LA COMUNICAZIONE INTERROTTA di Fabio Merlini CAP.1 – La comunicazione è interrotta I (Lettera di Fabio Merlini a Fulvio Papi) CAP.2 – la comunicazione è interrotta II (Risposta di Fulvio Papi a Fabio Merlini) CAP.3 – La politica nella crisi del tempo storico. Nota per un’etica del presente. La frantumazione della storia avrebbe dovuto porre con urgenza alla politica il problema di quale nuovo senso attribuire alla nozione di prassi. Soprattutto avrebbe dovuto porlo a quei progetti politici che più direttamente hanno pensato la loro azione a partire dall’identità tra mondo, tempo s storia. Il condizionale è d’obbligo poiché sorge il sospetto che la politica si sia piuttosto limitata a spostare su queste forze l’idealità della vecchia metafisica della storia, contribuendo all’affermazione di una nuova ideologia del progresso che ha trovato nell’economia e nelle tecnologie della comunicazione un suo potentissimo vettore d’affermazione. Non è facile capire in che senso sia possibile parlare di fine della storia. Per non dire quando crisi politica e fine della storia sono messe in relazione. Se qualcosa è finito non è certo la storia in quanto accadere di eventi. È finita invece l’epoca dell’immagine storica del mondo, cioè quell’epoca che nella storia aveva potuto riconoscere il senso stesso della temporalità umana. Il termine finita significa che la storia ha cessato di essere una significazione condivisa a partire da cui costruire progetti, immaginari futuri, amministrare eredità. Il che comunque non significa che questo particolare investimento del tempo sia del tutto scomparso dal mostro immaginario. Il fenomeno della mondializzazione è tematizzato attraverso la categoria della storia. Cioè secondo quella tipica schematizzazione del rapporto tra eventi e tempo resa possibile dal ricorso al singolare collettivo. Questo comporta il fatto di poter pensare la mondializzazione in quanto processo. Non siamo quindi usciti dalla modernità. Siamo moderni nell’affrontare un evento che continua ad essere raccontato attraverso il suo linguaggio. Nella prospettiva dell’emancipazione ciò che è veramente in gioco è la legittimazione del presente nell’assetto della sua tendenza dominante solo che anziché fondarla sulla memoria del passato (sulla tradizione) la legittimità è ora fondata sull’anticipazione di un’immagine rassicurante del futuro. Nella prospettiva della regressione in gioco è la legittimazione del proprio presente: un’autocoscienza critica che però cerca nuovamente di fondare la propria legittimità sull’anticipazione del futuro anche se di segno radicalmente opposto. La storia è stata il sogno filosofico della modernità. Il risveglio da questo sogno pone alla politica il problema di scelte che non possono più contare sull’idea di una continuità cumulativa, la quale, comunque vadano le cose, riesce sempre ad inscrivere il tempo umano in una dimensione di senso univoca. Dunque non resta che il presente o per meglio dire i presenti con le loro differenze. I presenti attuali sono tutto ciò che deve importare a una politica. Non quindi cosa sacrificare oggi per ottenere qualcosa domani ma cosa potenziare oggi, come mantenimento di quella promessa che giustificò i sacrifici di ieri proprio in nome del presente che oggi siamo chiamati ad abitare. Il contenuto della promessa sarebbe differito all’infinito. Così come sarebbe reiterata all’infinito la controparte del sacrificio. È su questo punto che si misura tutta la portata dell’attuale crisi della politica. CAP.4 – Politica e storia. L’impostura della fine delle ideologie. Quando oggi si parla di ideologia non ci si riferisce alla scienza delle idee ma alla formazione di pensiero edificata sulla dimenticanza o rimozione della ragione materiale delle cose: tutti quei sistemi che credono di potersi ergere sul vuoto senza alcun riguardo per la base reale della storia della vita. La possibilità attuale di tacciare i ideologico un pensiero presuppone sempre l’opposizione positivista tra oggettività dello sguardo scientifico e razionalizzazione soggettiva. Quando si accosta il tema della politica a quello dell’ideologia si dà per scontato che anche la politica ha a che vedere con la verità. Una politica attraverso i partiti che la sostanziano si pensa sempre come giusta e si autodefinisce giusta quando crede di essere nella verità. Tutto ciò è perfettamente esemplificabile non appena si torna con la memoria alla rivoluzione del ’89 con la caduta del muro di Berlino. Questo modo di vedere le cose riconosce nella forma democratica della gestione politica una modalità di governo che corrispondenza all’essenza stessa del genere umano. La legittimità dell’universalizzazione della democrazia liberale e la sua interpretazione come evento epocale che sancisce la conclusione della storia in quanto raggiungimento finale di un ideale che non sarebbe più stato da migliorare. Dalle macerie del muro di Berlino è spuntato il discorso sulla fine dell’ideologia per indicare la nuova alba di un presente trasparente a se stesso svincolato da sistemi politici e di pensiero. La realtà storica è entrata in un’altra logica narrativa: il racconto dell’identità tra mondo umano e mercato, il racconto del mercato come ordine spontaneo della società, la possibilità di emancipazione e di sviluppo universali. Non c’è niente di più ideologico che parlare di fine delle ideologie. L’ideologia non è qualcosa che scompaia con il declino di una sua particolare incarnazione. Il passaggio dall0ideologia dei grandi racconti dominati dalla storia universale all’ideologia del racconto unico dominato dalla figura del mercato universale è corrisposto al passaggio da un regime in cui universale e individuale erano congiunti in un’unica figura in un regime in cui vige invece la distinzione tra universale ed individuale. Universale appalto delle forze dell’economia della finanza internazionale, individuale di tutte quelle pratiche private esplose con la cultura della new age. Dunque per un verso c’è il soggetto universalizzato in quanto meccanismo dell’impresa globalizzata e dall’altro il soggetto individualizzato da tutta una serie di esercizi e pratiche che sostituiscono alla produzione della parola la riappropriazione del corpo. Il tema del racconto e delle narrazioni svolge qui un ruolo centrale 1 perché il nostro accesso alla realtà, a quello che percepiamo come nostro mondo, non è mai immediato. Ogni discorso sull’ineluttabilità di un fenomeno storico è ideologico perché in determinati momenti storici ci si riconosce molto più come soggetti a e non come soggetti di. La naturalizzazione di un fenomeno storico è sempre il risultato della combinazione tra una determinata congiuntura storica e il suo raddoppio narrativo. Non solo vediamo ed esperiamo le cose grazie al fatto di poterne parlare, condividendone i significati. Anche il fatto stesso di dirle in un certo modo contribuisce alla possibilità del loro presentarsi in quel modo. La rivoluzione a noi occidentali non appare più una possibilità praticabile. Oggi viviamo tutti la grande apertura di uno spazio senza limiti, spazio illimitato dell’informazione, della comunicazione, della circolazione dei capitali e delle merci. Qual è la qualità del tempo che accompagna quest’incredibile espansione dello spazio? È il tempo istante dell’immediatezza, il tempo articolato sull’asse del brevissimo termine. Il tempo che restringe sempre di più l’orizzonte di attesa fino a farne un punto confuso con il presente aperto all’approfondimento delle proprie potenzialità ma del tutto chiuso all’irruzione del futuro in quanto irrompere differenziale. La nostra contemporaneità non è post modernità. Siamo nella situazione in cui una cosa che non si realizza subito nella forma in cui è attesa esce dal nostro futuro, perchè il nostro futuro è solo ormai una radicalizzazione del presente. Una tendenza che si va radicalizzando anche nel campo della ricerca scientifica. Viviamo nell’epoca dell’attesa impaziente: o subito o niente. Per questo è meglio parlare di ipermodernità. All’estensione dello spazio corrisponde il restringimento del tempo: abbiamo davanti a noi uno spazio enorme ma non abbiamo più tempo. il che è una conseguenza dei processi di velocizzazione delle informazione e di contrazione delle distanze. Politica e democrazia sono confrontate oggi dal dramma di questa dittatura dei tempi corti dove occorre fornire soluzioni rapide e immediate a problemi che per la loro gravità e portata sono all’ordine del giorno su scala internazionale. Ci sono meccanismi che fanno sì che oggi le politiche democratiche non possano sottrarsi a questa regola dell’immediatezza perchè facendolo ostacolerebbero quegli stessi interessi da cui deriva il consenso a governare. Laddove si accosta politica e democrazia si parla anche sempre con una certa insistenza di libertà. Libertà che ha a che vedere con un progetto quotidiano di emancipazione da quei vincoli interni ed esterni che si frappongono all’autorealizzazione individuale e comunitaria. Libertà come processo incessante di liberazione. Stare però dentro le logiche imperanti non sembra un grande progetto di libertà a meno che la parola abbia già da tempo perso il suo potere significante. Non sarebbe del resto la prima volta che una parola continui a circolare per forza d’inerzia nonostante la sua totale assenza di contenuti. Può allora darsi che il dibattito sulle democrazie liberali, sulla loro legittimità, sul loro rapporto all’etica, parli di cose che non ci interessano più perché hanno ormai cessato di appartenere al mondo in cui troviamo oggi le condizioni del nostro vivere, del nostro essere, del nostro parlare quotidiani. CAP.5 – Scienza e saggezza. Scene da un divorzio. Sulla scienza, e in generale sulla tecnologia, circola oggi un luogo comune: scienza e tecnica in se stesse non sono né buone né cattive; buono o cattivo è semmai l’uso che ne viene fatto. Quindi cosa può essere ritenuta neutra? Una cosa è considerata neutra non solo quando l’insieme degli elementi di cui si compone appare indipendentemente da quella pluralità di forze, controforze, interessi, compromessi e poteri che concorrono a farla essere così come è ad un determinato stadio del suo sviluppo a anche quando il giudizio anziché investire la cosa stessa è spostato sulla natura degli effetti prodotti. Tra gli effetti e la cosa si interpone una terza istanza con la funzione di interromperne la continuità. Un intermedio che assume su di sé la cocausalità della cosa liberandola da ogni responsabilità per affermarsi quale unico spazio legittimo dell’attività giudiziaria: lo spazio delle applicazioni. La cosa può apparire neutrale perché è sull’universo delle applicazioni che viene ora spostata la valutazione: buona o cattiva applicazione. Affermare però che, per rapporto agli effetti, scienza e tecnologia creino un problema solo al livello della loro trasformazione pratica, significa avere già interiorizzato da qualche parte il divorzio e la frattura tra scienza e saggezza. La possibilità di interrompere la continuità tra cosa e potenziale di una cosa è assicurata dal fatto che con potenziale s’intende lo spazio delle applicazioni. Da una parte la scienza e la tecnologia, dall’altra la saggezza in quanto sapere indipendente in grado di assicurare loro un’implementazione virtuosa. La conoscenza in questo quadro bisogna collocarla sia sul versante della scienza che su quello della saggezza solo con un valore molto diverso. Perché nel primo caso essa equivale a produzione della conoscenza, nell’altro è sapere del buon uso e del buon orientamento degli effetti prodotti da questo universo composito. Conoscenza teoretica da una parte e conoscenza pratica dall’altra. Parlare di natura umana violata è un modo di difendere i propri diritti identitari, il proprio mondo, interpretandone il declino come processo di denaturalizzazione. Mentre ciò che è in gioco è piuttosto una rinaturalizzazione dell’umano. La debolezza della tesi sulla neutralità della scienza e della tecnologia risiede nel fatto di dimenticare che sapere e prassi non sono mai in realtà semplicemente agite dai soggetti come se da una parte vi fossero gli oggetti, i linguaggi e dall’altra gli uomini, col loro potere di disporre in modo più o meno ponderato. La distinzione tra sapere scientifico e saggezza si è verificata in un punto preciso della catena storica: la rivoluzione scientifica del ‘700. se si guarda da un punto di vista diacronico, l’impressione è che per poter diventare scienza (teoria) e dominare il campo della conoscenza, il sapere abbia dovuto necessariamente scorporare la saggezza dal proprio organismo, assegnandole uno spazio di applicazione indipendente. Se invece si adotta la prospettiva sincronica, saggezza e scienza appaiono piuttosto come due dimensioni del sapere che corrono parallele, anche se in determinati momenti della storia il dominio dell’una sospinge l’altra verso spazi marginali. Tuttavia in ciò non vi è contraddizione , poiché nel primo caso il passaggio dall’una all’altra è un avvicendamento tra forme 2 culturali egemoni. Mentre nel secondo si tratta piuttosto della difficile convivenza tra una forma culturale dominante che ha un forte riconoscimento generalizzato e una forma culturale marginale. La disgiunzione tra scienza e saggezza ha un’origine determinata. È la distinzione operata, per la prima volta da Aristotele, tra una ragione teorica orientata alla comprensione di un ambito della realtà che non può essere diversamente da come è e una ragione pratica orientata invece alla comprensione di tutto ciò che potrebbe benissimo essere diverso da come si presenta tra l’universo della necessità e l’universo della contingenza. Si può dire che Aristotele affronta l’orizzonte della conoscenza e del suo valore morale, distinguendovi specifiche aree di competenza. Con saggezza è possibile tradurre lemmi diversi dalla connotazione non solo morale. La saggezza è la virtù suprema, in base ad un’interscambiabilità con il sapere che non permette ancora di operare alcuna distinzione tra i due. Sapere in quanto saggezza e saggezza in quanto sapere. È in quest’equivalenza che si realizza la pratica quotidiana della verità, cioè la capacità di parlare e di agire secondo quel canone che rispetta l’ordine naturale delle cose. Aristotele interviene analiticamente proprio su questa unità. La filosofia metafisica, cioè la conoscenza dell’essere in quanto essere, è distinta in modo netto dalla saggezza. Per la prima volta incontriamo l’idea della filosofia come un’attività di natura scientifica. Viene introdotta la distinzione tra scienze teoretiche (matematica, fisica, filosofia), scienze pratiche (universo della prassi) e scienze poetiche (arte e tecnica). Questa separazione non è però irrevocabile. La storia della cultura conoscerà ancora molte altre volte il matrimonio tra scienza e saggezza: filosofia ellenica, filosofia neoplatonica, filosofie cristiane fino alle posizioni bioetiche contemporanee. Questa vicenda di separazioni e di ricongiungimenti è al centro dello sguardo di Dilthey. Nella sua lettura, la tensione tra filosofia intesa quale sapere orientato all’elevazione spirituale dell’individuo e filosofia intesa quale sapere positivo può essere letta come evento originario che condizionerà il suo sviluppo futuro, indipendentemente dalla storicità dei linguaggi, dei problemi e degli oggetti con i quali si vedranno confrontate le diverse prospettive. Essere, valori, scopi, virtù: così chiama Dilthey i temi del filosofare. Indicano una realtà plurale ma il loro fondamento è cercato attraverso un sapere unitario. Dilthey ha un atteggiamento filosofico differente da Aristotele: non più il sapere in quanto mdium di un progresso concernente la personalità e la società umana in vista della libertà e della felicità interiore, la serenità, bensì il sapere per il sapere cioè la conoscenza teoretica. La felicità è ora interna alla conoscenza (teoretica). E ciò grazie ad una purezza che richiama l’assenza di scopo e di oggetti del pensiero divino. La scuola aristotelica rappresenta per Dilthey il terreno in cui l’ideale di un lavoro scientifico, articolato in modo unitario, trova una sua straordinaria opportunità di realizzazione. La conquista dell’autonomia delle singole scienze positive rispetto al sapere filosofico, colta sullo sfondo della scomposizione dell’impero di Alessandro Magno, è letta come un evento destinato a ripetersi ogni qual volta la filosofia conduce a maturità uno dei suoi campi di ricerca. A partire da quel momento, il sapere interessato recide il legame con la sua origine, per procedere in modo indipendente, obbligandola così ad interrogarsi di nuovo sulla sua vocazione. La storia che Dilthey tratteggia a partire da Aristotele non è una storia lineare ed esclusiva. È una storia che si intreccia, si scontra, si contamina con altre vicende culturali fra le quali quella prodotta dall’incessante ridefinizione dello statuto della conoscenza filosofica. Dilthey parla di un mutamento di posizione della filosofia intervenuto dopo la morte di Aristotele, in relazione alla questione della saggezza. La filosofia è chiamata a riconsiderare l’orientamento del suo sguardo. Epicureo, Zenone, Lucrezio, Cicerone, Seneca, Epitteto sono le figure principali di questa nuova posizione dello spirito filosofico in cui prende progressivamente corpo l’interesse per una conoscenza mirata alla vita, alla comprensione del suo significato, alle strategie per la sua valorizzazione: non più mera teoria, scienza totale, bensì disposizione di vita, saggezza. Per Epicuro la filosofia è innanzitutto una terapia che ha per obiettivo la salute dell’anima, il che conduce necessariamente ad una riorganizzazione gerarchica dei campi della conoscenza e dei loro legami: al vertice l’etica e in posizione strumentalmente subalterna la logica e la fisica. Per Epitteto la centralità della riflessione sulla morale è tale da estromettere dallo stesso ambito della conoscenza la logica e la fisica in modo che tra filosofia e saggezza vi sia un’identificazione esclusiva. Lucrezio assegna alla filosofia il ruolo di una forza razionale basata sulla conoscenza della natura. Una conoscenza in cui la scienza fine a se stessa, pur essendo ancora sullo sfondo, perde quel carattere di finalità in sé che è propria anche della contemplazione. Lo scopo ora è quello di emancipare l’uomo dai vincoli delle passioni, dai condizionamenti della società, dalla soggezione alle credenze e alle istituzioni infondate. Fuoriuscire dall’alienazione qui significa realizzare l’idea del sommo bene, assicurandosi una condizione stabile di piacere che sia però libera da ogni soggiogamento al desiderio del corpo e dell’anima. Una condizione che come insegna cicerone trova nell’adempimento quotidiano del dovere e della virtù la sua principale garanzia di affermazione. Cura di sé è l’espressione che ritroviamo nelle ricerche dell’ultimo Foucault per descrivere il carattere autoriflessivo di un lavoro della conoscenza rivolto alla perfezione morale dell’anima. C’è certamente un momento a partire dal quale la scienza non è più stata saggezza. In pratica, quando il confronto tra sapere e campi del sapere, conduce la conoscenza sulla strada della scienza, trasformandola in un processo di disciplinarizzazione che finisce col sospingere la saggezza al di fuori del suo orizzonte. Dal momento in cui l’interesse per la totalità ha cominciato a lasciare spazio al mero interesse per i suoi singoli elementi la saggezza come scienza e contemplazione della totalità si è trovata catapultata in una vicenda completamente diversa. Saggezza poteva così cominciare a significare terapia dell’anima, etica, morale. CAP.6 – Cura di sé e cura del mondo. Di alcune possibili derive. Perché mai parlare di possibili derive nel caso di un’esperienza autoriflessiva quale è appunto la cura del Sé? Merlini guarda con strumentazione filosofica alla nostra contemporaneità per vedere dove e per quali motivi e 3 con quali effetti sia possibile riconoscere qualche cosa come una cura di Sé alla deriva. Il riferimento implicito è a tutto un insieme di discorsi e di pratiche aventi per oggetto il corpo e la mente, le sue potenzialità, l’aumento delle sue performance o la correlazione dei suoi handicap, la salute, il benessere, l’equilibrio e l’emancipazione da una condizione, quella umana, determinata dalla finitudine. Penso ad una possibile deriva della cosiddetta new age o ad una possibile deriva della cosiddetta epoca della tecnoscienza. Dietro comportamenti diametralmente opposti come la cura di sé, in quanto tecnicizzazione del soggetto, e la cura di sé quale spiritualizzazione vi sarebbe il trionfo di una stessa affermazione di sfida dell’uomo che si divide tra l’immagine di un sé onnipotente e totale se solo avesse il coraggio di abbandonarsi anima e corpo alle risorse della ricerca scientifica e dell’invenzione tecnologica e l’immagine di un sé incondizionatamente autosufficiente se solo sapesse scoprire dentro di sé tutte queste meraviglie. È possibile riferirsi, per il primo caso, all’irruzione della tecnologia telematica nella medicina, alla ricerca su prototipi di protesi da applicare al sistema nervoso come apparato cognitivo in vista dell’acquisizione o della correlazione di una determinata facoltà, agli esperimenti con i neuroni al silicio nel tentativo di riprodurre alcuni meccanismi di apprendimento e di riconoscimento legati per esempio all’udito. Mentre per il secondo ci si può riferire a certi libri esplicativi come Pensiero positivo per creare la realtà, Come potenziare la propria energia,… Sulla questione della tecnicizzazione qui interessa la sua traduzione al livello di una cura del sé che diventa anche cultura di sé, come acquisizione di nuove abitudini quotidiane. Cultura di sé come reinscrizione del soggetto in una nuova antropologia con tutto ciò che una tale reinscrizione comporta quanto a resistenze, opposizioni, ma anche prospettive di emancipazione. Deriva della cura di sé significa quindi perturbazione della cultura di sé. È, come dire, il caso di una variante corrotta della cura di sé che, nell’esercizio stesso della sua riproduzione, diventa in cultura, cioè incuria verso il mondo e gli altri. La cura di sé assume così la forma di un potenziamento di sé, con effetti distruttivi sull’ambiente umano e naturale. E si può dire anche che la cura di sé come desiderio di onnipotenza significa qui potenziamento di un’immagine di sé in cui si realizza operativamente una delle componenti che hanno dato forza ed efficacia al progetto della modernità. Quella che è già possibile intravedere in Bacone, Cartesio, D’Alambert e condorcet. La cura di sé, in quanto reinterpretazione, messa in pratica della teoria, può intervenire quale strumento affermativo di un’immagine creativa del sé che se per un verso è perfettamente cosciente dei suoi limiti strutturali, per altro verso sa anche di possedere gli strumenti necessari al loro superamento. Se in questo senso diamo alla cura di sé il significato di un’attività che ritraduce a livello individuale l’orientamento di un certo insieme di saperi e di discipline possiamo forse affermare che la cura di sé nelle sue manifestazioni più corrotte è anche il luogo in cui si riproducono le ideologie come ad esempio passare dalla scienza allo scientismo (l’unica conoscenza valida è quella delle scienze naturali). La deriva della cura di sé in questo campo informa una modalità particolare di rapporto con il mondo. Esso trova il mondo come un campo di soddisfazione del proprio desiderio di affermazione e di conoscenza aperto ai capricci di quella volontà di potenza che da Nietzsche in poi riassume tutte le malattie, le debolezze e le perversioni dell’individuo moderno. Habermas riconosce un’altra deriva che sostituisce a questa invasività l’indifferenza. Egli identifica nella new age come appagamento del bisogno dell’uno e dell’intero andato perduto facendo ricorso a un sistema scientifico che diventa sempre meno comprensibile. Il mondo non è più oggetto di interesse perché qualsiasi intervento che ne avesse di mira la trasformazione non conduce mai là dove avremmo voluto. Non è possibile cambiare il mondo essendo esso semplicemente una nostra stimolazione neurologica. Come dire: il mondo siamo noi. Universalità e totalità appaiono qui come conseguibili attraverso un cammino che devia in direzione dell’interiorità. Un’interiorità/individualità ricca di un tesoro che si nasconde solo a chi non vuole vederlo e che nessuna esteriorità mondana riuscirà mai ad eguagliare. È questo un quadro comportamentale molto edificante. Qualora però si declina in una cura solipsistica (autoesaltazione dell’io) della propria interiorità tutta assorbita dalla conquista di un sé universale e totale quello che conta è solo l’io, il suo autocompiacimento narcisistico. Foucault osservava come nei primi secoli della cristianità la cura del sé costituisse non già un esercizio nella solitudine bensì una vera e propria pratica sociale. Proprio quello che non può avvenire quando per l’io, l’altro, il mondo, le cose non sono nulla di più di un pallido riflesso del proprio sé, del proprio potere, della propria falsa infinità. CAP.7 – Nuova era, quante storie. Di alcune incomprensioni. Da qualche decennio ormai siamo testimoni di un fenomeno di grande diffusione chiamato new age e poi con il passare degli anni chiamato next age in cui rientra un enorme ventaglio di pratiche: aspetti della cultura tradizionale del mondo orientale, riferimenti sacrali provenienti da mitologie nordiche, frammenti dell’esoterismo rinascimentale, riferimenti all’arte della divinazione, all’astrologia, all’alchimia, prospettive terapeutiche alternative, reintegrazione della teoria junghiana sull’inconscio collettivo, rielaborazioni delle nuove correnti psicoterapeutiche solistiche,… Una composizione molto eterogenea, complessa e variegata. Ora le direzioni imboccate dal movimento della new age possono condurre il luoghi non facilmente prevedibili e radicalmente differenti tra di loro, così come diversa può essere la loro valutazione dall’esterno (autoritaria e di rifiuto radicale o comprensiva, interessata al loro valore sintomale). Una direzione subito evidente è quella che intende risarcire l’assenza di religiosità e il materialismo spinto delle odierne società secolarizzate con nuove forme di dogmatismo religioso. Un’altra direzione concerne invece la questione del tipo di rapporto che l’insieme di queste pratiche inaugura incoscientemente col mondo circostante umano e naturale, col corpo, col proprio sé, con gli altri, al punto che in alcuni casi sorge l’impressione di trovarsi di fronte una nuova 4 variante della cura di sé studiata dall’ultimo Foucault per il mondo classico. Potremmo dire che si dà qui qualcosa come l’esperienza di un mondo invisibile che nell’ascolto prende progressivamente corpo. CAP.8 – Tre promesse della tecnica. Tempi della promessa e promesse fuori tempo. È indubbiamente corretto pensare alla tecnica dal punto di vista della sua storia. Ma vi è anche una storia filosofica della tecnica in cui la questione non è più quella della tecnica al plurale, cioè le diverse tecniche interpretate a partire dal loro rapporto con la prassi secondo un’analisi orizzontale interessata a certificarne sviluppo e diffusione. Non più quindi le tecniche ma la tecnica accostata in base ad un approccio verticale interessato alla sua radice profonda: il discorso della tecnica come discorso sull’essenza della tecnica. Una lettura che ha permesso di stabilire una connessione inattesa tra tecnica moderna e storia della metafisica cioè tra essenza della tecnica e oblio dell’essere. È dunque la tecnica sottratta a qualsiasi creazione umana, a qualsiasi visione strumentale. La tecnica come ultima figura temporale della nostra storia, compimento finale di un destino che conduce per un verso alla fine della propria storia e per altro verso all’alba di un nuovo inizio. Anziché interrogare la tecnica con una filosofia che si arrischi nuovamente sul terreno della promessa è necessario affrontare l’idea della tecnica in quanto orizzonte in aggirabile di ogni uomo e di ogni storia. Questa si può identificare attraverso 3 promesse: 1. promesse centrate sul raggiungimento dell’essenza dell’uomo. Questa prima promessa si può collocare sotto l’egida di una nozione di Herder che identifica l’uomo come un essere di mancanze, organicamente carente. È possibile far intervenire la tecnica come un fattore di compensazione, di riequilibrio, di integrazione, di sostituzione: di compimento. La tecnica prima ancora di essere ciò che un giorno gli assicurerà la supremazia sulla natura rappresenta la possibilità stessa della sopravvivenza umana e della realizzazione dell’uomo in quanto uomo. Il che significa pensare il rapporto uomo/tecnica attraverso l’idea della loro coevoluzione e dunque pensare alla tecnica come inerente alla natura umana. Si profila così l’idea di un essere che modella in modo artificiale le condizioni della propria esistenza. La tecnica è il veicolo di un perfezionamento che contribuisce ad innalzare l’uomo al suo destino umano così da assicurargli quella essenza che non è data in modo improvviso. 2. promesse centrate sulla realizzazione dell’umanità degli uomini. La si può collocare sotto l’egida della magia. L’emancipazione dell’uomo intesa quale elevazione alla sua umanità, il suo processo di civilizzazione può esserci solo in quanto effetto di una tecnica particolare resa possibile da una conoscenza disincantata della natura. Emancipazione, civilizzazione: ritroviamo qui l’affermazione dell’insufficienza originale dell’uomo, della sua incompletezza naturale. C’è l’idea di un livellamento ontologico delle creature. Per l’uomo il superamento dei limiti naturali è la condizione di un’emancipazione che comporta un lavoro d’incremento del potere delle proprie disposizioni: esercizio che non ha nulla a che vedere con la fortuna o la grazia divina. La natura con il suo ordine e il suo corso è una forza che bisogna imparare a conoscere per poi poterne fare qualcosa. Poiché come la condizione originaria dell’uomo non è stata decisa così anche la natura può essere trasformata a determinate condizioni. Arte e scienza definiscono un sapere operazionale che si sottrae alle leggi naturali per poter farvi ritorno grazie alla sofisticazione di una tecnica di controllo capace non solo di dominarle ma anche di orientarle. Le conoscenze prodotte da questo sapere positivo dovrebbero permettere di pensare all’arte magica in termini completamente desacralizzati a partire da una cognizione mondana delle cose naturali acquisita sulla sola base delle facoltà dell’individuo e non ricorrendo a potenze extraumane. Se la scienza in generale è uno strumento per riscattare la condizione limitata dell’uomo, la magia è qui una tecnica desacralizzata che accresce le forze interiori dell’uomo e rinnova radicalmente il dominio della conoscenza. Scienza e magia sono discipline complementari perché un sapere che non si traduce in una prassi è vano così come è del tutto inefficace una pratica che non sia in grado di fondarsi sul sapere. Giordano bruno sottolinea la necessità di disporre di una teoria universale delle cose che gli permetta di agire non solo sulle cose, ma anche sugli uomini, in un’ottica civilizzatrice dell’intera vita umana. Da questo è possibile riconoscere una delle possibili vie lungo la quale avrebbe potuto incamminarsi il binomio sapere/potere. L’investimento moderno della tecnica non ha invece intrapreso questo cammino. Vent’anni dopo la drammatica morte di Giordano Bruno, Bacone pone la possibilità di assicurare dei vantaggi al genere umano sotto il segno di un nuovo approccio induttivo, il quale, almeno dal punto di vista programmatico, non ha più nulla a che vedere con il progetto della scienza bruniana. Come Bruno anche Bacone afferma la necessità di coltivare il potere delle facoltà umane per il bene e la felicità delle società. Ma vi risponde con il progetto di una instaurazione che non può che edificarsi progressivamente grazie al contributo sperimentale di diverse generazioni secondo un’idea di comunità scientifica valida ancora oggi. 3. promesse centrate sul superamento dei limiti imposti all’umano. La terza promessa della tecnica si può collocare sotto una triplice egida: quella del binary digit, del cyberspazio e del virtuale. Si tratta ancora una volta di una promessa di liberazione. Bit e cyberspazio definiscono una possibilità tecnica di emancipazione che interessa piuttosto l’affermazione e lo sviluppo di qualità proprie dell’uomo. Si profila l’idea di una tecnica a funzione valorizzante, che rassegna l’umano alla sua individualità 5 irriducibile, liberandone la creatività grazie al supporto di un movimento rapido e leggero (bit) e di un contesto (cyberspazio) orizzontale e continuo, unificante e senza limiti cioè democratico. In questo caso alla tecnica si riconosce la facoltà ontologica di ridisegnare la realtà nell’estensione di suoi confini. Il concetto per definire questo lavoro sulle coordinate del reale si chiama virtualità. Il termine non è sinonimo di perdita di realtà ma al contrario indica la condizione di possibilità di un nuovo potere di creazione del senso, di liberazione di energia e di incremento di creatività: una qualità d’essere, iperreale, che consente di superare il qui e ora dei nostri contesti tradizionali di esistenza. E questo grazie alla messa tra parentesi dei limiti spazio temporali dell’esperienza quotidiana. La valorizzazione dell’uomo in tutta la sua possibile varietà richiede questo affrancamento che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione contribuirebbero a realizzare grazie alla diffusione di una struttura orizzontale priva di centro, orientato a incoraggiare una messa in comune democratica e differenziale di stili, competenze, linguaggi, pensieri, qualità. La promessa della tecnica ha dunque a che vedere con un arricchimento dell’esistenza, delle sue potenzialità, ma soprattutto dell’intelligenza. Intelligenza connettiva e intelligenza collettiva sono le due espressioni utilizzate per definire questo nuovo stadio nello sviluppo dell’essere umano: una progressione che mirerebbe al superamento della stessa individualità dei soggetti sociali. È ancora il caso di una promessa che sa di poter contare sull’alleanza tra tecnica e accumulazione dei suoi effetti. Ma l’accumulazione ora non è più declinata come lo era prima sull’asse del tempo cessa cioè di essere una conseguenza della storia. Si presenta per la prima volta come un effetto della sola tecnica un prodotto della sua capacità di provocare la conoscenza e di liberare una nuova intelligibilità delle cose di renderla comunicabile, interscambiabile, e dunque di metterla a disposizione di altri soggetti. La rete di internet non avrebbe dunque più bisogno della storia. Tutto sarebbe già a disposizione, perché nella sua stessa struttura, essa è il tempo fattosi spazio, disponibilità immediata e assoluta, eterno presente che oblitera il tempo storico e che, grazie al suo potere, si presenta come la realizzazione stessa di ogni possibile promessa. CAP.9 – Universalità, identità, conflitti. Idee per una ridefinizione post-metafisica del concetto di storicità. Comprendere veramente cosa significhi scomparire nell’indifferenza anonima di una morte cieca e implacabile, non è stato per Rosenzweig un esercizio puramente intellettualistico soprattutto quando le circostanze sono date come in questo caso dall’esperienza della guerra di trincea. Nell’epoca moderna, la maschera dietro cui la filosofia dissimula la sua indifferenza si chiama storia. Storia è infatti il concetto mediante il quale la modernità riarticola, nella concretezza del divenire temporale, l’opposizione metafisica tra particolare e universale, apparenza ed essenza, inessenziale ed essenziale. Ma non solo essa è anche il concetto a cui la modernità ha affidato il compito di mediare sino a ridurre a zero la differenza tra l’essere e il dover essere. D’altra parte che la tarda modernità sia stata chiamata epoca della post istoria dipende anche dalla progressiva esautorazione della storia rispetto a questo duplice compito. Tra immaginario della guerra moderna, immaginario degli Stati nazionali e quindi anche immaginario del sacrificio esiste un intreccio che il concetto di storia aiuta a capire. Il mondo umano corrisponde al mondo storico perché la storia diviene una costruzione dominante della temporalità. Perciò non deve sorprendere se l’età moderna ha riservato alla filosofia politica il destino di dissolversi all’interno della filosofia della storia. Con la modernità, fatto e norma, essere e dover essere cessano di essere separati da una distanza di ordine ontologico. Reale e ideale sono ora solo momenti successivi di un medesimo orizzonte chiamato storia, il quale ha già in sé il potere di superare la loro differenza. L’ideale diventa così una questione di attualizzazione che è compito del processo storico portare a compimento. Proprio perché in quanto storia, il mondo umano è trovato in una autosufficienza che delegittima qualsiasi riferimento a un criterio di verità esterno quale ad esempio veniva considerata la natura nel pensiero politico classico. L’epicità non è più quella dell’eroe marziale che con il suo gesto altero e irriverente nei confronti della morte consegue la fuoriuscita dalla vita impersonale e anonima dei suoi simili guadagnandosi la memoria dei posteri. L’epicità al contrario è invece ora tutta assorbita dalla stessa impersonalità del processo universale che effettua senza esitazioni la marcia in vanti dell’umanità. Che cosa ne è dei conflitti armati post moderni una volta appurato il declino della figura della storia? Vediamo a quale livello di pertinenza innanzitutto si colloca il riferimento al simbolico. Riscontriamo l’impiego del simbolico nelle reazioni neo conservatrici e anarchiche contro una ragione che avrebbe ormai riassunto i caratteri esclusivi della strumentalità. Una critica che accomuna filosofia, antropologia, etnologia e sociologia. Ciò che emerge sono le distorsioni e l’impoverimento malgrado i risultato ottenuti della razionalità intesa nel senso moderno di un dispositivo fonologico, riduttivo e potentemente selettivo. Il simbolico non è solo l’orizzonte che definisce le modalità di un’articolazione del rapporto col mondo di tipo precategoriale è soprattutto pensato come una risorsa, un contropotere, che può essere mobilitato per contrastare quelle linee di forza imperialistiche che farebbero dell’epoca moderna l’epoca dell’immagine del mondo. A questa conflittualità è stato speso dato il titolo di lotta contro il sistema della rappresentazione. Per certi versi ritroviamo qui un opposizione simile a quella che serve a distinguere tra comunità e società, tra volontà naturale e volontà razionale. Però la prospettiva a cui l’autore intende riallacciare la si può riassumere nella triplice caratterizzazione della natura del simbolico come costitutività, non arbitrarietà, specularità. Il simbolico non è principalmente una modalità della conoscenza ma è prima di tutto la condizione stessa affinché un 6 mondo possa essere predisposto all’attività della conoscenza e dell’esperienza. Inoltre è un’attività che per poter produrre forme d’intelligibilità deve a sua volta aderire a un determinato piano d’organizzazione simbolica senza il quale non sarebbe pensabile alcun processo di istituzione del mondo. Infine è caratterizza il modo in cui il simbolico si rapporta alla realtà all’interno del processo della conoscenza. L’oggetto della conoscenza è sempre il prodotto di una formalizzazione che deve attenersi alle regole di mediazione culturale simbolica presupposte nella costruzione di ciò che è possibile nella costruzione di ciò che è possibile presentare ogni volta come una oggettività. Il simbolico consisterebbe in quella pratica di esibizione che permette di cogliere il mondo nelle sue molteplici configurazioni, ora come antico, ora come medioevale, ora come moderno. Ecco perché a questo riguardo è stato possibile parlare di una finitudine radicale delle epoche. La storia in quanto singolare collettivo viene a costituire il perno stesso attorno a cui il progetto della modernità ha potuto non solo organizzare la sua idea di prassi, ma anche far corrispondere a tale idea una ben precisa immagine dell’uomo. E se da un lato la storia si è imposta come la verità incondizionata del modo di essere del mondo, d’altro lato in mondo e storia divengono una cosa sola nel senso della perfetta convertibilità dell’uno nell’altra. Il soggetto storico è precisamente quel soggetto che ha per mondo un orizzonte in aggirabile delle produzioni umane: il soggetto della modernità. Caratterizzare la tarda modernità in base a ciò che oggi si è soliti chiamare fine della storia vuol dire proprio riconoscere al livello della storia il venir meno di una figura strutturante o meglio riconoscere il declino di una figura di mondo che aveva in essa il suo veicolo principale. La scena simbolica che si apre è quella di uno spazio che alte figure di mondo hanno finito col rioccupare la fine dei grandi racconti è solo l’emergere di altre metanarrazioni. Attraverso quali apriori il mondo tardo moderno si apre alla nostra esperienza? In che modo essi lascerebbero vedere dove l’apriori della storia universale sia andato a finire e perché? La loro compresenza all’interno di un medesimo tempo comporta una conflittualità? Qualche decennio addietro, nel campo della riflessione politica, a queste domande si sarebbe risposto con il concetto storicista di Geschichte. Perché era proprio nella storia che si poteva individuare il principio capace di dare universalità alla prassi. Oggi la risposta suona assai diversa in quanto l’immagine che ci viene subito incontro è piuttosto quella del mercato. Mercato è qui da intendersi quale una particolare forma di organizzazione socioeconomica. In questo senso il mercato mondiale è la realtà che oggi pare voler evocare a sé i principi di universalità della vecchia metafisica della storia. Il mercato si sostituisce alla storia poiché esso viene presentato coattivamente come l’istanza in grado di esaudire quelle richieste di libertà, emancipazione e autodeterminazione che l’immaginario della storia non è più in grado di soddisfare. Ma si potrebbe anche dire che la storia è andata a finire nel mercato perché qui essa ha trovato un alleato che non potrebbe riprodursi senza mantenere in vita buona parte dei significati appartenenti al suo campo scientifico. Due sono le linee analitiche che occorre intrecciare: quella che mostra come la variante mercantile del mondo si fondi ancora su una idea della natura che è quella dei sistemi positivisti e idealisti della filosofia della storia ottocentesca e quella che mostra come una simile concezione della natura non sia invece più in atto in buona parte delle rappresentazioni circa lo spazio in cui si sedimentano i prodotti della nostra storia materiale. La forma in cui si presenta oggi la nostra prassi è quella che definisce il nostro modo di praticare e al tempo stesso di istituire un mondo come il mondo possiede già al suo interno un motivo decisivo di frattura. Una lotta però del tutto estranea a quella con cui la tradizione marxista aveva pensato il conflitto di classe. Si tratta di una lotta per l’affermazione di un’idea univoca della soggettività in quanto veicolo di un’idea univoca di prassi e quindi anche di mondo. Quali sono concretamente le tendenze e le controtendenze sembrerebbero circoscrivere qualcosa come un’esperienza tardo moderna della storicità? Se accettiamo di dare alla categoria della secolarizzazione il significato di un movimento indirizzato a spostare il baricentro del potere dal teologico al politico diventa anche possibile pensare la mondializzazione come una secolarizzazione della mondanizzazione cioè come un superamento delle diverse località del potere politico in direzione di un potere estraneo ai suoi confini territoriali. Di un potere cioè che si astrae dal mondo, dalle sue diverse località per poter disporre meglio del mondo, per poterlo attraversare il più velocemente possibile in tutta la sua estensione e in tutte le sue direzioni e quindi tale da portare a compimento il processo di contrazione dello spazio e del tempo sociali. Quale potere? Il potere del capitale tardivo, del capitale della finanza, il capitale delle attuali economie di mercato, un potere leggero, opposto nei suoi media alla struttura pesante del potere dello stato tradizionalmente condizionato dal controllo di un territorio e delle sue risorse anche in termini di popolazione e di conoscenze. CAP.10 – Mondo, soggetto, senso. Condizione della storicità senza storia. Non sembra possibile affrontare l’esperienza della storicità senza storia come precipua condizione della nostra attuale soggettività senza fare prima i conti con quell’insieme di concetti (coscienza storica, storicità) che proprio lì ha trovato la sua sistemizzazione più coerente. Il riferimento a Gadamer ha anche obiettivo di far emergere subito l’incongruenza di una espressione che dichiara di poter disgiungere la storicità della storia. Quali sono i presupposti in base ai quali storicità e storia si presentano come fenomeni inscindibili? In linea generale possiamo dire sono due i casi in cui ciò accade: quando l’esperienza della storia viene affrontata con l’intento di dare allo stile del suo sapere una fondazione trascendentale. E quando il discorso sulla fondazione si applica alla storia. Dunque una domanda sulle condizioni di possibilità della scienza storica è una domanda sulle condizioni di possibilità della stessa storia. Due domande la seconda delle quali si presenta subito come la soluzione della prima. Cosa rende inseparabili i due termini vita e scienza? Il fatto di collocare nello stesso modo di essere del soggetto dunque in una ontologia la ragione d’essere del mondo storico ossia della storia universale. Il fatto di porre il come della vita umana a basamento del come del 7 mondo. Riconosciamo qui la strada che conduce dallo storicismo all’ermeneutica contemporanea passando per Nietzsche e Marx. Se però anziché parlare di modo di essere del soggetto pensiamo quest’ultimo nei termini di una modibilità d’essere ciò che accade immediatamente è la sostituzione del piano ontologico con il paino antropologico. Sono diverse antropologie nel senso di forma di vita a fare dell’esistenza sia da un punto di vista diacronico (storia) sia sincronico (geografia) ciò che essa è e solo può essere: una disposizione di esistenza di volta in volta specifica. Alla base del desiderio di autenticità è possibile intravedere il giudizio su di un’epoca che si afferma lasciandosi alle spalle quel sentimento eroico del tempo e della memoria che Nietzsche dal canto suo si era premurato di segnalare all’attenzione distratta dei suoi contemporanei come la grande promessa non mantenuta del secolo. Ci troviamo dinanzi a una forma di vita o meglio alla nostalgia per una modellazione dell’esistenza più immaginaria (desiderata che reale) eppure immaginata proprio a partire da quella realtà specifica che è la coscienza storica in quanto segmento costitutivo dell’antropologia del soggetto moderno. Ma una forma di vita che si oppone con tutte le forze all’evidenza del suo declino quando con declino si intende l’effetto del sopraggiungere in autentico della stessa esistenza in generale. L’articolazione autenticità/in autenticità sintetizza in una sola esperienza due forme di esistenza conflittuali antagoniste in ogni caso esterne l’una con l’altra, dove quella promessa ha mancato. Mentre in autenticità traduce il sentimento dell’irruzione di una modalità di essere sostitutiva che riflette il progressivo configurarsi di un mondo in cui tale possibilità subisce un radicale e impietoso processo di desemantizzazione. Con o senza storia la storicità non è né più né meno autentica: dipende tutto dal significato che si intende dare alla trascendenza del mondo, tanto il mondo che si riconosce temporalmente nella storia quanto il mondo che non sente più la storia come proprio orizzonte di senso. Il discorso sull’opposizione/modo/modalità ha consentito di introdurre il termine di antropologia. Il significato oscillante tra antropologia intesa quale campo discorsivo (asse antropologico) e l’antropologi in quanto modellizzazione antropologica ossia pluralità delle forme in cui si da congiunturalmente l’esistenza umana. Chiamo soggetto storico la modellizzazione relativa alla configurazione storico del mondo, soggetto del mercato la modellizzazione che definisce la storicità senza storia. Conseguentemente chiamo mondo l’effetto di un certo insieme di prassi: quelle riducibili al dettato impositivo di dire (discorsi) e di un fare (azioni) diffusi e dominanti: che danno corso esecutivamente alle direzioni del mondo. Il declino dello spazio della storia in quanto tempo universale dell’umanità si intreccia con il declino di quella configurazione del mondo che aveva trovato nel singolare collettivo storia una cifra fondamentale della sua verità sull'ontologia. Tale vuoto di storia comporta immediatamente il pieno di un’altra configurazione il cui imporsi retroagisce sull’identità di tutti quei soggetti che proprio in questo nuovo divenire trovano ora la ratio in base a cui riorientare le loro pratiche quotidiane. Un problema che è assieme ontologico e antropologico. Dal lato ontologico il tema della fine della storia non deve essere qui limitato alla coscienza del declino dell’idea di progresso. Ciò che importa rivelare è piuttosto lo sfaldamento di quel terreno solido che avrebbe dovuto assicurare un’intera civiltà dalla ricaduta nelle barbarie. Il disincanto della storia è anche disincanto e fine di un mondo. Chiamo questa configurazione del mondo: mondostoria. Se è vero però che ciò malgrado il mondo continua in modo evidente di essere nel bene e nel male un oggetto progetto di esperienza allora questo duplice declino deve gioco forza corrispondere l’imporsi di un’altra configurazione di mondo. Per cui là dove si fa questione della storicità senza storia bisogna anche sempre interrogarsi su cosa subentri al suo posto se non è più la storia a conferire al mondo il suo canone dove si concentra l’istanza che attualmente intende avocare a se quei criteri di esperibilità del mondo che erano stati propri dell’invenzione moderna della storia. Non è difficile individuare questo punto preciso nel binomio mercato/capitale. Il lato antropologico del problema è che quanto appena osservato ha un’immediata ripercussione sulla costituzione della soggettività implicata in questo processo di sostituzione. Poiché in quanto tale soggettività possa ancora definirsi moderna non lo è già più. Non è possibile fingere che il concetto di storia sia ancora più o meno implicitamente a disposizione. Un mondo procede sempre da un altro mondo, un’epoca da un’altra epoca, un tempo da un altro temo, una prassi da un’altra prassi senza che tra gli uni e gli altri vi sia per forza processione lineare. In campo teorico vedo migliore espressione dell’interpretazione marxiana della crisi del mondo moderno intesa in quanto sconvolgimento di un organismo che collassa nel modo dell’autosuperamento. Non quindi per cause esogene bensì endogene. Un’interpretazione che con la lettura storico dialettica del destino del mercato mondiale fa la teoria del cosiddetto materialismo storico. La costellazione identificata attraverso il binomio mercato/capitale quale ritaglio d’epoca consente di contraddistinguere? Se l’analisi marxiana del sistema economico moderno di produzione affronta la realtà del mercato mondiale è anche per mostrare come tale realtà costituisca una possibilità reale di riconoscere la storia della filosofia idealista a un livello estraneo alla sua speculatività astratta: in un’esperienza empirica coinvolgente, l’esistenza di tutti gli individui. La storia universale non appare nemmeno più come il fattore qualificante del tempo intersoggettivo. È l’evoluzione dei rapporti sociali a condurre per la prima volta nella storia dell’umanità al piano della storia universale. Siamo dinanzi ad una comprensione della storia universale che a sua volta deve essere compresa storicamente attraverso la ricostruzione della vicenda con cui si è progressivamente affermata. Anzichè presentarsi come l’origine della storia empirica la storia universale ne diviene un semplice effetto, che ha appunto la sua condizione di possibilità nella mondializzazione provocata dal modo di produzione capitalista. La mondializzazione del mercato derivata dalla rivoluzione borghese condizioni fisiche di universalità capaci di ridisegnare il sistema d’interazione delle diverse società, il che apre anche a una diversa esperienza del tempo, la cui universalità è tutta nella nuova estensione geografica che supporta un tale sistema. Il mercato mondiale ha soppiantato la funzione storia. Chiamo mercato mondo questa nuova configurazione con la sua linea di spartizione tra ciò che è possibile e impossibile fare, ragionevole e irragionevole immaginare e proporre, conveniente e sconveniente sperare. Se è vero che la 8 storia è finita è altrettanto vero che anche quanto la sociologia chiama il capitale immateriale o autoreferenziale della odierna economia di mercato non rimane certo estraneo a una tale trasposizione. Vi è almeno un senso in cui è possibile dire che a livello simbolico il mercato rimpiazza la storia. D’altra parte allorquando si cerca di determinare la forza in grado di assumere su di se l’universalità è proprio il capitale il fenomeno che immediatamente si impone. Il capitaòe diviene una nuova forma di dominio che ancora prima di mondanizzarsi deve fuggire la pesante mondanità territoriale dei vecchi luoghi fisici del potere politico e economico. È legittimo sostenere che la mondializzazione in un certo senso è una secolarizzazione della mondanizzazione. Una mondanizzazione di secondo grado caratterizzata dall’irresistibile sostituzione dell’articolazione politica del potere con una nuova articolazione finanziaria che cerca a ogni costo di fare astrazione dai suoi tradizionali luoghi dell’esercizio e di applicazione facendo del mondo non più un’immagine fisica del tempo bensì dello spazio. CAP.11 – Mercato e utopia. Suggestioni dal Faust di Goethe. L’utopia se vogliamo attenersi allo schema di Mannheim sarebbe il risultato di un processo di trasformazione concernente l’ideologia nel senso che la prima viene intesa come uno specifico trattamento della seconda: l’espressione di una volontà insoddisfatta che si applica all’ideologia con l’intenzione più o meno cosciente di tradurla nella pratica realizzandone le aspirazioni qui e ora. Dunque per come lo ricostruisce Mannheim avendo di mira le società postmedioevali il passaggio dall’ideologia all’utopia consentirebbe di spiegare quest’ultima dal punto di vista dell’insoddisfazione di una volontà a intesa vocazione realizzativi rivoluzionaria alimentata da ideologie di stampo trascendente. Nello schema di Mannheim l’ideologia assume il significato di un orientamento che guarda oltre le forme concrete di vita senza per questo impedire il loro consolidamento. Visto che il suo spazio naturale è collocato al di la della storia l’ideologia viene presenta da Mannheim come un elemento essenziale della società stessa integrato armoniosamente e organicamente con la visione prevalente nell’epoca. L’ideologia diventa utopia quando il contrasto o la contraddizione tra idealità e realtà si trasforma in una forza che fa appello alla trascendenza per attaccare la legittimità dell’immanenza. L’utopia è in sostanza una ideologia con in più l’elemento reattivo e conflittuale della frattura rispetto all’esistenza. Mentre per l’ideologia l’incongruenza fra trascendenza dell’idealità e immanenza della realtà non fa problema l’utopia opera in vista della sua eliminazione, per questo le sue aspirazioni entrano necessariamente in conflitto con la realtà presente. Mannheim ci mostra però un solo lato del processo. La riduzione prosaica dell’utopia, il suo appiattirsi sul reale comporta anche d’altra parte un’elevazione utopica della realtà, l’effetto che consente alla realtà di assumere su di se quelle stesse aspirazioni che l’utopia tradizionale ascriveva invece alla trascendenza. Fra le figure del tempo riconoscibili nel Faust di Goethe alcune in modo particolare sembrano allegoricamente chiamare in causa l’utopia: 1. c’è innanzitutto il tempo dell’agire quando l’impresario interviene perentoriamente a stroncare la discussione tra il poeta e l’attore comico invitandoli a produrre fatti anziché parole. L’impresario invita il poeta a un economia della parola, ciò su cui egli ammonisce invece di non risparmiare o economizzare sui mezzi tecnici per accattivarsi il pubblico: la grandiosità estetizzante dell’impianto scenico con i suoi fondali, le sue attrezzature, le sue luci e i suoi trucchi. Il tempo dell’agire e della decisione corrisponde al tempo del fare. 2. c’è il tempo inarrestabile e insensato del mondo. Siamo nella celebre scena dello studio allorquando Mefistofele torna per la seconda volta a visitare Faust il quale è ora alle prese con il tempo del giorno del suo cammino, un tempo vuoto e veloce, inconcludente che trascorre senza però condurre da nessuna parte. È il tempo come flusso perpetuo. Decreta la negazione di qualsivoglia utopia, sulla base del modo stesso di accadere degli eventi. È l’annullarsi di ogni realtà nel perpetuo flusso del tempo. 3. un’altra figura del tempo è quella che misura il percorso dall’ingresso accompagnato di Faust nel mondo sino al punto dove si consumano le vicende di Faust una volta abbandonato il suo studio. È il tempo della tragedia, un tempo generato dalle conseguenze della promessa di appagamento incondizionato che Mefistofele si impegna a mantenere con Faust in cambio dei suoi servizi nell’aldilà. 4. il tempo in quanto oggetto della scommessa che Faust rigira a Mefistofele dopo averne ascoltato la proposta. È il tempo dell’arresto, quello che potrebbe inceppare il meccanismo del continuum temporale in cui qualora si realizzasse segnerebbe la fine, è il tempo dell’impossibile pace, dell’impossibile autoconcepimento, dell’impossibile godimento. Il tempo della scommessa mette in gioco proprio l’esistenza dell’istante utopico. 5. il tempo della voluttà che non cesserà di ossessionare Faust una volta incontrato Margherita. È questo il momento del desiderio, della brama, del possesso. 6. il tempo dell’amore nella stanza di Margherita dove Faust vorrebbe indugiare ore e ore. È il tempo che per un istante interviene a annullare quello precedente trasformando la brama e la lussuria in un’estasi amorosa. Mefistofele e poi anche Faust si trovano al cospetto dell’imperatore della corte del sacro romano impero: lo stato è malato, lamenta il cancelliere, sopruso, rapina, violenza infuriano, è un mondo in cui sono venute meno le regole del vivere civile. È un mondo in trasformazione dominata per un verso dalla profonda crisi finanziaria dello stato e per altro verso dall’affermarsi di nuovi soggetti economici, nuove forze finanziare, nuovi rapporti sociali che sottraggono progressivamente la proprietà, il guadagno e la ricchezza ai vincoli 9 tradizionali. Ci troviamo dinanzi all’emergere di nuove figure imprenditoriali in grado non solo di emanciparsi e quindi di rendersi indipendenti dal potere politico ma anche si estromettere quest’ultimo dal controllo sulla ricchezza. Non si tratta dunque a ben vedere dell’assenza di ricchezza bensì della reimpostazione delle sue procedura e della ridefinizione dei suoi beneficiari. Mefistofele suggerisce alla corte dell’impero il modo di reagire alla crisi così da contrastare la forza dei nuovi soggetti economici riparando al contempo anche i danni causati da un operato politico autoritario e irresponsabile. Quello che occorre ora è recisamente una rinnovata grandiosa esibizione della ricchezza dello stato. Ma da dove attingerla? Dal suo stesso suolo in base al diritto che è possibile esercitare su di esso. Il suolo diventa ora un luogo di depositi preziosi già pronti all’uso e allo scambio. Incarnadosi l’utopia si sparzializza in un luogo geografico preciso assumendo i connotati di una natura prodiga, disponibile proprio per il fatto di essere un’utopia solo funzionale. Un inganno di Mefistofele che si rivelerà presto per quel che è. Essa richiama altresì il discorso sul tempo del mondo che oppone il suo continuum famelico al desiderio di eternità dell’istante. Dove conduce la scoperta di questa utopia topica? Conduce alla scena del giardino di svago. La ricchezza virtuale di cui ci si trova improvvisamente a beneficiare diventa la garanzia in oro della convertibilità di una enorme quantità di carta moneta che nel giro di una notte viene magicamente diffusa in tutto l’impero. È dunque possibile leggere questo episodio come una allegoria del radicamento storico/effettuale dell’utopia: la trasformazione dlel’utopia millenarista in utopia topica radicata al suolo di questo mondo. Così come è anche possibile cogliervi implicitamente l’eco del fenomeno della desacralizzazione dello stesso spazio della natura quando essa si fa improvvisamente teatro di un’operatività predatoria interessata a portarne allo scoperto i tesori. La fine della storia come utopia della modernità non è la fine dell’utopia in tutte le sue possibili varianti. L’osservazione di Mannheim sul declino della volontà umana quale conseguenza dell’eliminazione degli elementi trascendenti la realtà deve essere rilanciata. Se è vero che così come vi sono differenti modalità di utopia differenti sono anche le modalità antropologiche in cui prende corpo la volontà umana. Oggi un suolo di questo tipo ci è dato dall’attuale assetto economico del mondo. Poiché è proprio questo mondo e non la proiezione o la rivendicazione che condividiamo volenti o nolenti dei nostri scambi comunicativi a presentarsi e ideologicamente come il solo possibile luogo della salvezza, soprattutto dopo che si è consumato il declino della storia come utopia moderna. 10