Complessità Mirko di Bernardo - Associazione Italiana Medicina

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Mirko Di Bernardo
Complessità e significato nei sistemi biologici
1. La grande domanda
Al libro del 1944 Che cos'è la vita? di Erwin Schrödinger si ascrive il merito di aver ispirato
una generazione di fisici e di biologi alla ricerca della natura fondamentale dei sistemi
viventi. Fu Schrödinger, infatti, ad introdurre in biologia la meccanica quantistica, la
chimica ed il concetto di informazione (in particolar modo a livello embrionale).1 Egli fu
l'antesignano della nostra concezione del DNA e del codice genetico poiché tradusse l'idea
del dire nell'idea del codificare. Dato che un cristallo regolare, pur essendo ordinato, non
può codificare molta informazione, la sostanza del gene, secondo il grande scienziato,
doveva essere una forma di cristallo aperiodico e la forma dell'aperiodicità avrebbe dovuto
contenere una sorta di codice microscopico capace di controllare l'ontogenesi. Inoltre, il
carattere quantistico del solido aperiodico stava a significare che si sarebbero verificati
piccoli cambiamenti discreti: le mutazioni.2
Il 28 febbraio del 1953 Francis Crick entrò nell'Eagle Pub di Cambridge, in Inghilterra,
dichiarando di aver scoperto il segreto della vita. Il 25 aprile dello stesso anno Watson e
Crick pubblicarono sulla rivista Nature un articolo in cui si presentava il modello della
struttura a doppia elica della molecola di DNA.3 Questo modello divenne una sorta di icona
simbolo della rivoluzione scientifica che stava nascendo poiché grazie ad esso fu possibile
comprendere il ruolo e la funzione svolti da questa misteriosa macro-molecola all'interno
della cellula. I due scienziati, infatti, capirono che il DNA, essendo un «archivio di
informazioni» che risiede nel nucleo stesso della cellula, contiene anche le istruzioni
necessarie per potersi auto-replicare. La scoperta della doppia elica del DNA e della sua
particolare proprietà di auto-replicazione, dunque, diedero nascita alla necessità di
giungere ad una delucidazione della natura ultima del codice genetico. Diversi scienziati
lavorarono a questo progetto ambizioso (Watson, Crick, Monod, Gamow, Niremberg e
Wilkins), un progetto che, però, venne realizzato pienamente solo a metà degli anni
sessanta.
Alla fine degli anni sessanta, quindi, fu chiaro che nei sistemi biologici due meccanismi
chiave connettono il linguaggio del DNA con quello delle proteine: la trascrizione dal DNA
all'mRNA e la traduzione dallo mRNA alle proteine. Le originali intuizioni di Schrödinger
erano ormai realtà.
Nasceva così il dogma centrale della biologia molecolare, ovvero la concezione secondo
cui ad ogni gene corrisponde una proteina: il DNA, infatti, codifica le proteine e,
successivamente, le proteine fanno l'organismo. Alla luce di tutto ciò, dunque, possiamo
fare due considerazioni. In primo luogo, è possibile affermare che con la nascita della
biologia molecolare si assiste alla confutazione dell'olismo ingenuo (la prospettiva secondo
cui lo studio delle parti può essere tralasciato poiché il tutto non è riducibile alla somma
delle stesse) e all'apparente vittoria del riduzionismo (la visione secondo cui l'indagine sul
tutto può essere tralasciata poiché quest'ultimo è riducibile alle parti che lo costituiscono) e
del determinismo genetico secondo cui conoscendo le condizioni iniziali di un sistema (in
questo caso i singoli geni di un organismo) è possibile prevederne lo stato finale (nel caso
di un embrione è possibile prevedere con certezza le caratteristiche dell'organismo adulto).
In secondo luogo, risulta opportuno riconoscere il fatto che questa visione nasconde una
forma di materialismo: sotto certi aspetti, infatti, gli organismi viventi e l'uomo sono
semplicemente il risultato della somma dei loro geni i quali, tra l'altro, costituiscono
sequenze di acidi nucleici contenute nei cromosomi (quindi una realtà meramente fisica).
Il DNA, pertanto, rappresenta una semplice molecola costituita da elementi chimici
presenti anche nella materia non vivente.
2. Cibernetica e Biologia
Nel 1970 viene pubblicato dal biologo francese (premio nobel nel 1965) J. Monod il volume
Il caso e la necessità, un testo che avrebbe cambiato il volto della biologia contemporanea.
Il grande biologo francese, infatti, mettendo in stretta relazione la scienza degli automi di
J. von Neumann, la teoria delle macchine di A. M. Turing, la cibernetica di N. Wiener, la
teoria dell'informazione così come elaborata da Shannon e Wiener, la teoria innatistica di
Chomsky e la teoria evoluzionistica di Darwin, di fatto, offre alla biologia la possibilità di
costruire un nuovo paradigma e di individuare un codice per esso. L'intreccio di questi
ambiti di ricerca, dunque, pone le basi per la configurazione della cibernetica come scienza
dell'auto-regolazione in grado di fornire i primi modelli matematici capaci di
«interpretare» la realtà profonda dei processi biologici di auto-organizzazione. Nel suo
volume, inoltre, Monod individua nella teleonomia, nella morfogenesi autonoma e
nell'invarianza riproduttiva le proprietà fondamentali degli organismi viventi, ovverossia
quelle caratteristiche che ci permettono di distinguere con chiarezza ciò che è vivente da
ciò che non lo è.
Qualunque artefatto è il prodotto di un'attività di un essere vivente che esprime in tal modo, e con
particolare evidenza una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti gli esseri viventi,
nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e
al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di artefatti.4
Grazie a questa proprietà, ovvero a questa condizione necessaria per definire i viventi a cui
Monod si riferisce con il termine di teleonomia, gli oggetti dotati di un progetto si
differenziano dalle strutture di qualsiasi altro sistema dell'universo. Ciò nonostante, la
teleonomia non è sufficiente a spiegare la differenza tra tali esseri e gli oggetti artificiali,
cioè i prodotti delle loro attività.
Il grande studioso francese allora pone a confronto le strutture e le prestazioni dell'occhio
di un vertebrato con quelle di un apparecchio fotografico e conclude dicendo che se
assumiamo come unico principio di individuazione degli esseri viventi la sola teleonomia
non potremmo che riconoscere tra i due elementi in questione una profonda analogia. Se ci
si limita, infatti, allo studio della struttura di un oggetto e delle sue prestazioni, «possiamo
individuare il progetto ma non l'autore».5 Per cogliere l'autore risulta necessario analizzare
non solo «l'oggetto in sé», ma anche la sua origine e la sua modalità di costruzione. A
questo punto è possibile introdurre la seconda proprietà essenziale che caratterizza un
essere vivente: la morfogenesi autonoma.
La struttura di un essere vivente è il risultato di un processo del tutto diverso (rispetto a quello di
un artefatto), nella misura in cui non deve praticamente nulla all'azione delle forze esterne, mentre
deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni morfogenetiche interne
all'oggetto medesimo.6
La morfogenesi autonoma è una sorta di determinismo interno degli esseri viventi che
assicura la formazione e la crescita dell'organismo favorendo una «libertà quasi totale»
rispetto alle condizioni esterne. Grazie a questo meccanismo è possibile, secondo Monod,
un parallelismo concreto tra macchine e organismi viventi al punto di definire questi ultimi
«macchine che si costruiscono da sé». Il carattere spontaneo dei processi morfogenetici
degli esseri viventi permette loro di distinguersi dagli oggetti artificiali e dagli oggetti
naturali aventi una morfologia macroscopica dipendente da fattori esterni. Ciò nonostante,
vi è un'eccezione: i cristalli. Tali oggetti naturali sono il frutto di un libero gioco di forze
fisiche alle quali non possiamo attribuire alcun progetto (se si considera valido il principio
cardine su cui si basa la scienza moderna secondo il quale la natura è oggettiva e non
proiettiva) e presentano forme geometriche perfettamente definite poiché la loro struttura
macroscopica riflette direttamente la struttura microscopica semplice e ripetitiva. Così,
in base al solo criterio della morfogenesi autonoma, i cristalli verrebbero classificati tra gli
esseri viventi, mentre gli oggetti artificiali e quelli naturali verrebbero ad essere racchiusi
in un'altra classe perché dipendenti da fattori esterni. Monod, nelle prime pagine del suo
libro, cerca di definire, per mezzo di criteri generali, le proprietà macroscopiche specifiche
che differenziano gli esseri viventi da qualsiasi altro sistema dell'universo, pertanto egli si
immedesima in un programmatore che ignora la biologia occupandosi esclusivamente di
informatica e di informazione. Le strutture complesse degli esseri viventi, infatti,
presentano una cospicua quantità di informazione la cui fonte resta sconosciuta:
Ammettiamo che, proseguendo nella sua indagine, quel programmatore faccia la sua ultima
scoperta, cioè si accorga che l'emittente dell'informazione, che risulta espressa nella struttura di un
essere vivente, è sempre un altro oggetto identico al primo. [...] A questo punto egli ha identificato
la fonte e riconosciuto una terza proprietà notevole di questi oggetti: il potere di riprodurre e di
trasmettere -- ne varietur -- l'informazione corrispondente alla loro struttura. Informazione molto
ricca, poiché descrive un'organizzazione straordinariamente complessa che però si conserva
integralmente da una generazione all'altra. Designeremo questa proprietà con il nome di
riproduzione invariante o, semplicemente, di invarianza. 7
La terza caratteristica essenziale degli esseri viventi è dunque l'invarianza riproduttiva,
grazie ad essa gli organismi viventi e le strutture cristalline si trovano ancora una volta
associati. Nonostante questa stretta somiglianza si deve considerare il fatto che
l'informazione che si trasmette nelle diverse generazioni in tutti gli esseri viventi è
superiore di parecchi ordini di grandezza rispetto a quella contenuta nelle strutture
cristalline; quest'ultimo criterio quantitativo permette di discernere gli organismi viventi
anche dai cristalli. Ma torniamo ad esaminare il concetto di morfogenesi autonoma. Tale
processo misterioso, infatti, secondo Monod, mette in luce l'origine spontanea della forma
dell'organismo, ovvero la sua auto-organizzazione.
A questo punto la domanda è la seguente: quale è la natura delle forze interne che
conferiscono agli esseri viventi la loro struttura microscopica? Le strutture degli organismi
viventi rappresentano una notevole quantità di informazione di cui resta solo da
identificarne la fonte. Ancora una volta, le intuizioni di Schrödinger si sono rivelate,
potremmo dire, «gravide di futuro». Tra la vita e la non vita, infatti, vi è una continuità
quantitativa e materiale (le cellule sono fatte di atomi e molecole), ma anche una
discontinuità qualitativa: la «qualità» dell'informazione fa la differenza. La dottrina
monodiana della morfogenesi autonoma, pertanto, individua nel meccanismo
morfogenetico la base sia della teleonomia, sia dell'invarianza riproduttiva poiché consente
agli organismi viventi la conservazione e la moltiplicazione delle specie. L'organizzazione
globale di un organismo complesso è già contenuta nella struttura dei suoi costituenti e
diviene attuale grazie alle loro interazioni, così, è Monod che parla, la struttura compiuta
non è pre-formata in alcun luogo, ma il suo progetto è presente fin dal concepimento.8 La
struttura compiuta, quindi, si realizza senza immissione di informazioni nuove poiché
l'informazione è presente (ma inespressa) nei costituenti e si rivela solo durante lo
sviluppo. L'essenza dell'auto-organizzazione, quindi, agli occhi del grande biologo, risiede
nel concetto di programma genetico (modello cibernetico applicato alla biologia
molecolare): una guida invisibile in grado di dirigere l'organismo e di spiegarne lo
sviluppo.9 Il Programma genetico, pertanto, viene concepito come un programma di
sviluppo della cellula racchiuso all'interno del genoma. In questo programma scritto con
l'alfabeto dei nucleotidi, dunque, risiedono, per Monod, la fonte e l'apparente finalità dello
sviluppo biologico. Secondo un certo parallelismo è allora possibile paragonare il materiale
genetico di un ovulo al nastro magnetico di un calcolatore. Seguendo questa logica, quindi,
l'organismo vivente viene paragonato ad una macchina: i geni costituiscono l'informazione
genetica presente nel genoma da cui dipende la formazione delle proteine e quella
dell'organismo. Immediatamente dopo il concepimento, infatti, esiste in essenza un
programma completo di sviluppo di un nuovo essere vivente, un programma, vale a dire,
che ha la peculiarità di essere singolare e discriminante di ogni organismo. Da un lato,
quindi, il computer programmato rappresenta, per Monod, un modello perfetto di
macchina finalizzata non cosciente e non intenzionale in grado di realizzare un compito in
maniera perfettamente deterministica, cioè prevedibile, dall'altro la struttura molecolare
del DNA e delle proteine può essere interpretata come un messaggio codificato in cui i
meccanismi di replica del DNA e della sintesi delle proteine sono trattati come casi
specifici di trasmissione dell'informazione lungo canali di comunicazione applicando la
teoria dell'informazione di Shannon: come in un computer, infatti, l'origine delle
determinazioni finalizzate in un organismo vivente si trova in un programma inserito nei
geni.
3. I sistemi complessi
Nel 1963 ha luogo un evento che di lì a poco avrebbe contribuito a cambiare sensibilmente
il modo di guardare la realtà in tutte le scienze, compresa la fisica: Edward Lorenz scopre il
caos deterministico le cui basi erano state poste già da Poincarè nel 1889 con il problema
dei tre corpi.
Lorenz mostrò come per avere un comportamento caotico di un sistema dinamico fosse
sufficiente un modello assai semplice di equazioni differenziali non lineari. In questo caso,
infatti, nonostante il rigoroso determinismo della legge di Newton, ci si trova di fronte ad
un comportamento caotico del sistema provocato dall'estrema sensibilità delle soluzioni
delle equazioni alle condizioni iniziali.
Accade che due stati prossimi quanto si vuole, si allontanano esponenzialmente col tempo.
Dall'impossibilità, non solo pratica, ma di principio, di definire le condizioni iniziali con
precisione infinita, discende dunque una sostanziale imprevedibilità dello stato del sistema
che diventa sempre meno dominabile con il crescere dell'intervallo di tempo trascorso
dall'istante iniziale.
Nascono così in tutte le discipline degli anni 60 e 70 (parallelamente agli studi di Monod)
nuovi linguaggi adatti a rappresentare le proprietà dei sistemi caratterizzati da una
complessità funzionale e strutturale che impedisce di dedurle da quelle dei loro
componenti. Esse si basano sull'insufficienza del riduzionismo come unico metodo
scientifico valido accettando l'irriducibilità dei diversi livelli di organizzazione di tali
sistemi e l'impossibilità di trovare spiegazioni esaurienti delle loro proprietà senza
ricorrere a categorie storico-evolutive (gli organismi biologici, la mente, l'organizzazione
sociale, le economie). Questo nuovo modo di indagare la realtà che è stato definito da
alcuni studiosi la «sfida della complessità» porta a ritenere che i fenomeni semplici,
manifestazioni di leggi naturali universali, che per la scienza classica erano la regola, siano
in realtà rare eccezioni.10 Tutto ciò impone, allora, una nuova caratterizzazione del tempo:
il tempo della meccanica classica e relativistica è una semplice variabile nelle equazioni del
moto, fluisce in modo uniforme, non è apportatore di novità, in quanto tutta
l'informazione è contenuta nelle condizioni iniziali. Oggi, invece, si impone un nuovo
concetto di tempo, poiché la maggioranza dei fenomeni chimici, fisici e biologici non si
spiegano in termini di «leggi» ma di «processi», in cui il tempo è continuamente
apportatore di nuove informazioni, poiché nel tempo si determinano le «scelte» del
sistema, che vanno a costituire la sua «storia», secondo una evoluzione non predicibile a
partire dalle condizioni iniziali.
Ad Ilya Prigogine, premio Nobel nel 1977, si deve l'applicazione dei sistemi complessi in
ambito biologico; in particolare, egli si è occupato dello studio di sistemi ordinati in nonequilibrio. Un esempio di struttura continua in non-equilibrio è dato dalla Grande Macchia
Rossa di Giove che è essenzialmente un sistema di tempeste presente da diversi secoli. Si
tratta di un organizzazione stabile di materia ed energia attraverso cui entrambe fluiscono.
La similitudine con un organismo umano le cui componenti molecolari cambiano molte
volte durante il corso della vita è suggestiva.
I sistemi termodinamici in non equilibrio, quindi, sono alimentati dalla costante
dissipazione di materia ed energia, pertanto vennero chiamati da Prigogine strutture
dissipative, ovvero sistemi in cui il flusso di materia ed energia diviene una forza trainante
in grado di generare ordine:
Questo è uno stato di cose paradossale che sfida la nostra intuizione del comportamento delle
popolazioni numerose. Al caos indifferente dell'equilibrio segue un caos creatore simile a quello
evocato da alcuni presocratici, un caos fecondo, da cui potenzialmente possono uscire differenti
strutture.11
I sistemi viventi, dunque, in accordo a Prigogine, sono strutture dissipative (vortici
metabolici complessi). Le cellule, infatti, sono strutture dissipative in non equilibrio,
ovvero sistemi chimici complessi che metabolizzano di continuo le molecole nutritive per
mantenere la loro struttura interna e riprodursi. Invece, per la maggior parte delle cellule
l'equilibrio corrisponde alla morte. Per Prigogine, quindi, vi è uno stretto legame tra autoorganizzazione e distanza dall'equilibrio, tuttavia la vita costituisce un eccezionale stato
della materia:
Può darsi benissimo che l'ordine, la coerenza si situino in un certo senso tra il caos dell'equilibrio
termico ed il caos turbolento del non-equilibrio. Tuttavia questi due tipi di disordine sono assai
differenti. Nel caos termico che ha luogo nei sistemi in equilibrio, tutte le scale spazio-temporali
caratteristiche sono dell'ordine di grandezza molecolare, mentre nel caos turbolento abbiamo
anche scale spazio-temporali d'ordine macroscopico. Da questo punto di vista, la vita con la sua
coerenza caratteristica sembra appartenere ad un tipo di regime intermedio. La distanza
dall'equilibrio è sufficiente ma non eccessiva, cosicché si evita la distruzione della delicata
configurazione necessaria a mantenere le normali funzioni viventi.12
Lo stato vivente della materia, dunque, è uno stato di transizione tra ordine e caos: la vita,
infatti, emerge proprio sull'orlo del caos, dove cioè la materia diviene in grado di percepire
e comunicare. La vita, pertanto, si trova in uno stato intermedio tra l'ordine del cristallo ed
il disordine dell'anello di fumo, è proprio lì infatti che emergono i comportamenti
complessi. (il cristallo a-periodico di Schrödinger ha anticipato la storia). A partire dagli
studi di Prigogine, quindi, ha inizio quella che alcuni studiosi chiamano la scienza della
complessità, la quale, in ambito biologico, si svilupperà negli anni novanta grazie anche al
notevole contributo offerto dalle ricerche portate avanti presso il Santa Fe Institute dal
biochimico S. Kauffman. Il grande studioso americano, infatti, nel volume del 1995 dal
titolo A casa nell'universo. Le leggi del caos e della complessità così scrive:
Proprio in mezzo, proprio vicino alla transizione di fase, proprio ai confini del caos, possono
verificarsi i comportamenti più complessi: abbastanza ordinati da assicurare una stabilità, ma pieni
di flessibilità e sorprese. Questo è veramente ciò che intendiamo per complessità.13
Nell'ambito della teoria della complessità, pertanto, in accordo con Kauffman, la vita
appare come
un fenomeno emergente che si sviluppa quando la diversità molecolare di un sistema chimico prebiotico supera un dato livello di complessità. Se questo è vero, allora la vita non si trova nelle
proprietà individuali di ogni singola molecola (nei dettagli) ma è una proprietà collettiva di sistemi
di molecole interagenti tra loro. In quest'ottica, la vita è emersa per intero ed è sempre rimasta un
tutt'uno. In quest'ottica, essa non deve essere ricercata nelle sue parti, ma nel complesso delle
proprietà emergenti che creano il tutto. [...] Nel tutto che emerge e si auto-riproduce non è
presente alcuna forza vitale o sostanza estranea. E tuttavia, il sistema complessivo possiede una
sorprendente proprietà che è assente in ognuna delle sue parti: può riprodurre se stesso ed
evolversi. Il sistema complessivo è vivo, mentre le sue parti non sono altro che molecole
chimiche.14
Alla luce di tutto ciò, dunque, possiamo affermare che i sistemi biologici sono sistemi
complessi, non lineari (impredicibili), dissipativi (che scambiano energia con l'esterno),
capaci di generare informazione (dal caos si genera l'ordine): nelle dinamiche caotiche,
infatti, è possibile separare i flussi energetici da quelli informazionali, reciprocamente
indipendenti.15
I sistemi viventi, quindi, sono sistemi complessi che generano costantemente nuova
informazione. La vita, allora, non può essere più spiegata attraverso l'idea monodiana di
un compromesso tra caso e necessità, invarianza e metamorfosi, bensì può essere
«interpretata» come un ordine che, emergendo dal caos, è in grado di auto-assemblarsi in
modi sempre diversi producendo altresì un tipo di informazione non più misurabile
attraverso la tradizionale teoria di Shannon e Wiener basata, cioè, su un tipo di
matematica troppo semplice. A differenza di quanto pensava Monod, infatti, in un sistema
complesso la novità dell'informazione è intrinseca alla dinamica del processo (per esempio
nell'ontogenesi). In altre parole, il sistema ridefinisce continuamente lo spazio delle
alternative e non può essere in alcun modo paragonato ad un programma che, come è noto
a tutti, si basa su regole predefinite a priori. Si passa così dal modello deterministico in cui
tutto è platonicamente prestabilito (es. le idee immutabili presenti nell'Iperuranio),
all'interpretazione del DNA come sistema complesso capace di creare sempre nuovi
significati (informazione qualitativamente sempre differente). La nuova visione, allora,
sarà quella legata non più ad un programma deterministico, bensì ad un fascio di capacità
(possibilità imprevedibili), vale a dire a regole capaci di auto-regolarsi e di mutare in
relazione all'ambiente.
4. La rivoluzione semantica in biologia
Nonostante la scoperta dei sistemi complessi in fisica, fino alla metà degli anni novanta del
Novecento, in biologia la diatriba tra la visione riduzionistica e quella portata avanti dai
teorici della complessità è continuata in modo ininterrotto. Con l'analisi relativa ai risultati
ottenuti dal Progetto Genoma Umano, però, sia il riduzionismo che l'olismo ingenuo (già
confutato nel 1953) vengono definitivamente superati da una nuova sintesi teorica che,
sulla base dei risultati ottenuti dalla scienza della complessità, fa i conti con l'idea di
emergenza del significato in cui le parti ed il tutto interagiscono reciprocamente dando
luogo ad una circolarità sistemica (una nuova visione sistemica che tiene insieme olismo e
riduzionismo).16 Così, il modello monodiano di programma genetico viene sostituito da
quello di programmi distribuiti legati a funzioni di auto-programmazione.
A caratterizzare il bios, dunque, non è più soltanto la teleonomia così come concepita da
Monod (progettualità priva di intenzione), bensì comincia a delinearsi l'idea secondo cui la
vita sia imprescindibilmente legata all'idea di significato, di memoria e di intenzionalità
(es. dalla cellula, al sistema immunitario, agli apparati, fino ad arrivare alla mente). Ma
facciamo un passo indietro. Come abbiamo dinanzi accennato, nel 1990 nasce l'HGP
(Human Genome Project). Il genoma è il complesso dei geni di un individuo. I geni
rappresentano frasi di senso compiuto localizzate e riconosciute da sofisticati software
all'interno della sequenza di basi nucleotidiche. La missione del progetto era quella di
sequenziare il genoma umano e altri organismi con il fine di svelare la mappa genetica che
dice chi siamo; si pensava, cioè, che le sequenze avrebbero fornito tutta l'informazione
necessaria per comprendere l'informazione biologica. Nel 1996 venne sequenziato il lievito
di birra, nel 2000 il moscerino della frutta, nel 2001 il batterio E. Coli ed infine nel 2003 è
toccato all'Homo sapiens (gli ultimi geni codificati risalgono al 2004). I risultati di tali
ricerche, però, anziché dare ragione al riduzionismo, lo mettono definitivamente in
questione segnando così l'inizio di una nuova era: l'essere umano, infatti, non è riducibile
ad una semplice sequenza sintattica di informazioni. Le ricerche hanno evidenziato tre
grandi paradossi su cui vale la pena riflettere. Il primo concerne il numero dei geni, ovvero
l'apparente mancanza di relazione tra il numero dei geni di una determinata specie e quello
che si suppone dovrebbe possedere in relazione alla sua apparente complessità biologica.
Se, dunque, l'uomo (30000 geni) e lo scimpanzé condividono oltre il 98, 5% di geni dove
risiede la differenza tra gli esseri umani e gli altri primati? Il secondo riguarda il numero
delle proteine in relazione al numero dei geni: se, infatti, ad un gene corrisponde una
proteina per quale motivo negli organismi complessi il numero di proteine è del 25% più
grande del numero dei geni? Infine, il terzo fa riferimento ai risultati delle tecniche knockout (tecniche per la distruzione mirata di determinati geni). Tali tecniche permettono di
studiare le funzioni di determinati geni negli organismi viventi. Ad esempio, l'eliminazione
in un mammifero vivo di alcuni geni le cui funzioni sono ritenute essenziali non produce
l'effetto previsto. In alcuni casi la sostituzione di un gene strutturale con una copia
anomala non ha alcun effetto. Per quale ragione? Sulla base dei risultati dell'HGP, gli
studiosi della teoria della complessità biologica sono riusciti a risolvere i paradossi or ora
accennati analizzando: a) la funzione dei singoli geni (costruzione di un enzima) e b)
l'intero genoma (costruzione di un organismo).
Nel primo caso abbiamo che la risposta si trova nella struttura delle reti geniche, nei modi
in cui i geni sono collegati ad altri da meccanismi regolatori complessi che nelle loro
interazioni determinano quando e dove un particolare gene sarà espresso.
Se la genomica strutturale, che studia le sequenze del genoma (fisse) per scoprirne gli
aspetti e le attività di base, ha dato il la all'HGP, oggi tale progetto apre le porte ad una
nuova indagine: la genomica funzionale.
Per quasi cinquant'anni ci siamo illusi che la scoperta delle basi molecolari dell'informazione
genetica avrebbe svelato il segreto della vita, che bastasse decodificare il messaggio nella sequenza
dei nucleotidi del DNA per capire il programma che fa di un organismo ciò che è. Ci stupiva che la
risposta fosse così semplice. [...] Ora che cominciamo a misurarne l'ampiezza, ci stupisce non la
semplicità dei segreti della vita ma la loro complessità.17
La genomica funzionale rappresenta lo studio della vita cellulare nei suoi diversi livelli,
nelle complesse interazioni tra le molte componenti del sistema. In tal senso allora uno
degli assunti della genetica molecolare non è esattamente valido: un gene, infatti, può
essere coinvolto nella sintesi di molte proteine (anche 100), al contrario una proteina può
avere a che fare con più geni ed i frammenti di DNA possono venire riorganizzati e
trascritti in molti modi diversi. (Ecco perché il numero di proteine è più grande del numero
dei geni).
Da quando è stato introdotto il termine gene, la fiducia nella sua realtà fisica è stata sempre
accompagnata dal presupposto che struttura, composizione materiale e funzione erano le proprietà
di un singolo oggetto, infilato come una perla su un filo o segmento di DNA. Oggi quell'unica
identità è crollata: abbiamo imparato che la funzione non è bell'e mappata sulla struttura e non
coincide con un locus prestabilito del cromosoma. Se mai volessimo pensare ancora al gene come
ad un'unità di funzione, possiamo anche chiamarlo gene funzionale. Ma non possiamo più
ritenerlo identico all'unità di trasmissione responsabile della memoria intergenerazionale o
associarlo a essa. Il gene funzionale potrebbe non avere alcuna fissità: spesso ha un'esistenza
transitoria e contingente che dipende fortemente dalla dinamica funzionale dell'intero
organismo.18
Alla luce di tutto ciò, l'antico postulato dei bio-chimici, «un gene, una proteina» non è
esattamente valido: i geni, pur contenendo le informazioni per la sintesi di una sola
molecola proteica, non segnano più il destino di un organismo. Nel complesso ambiente
cellulare le proteine possono essere ripetutamente modificate e questo accade persino nei
batteri. La fonte della stabilità genetica, quindi, non si trova nella «struttura di un'entità
fissa», bensì diviene il risultato di un «processo dinamico». Accanto al gene strutturale
(aspetto sintattico dell'informazione genetica dipendente dalla sequenza del DNA), quindi,
come abbiamo visto, c'è il gene funzionale (aspetto semantico del bios) il quale, non
avendo alcuna fissità, ha un'esistenza transitoria e contingente che dipende dalla dinamica
funzionale dell'intero organismo. Ecco allora che, non potendo ritenere il gene strutturale
(studiato da Monod e dalla genetica molecolare) identico all'unità di trasmissione
responsabile della memoria intergenerazionale, la differenza tra uomo e scimpanzé non
risiede a livello della genomica strutturale, bensì è possibile rintracciarla nella nozione
affascinante di significato biologico.
I risultati accumulati nei decenni scorsi ci costringono a pensare il gene come almeno due entità
ben diverse: una strutturale, il cui mantenimento è affidato al macchinario molecolare della cellula
perché venga trasmesso fedelmente da una generazione all'altra; e una funzionale che emerge
soltanto dall'interazione dinamica tra numerosi giocatori, fra i quali il gene strutturale da cui sono
derivate le sequenze originarie delle proteine. [...] La funzione di un gene strutturale dipende non
soltanto dalla sua sequenza, ma dal suo contesto genetico, dalla struttura cromosomica in cui è
inserito [...], e dal contesto citoplasmico e nucleare specifico di un determinato sviluppo.19
Evelyn Fox Keller, dunque, mettendo in stretta relazione la teoria delle strutture
dissipative di I. Prigogine e lo studio dei sistemi auto-poietici di H. Maturana e F. Varela,
nonché gli studi di cibernetica, di biologia molecolare, la bio-matematica, la bioinformatica e la semantica funzionale, contribuisce ad ampliare l'articolazione della teoria
della complessità facendo vedere come tale teoria non si riferisca più soltanto alla semplice
indagine di fenomeni a carattere dissipativo di stampo markoviano, bensì si allarghi
prendendo in esame anche i fenomeni di trasformazione dell'informazione così come essi
si generano a partire dalla costituzione di un sistema biologico di elaborazione
dell'informazione stessa. I sistemi naturali sono caratterizzati dal fatto che ciò che si autoorganizza al loro interno è la funzione stessa che li determina con il loro significato. Alla
luce di queste considerazioni lo studio della funzionalità del genoma costituisce la vera e
propria chiave di ingresso dell'indagine scientifica all'interno della complessità dei sistemi
biologici.
I biologi parlano di splicing alternativo, a proposito della costruzione, a partire da una singola
trascrizione iniziale, di trascrizioni di mRNA diverse; a loro volta queste trascrizioni mature
portano alla sintesi di proteine diverse. Un terzo dei geni eucaristici sono soggetti a queste letture
variabili, in cui la decisione su come leggere la trascrizione primaria è essa stessa attentamente
regolata in base allo stato e al tipo di cellula. [...] In soldoni, secondo il contesto e lo stadio di
sviluppo dell'organismo in cui la trascrizione primaria si trova, vari suoi pezzi possono essere
tagliati e incollati a formare matrici varie per costruire proteine altrettanto varie. Una variazione
aggiunta può essere generata in primo luogo dalla presenza sulla trascrizione primaria di più di un
sito nel quale la trascrizione matura può iniziare, e in secondo luogo dalla presenza di molteplici
siti nei quali questa trascrizione può essere spezzata. [...] quante proteine diverse possono essere
sintetizzate a partire da una stessa trascrizione primaria? Il numero varia parecchio da un
organismo all'altro, e ogni giorno che passa sembra aumentare. Vent'anni fa le varianti dello
splicing si potevano identificare soltanto attraverso analisi di laboratorio delle trascrizioni del
mRNA e delle proteine, oggi si possono desumere dai dati sulle sequenze forniti dal Progetto
genoma umano. Perciò la quantità delle varie proteine ipoteticamente associate con un
determinato gene è cresciuta rapidamente, e per certi organismi si parla ormai di centinaia.20
Con il termine splicing (saldatura), dunque, in biologia si intende il processo di
eliminazione degli introni da una catena di RNA-immaturo con conseguente giuntura degli
esoni. Gli esoni sono regioni del gene realmente codificanti a differenza degli introni che
non codificano. Durante la fase della trascrizione della sintesi proteica, negli eucarioti, sia
gli esoni che gli introni vengono trascritti in un lungo filamento di RNA-immaturo. Questo
filamento immaturo viene processato dagli spliceosomi, un numero di complessi speciali
proteine-RNA, che hanno il compito di tagliar fuori dalla catena gli introni e ricongiungere
gli esoni, ovvero le zone codificanti. Alcuni introni, definiti self-splicing, sono capaci di
portarsi fuori dalla catena e ricongiungere i due esoni adiacenti. La procedura necessaria
per l'eliminazione degli introni può essere non perfettamente funzionale a causa di un
errato corredo enzimatico che ha il compito di togliere «fisicamente» l'introne dalla catena
o a causa di una errata forma dell'introne che, ad esempio, si presenta con una mutata
sequenza biochimica. Lo splicing alternativo, come abbiamo visto attraverso le parole della
Keller, è il meccanismo con il quale si procede nella maturazione dell'RNA-immaturo e, in
base all'entità della mutazione funzionale dell'apparato trascrittore, può continuare sia
includendo l'introne, che a tutti gli effetti potrebbe portare alla codifica di una proteina, sia
alla delezione dell'introne o alla delezione dell'introne con una parte più o meno ampia
dell'esone.
In alcuni organismi, per esempio, trascrizioni mature si formano unendo gli esoni provenienti da
due trascrizioni primarie distinte. Fatto ancora più clamoroso, perfino la trascrizione reincollata
può essere successivamente modificata dall'inserimento di basi estranee o dalla sostituzione di una
base con un'altra, e dare luogo così a proteine per le quali non esistono corrispondenti sequenze
codificanti nel DNA. [...] Questo ci costringe ad abbandonare l'idea che un gene, e perfino un gene
strutturale, faccia un enzima o una proteina. Un gene può essere usato per fare svariate proteine e
nella letteratura, infatti, l'espressione sempre più usata è «un gene-molte proteine», una formula
che però sottrae al gene gran parte della sua specificità e causalità. Insomma, un gene dovrebbe
fare quale proteina e in quali circostanze? E come fa a scegliere? Non sceglie. La decisione non
spetta al gene ma alla complessa dinamica regolatrice dell'intera cellula. Da questa proviene il
segnale (o i segnali) per determinare la configurazione specifica della trascrizione finale. Districare
la struttura di questa segnaletica è diventato uno degli scopi principali della biologia molecolare
contemporanea e, anche se rimane forte la tentazione di ordinare i percorsi dei segnali come
sequenze lineari di eventi dovuti all'azione di altri geni ancora, i risultati che provengono dai
laboratori rendono quell'allineamento sempre più arduo. Un'alternativa ovvia sarebbe quella di
considerare come il gene «vero» la trascrizione matura del mRNA, dopo revisione e splicing. I
biologi molecolari lo fanno spesso, ma c'è un problema: nello zigote appena formato questi geni
esistono soltanto come possibilità, progettati post hoc. Ci si può aiutare con un'analogia musicale:
nel nostro caso non solo la musica scritta sulla partitura non esiste finché non viene suonata, ma i
suonatori riscrivono la trascrizione del mRNA (la partitura) mentre la eseguono. Inoltre, questi
geni non hanno affatto la permanenza che ci si aspetta solitamente dai geni, sono trascrizioni
riviste di mRNA chiamate ad esistere soltanto quando servono e per breve tempo. In alcuni casi
non stanno nemmeno sul cromosoma e nemmeno nel nucleo. Cioè, la versione finale della
trascrizione può essere assemblata soltanto dopo che la versione originale è penetrata nel
citoplasma.21
Analizzando il genoma umano ci si è accorti che rispetto ai geni codificanti (esoni o geni
strutturali) condivisi quasi totalmente con lo scimpanzé, nell'uomo aumentano i geni
funzionali ed in particolare quello che alcuni studiosi definiscono DNA spazzatura, ovvero
il numero di regioni non codificanti (introni). Recenti studi, confermando le geniali
intuizioni della Keller, hanno mostrato che il numero elevato di proteine prodotte nelle
cellule umane e la maggiore complessità che caratterizza i nostri sistemi dipendono
proprio dal DNA spazzatura che nella nuova visione sistemica diviene fondamentale.22 Gli
esoni costituiscono meno del 2% del nostro genoma, mentre gli introni ne rappresentano
circa il 25%. Fin dal momento della loro scoperta, nel 1978, gli intoni sono stati considerati
DNA spazzatura (insieme alla restante parte di DNA che non contiene geni). In questi
ultimi anni il completamento delle sequenze genomiche di altri organismi (cane,
scimpanzé e topo) ha consentito di confrontarle con quella umana (genomica
comparativa). Ebbene, le sequenze che hanno una funzione vengono conservate, ovvero si
modificano poco tra i diversi organismi durante il processo evolutivo: le sequenze degli
esoni, che servono a codificare proteine, sono risultate, infatti, molto simili alle diverse
specie. Le sequenze degli introni, invece, in accordo con la Keller, non sono inutili, al
contrario contengono informazioni importanti per il funzionamento dei nostri 30000 geni.
Non è, infatti, tanto il numero dei geni quanto il modo in cui il loro funzionamento è
regolato a rendere l'uomo uomo, il cane cane e lo scimpanzé scimpanzé.
Nel secondo caso (analisi della funzione dell'intero genoma) abbiamo che i sistemi
biologici costituiscono il risultato dell'interazione tra le loro molte componenti: geni
(strutturali e funzionali), mRNA e tRNA, proteine e metaboliti. Per sondare la complessità
della dinamica dello sviluppo occorre insistere sul fatto che la sequenza del genoma
dipende dall'uso strumentale dei dati della sequenza stessa. Non esiste più il gene
architetto, non c'è un controllo centralizzato: lo sviluppo dipende dalla complessa
interazione tra le funzioni locali. La genomica funzionale mette in questione l'idea di
programma e propone un'accezione più distribuita del controllo delle funzioni biologiche.
La stabilità del genoma non è, allora, il punto di partenza, bensì costituisce il prodotto
finale di un processo dinamico altamente orchestrato che richiede la partecipazione di un
gran numero di enzimi organizzati in reti metaboliche complesse le quali assicurano sia la
stabilità della molecola di DNA che la sua replicazione fedele.
Proprio nel decennio in cui i biologi molecolari si entusiasmavano per il programma genetico, la
metafora veniva usata in maniera ben diversa, nel senso di programma di sviluppo, dagli
informatici e dai biologi dello sviluppo. Contrariamente al programma genetico, quello di sviluppo
non si trovava in un luogo ben definito (per esempio nel genoma) ma era distribuito in tutto l'ovulo
fecondato.23
Secondo questa prospettiva, quindi, le informazioni non si trovano in luoghi specifici e
determinabili, al contrario il sistema agisce come un insieme dinamico all'interno del quale
ogni particolare diviene indispensabile nel momento in cui entra in interazione con gli altri
dando nascita, così, ad una complessa auto-organizzazione: ecco delinearsi, dunque, la
fondamentale nozione di programmi distribuiti.
Se vogliamo conservare la metafora del calcolatore, potremmo descrivere l'ovulo fecondato con un
massiccio elaboratore multi strati, in cui programmi (o reti) e dati sono distribuiti in parallelo in
tutta la cellula. In questo caso, il ruolo dei dati e del programma sono relativi: ciò che conta come
dati in un programma è spesso il prodotto di un secondo programma, e il prodotto del primo serve
spesso da dati per un terzo oppure proprio per il primissimo programma che ha fornito i dati
iniziali.24
In quest'ottica, dunque, il programma di sviluppo non si trova in un luogo ben definito (nel
genoma), bensì è distribuito in tutta la cellula (ovulo fecondato). L'informazione non
risiede più in luoghi precisi e determinabili, al contrario, il sistema agisce come un sistema
dinamico all'interno del quale ogni particolare diviene indispensabile nel momento in cui
entra in interazione con gli altri dando nascita, così, ad una complessa autoorganizzazione.
Il DNA fornisce le sequenze originali (il codice sorgente, per dirla con gli informatici) usate nella
costruzione di molte delle proteine che partecipano alle interazioni, ma le sequenze rilevanti sono
sparpagliate in tutto il genoma. Inoltre la dinamica dell'interazione tra proteine e siti di legame del
DNA -- per esempio se una proteina funziona da attivatore o da inibitore -- è spesso determinata da
caratteristiche della struttura proteica che sono esse stesse soggette a regolazione cellulare.25
5. La nuova visione sistemica
Secondo questo nuovo modello interpretativo in cui si fanno i conti con le qualità
emergenti, la vita non solo è legata ad un programma scritto nella doppia elica, ma,
soprattutto, alla circolarità di programmi distribuiti legati a funzioni di autoprogrammazione, ovvero all'idea di significato biologico.
I modelli di auto-organizzazione consentono di vedere negli organismi viventi non più una sorta di
automi diretti da un programma determinista fornito dall'esterno, alla maniera dei computer
attuali, bensì dei sistemi auto-organizzatori i cui principi stanno iniziando a diffondersi nelle
ricerche nel campo dell'intelligenza artificiale. In termini assai generali ciò che caratterizza l'autoorganizzazione è uno stato ottimale che si situa fra i due estremi di un ordine rigido, inamovibile,
incapace di modificarsi senza essere distrutto, come è l'ordine del cristallo, e di un rinnovamento
incessante e senza alcuna stabilità, rinnovamento che evoca il caos e gli anelli di fumo.
Evidentemente questo stato intermedio non è fisso, ma consente di reagire a perturbazioni casuali
non previste attraverso mutamenti di organizzazione che non siano una semplice distruzione
dell'organizzazione preesistente, bensì una ri-organizzazione che consenta l'emergenza di nuove
proprietà. Queste nuove proprietà possono essere una nuova struttura, o un nuovo comportamento
condizionato a sua volta da nuove strutture: e le strutture o i comportamenti sono nuovi nel senso
che a priori nulla consentiva di prevederli nei loro particolari e nelle loro specificità. 26
L'informazione genetica dell'organismo, dunque, non risiede nelle condizioni iniziali del
processo dinamico dell'ontogenesi, bensì in programmi distribuiti che governano nuova
informazione e che rendono impossibile, date le condizioni iniziali, la previsione certa dello
stato finale dell'organismo in questione. Oggi siamo a conoscenza del meccanismo
nascosto che permette al DNA, attraverso il codice genetico, di controllare la sintesi delle
proteine: nella dinamica dell'auto-programmazione, infatti, è la stessa funzionalità del
genoma che crea l'informazione genetica.
L'aspetto più importante dei fenomeni di auto-organizzazione è l'auto-creazione del senso, cioè la
creazione di nuovi significati nell'informazione trasmessa da una parte a un'altra parte o da un
livello di organizzazione a un altro livello di organizzazione. [...] Perché dunque una
disorganizzazione sia in grado di produrre una riorganizzazione, è necessario che si trasformi il
significato delle relazioni fra le parti. È questo il motivo per cui la questione della creazione dei
significati si trova al centro dei fenomeni di auto-organizzazione.27
Il segreto dell'auto-organizzazione che sfuggiva a Monod, infatti, porta il nome di
significato biologico, ovvero quella funzione creatrice che genera la sintassi (l'informazione
genetica dei nucleotidi del DNA) e che è alla base della vita. Il significato biologico,
dunque, è il «volto nascosto» dell'informazione genetica, ovvero quella funzione creatrice
ed organizzatrice che risponde ad una matematica per tanti aspetti ancora sconosciuta, una
matematica, ad esempio, dell'infinito che vada oltre i teoremi di Cantor e la stessa teoria
della complessità di Kolmogorov, in grado di dare ragione di quei fenomeni altamente
complessi, non prevedibili e attualmente non completamente spiegabili dalla ragione
umana. Abbiamo attribuito il termine di realtà profonda a questo fondamento della vita
che esiste, ma non è comprensibile, una realtà che sfugge alla biologia, alla matematica,
alla fisica e alla chimica e che, tuttavia, ci consente di studiare la vita come un fenomeno
emergente, ovvero come un ordine gratuito ed irriducibile. La nozione monodiana di
invarianza viene ora rivisitata alla luce di quella di emergenza del significato la quale,
superando il determinismo genetico, la completa.
La vita è un fenomeno emergente legato a sistemi complessi adattativi. Il DNA non è un
programma fisso che dice quello che siamo, bensì costituisce un fascio di capacità: la logica
del bios si fonda, infatti, sul concetto chiave di possibilità. Ecco allora che le modellazioni
matematiche (le catene di Markov e l'algebra di Boole) che consentivano a Monod di
interpretare i processi stocastici dell'espressione genica non sono più sufficienti.28 La
nozione di «caso», secondo il modello di tipo Markoviano, equivale a considerare una
scelta non nota a priori tra alternative già costituite a priori. La contraddizione, allora, è
tutta logico-epistemologica, poiché il caso così concepito non riesce ad essere sufficiente
per spiegare il divenire in natura: se infatti le alternative sono costituite a priori, come si fa
a prevedere l'auto-organizzazione degli organismi? In un sistema complesso, come
abbiamo visto, la novità dell'informazione è intrinseca alla dinamica del processo. In altre
parole, il sistema ridefinisce continuamente lo spazio delle alternative. Alla luce di tutto
ciò, dunque, H. Atlan ed A. Carsetti affermano che «auto-organizzazione significa
permettere al caso di acquisire un significato, a posteriori ed in un determinato contesto di
osservazione.»29 I sistemi biologici, infatti, sono il risultato di complesse interazioni che si
danno al livello della molteplicità immensa delle loro componenti poiché né sono
equivalenti alla somma delle loro parti, né sono determinabili in base alle sole condizioni
iniziali. Dal riduzionismo e dall'olismo ingenuo si giunge, quindi, ad una visione sistemica
secondo cui la vita appare come un fenomeno di transazione, ovvero il risultato di una
serie di accomodamenti che costituiscono e modificano imprevedibilmente le parti del
gioco stesso. La vita è, dunque, a nostro giudizio, un processo di svelamento estatico in cui
il significato si ri-vela nel tempo. Questa nuova visione sistemica inscindibilmente legata
allo studio del significato, dunque, costituisce, tra l'altro, uno degli attuali tentativi di
rispondere alla domanda di Schrödinger, una domanda, che, come abbiamo già detto, ha
inquietato ed entusiasmato al tempo stesso l'essere umano fin dall'alba della nostra civiltà:
basti pensare alle ricerche scientifiche di Anassimandro. Lungo il corso di questa disamina
abbiamo avuto la possibilità di mostrare, sulla scorta dell'opinione di illustri studiosi, come
per fare, oggi, i conti seriamente con la domanda Che cos'è la vita? si sia costretti a non
rinchiudersi nella pura biologia e ad aprirsi, quindi, ad altri saperi, alcuni classici come la
fisica, la chimica e la matematica ed altri, invece, più recenti come, ad esempio, la scienza
dell'informazione, la bioinformatica e la scienza del caos deterministico. Nonostante i passi
da gigante compiuti dalla scienza da trent'anni a questa parte siamo, tuttavia, ancora molto
lontani da una risposta adeguata a questa domanda: a tutt'oggi, infatti, non esiste una
risposta a carattere compiuto, esistono al contrario fasci correlati di ipotesi, agglomerati di
ardite congetture in grado di trasformare lo studio scientifico della vita in
un'interrogazione. Per tali ragioni, i pur enormi progressi della conoscenza umana a livello
della biologia molecolare, al momento, non sono in grado di comprendere pienamente
l'enigmatico linguaggio della vita: traccia di una diacronia irrappresentabile che sfugge
costantemente ad ogni tentativo umano di determinazione completa. Questa dimensione
antinomica del limite è descritta in modo impeccabile da Monod che nella parte finale del
suo volume così si esprime:
Quando si pensa al lunghissimo cammino percorso dall'evoluzione da forse tre miliardi di anni, alla
prodigiosa varietà delle strutture che essa ha creato, alla miracolosa efficacia delle prestazioni degli
esseri viventi, dal batterio all'uomo, diventa spontaneo dubitare che tutte queste manifestazioni
possano essere il risultato di una gigantesca lotteria in cui vengono tirati a sorte dei numeri tra i
quali una cieca selezione designa rari vincenti. [...] Si potrebbe pensare che l'aver scoperto i
meccanismi universali su cui si basano le proprietà essenziali degli esseri viventi abbia permesso di
risolvere il problema delle origini. In realtà tali scoperte, presentando sotto nuova luce tutta la
questione, oggi posta in termini molto più precisi, l'hanno resa ancora più complessa di quanto non
sembrasse prima.30
Alla luce di tutto ciò, dunque, a nostro giudizio, nonostante il raggiungimento di
sorprendenti risultati e l'apertura di nuovi orizzonti di ricerca prima impensabili, la scienza
contemporanea si trova davanti all'impossibilità concreta di poter rispondere in maniera
definitiva alla domanda riguardante l'essenza ultima della vita: la complessità che la
pervade resta, pertanto, intrisa di mistero. Lungi dal farci cadere in una condizione di
sconforto, quest'affermazione, tuttavia apre nuovi orizzonti al nostro sguardo e ci invita a
raccogliere le nostre forze per un balzo in avanti ancora più articolato e profondo. Per
concludere, quindi, possiamo affermare che tramite la nascita del nuovo paradigma
scientifico legato alla scienza della complessità, oggi l'affascinante questione concernente
l'essenza della vita ci addita la necessità di fare riferimento ad una circolarità nuova in
grado di avvicinare una filosofia che scopre sempre più in profondità il ruolo di analisi per
quel che riguarda le grandi domande relative al senso della vita ad una scienza che a sua
volta gradatamente giunge a divenire consapevole della necessità di non smarrire mai,
lungo il corso della ricerca, i profondi interrogativi concernenti il senso. Grazie alla
mediazione della filosofia, inoltre, risulta anche possibile intravedere un dialogo tra
scienza, da un lato, e studi teologici, dall'altro. È questo, a nostro giudizio, un dato
importante su cui occorre laicamente soffermare la nostra attenzione, ma nel rispetto di
quelle che sono le procedure e gli strumenti della scienza e nel rigetto di «scorciatoie»
metodologiche (o ideologiche) tra le quali, sempre, a nostro avviso, va annoverata anche
l'ipotesi del «disegno intelligente».31 È in questo territorio incerto, ma pieno di grandi
speranze, che la scienza può raccogliersi in sé in un silenzio operoso al cui interno, a nostro
giudizio, è forse possibile rintracciare i lineamenti possibili di idee e principi filosofici
nuovi auspice, come abbiamo visto, la teoria contemporanea della complessità.
Copyright © 2010 Mirko Di Bernardo
Mirko Di Bernardo. «Complessità e significato nei sistemi biologici». Dialegesthai. Rivista
telematica di filosofia [in linea], anno 12 (2010) [inserito il 25 ottobre 2010], disponibile su World
Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [65 B], ISSN 1128-5478.
Note
1. S. A. Kauffman, Esplorazioni evolutive, Einaudi, Torino 2005, p. 4.
2. E. Schrödinger, Che cos'è la vita?, Adelphi, Milano 1995, pp. 63-66.
3. J. D. Watson and F. Crick, (1953), «A structure for deoxyribose nucleic acid», Nature, 171,
pp. 737-738.
4. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970, p. 14.
5. Ibidem, p. 15.
6. Ibidem, p. 15-16.
7. Ibidem, p. 17.
8. Ibidem, p. 76.
9. F. Jacob and J. Monod, (1961), «Genetic regulatory mechanisms in the synthesis of
proteins», Journal of Molecular Biology, 3, pp. 318-356.
10. G. Bocchi e M. Ceruti, (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007.
11. I. Prigogine e I. Stengers, (1981), La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi,
Torino 1999, p.174.
12. Ibidem, p. 164.
13. S. A. Kauffman, (1995), A casa nell'universo. Le leggi del caos e della complessità, Editori
Riuniti, Roma 2001, p. 122.
14. Ibidem, p. 41.
15. Cfr. R. Shaw, (1981), «Strange Attractors, Chaotic Behavior, and Information Flow», Z.
Naturforsch., 36a, pp. 80-112.
16. Per un ulteriore approfondimento di questo tema si veda: H. Atlan, (1990), «The Cellular
Computer DNA: Program or Data», Bulletin of Mathematical Biology, 52 (3), pp. 335-348;
Di Bernardo, M., Per una rivisitazione della dottrina monodiana della morfogenesi
autonoma alla luce dei nuovi scenari aperti dalla post-genomica, Aracne, Roma 2007.
17. E. F. Keller, Il secolo del gene, Garzanti, Milano 2001, p. 9.
18. Ibidem, p. 55. Cor. Nostro.
19. Ibidem, p. 56.
20. Ibidem, pp. 48-49.
21. Ibidem, p. 50.
22. Questi risultati sono stati confermati il 19 aprile 2009 da un articolo apparso su Nature dal
titolo: The regulated retrotransposon transcriptome of mammalian cells. Tale lavoro è il
frutto di una collaborazione internazionale tra il gruppo del Laboratorio di Epigenetica del
Dulbecco Telethon Institute, guidato da Valerio Orlando, il team di Piero Carninci
dell'OMICS Centre di Yokohama Giappone e l'Università di Queensland in Australia. Per un
ulteriore approfondimento si veda: G. J. Faulkner, Y. Kimura, C. O. Daub, S. Wani, C.
Plessy, K. M. Irvine, K. Schroder, N. Cloonan, A. L. Stetoe, T. Lassmann, K. Waki, N.
Horning, T. Arakawa, H. Takahashi, J. Kawai, A. R. Forrest, H. Suzuki, Y. Hayashizakiy, D.
A. Hume, V. Orlando, Grimmond, S. M. and P. Carninci, 2009, «The regulated
retrotrasposon transcriptome of mammalian cells», Nat. Genet., 41, 5, p. 505.
23. Keller, Il secolo del gene, p. 65.
24. Ibidem, p. 79.
25. Ibidem, p. 77.
26. H. Atlan (1985), «Complessità, disordine e auto-creazione del significato», in Bocchi e
Ceruti, (a cura di) La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, pp. 141-142.
27. Ibidem, p. 143.
28. A. Carsetti, «Modelli cibernetici e biologia molecolare», in Problemi filosofici della biologia,
CNR, Bologna 1972, pp. 5-16; A. Carsetti, (1992), «Meaning and complexity: a non-standard
approach», La Nuova Critica, 19-20, pp. 112-114; A. Carsetti, (1996), «Chaos, natural order
and molecular semantics», La Nuova Critica, 27-28, pp. 83-107.
29. H. Atlan, (1992), «Self-organizing networks: weak, strong and intentional, the role of their
underdetermination», La Nuova Critica, 19-20, pp. 51-71; A. Carsetti, (1993), «Meaning
and complexity: the role of non-standard models», La Nuova Critica, 22, pp. 57-86.
30. Monod, Il caso e la necessità, p. 127.
31. Il 18 febbraio 2006 l'autorevole rivista La Civiltà Cattolica ha preso le sue distanze dalle
tesi dei fondamentalisti americani. Nell'articolo dal titolo Scienza e fede: caso e progetto,
infatti, E. M. C. Pérez afferma testualmente: «Siamo a un punto in cui dobbiamo accettare
che né la scienza, né la teologia offrono una risposta completa al perché e al come
dell'esistenza e dell'evoluzione dell'universo e degli esseri umani all'interno di essi». «Si
tratta -- conclude lo studioso -- di due modi limitati di conoscere una meravigliosa realtà
che va al di là della nostra comprensione in quasi tutti i suoi stadi.». Per un ulteriore
approfondimento si veda: E. M. C. Pérez, (2006), «Scienza e fede: caso e progetto», Civiltà
Cattolica, 3736, pp. 319-331.
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