Il design industriale come fattore strategico all’interno della catena del valore di Ernesto Gismondi Presidente Artemide Group Spa Il design inteso come “arte” e l’industria costituisce, ormai da tempo, un binomio inscindibile. Il design italiano, a partire dagli anni ’80, ha subito indubbiamente una serie di trasformazioni: se da un lato si è manifestata una maggiore attenzione per i modi di produzione industriale, dall’altro la permanente dimensione “decorativa” dell’oggetto di design ha consentito una maggiore libertà di espressione formale, e quindi la componente espressiva ha assunto maggiore rilevanza rispetto a quella funzionale. Dopo i fenomeni di Memphis, a cui ho contribuito personalmente, e soprattutto per merito di coloro che sono stati i “maestri” del design italiano, si è affermata quella che chiamerei una grammatica: una sorta di standard che le aziende hanno assimilato molto bene e che ha contribuito a creare il fenomeno del Made in Italy. Il design è divenuto quindi parte integrante di tutto il processo produttivo di una azienda, ne costituisce l’anima, e contribuisce a crearne l’elemento distintivo e riconoscibile. Il rapporto azienda/design Artemide da sempre si avvale della collaborazione dei grandi nomi del design, sia italiani che stranieri: la grammatica del Made in Italy per Artemide non è solo legata ai designer italiani ma è permeata nella azienda stessa. L’azienda diventa cioè il filtro/imbuto nei confronti del mondo dei designer: ad esempio, la lampada “Tizio” disegnata da Richard Sapper è Artemide, non solo perché vi è scritto Artemide, ma perché lo stile di tutta la macchina nel suo insieme è quello. Da parte di Artemide, c’è sempre stata una attenzione a cercare i propri designer in un raggio il più ampio possibile. E questo corrisponde a una precisa strategia, che è quella di portare dentro l’azienda anche culture diverse: il senso dell’esplorazione, la volontà di andarsi a confrontare con cose nuove, di appropriarsi di nuovi linguaggi. Sono contrario alle aziende mono-designer perché rappresentano un grande rischio: garantiscono una maggiore uniformità di immagine e una maggiore identificazione verso l’esterno, ma limitano la flessibilità nella produzione all’interno di un mercato sempre più veloce e esigente. Si potrebbe affermare che, per Artemide, il Made in Italy è riuscito a trarre linfa anche fuori dai confini del Paese. Artemide, nei quarant’anni della sua attività, ha saputo espandersi progressivamente in Italia e all’estero con una politica lungimirante che ha sempre avuto come obiettivo la conquista di nuovi mercati, facendo leva anche su una diversificazione produttiva d’avanguardia ogniqualvolta si cominciava ad avvertire i segnali di un mutamento dei gusti del consumatore. Design e globalizzazione Un problema fondamentale nel processo di globalizzazione è stato quello di pensare e proporre prodotti che fossero accettati dai mercati stranieri: con l’apertura a questi mercati abbiamo registrato infatti una notevole frammentazione delle tendenze e dei gusti che ha portato, soprattutto negli anni Novanta, alla nascita di una serie di oggetti di design indipendenti ed eclettici. A questa problematica, Artemide ha voluto e ha saputo dare una risposta ben precisa ed univoca: la nostra filosofia non è stata e non è tanto quella di acquisire dei marchi, bensì una cultura, una capacità di fare. Abbiamo comprato fabbriche, prodotti, marchi per inserirli nel Gruppo e integrarli con le realtà esistenti in modo da poter dire la nostra, e in modo autorevole, su una fornitura a 360 gradi, dalle più minuscole lampade da comodino a quelle per negozi e uffici e su su fino ai giardini, alle strade, ai parchi. Per soddisfare le esigenze del mercato è stato quindi necessario compiere un ulteriore paradigma concettuale: il marchio, espressione visibile del design Artemide, doveva interpretare un intero mondo, una nuova filosofia identificabile e soprattutto riconoscibile dall’utente finale. Ogni prospettiva di sviluppo era infatti legata all’attenta valutazione di come si stavano modificando i mercati, dando per scontato che la globalizzazione – come dimostra il nostro radicamento all’estero – per Artemide era un fattore già acquisito. Il vero problema, in realtà, era quello di confrontarci sui mercati con le nuove tendenze/esigenze: riduzione dei costi, perché la competizione, divenuta ormai esasperata, si vince proprio riuscendo a far costare meno il prodotto; innovazione tecnologica, sia di processo che di prodotto; e soprattutto innovazione nel campo dell’immagine e della presenza sull’esterno. La “Human light” negli showroom Dal 1996 a oggi The Human Light diventa la nuova chiave di riconoscimento di Artemide: una filosofia dedicata a individuare tipologie di luce “a misura d’uomo”. Luci che non solo illuminano ma divengono parte integrante dell’ambiente, migliorandolo e migliorando anche la qualità della vita che vi si trascorre. Ecco, quello che stiamo ancor oggi diffondendo è il messaggio che mentre gli altri vendono solo luce noi vendiamo anche il benessere. E ancora: acquistando i prodotti Artemide si fa un passo decisivo verso un maggior risparmio energetico e il controllo del ‘sistema luce’. Il design di Artemide si sviluppa sotto il grande ombrello della Human Light, declinata nei più svariati contesti. Ne sono un esempio gli showroom monomarca di Artemide: un’unica immagine coordinata a livello internazionale e uno strumento unico e uguale in tutto il mondo per il controllo di entrambi i mercati di riferimento dell’azienda, quello del grand publique e quello professionnel. Lo showroom è dunque una “macchina mediatica” tramite cui Artemide diventa portatrice della propria concezione di design, competenza e cultura della luce. La lotta contro la contraffazione Il design di Artemide, sebbene sia diventato una concezione, un mondo e un marchio ben riconoscibile, deve tuttavia tutelarsi dai sempre più frequenti episodi di contraffazione. Durante la mia permanenza in Confindustria con il presidente Pininfarina ho istituito un gruppo di lavoro sulla tutela giuridica del design ed ho avuto modo di approfondire, in quella sede, come la protezione della proprietà intellettuale da atti di counterfeit trademark goods e di pirated copyright goods debba relazionarsi con un intreccio di norme e regolamenti di diversi ordinamenti giuridici nazionali in materia di privative industriali (marchi e brevetti) regolamenti doganali, disciplina della concorrenza. Ma è anche mia convinzione che il design sia il risultato di una progettazione globale logica e, in quanto tale, coinvolge più soggetti, più protagonisti. Basti pensare che la direttiva comunitaria, tendente ad armonizzare gli ordinamenti dei paesi europei, ha visto la luce solo dopo lunghi anni di mediazioni e correzioni. Uno degli argomenti che hanno innescato un’accesa discussione è stato il riconoscimento del diritto d’autore alle opere di design industriale. In Italia tale protezione è stata sostanzialmente negata fino al decreto del febbraio 2001. Da allora si sono tuttavia succeduti diversi provvedimenti che hanno rimesso in discussione prima e ripristinato poi, in misura diversa, la protezione. Segno univoco che si stenta, in taluni ambienti, a riconoscere che alcune opere di design possano presentare valenze di creatività e valore artistico. Se accettiamo che il design sia, qual è, un sistema complesso e interdisciplinare non possiamo precludergli aprioristicamente anche la protezione del diritto d’autore. Non si deve confondere “protezione” con “protezionismo”. Proteggere un’opera di design con ogni istituto legittimamente disponibile, non significa proteggere nicchie di mercato o posizioni predominanti, bensì riconoscere lo sforzo della creatività, l’impegno imprenditoriale degli investimenti in qualità, controllo dei prodotti, ricerca e sviluppo e, non ultimo, l’immagine, o meglio, la reputazione della marca originale. Un prodotto copiato o con marchio contraffatto talvolta costa meno di un prodotto originale. La ragione è semplice: meno investimenti, meno costi, ma nella gran maggioranza dei casi anche meno qualità e spesso minor qualità significa anche minor sicurezza del prodotto.