Prefazione a due voci
di Paolo Fresu e Severino Salvemini *
La complessità del mondo contemporaneo ci spinge sempre più all’uso
delle metafore. La metafora infatti, semplificando in un’unica immagine la realtà articolata, ci aiuta a cogliere meglio e intuitivamente un
concetto astratto. Ecco allora il ricorso alle analogie con le équipe chirurgiche o con la brigata dello chef, per approfondire come fare squadra. Oppure alla politica o agli animali del branco, per illustrare il
comportamento del capo carismatico. La metafora si fonda sul nostro
pensiero laterale, sulla nostra abitudine all’associazione di idee, è quindi un transfer cognitivo. Nel mondo aziendale ci aiuta a capire come
migliorare l’organizzazione confrontandoci con situazioni inconsuete,
nate e sviluppate in contesti culturali differenti, che però molto possono insegnare all’universo delle imprese.
Disordine armonico. Leadership e jazz è basato sulla musica jazz come
contesto capace di offrire lezioni sorprendenti di leadership e dinamica di gruppo. E d’altra parte come potrebbe essere diversamente?
Nell’odierno incessante cambiamento si sprecano le invocazioni alla
flessibilità e all’improvvisazione creativa. Evitare schemi rigidi! Superare programmi troppo analitici e paralizzanti! Eliminare ruoli eccessivamente prescrittivi e decisioni altamente procedurizzate! E il jazz
risulta proprio uno dei comportamenti più virtuosi per la sua grande disponibilità all’aggiustamento continuo. È un ambiente dove si
riscontra sempre un atteggiamento favorevole a mettere in discussione
le proprie convinzioni ascoltando il parere altrui, la voglia di conoscere empaticamente, l’interscambio di schemi cognitivi e sensoriali, la
disponibilità a combinare gli input in modo nuovo e utile. È un luogo
dove ci si specchia in un mirroring foriero di novità e apprezzamenti e
non invece di sentimenti individualistici e invidiosi.
X
Disordine armonico. Leadership e jazz
L’autore del libro, Frank J. Barrett, ha il privilegio di conoscere i
due ambienti, essendo sia un reputato accademico di management sia
un provetto pianista di jazz. È quindi il ponte ideale per farci scoprire, come egli sostiene, alcune sorprendenti lezioni provenienti dalle
performance musicali e applicabili in azienda. Sono tali infatti i sette
principi attraverso i quali Barrett ci spiega come sostenere l’improvvisazione e l’innovazione. Tutti consigli provenienti dal mondo della
musica e trasferiti secondo modalità analogiche in un’azienda, come
quella attuale, che ha sì bisogno di efficienza (l’eccellenza nell’eseguire un brano così com’è stato scritto e come è presentato in una partitura) ma sempre più di miglioramento e di creatività incrementale (l’improvvisazione, il team building, l’orientamento favorevole al
cambiamento, il costruire insieme).
Si tocca così nel saggio la necessità di rifuggire dal potere seduttivo della routine e di assumersi i giusti rischi per poter sfidare lo status
quo. O il bisogno di ritrovare nella leadership una competenza assertiva che porti gli individui e il gruppo a rompere gli schemi e a osare e
dare valore alla devianza. Ovviamente ciò deve avere come condizione
di partenza una cultura sociale che non demonizzi l’errore e che consenta alle persone di commettere anche qualche sbaglio nella continua
ricerca di nuove strade inesplorate. La sperimentazione infatti ha come
ingrediente cruciale l’apprendimento e non si può apprendere quando
gli atteggiamenti e i valori dominanti sono solo path-depending.
Barrett ci invita poi, come nella musica jazz, a disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessarsi nelle incrostazioni e a stimolare gli individui alla massima autonomia e alla massima discrezionalità (per improvvisare bisogna avere poche regole e
praticare con tenacia la massima del doing more with less). Struttura che
è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro al leader e alle
individualità svettanti, si staglia un collettivo di grande sostegno che
dà forza e coesione all’intera organizzazione.
Poiché però metafora è anche dialogo, questa prefazione vuole utilizzare proprio uno dei più noti meccanismi della musica jazz, il call
and response, dove il dialogo tra musicisti è un fraseggio in cui ogni
affermazione trova una replica di un altro artista, per commentare il
contenuto del libro. Dopo le prime righe condivise, la nostra introduzione diventa allora un dialogo tra interlocutori diversi, che provengo-
Prefazione a due voci
XI
no da comunità professionali lontane: Paolo Fresu, trombettista e compositore di musica jazz, e Severino Salvemini, economista ed esperto
di organizzazione aziendale (di seguito PF e SS). Due background differenti, tuttavia ambedue curiosi l’uno del punto di vista dell’altro.
PF: Qualche anno fa invitai il calciatore Gianfranco Zola a tenere
una master class in seno alle nostre attività seminariali di Nuoro Jazz.
Accettò con entusiasmo ma non senza dubbi, domandandosi che cosa
avrebbe potuto raccontare a dei giovani jazzisti in erba. Gli suggerii
di incentrare il suo intervento sul rapporto tra solista e gruppo e a lui
sembrò una buona idea. Passato il momento di stupore in cui i centoventi allievi videro entrare una star dello sport nazionale per una sessione che si prospettava folle e curiosa, questa assunse un forte carattere pedagogico e divenne una bella lezione di vita prima ancora che
di musica. I nostri ragazzi scoprirono quanto la dinamica di una squadra di calcio sia simile a quella di un gruppo di jazz e come le parole comunicazione, scambio e interplay assumano lo stesso significato
in rapporto al momento dell’happening. Che si tratti di una partita di
football o un concerto poco cambia.
SS: Il caso che richiami ci conforta che anche i musicisti ricercano
ambiti inconsueti per imparare. La metafora del solista nel gioco di
squadra calza per qualsiasi nucleo sociale composto da più di due persone e può essere applicata a qualsiasi collettivo che lavora sinergicamente per un obiettivo condiviso.
PF: Il goal assume il senso di una missione e una responsabilità di tutti
piuttosto che singola, e solo attraverso il dialogo serrato tra i musicisti
è possibile mandare in rete un buon concerto che è fatto di idee, slanci, passaggi, fisicità e ammiccamenti.
SS: È una specie di viaggio, in cui non sai dove il progetto ti porterà
di preciso. Un po’ come i processi di vero cambiamento nelle organizzazioni, in cui fondamentale è la capacità di finalizzare l’osservazione
e l’ascolto, per restituire la realtà in una chiave evoluta e per costruire
insieme una nuova storia di inedito disegno.
XII
Disordine armonico. Leadership e jazz
PF: Così come può essere di interesse generale la grammatica del trading fours, dove i principali musicisti si producono in una serie di brevi
assolo che sequenzialmente sono poi conclusi da un wrap-up del batterista. In questo caso, nell’ambito delle quattro misure musicali, la
ritualità del susseguirsi dei ruoli ricorda i metodi più innovativi con cui
i manager impostano la ricerca di soluzioni nei processi decisionali
più difficili: una serie di interventi singoli che offrono tante prospettive individuali per poi cercare una sintesi coesa nella presa di decisione di gruppo.
SS: Bisognerebbe proprio rubarvi un po’ di segreti su come attivate
la jam session, in cui voi musicisti vi ritrovate a suonare scambiandovi nuove idee e collaudando nuovi schemi. La jam session ricorda
molto le tecniche di creatività applicate ai gruppi organizzativi, come
per esempio il brainstorming, dove si conciliano il sano elemento della
competizione interindividuale con l’esigenza di fare emergere un risultato cooperativo. Solo che nelle imprese il tasso di creatività concessa
per uscire dagli schemi è purtroppo molto più limitato.
PF: Nelle aziende vige sempre la gerarchia. Da noi il rapporto è più
paritetico. L’ascolto è massimo non avendo idea di ciò che l’altro musicista stia per improvvisare. Il resto del gruppo che accompagna segue
la musica che sta nascendo con la stessa intensità, e la velocità dello
scambio è particolarmente elevata richiedendo perciò ai protagonisti
una notevole concentrazione ai comportamenti dell’altro. Alla fine la
tecnica della comunicazione è obbligatoriamente sofisticata.
SS: Potrà sembrare un parallelo molto ardito ma in un certo senso
anche la comparsa e il successo del jazz nel mondo della musica del
XX secolo ci danno l’idea di come si affermi la novità in un campo
paradigmatico. L’incertezza e il conformismo della musica cosiddetta classica, che a un punto della storia recente fatica a produrre nuove
idee, apre la strada al jazz per sperimentare diverse armonie, permettere
melodie meno canoniche, interpretare le note e il ritmo in modo differente dal passato.
Quale lezione allora migliore della musica jazz come spunto di artisti che, con fantasia e grande ascolto reciproco, rinunciano a un’inde-
Prefazione a due voci
XIII
formabile programmazione sequenziale, per optare per una squadra di
innovatori che si divertono costruendo insieme nuovi brani nel Çqui e
oraÈ? La formula esatta e scolpita nella pietra (le regole e le procedure
in azienda; l’esecuzione quasi filologica dello spartito in musica) non
funziona più e occorre abbandonare il comfort del compito prescritto per mettere in campo il setting tipico dell’organizzazione che apprende. Un’organizzazione che apprende il nuovo con grande disponibilità
al cambiamento, predisponendo i propri comportamenti in modo da
accogliere nuovi stimoli e nuove competenze.
PF: Il jazz è per sua natura una musica tanto semplice al punto da
diventare complessa ed è proprio su questa scarna architettura che
poggia il suo paradigma.
Melodia, armonia e ritmo sono i parametri importanti senza i
quali nessuna musica esisterebbe ma nel jazz, opera creata al momento, è fondamentale il colloquio che getta le basi per una costruzione
semplice, diretta e altrettanto rischiosa quando il team manca di coesione.
Del resto la musica afroamericana è per sua natura una musica con
una ferrea organizzazione collettiva. Dalle marching band dei primi del
Novecento passando per le orchestre di swing fino ad arrivare ai combos del bebop e poi alla musica modale e al free jazz questo genere ha
sempre espresso il meglio nei progetti dei gruppi ancora prima che con
i solisti. Pensiamo agli ÇHot FiveÈ e ÇHot SixÈ di Louis Armstrong o ai
quintetti di Davis prima con Sonny Rollins e poi con John Coltrane,
Wayne Shorter e George Coleman ma pensiamo anche ai trii di Bill
Evans, ai quartetti mitici di ÇTraneÈ o ai complessi allargati di Charles
Mingus. Tutti gruppi questi in cui la leadership è marcata e dunque in
grado di creare una cifra stilista che è ciò che colpisce al primo ascolto
ancor prima che la personalità dei componenti della band.
SS: Sono sempre stato colpito, nella similitudine tra jazz e organizzazione aziendale, dal funzionamento della sezione ritmica. Il fulcro di
una jazz band è infatti la sezione ritmica: piano, contrabbasso, batteria e Ð a volte Ð chitarra. Lo scopo di questo insieme di strumenti è
di sostenere il leader (il solista). Sono come i giocatori della squadra
che supportano il playmaker oppure i genitori che lavorano mentre i
XIV
Disordine armonico. Leadership e jazz
figli si divertono. Coprono le spalle. La sezione ritmica è un’invenzione tipica del jazz: tre o quattro strumenti il cui compito è quello
di produrre un contesto accuditivo per chi deve emergere (momentaneamente) dal gruppo. Il novizio appassionato dice che questa musica è l’espressione per eccellenza della libertà individuale (dopo tutto
i musicisti più famosi sono solisti, come Miles Davis, Thelonious
Monk, Louis Armstrong, Art Tatum, Keith Jarrett ecc.). E invece non
è così: solo perché esiste una solida e robusta sezione ritmica, possono svettare i singoli straordinari. Chi fa parte della sezione ritmica deve avere ottimi riflessi perché deve improvvisare e creare il sottofondo di accompagnamento a un musicista che sta inventando sul
momento. È come dover anticipare ciò che uno sta per dire e trovare
la risposta adatta proprio mentre quello sta comunicando il suo messaggio.
PF: Un discorso a parte meritano le big band e i boppers. Nel primo
caso c’è un’idea orchestrale sviluppata e, oltre al solista di turno, esiste
la figura del direttore (in genere è anche il compositore e l’arrangiatore
del materiale musicale) che sovrasta lo stesso solista ma il cui compito è quello di tirare fuori il meglio dalla band. Qui è facile trovare un
parallelismo con il mondo classico e non stupisce quanto il jazz debba
a quella musica e quanto alcuni dei jazzmen siano stati influenzati da
quel mondo.
Una parentesi meritano i progetti del canadese Gil Evans con la
tromba lirica di Miles Davis. In questo caso si riscontrano i due diversi lati del principio orchestrale laddove il solista è solo uno e l’orchestra funge da tessuto connettivo tra l’idea compositiva del direttore/
arrangiatore, i suoi voicings e il suono personale di Davis, che diviene
la prima donna dell’opera musicale.
Potrei rischiare di passare per eretico ma se a volte il senso dell’interplay è venuto a mancare è proprio con la nascita del bebop. Perché
con Charlie Parker e Dizzy Gillespie il jazz ha acquistato una connotazione politica ed è diventato acido e ribelle. Bisognava dunque gridare il proprio disagio all’esterno piuttosto che all’interno del gruppo.
La capacità del solista di perdersi nelle complicate e spigolose armonie
di «Ornithology», «Quasimodo» o «A Night In Tunisia» ponevano il
Prefazione a due voci
XV
gruppo in secondo piano quasi come se questo dovesse solo accompagnare e assecondare i voli pindarici dei grandi improvvisatori. I nomi
dei gregari erano quelli degli immensi pianisti Bud Powell e Red Garland, dei bassisti Oscar Pettiford e Ray Brown e di batteristi straordinari come Max Roach e Roy Haynes che, solo dopo avere atteso
gli infiniti assolo stellari dei solisti, diventavano anch’essi protagonisti fino a quando i leader non riprendevano il chorus o il tema finale.
Forse uno dei momenti più comunicativi erano gli stop chorus e
i drum breaks in cui solisti e sezione si scambiavano rutilanti fraseggi intramezzati da altrettante frasi ritmiche del batterista ma la stessa
disposizione dei musicisti sul palco racconta questa gerarchia: il solista stava davanti e guardava il pubblico mentre la sezione ritmica era
disposta dietro di lui.
È grazie a Davis e a Kind of Blue del ’59 che cambia il concetto
dello spazio dentro e fuori il palcoscenico. Miles e i suoi compagni di
viaggio spogliano completamente le armonie dei sei brani presenti nel
disco e lavorano su strutture modali basate su pochissimi accordi che
hanno una lunga durata. È su questi che si sposta la palestra creativa.
L’irruenza di Coltrane è vicina a quella di Cannonball Adderley
ma ciò si sposa per contrasto con il lirismo della tromba di Miles e
con la raffinatezza accordale del pianista bianco Bill Evans.
SS: Come si può notare è tutta una questione di equilibrio e di padronanza del campo. Non ci sono protagonisti più forti e più deboli.
Tutti giocano la medesima partita, sulla base di un principio di fiducia e di sostegno reciproco fortissimo. Si mescolano una estrema coordinazione (lavorare con altri), saper prendere decisioni istantaneamente e
intelligentemente (problem solving e decision making), disposizione positiva (voglia di contribuire con il proprio ego, senza però sovrastare la
personalità altrui). La similitudine con l’azienda è qui molto vicina.
Anche nelle organizzazioni il vertice è sempre più squadra. Ciò che
regola e condiziona la prestazione aziendale sono l’affiatamento e la
coesione sociale. L’atmosfera è molto prossima a quella di una band
dove il contesto collaborativo è fondamentale per far nascere la giusta
fiducia reciproca e lo scambio di solidarietà professionale. La metafora
della jazz band, per le persone che operano nell’organizzazione, può
essere un esempio di immagine figurata che arricchisce un concetto
XVI
Disordine armonico. Leadership e jazz
più semplice quale, per esempio, il gruppo di individui che operano
per un fine comune.
PF: Grazie all’interplay la musica acquista lirismo e forza per quel dualismo suono-silenzio/solista-gruppo che è la naturale conseguenza del
meccanismo di call and response responsoriale del tema di «So What» di
Davis, imperniato su una struttura di 32 misure e su soli due accordi
di re-7 e mib-7 risolti attraverso il modo dorico. L’architettura strutturale è quella della forma canzone tradizionale e della più ampia sonata
classica ma l’estrema semplicità dei materiali armonici pone un’innumerevole serie di domande sulla dinamica del gruppo e sul suo piano
comunicativo.
Il trombettista dell’Illinois svilupperà in trent’anni un percorso che
lo porterà a rompere completamente quell’archetipo del solista e del
gruppo per impiantare un nuovo sistema in cui la musica si svilupperà attraverso un’incessante discussione interna fatta di segnali, gesti,
sguardi e cliché. Il dialogo si fa fitto e il solista sa che potrà cambiare
il suo percorso se qualsiasi musicista del gruppo sarà in grado di suggerire qualcosa d’interessante, come sa che potrà andare in qualsiasi direzione inattesa senza mai rimanere solo. Un po’ ciò che accade
a Gianfranco Zola in una partita di calcio: il playmaker sa che deve
avere dei compagni di squadra capaci di porgergli la palla e di assecondarlo ma sa anche che dovrà lasciare il giusto spazio agli altri giocatori. Spazio che è anche delle idee: ciò che in musica si chiama silenzio e
che prelude al suono. Non è un caso che in molte delle lingue (neolatine e non solo) giocare e suonare abbiano lo stesso significato.
SS: Vorrei affrontare un momento il tema del ritmo. Il jazz insegna
a trovare sintonia con gli altri, a mantenerla e a farla crescere. Se una
frase gira bene e trova il suo swing, la si potrà ripetere per molti minuti. Motivi ripetuti di questo genere sono detti riff, forme retoriche che
si reiterano per crescere di intensità. Arrivano all’osso e non mollano.
La band costruisce insieme un brano, valorizzando il contributo di
ciascuno, impara dai singoli musicisti, rilancia continuamente il tema
con personali arricchimenti che diventano patrimonio di gruppo, ibrida con input differenti il suono comune che fuoriesce come blending
molto più ricco della sommatoria dei singoli contributi, valorizza le
Prefazione a due voci
XVII
singolarità attraverso una sinergia di convergenza. Si produce così un
processo che a volte è quasi più importante del contenuto e questo è
ciò che avviene in azienda dove spesso il come avviene una transizione o una trasformazione conta più del traguardo verso cui si è diretti.
Il jazz pertanto è un utile stimolo al mondo aziendale per come si
progetta in corso d’opera. Come montare e fondere i contenuti migliori fino a ottenere un effetto complessivo. Ci insegna come i diversi
ruoli specialistici si intreccino tra loro, dando momentaneo spazio di
potere a singoli protagonisti. I quali, a loro volta, devono capire chi
sta loro di fronte, come l’interlocutore vada provocato, come ci si insinua nelle altrui note, come si lancia un messaggio d’ingaggio, come e
quanto attendere per verificare se il destinatario è entrato in relazione.
Tutti segreti utilissimi per il team building evoluto, dove occorre
un atteggiamento allo stesso tempo benevolo e intrigante di sfida.
PF: Improvvisare su un palco è come un gioco di squadra e necessita
una notevole concentrazione e una presenza fisica costante.
Davis non dava le spalle al pubblico perché scortese nei suoi confronti ma perché voleva comunicare con i propri compagni di viaggio:
sentire con gli occhi e vedere con le orecchie.
In tanti concerti di bop il solista, terminato il proprio assolo, usciva
dal palco lasciando i propri colleghi a «cucinare il pollo» quando invece Davis, Coltrane o Mingus non hanno mai abbandonato la scena.
Perché sapevano che essere presenti fisicamente dava un senso alla
musica degli altri e, da buoni architetti creativi, mai e poi mai avrebbero lasciato il cantiere in costruzione minando la fiducia dei propri
compagni di viaggio.
Il jazz incarna una lezione preziosa: nessuno può diventare qualcuno senza la complicità del prossimo e nessuno può fare goal da solo.
Metafora questa di un Novecento straordinario che ha portato a un
oggi in cui – lungi da noi il volere imputare responsabilità alcuna – il
prossimo sembra essere sempre più distante.
SS: Abbiamo più volte sfiorato l’espressione del «ma anche», tipico dei
paradossi, per dire che nella band jazzistica i musicisti si bilanciano
tra struttura e libertà, tra interdipendenza e autonomia, tra controllo e lasciarsi andare. Lo stesso titolo di questo libro Disordine armo-
XVIII
Disordine armonico. Leadership e jazz
nico sottolinea l’ossimoro. La performance dei musicisti è densa di
questi momenti di contrapposizione di atteggiamenti polari: l’improvvisazione c’è, è vero, ma è costruita su regole molto ferree e su routine di grande ritualità; il solismo consente ai singoli di mettere in luce
il proprio personale talento, ma solo perché intorno c’è un gruppo di
grande solidità che fa rete intorno al solista; gli artisti sono alla continua ricerca di sperimentazioni e di creatività, ma tale fantasia non è
lateralizzazione sterile, bensì è incardinata in un copione già scritto e
consolidato. Questa capacità di convivere con un paradosso e di gestire tale ambivalenza è una delle più forti lezioni che il jazz lascia alle
organizzazioni contemporanee. La sapienza di mettere insieme predisposizioni diverse, accettando una sfida complessa ed evitando strade riduzionistiche, è forse la più efficace forma di insegnamento che
la musica di origine afroamericana lascia alle aziende post industriali
contemporanee.
PF: Prima di chiudere, però, non mi hai chiesto nulla del tritono, mentre mi avevi detto che l’uso del tritono ti incuriosiva per le analogie
che ci potrebbero essere sulle dissonanze che precedono il cambiamento. Il tritono nella musica jazz è l’accostamento di due note separate da sei semitoni (o tre toni) e che formano un intervallo di quarta
aumentata. Nel tritono le due note vengono suonate insieme producendo un intervallo stridente e dissonante, sicuramente disarmonico
al punto che nel Medioevo veniva chiamato diabolus in musica. Il tritono avverte l’ascoltatore che l’armonia e la melodia stanno cambiando
pelle e che qualcosa di inaspettato sta per sopraggiungere. Un messaggio segnaletico, per chi lo sa decifrare.
Interessante è scoprire che nell’armonia tradizionale ciò che stride è accettato a patto che la tensione creata dalla dissonanza risolva
immediamente verso una consonanza… Insomma, la quiete dopo la
necessaria tempesta.
SS: Te ne avevo parlato perché ho la sensazione che il segnale sia lo
stesso che si prova in azienda di fronte a una devianza critica che cerca
di mettere in discussione e in crisi una cultura organizzativa troppo
monolitica e conservativa. Il tritono ci allerta che un nuovo stadio di
sviluppo (della performance musicale o della vita aziendale) sta ini-
Prefazione a due voci
XIX
ziando. Nella musica la dissonanza è di tipo armonico, in azienda è
di tipo cognitivo. Ma ambedue sono oggi il sale delle organizzazioni
orientate al futuro. Quante volte nelle aule di formazione manageriale si cita l’indispensabile, radicale discontinuità per avviare un nuovo
stadio di vita prospettica (la progettazione di un nuovo prodotto, un
nuovo corso verso l’internazionalizzazione, l’ingresso in un nuovo
mercato geografico, l’adozione di una nuova tecnologia e così via)? E
quanto la sensazione di ansia e di incertezza che provano gli operatori
aziendali rassomiglia ai suoni stridenti e poco compiacenti che i jazzisti producono quando si avventurano in una «risoluzione»?
La vita non è solo gradevolezza e armonia. Il jazz ci può molto aiutare a capire le asperità della strada.
Note
*
Paolo Fresu, musicista, dopo un’esperienza con la musica pop, scopre il jazz con
la tromba e da allora non si ferma più. Ha registrato più di trecentocinquanta album,
si è esibito nei più importanti festival italiani e internazionali, ha insegnato musica,
ha ricevuto numerosissimi premi come migliore artista e migliore leader di gruppo.
Ha fondato il festival Time in Jazz a Berchidda in Sardegna, sua città natale. È autore
di Musica dentro (Milano, 2009) e In Sardegna. Un viaggio musicale (Milano, 2012).
Severino Salvemini, economista, è docente di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano. Ha insegnato in numerose università italiane e straniere
ed è stato membro di consigli di amministrazione di rilevanti istituzioni e imprese
culturali (Teatro alla Scala, Cinecittà Holding, Biennale di Venezia, Magnolia TV).
È attualmente presidente di Telecom Italia Media, società che edita le televisioni
La7 e MTV Italia. Editorialista del Corriere della Sera, si occupa di ricerca nell’ambito delle imprese culturali operanti nei settori creativi. Ha recentemente pubblicato
Il manager al buio, con Gianni Canova (Milano 2011).
Introduzione
Mi sveglio per dormire, e mi sveglio lentamente.
Andando imparo dove devo andare.
—Theodore Roethke, Il risveglio
Questo libro è solo in apparenza sull’improvvisazione jazz. Perché tra
voi che vi accingete a leggerlo, i musicisti sono verosimilmente pochi e
a molti è probabile che la musica jazz non piaccia neppure – anche se
spero ardentemente che dalla lettura di questo libro possa nascere (in
modo non del tutto involontario) un più profondo apprezzamento per
il jazz. A onor del vero, questo è un libro sulla leadership come atteggiamento mentale e sul tipo di attività e competenze che aiutano i
leader a comprendere e a favorire i processi di innovazione1.
Il mio personale percorso può sembrare improvvisato o fortuito. Alla fine degli anni Ottanta, mentre mi stavo laureando in Comportamento organizzativo presso la Case Western Reserve University, andai a una conferenza durante la quale il relatore della mia tesi,
Suresh Srivastva, mi presentò a Karl Weick come «lo studente di dottorato che amava suonare il jazz». Ricordo due cose di quell’incontro.
In primo luogo, non riuscivo a credere di essere veramente di fronte a
Karl Weick né tanto meno di avere l’opportunità di parlargli. Io e gli
altri miei compagni dottorandi tenevamo le sue idee in altissima considerazione tanto che nella nostra mente egli aveva raggiunto vertici di
perfezione tali da meritarsi un posto nel pantheon. La seconda cosa
che mi ricordo è ciò che Karl mi disse dopo che Suresh gli raccontò
della mia precedente carriera di musicista jazz. Karl mi chiese: «Stai
preparando la tesi sul jazz come organizzazione innovativa?». Balbettai una risposta che ora non ricordo, ma rammento di aver pensato
«Eh? Che cos’ha mai a che fare l’improvvisazione jazz con il com-
2
Disordine armonico. Leadership e jazz
portamento organizzativo?». In realtà, all’epoca, ero tutto concentrato sulla mia tesi visto che di lì a breve mi sarei laureato, ma la domanda di Karl continuò a riecheggiarmi nella mente e alla fine cominciai
a intravedere quel collegamento che ora appare così ovvio. Attraverso le parole di Theodore Roethke citate in apertura stava avvenendo il
mio lento risveglio.
Divenni così sempre più interessato a scandagliare il possibile collegamento tra le mie due passioni, il jazz e il comportamento organizzativo. Nell’agosto 1995, all’Academy of Management di Vancouver,
British Columbia, collaborai con Mary Jo Hatch alla progettazione e
organizzazione di una conferenza e tavola rotonda sul tema «Improvvisazione jazz e complessità organizzativa». Karl Weick partecipava a
quella tavola rotonda. Le dissertazioni che io e altri partecipanti scrivemmo in occasione di quella sessione furono pubblicate in un numero speciale di Organization Science che uscì nel 1998. Sia la conferenza di Vancouver sia il numero speciale della rivista acuirono il mio
interesse sull’argomento dell’improvvisazione nelle organizzazioni.
Cominciai ad attingere alla metafora del jazz come un modo per comprendere creatività e innovazione ed elaborai moduli formativi per
manager utilizzando l’improvvisazione come una lente d’ingrandimento attraverso cui approfondire i concetti di innovazione collaborativa e apprendimento organizzativo. Fui sorpreso dal grande interesse
che la mia ricerca suscitò.
Tale interesse, unitamente a una crescente consapevolezza, mi ha
portato a scrivere questo libro. Cominciai ad apprezzare la ricchezza della metafora del jazz per capire la natura delle attività all’interno delle organizzazioni. Iniziai anche a rendermi conto che sfidarsi
sul fronte del jazz era una provocazione analoga a quella delle sfide
che devono affrontare i manager. Col tempo mi sono reso conto che
il jazz è più di una metafora dell’organizzazione. I gruppi jazz sono di
fatto organizzazioni progettate per l’innovazione, e gli elementi progettuali insiti nel jazz possono essere applicati ad altre organizzazioni
che vogliano rinnovarsi. Inoltre, per avere successo, i gruppi jazz devono votarsi a un determinato atteggiamento mentale, una cultura, delle
prassi e delle strutture, nonché un approccio alla leadership che è sorprendentemente simile a quello necessario per promuovere l’innovazione all’interno delle organizzazioni.
Introduzione
3
In questo libro uso l’improvvisazione jazz come punto di contatto
per delineare sette principi che rappresentano la struttura di supporto necessaria a comprendere e coltivare l’improvvisazione e l’innovazione strategica. Questi sette principi sono diventati i titoli dei capitoli. In ogni capitolo alterno esempi tratti dal mondo del jazz a storie
del mondo imprenditoriale, con un occhio sempre volto a evidenziare come tali principi siano già messi in pratica in molte organizzazioni
e come i leader possano sostenere e ampliare le opportunità di innovazione. La mia speranza è che i manager possano acquisire utili intuizioni in merito alle scelte e alle attività che i jazzisti compiono quando improvvisano, preparandosi a essere spontanei e a giostrarsi, nelle
esibizioni pubbliche, tra vincoli e sperimentazioni. I leader farebbero bene a prendere in considerazione questi sette principi, utilizzando
queste idee per creare una cultura dell’innovazione che incoraggi l’improvvisazione in termini di impegno e ideazione strategica.
Il primo principio, «Jazz e ancora jazz. Conoscere l’arte di disimparare» (Capitolo 1), è un invito a difendersi dal potere seduttivo
della routine. Spesso il primo passo per acquisire la nuova sensibilità necessaria all’innovazione è disimparare. Gli individui, in particolare nell’ambito di strutture consolidate, tendono a fare affidamento su
logore consuetudini e regole familiari. Nel corso del tempo determinati modi operandi assumono un carattere sacro e indiscusso. Le consuetudini costituiscono degli ostacoli all’apprendimento. Per resistere
alla tentazione di ripetere ciò che sanno fare bene ed evitare così di
rischiare un insuccesso, i jazzisti più navigati tentano deliberatamente di rinunciare a percorsi musicali codificati, ad assolo memorizzati o ad abitudini e modelli che in passato hanno ritenuto vincenti.
Al contrario, si sfidano a esplorare il limite estremo del loro livello di
sicurezza, a estendere il processo di apprendimento a nuovi e diversi
ambiti. Alle imprese non potrebbe che giovare attingere a una pagina
di sceneggiatura ambientata nel mondo del jazz. Quando le organizzazioni rimangono imprigionate in un progetto dominante, anche le
persone sono intrappolate nell’immobilità di ruoli specifici, a scapito
del dinamismo. Questo capitolo pone un interrogativo: come possono i leader seguire le orme dei musicisti jazz, cioè interrompere di proposito i propri processi routinari per «disimparare» ed essere più vivi,
vigili e aperti a un orizzonte di nuove possibilità?
4
Disordine armonico. Leadership e jazz
Il secondo principio, ÇLargo al disordine. Sviluppare competenze
positiveÈ, • lÕargomento del Capitolo 2. I manager si trovano spesso a
dover gestire situazioni intricate di cui non sono responsabili, piovute
sulle loro teste dallÕesterno, e a dover adottare azioni e iniziative senza
alcuna garanzia di riuscita, sulla base di informazioni imperfette. I jazzisti devono affrontare gli stessi problemi, ma ci˜ che rende loro possibile improvvisare, operare aggiustamenti e mettere a punto una strategia operativa • una risposta affermativa, un implicito Çs“È che permette
loro di progredire anche su un terreno disseminato di incertezze.
La risoluzione dei problemi di per sŽ non genera soluzioni innovative. Ci˜ che serve • la risoluta convinzione che una soluzione esista e
che da essa emergerà qualcosa di positivo. In realtà questa • una facoltà della fantasia, • la capacità di eliminare ogni ombra di scetticismo
buttandosi a capofitto nellÕazione, senza garanzie oggettivamente valide sulla direzione intrapresa. Gli individui danno il meglio di sŽ quando sono aperti al mondo, in grado di percepire ci˜ che occorre e dotati delle competenze necessarie per reagire in modo significativo alle
problematiche del momento. LÕimprovvisazione nasce dallÕessere ricettivi a ci˜ che la situazione presenta, pertanto la prima mossa • Çlargo
al disordineÈ, uno stato di ricettività radicale cui tutti i musicisti jazz
anelano.
Il terzo principio, ÇAgire e sperimentare allo stesso tempo. Gli errori come fonte di apprendimentoÈ (Capitolo 3), esamina lÕimportanza di creare una cultura dellÕapprendimento. I leader devono prendere
esempio dai jazzisti: ovvero capire che quando si • incoraggiati a sperimentare una nuova strada, i risultati saranno inaspettati e ÇimprevedibiliÈ, cos“ come gli errori. Le culture innovative ottimizzano lÕapprendimento mediante un approccio che invita a procedere per tentativi
ed errori illuminanti, consentendo ai leader di sfruttare gli errori per
offrire nuove intuizioni. Ci˜ richiede la creazione di una zona di comfort psicologico in cui sia possibile parlare liberamente degli errori e di
ci˜ che si pu˜ imparare da questi.
Questo tipo di cultura non pretende che non si commettano errori, nŽ li penalizza esageratamente. Al contrario, concepisce gli insuccessi come opportunità di apprendimento.
Il principio successivo • contenuto nel titolo del Capitolo 4: ÇStruttura minima, autonomia massima. In equilibrio tra libertà e restrizio-
Introduzione
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ni». Tale principio favorisce una struttura flessibile, un modello organizzativo caratterizzato non solo da un numero sufficiente di vincoli,
ma anche da una struttura e da un coordinamento essenziali, tali da
consentire di massimizzare le diversità. Le jazz band e le organizzazioni innovative creano condizioni idonee a un’autonomia guidata.
Generano opportunità di scelta per non farsi appesantire da norme
inutili e al tempo stesso massimizzare la diversità, favorendo il miglioramento e incoraggiando l’esplorazione e la sperimentazione. Per favorire l’innovazione, i leader si guardano bene dal cadere nella trappola
del «consenso eccessivo», offrendo alle persone la libertà di sperimentare e reagire alle proprie intuizioni. L’ipotesi implicita è che quando
due individui non sono d’accordo hanno entrambi ragione. Pertanto,
le organizzazioni di questo genere tollerano e incoraggiano il dissenso e il dibattito.
Il quinto principio, «Improvvisare e stare insieme. Imparare facendo e parlando», è ripreso nel Capitolo 5. Nel jazz, apprendimento e
idee innovative si sviluppano durante le jam session, l’equivalente creativo delle conversazioni che avvenivano nei caffè del XIX secolo. È
nell’ambito di queste sessioni che i musicisti acquisiscono idee innovative e verificano se e in quale misura la loro musica sia all’altezza. Per
gli esordienti e per coloro che non sono veramente dei professionisti,
queste sessioni sono un luogo in cui apprendere ciò che serve per pensare e agire come un vero jazzista.
Le organizzazioni hanno bisogno di creare uno spazio simile a
quello delle jam session, come Steve Jobs aveva così profondamente
compreso. Devono saper organizzare intenzionalmente opportunità
impreviste e fortunate, per incoraggiare casualità proficue e scoperte
inaspettate. La chiave per ottenere tutto questo all’interno delle organizzazioni è generare discussioni opportune. Le grandi intuizioni scaturiscono da un contesto di scambi e relazioni, nella condivisione delle
mansioni e sollevando interrogativi (spesso ingenui).
Il sesto principio è «Ora solista, ora spalla. Il gregario come nobile vocazione» (Capitolo 6). Oggi poniamo così tanta enfasi sulla leadership che abbiamo dimenticato l’importanza del ruolo del gregario,
quello che i jazzisti chiamano in gergo «spalla». Nelle organizzazioni
questo ruolo di supporto che incoraggia gli altri a pensare ad alta voce
e a dare il meglio di sé, dovrebbe essere un’arte più articolata, ricono-
6
Disordine armonico. Leadership e jazz
sciuta e premiata. Questo capitolo esorta i leader alla flessibilità, sostenendo l’importanza di alternarsi nel ruolo di leader e gregario, proprio
come fanno i grandi musicisti jazz. Quella del gregario può essere una
nobile vocazione e le organizzazioni devono consentire che si esplichi
ed evolva.
Il settimo principio è «Leadership come competenza provocatoria.
Coltivare una duplice visione» (Capitolo 7). Provocare in modo competente è un’abilità molto speciale dei leader e incoraggia ad affrancarsi dalle trappole della competenza tradizionale. Per essere competenti
e provocatori, i leader devono prima esercitare la propria immaginazione a percepire le potenzialità di un individuo o di un gruppo anche
quando non sono immediatamente percepibili. I leader hanno la facoltà di sovvertire progressivamente la situazione esortando le persone ad
abbandonare il proprio ambito di tranquillità per cimentarsi in azioni nuove e poco conosciute. In altre parole, i leader possono suscitare
la «vulnerabilità all’apprendimento», ovvero momenti di irrequietezza
(ed eccitazione) in cui le persone esplorano l’ignoto. Infine, provocare in modo competente agevola la ricerca di un nuovo orientamento.
Duke Ellington e Miles Davis erano maestri in questo; avevano compreso che si tratta di una forma d’arte in sé. I leader di ogni settore
farebbero bene a seguire questa lezione.
Il Capitolo 8 «Finalmente il disordine. Procedere con impegno e
improvvisazione strategica» offre una sintesi e uno sguardo al futuro,
un kit di strumenti in materia di improvvisazione con misure concrete che i leader possono adottare per divulgare una cultura che integri e
valorizzi il concetto di improvvisazione.
Siamo cresciuti con svariati modelli organizzativi che spesso si
sono affidati, fino a un certo punto, a una visione meccanicistica del
cambiamento, fondata su approcci di tipo verticistico. I modelli di
leadership basati sul comando e controllo accentuano le routine e le
regole. Richiedono strutture organizzative rigorose e chiare, rafforzate da regole, piani, bilanci, grafici PERT, orari, ruoli ben definiti, e
l’uso di coercizione o intimidazione per ottenere il rispetto da parte
dei lavoratori. Questi fattori potevano funzionare all’inizio del ventesimo secolo, quando le organizzazioni erano progettate come macchine, le mansioni frammentate in piccoli ruoli facilmente replicabili e
le persone tranquillamente sostituibili come pezzi di ricambio. Ma di
Introduzione
7
fronte alla sempre crescente sete di conoscenze del ventunesimo secolo, dobbiamo cambiare prospettiva e arricchire i nostri strumenti di
leadership andando oltre i modelli gerarchici, per apprezzare più pienamente il potere delle relazioni.
La nuova era richiede che ci si concentri più sul concetto di team
che sul singolo individuo, incoraggiando un processo continuo di
apprendimento e innovazione piuttosto che il rispetto di piani prestabiliti. I leader non hanno il privilegio di potere anticipare o prevedere tutto, di formarsi e provare per poi arrivare pronti e preparati al
momento di agire. Al contrario, devono far propria l’arte di imparare contestualmente all’azione, diffondendo questa capacità in tutti i loro
sistemi. Ecco perché le jazz band costituiscono modelli provocatori
impossibili da ignorare nell’organizzazione di team e strutture aziendali del ventunesimo secolo.
Come può un’organizzazione prosperare in un mondo pervaso
da cambiamenti radicali e dominato dall’incertezza? Costruendo la
capacità di sperimentare, imparare e innovare: in breve, impegnandosi a favore dell’improvvisazione in termini di impegno ed elaborazione di strategie. Il modello dei jazzisti che improvvisano insieme offre
un esempio lampante e di grande effetto di come le persone e i team
siano in grado di coordinarsi all’insegna della produttività e di creare innovazioni sorprendenti senza tutti i sistemi di comando invocati dalla classe dirigente nell’era industriale. Un modello organizzativo
basato sull’improvvisazione crea una sorta di apertura, un invito alla
possibilità, invece di barricarsi nell’angusto perimetro del controllo.
Questo libro vuole spingere i leader ad adottare un approccio all’innovazione solido, nel quadro di culture stimolanti che valorizzino il
concetto di scoperta, evitando di ricadere nella prevedibilità limitata
del mondo conosciuto. È un invito rivolto ai leader a rompere con
le rigide convenzioni che li imprigionano, a sperimentare ciò che si
prova quando si va oltre le certezze. Dire «largo al disordine» è una
sfida per ciascuno di noi a creare culture, comunità e organizzazioni
impegnate, appassionate e fantasiose, in grado di favorire il progresso
e il benessere di tutto il sistema.
I musicisti jazz cercano di vivere una vita improntata a una radicale ricettività. Gli esseri umani danno il meglio di sé quando agiscono
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Disordine armonico. Leadership e jazz
allo stesso modo: quando sono aperti al mondo, in grado di percepire
ampi orizzonti di possibilità, pienamente impegnati in proficue attività e capaci di vivere in contesti che sollecitano risposte riconducibili a
nuove scoperte. Come possiamo organizzarci per consentire alle persone di eccellere? Questo è l’interrogativo da cui scaturisce l’indagine
alla base di questo libro.
Note
1
F.J. Barrett, ÇCreativity and Improvisation in Jazz and Organizations: Implications for Organizational LearningÈ, Organization Science, 9 (1998), pp. 605-622.
Questo articolo è stato modello e ispirazione per il presente libro.