre, Confucio si uniformò ai riti che prescrivevano al figlio in lutto di non esercitare alcuna carica pubblica per tre anni e allora egli si ritirò a vita privata. Dedicò questo periodo allo studio delle discipline a lui preferite: musica, riti e testi antichi. Questo studio profondo gli permise di tradurre in massime la saggezza degli antichi e di formulare poi norme che dovevano regolare il comportamento dell'uomo quale membro di una società. In seguito, per ampliare le sue conoscenze, nel 515 a.C. si recò a Loyang, la capitale del regno di Chou, dove la musica e i riti erano stati tramandati nella loro purezza originale. Pare che in questo periodo abbia incontrato Lao Tzu. Confucio ritornò poi a Lu e riprese l'insegnamento. Nel 514 il sovrano di Lu dovette fuggire per motivi politici e chiese ospitalità al duca di Ch'i. Confucio seguì il sovrano in esilio. Alla morte del sovrano il ducato di Lu passò nel 509 a.C. al duca Ting e Confucio ottenne finalmente, nel 501 a.C. (aveva ormai cinquant'anni), un incarico politico. Il duca Ting lo nominò governatore di Chung-Tu, capitale dello stato di Lu, permettendogli di attuare il sogno della sua vita: dimostrare sul piano pratico la fondatezza delle sue idee etiche e politiche. La sua amministrazione si rivelò talmente perfetta che poté essere paragonata al periodo aureo dei sovrani mitici ed inoltre le leggi penali non vennero più applicate perché non furono commessi più crimini. I felici risultati ottenuti gli valsero però l'invidia e l'inimicizia della corte e Confucio fu costretto ad andarsene da Lu. Cominciò così le sue peregrinazioni, che durarono ben tredici anni, attraverso vari stati. Ritornò a Lu quando aveva ormai 69 anni. Il nuovo duca, Ngai, lo onorò, lo invitò a corte ma non gli affidò nessuna carica pubblica. Egli allora si dedicò, con i suoi discepoli, a raccogliere e a riordinare i testi antichi e scrisse una cronaca di Lu, intitolata Primavere e autunni. Si dice che, sette giorni prima di morire, un sogno l'avvertisse della prossima fine. Dopo aver recitato alcuni versi del Libro delle Odi ("Ecco come frana il monte T'ai/il grande albero viene abbattuto/e il saggio sfiorisce come un fiore) e avere ancora una volta espresso il suo rammarico per non essere riuscito a far accettare ai principi le sue idee, si ritirò nella sua stanza e morì. Era il 479 a.C. L'insegnamento di Confucio L'insegnamento del maestro cinese è stato esclusivamente orale. Egli era convinto che la verità si possa cogliere concretamente e in singole situazioni, mentre ogni tentativo di elaborare un quadro completo non fa che impoverirne o travisarne l'infinita ricchezza. Non c'è alcun tentativo di definire concetti o di elaborare principi e teorie come fanno invece i filosofi occidentali. Spesso Confucio si limita a ricorrere al modello analogico, associando un esempio antico ad un episodio presente, o limitandosi a brevi osservazioni concrete. Tutto quello che ci è pervenuto del suo pensiero è raccolto nei cosiddetti Quattro Libri (Ssu Shu), che sono opera di discepoli. Essi sono I Dialoghi, Il Grande Studio, L'Invariabile Mezzo e il Libro di Mencio. I Dialoghi sono il libro più antico. Esso consta di 11.705 caratteri ed è diviso in venti libri, ognuno dei quali è chiamato col nome dei due caratteri che lo iniziano. Gli insegnamenti sono fatti sotto forma di massime, aforismi o brevi dialoghi senza legame tra loro. Confucio era convinto di aver ricevuto dal Cielo (T'ien) una missione da compiere. I suoi discepoli credevano fermamente in lui e nel suo mandato. Confucio era legittimista: non vedeva altra possibilità per sanare i mali della società se non con la restaurazione degli antichi valori morali, degli usi rituali e delle istituzioni del passato; ristabilire insomma l'ordinamento feudale come era agli inizi della dinastia Chou. Per salvare la società egli 10 insisteva che per prima cosa bisognava salvare l'uomo. Per riuscire in ciò, egli si rivolgeva in primo luogo a quelli che considerava i responsabili del disordine sociale: i principi. Essi dovevano essere consci delle loro responsabilità e dei loro doveri e dovevano prendere esempio dalle sagge istituzioni dei re santi dell'antichità che si erano preoccupati prima di tutto della felicità del loro popolo. "Vi è governo quando il principe (si comporta) da principe, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio"(Dialoghi, 12,11). Ognuno doveva quindi mantenere la posizione che gli competeva ed attenersi ai doveri che gli imponeva la propria qualifica e rango. Secondo Confucio, "governare è correggere. Se induci il popolo a correggersi, chi oserà non correggersi?" (Dialoghi, ibid.). Per aiutare i principi ad attuare quanto era necessario al buon governo, egli intendeva preparare per essi dei consiglieri abili, onesti, saggi e fidati. Secondo l'ideale confuciano, essi avrebbero dovuto possedere le virtù morali del chun-tzu, ovvero l'uomo saggio, perfetto. Quest'uomo non era necessariamente un nobile per nascita bensì un uomo virtuoso. Se il consigliere tendeva alla perfezione, ne derivava anche un miglioramento dell'uomo comune, del suddito, che seguendo l'esempio di colui che lo governava, diventava un suddito docile e fedele. Nel Grande Studio è detto: "Dal Figlio del Cielo all'ultimo del popolo, per tutti la cosa principale è perfezionare la propria persona" (par. 6). Nel commento si fa rilevare che il perfezionamento si ottiene quando si riescono a dominare le passioni, non ci si crea delle illusioni e si riesce ad essere sinceri con se stessi; ciò permette al saggio di vedere com'è veramente il mondo e gli dà la possibilità di poterlo giudicare obiettivamente. Ciò che conferisce all'uomo i sentimenti di umanità, giustizia, altruismo ecc. viene chiamato da Confucio col termine jen: si tratta di una virtù unica e completa in se stessa, che riassume tutta la legge morale oggettiva. In più vi è il li (ordine, etichetta), che si riferiva ai riti e alle cerimonie, ma esprimeva anche le norme che dovevano regolare i rapporti umani ed era quindi un codice di comportamento morale e sociale in una società organizzata gerarchicamente. Questi due concetti costituiscono la base del confucianesimo. Quando chiedevano a Confucio di spiegare che cosa fosse jen, egli dava parecchie definizioni. Jen è "amare gli uomini"; è "conoscere gli uomini" (Dialoghi, 12,22). Altrove dirà che per attuare lo jen è necessario "rispetto, magnanimità, sincerità, sollecitudine, benevolenza. Chi rispetta non offende, chi è magnanimo si guadagna le folle, chi è sincero ottiene la fiducia degli altri, chi è sollecito porta a compimento, chi è benevolo è adatto a comandare gli uomini" (Dialoghi, 17,6). Anche il modo di comportarsi è jen: "fuori di casa comportati come quando ricevi un ospite importante; nel comandare al popolo comportati come se offrissi il grande sacrificio; ciò che non vuoi sia fatto a te, non fare agli altri; non suscitare ostilità nello stato, non suscitare rancori nella famiglia" (Dialoghi, 12,2). Gli fu chiesto una volta che cosa ne pensasse del principio per cui bisogna rendere il bene per il male. Confucio disse: "Con che ripagheresti la clemenza(bene)? Un torto si ripaga con la giustizia e la clemenza con la clemenza" (Dialoghi, 14,36). Per Confucio il li pervade tutte le cose, in quanto è la vera base del governare. Il li rappresenta una completa dottrina sociale e morale, che si fonda sul principio dell'armonia nei rapporti umani fondamentali. Essi sono cinque (wu lun): tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico. Il governo vero e proprio non è opera degli impiegati statali, ma di ciascun cittadino che osserva i giusti rapporti con gli altri individui. Quando in una società esistono dei buoni rapporti tra tutti i cittadini, allora vuol dire che lo scopo del governo è stato raggiunto. In altre parole, quando tutti gli individui agiscono moralmente in tutti i loro rapporti con le altre persone, non vi sono più problemi sociali. Ecco perché Confucio può dire che per raggiungere la pace nel mondo è necessario e sufficiente rettificare i propri cuori o curare la propria vita personale e porre ordine nella propria vita familiare. Il li comprende anche un altro concetto molto importante, quello di hsiao, che comunemente è tradotto con pietà filiale. Essa è la virtù della venerazione. I genitori sono anzitutto venerati in quanto la vita stessa è generata da loro. Nel mostrare venerazione per i genitori, è importante proteggere il corpo dall'offesa, poiché il corpo viene da essi. Quindi proteggere il corpo è onorare i genitori. Ma non basta: hsiao non è solo prestare cure fisiche ai genitori, ma dare loro una ricchezza emotiva e spirituale. Ugualmente importante, dopo che i genitori sono morti, gli scopi e i propositi del figlio dovrebbero essere i propositi e gli scopi che essi non sono riusciti a raggiungere. Ma hsiao non è solo una virtù familiare: essa diviene una virtù 11 sociale. Quando i figli apprendono il rispetto e la venerazione per i loro genitori, arrivano ad avere rispetto e amore per i loro fratelli e sorelle. E quando hanno fatto ciò, possono rispettare ed amare tutta l'umanità. Quando dunque tutte le loro azioni sono dirette dall'amore per l'umanità, essi agiscono in accordo con lo jen. Se Confucio sognava un'umanità perfetta, frutto dell'amore, dell'educazione e dello studio, era però convinto che questa perfezione non si poteva ottenere se non con l'aiuto del Cielo (T'ien). Sul concetto di T'ien, le interpretazioni sono discordanti. Possiamo comunque dire che egli non si discostava da quelle che erano le idee fondamentali della tradizione antica, e credeva dunque in un Cielo personalizzato, in cui vedeva l'ordinatore divino della coscienza morale dell'uomo. Nonostante i decreti celesti siano infallibili e immutabili (ming), l'uomo rimane responsabile delle sue azioni, e queste non riescono comunque a contrastare il corso degli eventi quale è disposto dal Cielo, ma dipendono dalla malizia dei loro cuori, che cercano i guadagni piuttosto che la rettitudine. La teoria dell'interazione tra cielo e terra era anche alla base della teoria del "mandato celeste", già preesistente a Confucio (a cui poi Mencio diede una sistemazione organica) come fondamento di legittimazione del potere del sovrano. D'altronde il confucianesimo stesso, pur essendo sorto come filosofia e morale secolare, assunse progressivamente una serie di elementi religiosi, come quelli delle religioni diffuse, elaborando tutto un sistema di riti di riti ufficiali ed inglobando la cosmologia delle teorie dello yin e yang e dei cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua). Egli parla pure del Tao, della legge morale cosmica, per seguire la quale l'uomo doveva praticare il li (cerimonie, riti). Egli quindi rendeva omaggio agli spiriti degli antenati e compiva i sacrifici come se essi fossero presenti, ma nello stesso tempo criticava l'abuso delle cerimonie e dei riti e il comportamento di coloro che compivano le cerimonie tradizionali, senza la debita reverenza o che, compiendole, peccavano contro il Cielo: "se si offende il Cielo, non serve pregare" (Dialoghi, 3,13). Confucio non si atteggiò mai a superuomo o a profeta. Il suo era soprattutto un insegnamento pratico, guidato dalla consapevolezza delle difficoltà del compito che si era prefisso, del dovere e della responsabilità che si assumeva. Il suo insegnamento era quindi più esortazione che teoria. Egli credeva nella bontà dell'uomo e nell'azione benefica dello studio: "E' difficile che un uomo che abbia studiato per tre anni non sia diventato buono" (Dialoghi, 8,12). Ma ammoniva: "Studiare senza meditare è inutile, meditare senza studiare è pericoloso" (Dialoghi, 2,15). Confucio non si poneva mai al di sopra degli altri e non si sopravvalutava mai. Inoltre, modestamente, concludeva: "Io tramando, non creo" (Dialoghi, 7,1). CONFUCIO Pensatore cinese (Chuehli, Shantung 551 circa - Chufu, 479 a.C.). Il suo vero nome era K'ung Ch'iu; dai discepoli fu chiamato K'ung Fu Tzu o "Venerato Maestro K'ung", nome che i primi missionari latinizzarono in Confutius, da cui l'italiano Confucio. Dopo aver ricoperto varie cariche, Confucio divenne ministro della giustizia del feudatario di Lu, ma non essendo i suoi consigli accettati da questi, scelse la via dell'esilio ed andò errando per tutta la Cina nell'inutile ricerca di un principe che applicasse i suoi principi etico-politici. Tornato a Lu, fondò una scuola ed ebbe numerosi discepoli. Confucio non si atteggiò mai a fondatore di una scuola filosofica, nè volle istituire una religione nuova: andava, invece, ripetendo di voler "trasmettere e non creare, studiando ed amando le istituzioni dell'antichità". Ipotizzò un antico periodo aureo in cui saggi sovrani governavano la Cina e cercò di ristabilire tale modello mediante lo studio ed il miglioramento etico dell'individuo: il sistema filosofico-politico da lui auspicato prese il nome di confucianesimo. La tradizione gli attribuisce la redazione di alcuni dei ching o libri canonici. Numerose sono le leggende che fiorirono intorno alla sua persona, come quella creata dai taoisti che favoleggiarono di un suo ipotetico incontro con il loro caposcuola, Lao-tzu. Molti aneddoti sulla sua vita, abbastanza attendibili perché raccolti in epoca di poco successiva alla sua morte, sono compresi in uno dei libri canonici, i Lun-yu o Dialoghi. Da tale opera sappiamo come Confucio morisse convinto dell'inutilità del suo insegnamento, non avendo trovato principi disposti ad accettarne le idee e non essendosi verificati quei fatti sovranaturali che, secondo quanto dicevano gli antichi Cinesi, avrebbero dovuto precedere la scomparsa di un genio. Ma l'influsso di Confucio, se fu di poco 12 conto durante la vita, divenne grandissimo dopo la sua morte. Gli furono edificati templi in tutta la Cina per onorarne la memoria e per due millenni il suo pensiero rimase la materia di studio per ogni cinese che intendeva dedicarsi alla cosa pubblica. Ma all'inizio del sec. XX la critica e soprattutto i nuovi avvenimenti storici ne hanno drasticamente ridimensionato la portata, mettendo in evidenza il suo sostanziale conservatorismo e imputandogli la cristallizzazione della società cinese. IL TAOISMO Del Taoismo non è possibile stabilire con precisione cronologica l'epoca originaria di formazione, ma la sua apparizione si può far risalire al periodo della dinastia Chou ( 1027-481 a.C.). Il taoismo si distingue per la notevole forza polemica, per lo spirito critico, per la sua posizione anticonformista; recupera l'antico patrimonio religioso del popolo cinese e lo interpreta come impegno totalizzante della persona, con esperienze mistiche, magiche, astrologiche, divinatorie che investono l'intero piano dell'essere, proponendo una via salvifica personale all'individuo.Tuttavia il taoismo, anche quando si organizza in "chiesa" e si inserisce nella vita cinese, non diventerà mai religione di stato. Due furono i momenti storici dello sviluppo del taoismo. Il primo fu il taoismo sviluppatosi fra il settimo e il quinto secolo a.C., all'epoca della prodigiosa fioritura di scuole di pensiero in Cina. È rappresentato da tre grandi filosofi: Lao-Tzu, Chuang-Tzu, Lieh-Tzu . Il secondo fu il taoismo religioso o popolare che apparve sotto la dinastia degli Han. Guidava le masse contadine affamate e desiderose di un ordine nuovo, una specie di visionario taumaturgo, Chang Chiao. Ma ben presto i ribelli furono annientati dall'efficiente macchina statale che ristabilì l'ordine con feroci repressioni nelle quali morirono migliaia di contadini. Verso il quinto secolo d.C., il taoismo pare consolidato come chiesa con le sue strutture gerarchiche opposte a quelle buddhiste e confuciane. A capo della chiesa vi è il maestro celeste: T'ien-Shih, il "papa taoista"; le varie comunità sono presiedute da maestri e shih. Vi sono poi i Signori (Chu-chih) e i Maestri dei talismani mentre i membri che non fanno parte della gerarchia costituiscono il "popolo taoista". Tra i tanti imperatori cinesi (alcuni ostili, altri indifferenti e solo pochi favorevoli al taoismo) ricordiamo: Li Shih- min: uno dei più grandi imperatori della Cina, che ampliò con la sua politica gli orizzonti culturali e religiosi del paese, sostenendo il taoismo nella sua diffusione. Kao- Tsung: visitò Poh-Chow (patria di Lao-tzu) e dispose che i funzionari alle cariche pubbliche studiassero il Tao Teh-ching. Lung-chi: subì l'influenza del misticismo taoista, ordinò il culto di stato per Lao-tzu e fece erigere un'accademia per lo studio dei classici taoisti In questo periodo furono riconosciuti al confucianesimo e al taoismo uguali funzioni e diritti. Più avanti nei secoli, il taoismo dovette subire il confronto con altre dottrine e, a seconda dell’imperatore regnante, fu approvato o messo al bando. Fino al 1311 il taoismo fu rappresentato ufficialmente nell’amministrazione pubblica, dove si sviluppò al di fuori dell’ufficialità come una delle forze più autenticamente cinesi e costituì l’unica vera alternativa spirituale. Più avanti nei secoli, il taoismo dovette subire il confronto con altre dottrine e, a seconda dell’imperatore regnante, fu approvato o messo al bando. Fino al 1311 il taoismo fu rappresentato ufficialmente nell’amministrazione pubblica, dove si sviluppò al di fuori dell’ufficialità come una delle forze più autenticamente cinesi e costituì l’unica vera alternativa spirituale, fino a giorni nostri, per chi intendeva inserirsi nella tradizione religiosa nazionale cinese. MANICHEISMO All’inizio della dominazione sasanide, nella regione del Fars erano venerate le divinità Ahuramazdah e Anahita. Il re Sapur I si pose l’obiettivo di creare una religione di stato che potesse esprime il neonazionalismo iranico. Trovò la risposta nel manicheismo che suscitò l’avversione della classe sacerdotale mazdaica e venne distrutto con la scomparsa dell’imperatore. Mani, uomo nobile, si professava inviato da dio, al pari di Zaratustra, Gesù e Buddha. Egli si ispirava alle tradizioni iranica, babilonese, buddhista e cristiana. Secondo la sua religione, il mondo è formato dalla lotta tra il BENE ed il MALE, luce e tenebre. Nell’uomo l’anima ed il corpo rappresentano rispettivamente la luce ed il corpo: la morale manichea si sviluppa attorno alla liberazione dell’anima dal corpo. Quando tutta la luce e tutte le anime tenute prigioniere saranno liberate e 13 saliranno al sole, il cielo e la terra (la materia) crolleranno e si separeranno, mentre il regno della luce durerà in eterno. I fedeli si dividono tra eletti ed uditori. I primi si identificano nel clero che è tenuto al celibato, devono astenersi dalla carne ed evitare la cupidigia e la menzogna. I secondi hanno diritto di sposarsi, possono lavorare, devono conservarsi puri e non aspirare alla ricchezza. Non sono ammessi sacrifici cruenti né immagini divine, ma preghiere e digiuni. I manichei praticano il battesimo, la comunione e ricevono l’assoluzione prima della morte. Il manicheismo subì l’influenza gnostica, in quanto dimostrò un’avversione per l’ebraismo, considerata la religione delle tenebre. Gli inni, di ispirazione babilonese, sono enunciati da Zoroastro; dal cristianesimo vengono presi il dogma della trinità ed alcune parti del Vangelo; i nomi degli angeli erano siriani. Sapur I vede la debolezza delle religioni tradizionali iraniche e cerca di contrapporre all’ascesa del cristianesimo e del buddhismo, che nel regno Kusana era divenuta religione di stato, questo nuovo culto, sperando di farlo divenire religione di stato. Il mazdeismo si trovò minacciato all’interno, nonché stretto all’esterno dalle altre religioni monoteiste. Alla morte di Sapur I, si diffusero violente persecuzioni contro tutte le religioni, in particolare contro il manicheismo. Mani venne sottoposto a giudizio e condannato al supplizio. I suoi fedeli lasciarono l’Iran e si recarono in Asia centrale, la Siria e l’Egitto, dove diffusero la propria religione. Essa conobbe un discreto successo in Cina (dove si diffuse anche il cristianesimo nestroriano), Mongolia e Nord Africa, dove venne combattuto da S. Agostino. Da qui il manicheismo si diffuse nel sud della Francia, dando vita alla seta purista dei Catari, che nel 1200 venne combattuta aspramente dai cattolici che ne massacrarono tutti i proseliti. Con l’imperatore Narsete il manichiesmo conobbe un nuovo periodo di successo, in quanto fu posto in contrapposizione con il cristianesimo che si stava diffondendo in Mesopotamia, finchè lo zoroastrismo non lo annientò definitivamente in Iran, divenendo religione di stato. 14