Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. George POPESCU

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PROGRAMA ANALITICĂ
Disciplina: LITERATURĂ ŞI CIVILIZAŢIE ITALIANĂ
Specializarea: Română – Italiană
Anul II ID, Semestrele I, II
ANUL UNIVERSITAR 2006-2007
Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. George POPESCU
Literatură şi Civilizaţie Italiană
Denumirea disciplinei
Codul disciplinei
Semestrul
I, II
Numărul de credite
Numărul orelor pe
an / activităţi
Total
SI TC AT AA
Facultatea
Litere
Profilul
Filologie
Specializarea
Română – Italiană
56
36
Categoria formativă a disciplinei: DF - fundamentală, DG - generală,
DS - de specialitate, DE - economică/managerială, DU - umanistă
Categoria de opţionalitate a disciplinei: DI - impusă, DO - opţională,
DL - liber aleasă (facultativă)
Discipline
anterioare
8
12
DF
DI
-
Obligatorii
(condiţionate)
Recomandate
-
Obiective
Disciplina «Literatură şi civilizaţie italiană» urmăreşte realizarea
următoarele obiective:
- familiarizarea studenţilor cu marile valori ale literaturii italiene, cu
evoluţia curentelor estetice, a gustului şi a modificărilor intervenite în
evoluţia ei de-a lungul perioadei supusă studiului, adică de la Iluminism
până la Verism;
- cunoaşterea principalilor protagonişti ai scenei literare din perioada
de referinţă;
- formarea de deprinderi adecvate în comentarea textului literar.
Conţinut
(descriptori)
L‘Illuminismo
L‘Illuminismo europeo ed italiano.
Il preromanticismo europeo ed italiano.
La poesia e la letteratura dell’Arcadia
L’influsso della filosofia e della poetica di Giambattista Vico sulla
cultura italiana del Settecento.
Giambattista Vico profilo bio-bibliografico; l’opera (alcuni titoli), con
la conoscenza delle idee fondamentali del suo capolavoro «Scienza
nuova».
1
L’impostazione storico-letteraria dell’Arcadia. Gli esponenti
(Ghedini, i fratelli Zanotti, Giovan Battista Fagiuoli, Carlo Antonio
Tanzi, Tommaso Crudeli, Minzoni, Paolo Rolli), ma soprattutto Pietro
Metastasio, come creatore del melodramma); particolare attenzione ai
generi letterari arcadici.
Carlo Goldoni. La vita e l’opera. («Servitore di due padroni»; la
«Locandiera»; La riforma teatrale; il realismo goldoniano; il linguaggio
del Goldoni).
Giuseppe Parini. La vita e l’opera. (Il «Giorno»; Le «Odi»;
umanesimo e poeticità nel Parini; il sensismo).
Vittorio Alfieri. La vita e l’opera (I trattati: «Della tirannide»; le
«tragedie»; il contributo alfieriano alla cultura e letteratura italiana ed
europea).
Ugo Foscolo. La vita e la poetica. La prosa («Le ultime lettere di
Jakopo Ortis»); i sonetti e le odi; i «Sepolcri»; Foscolo tra il
neoclassicismo e il preromanticismo. Il suo contributo essenziale al
processo della rinnovazione della letteratura italiana.
Il Romanticismo italiano e la letteratura del Risorgimento
Lo specifico del romanticismo italiano.
Alessandro Manzoni. La vita e l‘opera. L’ideologia letteraria (la
poetica del romanzo; la questione della lingua). La lirica manzoniana; il
romanzo (I «Promessi Sposi»).
Giacomo Leopardi. La vita e l’opera. Le idee poetiche. Il pensiero –
tra poetica e filosofia. Il primo tempo della poesia leopardiana. Le
«Operette morali»; lo «Zibaldone». Leopardi e la filosofia europea
dell’epoca. I grandi idilli. L‘ultimo Leopardi. L’universalità dell’opera
del Leopardi.
Il secondo Ottocento letterario
Francesco De Sanctis e la nascita della critica letteraria moderna.
La Scapigliatura – presentazione generale.
Giosuè Carducci. Il contributo allo svolgimento della poesia italiana
moderna.
Forma de evaluare (E - examen, C - colocviu / test final, LP - lucrări de control)
E
Stabilirea
- răspunsurile la examen / colocviu / lucrări practice
50%
notei
- activităţi aplicative atestate / lucrări practice/ proiect etc.
finale
- teste pe parcursul semestrului
25%
(procentaje)
- teme de control
25%
Bibliografie
M. Guglielminetti, Lineamenti di storia della letteratura italiana. Dalle
generală
origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1980.
Carlo Salinari, Profilo storico della letteratura italiana. Dalle origini ai
nostri giorni, Nuova edizione e percorso storico-linguistico a cura di
Stefano Gensini, Firenze, Giunti Marzocco, 1992.
Mario Pazzaglia, Letteratura italiana. Testi e critica con lineamenti di
storia letteraria, vol. 2-3, Bologna, Zanichelli, 1985.
G. Petronio, Storia della letteratura italiana, vol. 3-4, Milano,
Zanichelli, 1985.
Ugo Dotti, Autori e testi della letteratura italiana, vol. 2-3. Roma-Bari,
Laterza, 1991.
Riccardo Marchese, Letteraturà e realtà. Antologia e storia della
2
letteratura italiana nel quadro della cultura europea, vol. 2, Dal secolo XVI
all’Alfieri. Firenze, La Nuova Italia, 1976.
Erminia Ardissino, Il Seicento, Bologna, Il Mulino, 2005.
Alberto Beniscelli, Il Settecento, Bologna, Il Mulino, 2005.
Riccardo Bonavita, L’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005.
Legenda: SI - studiu individual, TC - teme de control, AT - activităţi tutoriale,
AA - activităţi aplicative aplicate
3
UNIVERSITATEA DIN CRAIOVA
FACULTATEA DE LITERE
SPECIALIZAREA: ROMÂNĂ – O LIMBĂ STRĂINĂ
ÎNVĂŢĂMÂNT LA DISTANŢĂ
Anul universitar: 2006-2007
Disciplina: Literatura italiană
Anul II, sem. I,II
Titularul cursului: conf. univ. dr. George Popescu
DALL’UMANESIMO AL SEICENTO
IL QUATTROCENTO
Il primo Rinascimento
L’Umanesimo
Umanesimo e Rinascimento
Il contesto politico e sociale
Aspetti e caratteri dell’Umanesimo
L’Umanesimo latino: i prosatori
L’Umanesimo latino: i poeti
Matteo Maria Boiardo
Angelo Poliziano
IL CINQUECENTO
Il tardo Rinascimento
Il quadro storico-politico
Il quadro culturale ed artistico
Pietro Bembo
Il dibattito sulla lingua
Le poetiche del Cinquecento
LUDOVICO ARIOSTO
La vita
Le opere minori
L«Orlando Furioso»
Il «Furioso» come favola rinascimentale
NICCOLÒ MACHIAVELLI
La vita
La concezione politica del Machiavelli
La Stato come progetto ideale
Le opere politiche (Il Principe)
Le opere letteraria (La Mandragola)
FRANCESCO GUICCIARDINI
La vita
L’attivismo
Il pensiero politico e morale
Gli scritti autobiografici
Gli scritti politici
TORQUATTO TASSO
4
La vita
La personalità morale
Le opere minori in versi
Gli scritti in prosa
La Gerusalemme liberata
La Gerusalemme conquistata
5
L’UMANESIMO E IL RINASCIMENTO
Se Umanesimo è parola relativamente moderna, humanistae è termine già in uso nel secondo Trecento a
indicare i cultori delle Lettere, polemicamente distinti dai cultori delle Scienze. Entrambi i termini
derivano da Studia humanitatis, la bella espressione con cui Cicero aveva qualificato gli studi letterari
come i più idonei a promuovere l’integrale sviluppo dei valori nell’uomo. Però l’Umanesimo non fu
soltanto un episodio letterario, e meno ancora una pura e semplice parentesi d’interessi
retorico/grammaticali rivolti alla tradizione greco/latina per propiziarne il revival, bensì un fenomeno
d’ampia portata, scaturito da una nuova visione della vita nella molteplicità dei suoi aspetti.
L’idea che l’Umanesimo sia un fenomeno distinto da quello che si indica col termine «Rinascimento» non
trova più credito nella moderna storiografia, né persuade l’ipotesi che le manifestazioni umanistiche siano
una preparazione di quelle rinascimentali, così come, nell’economia dei cicli di stagione, la primavera
prepara l’estate. In realtà l’Umanesimo è già Rinascimento: è l’espressione, in forme specificamente
letterarie, di quello spirito innovatore che dagli inizi del Quattrocento alla seconda metà del Cinquecento
avvia un processo di rivitalizzazione culturale ed artistica, cui gli stessi umanisti, nell’orgogliosa
coscienza del loro distacco dal Medioevo, diedero il nome di Rinascimento. Logica e persino doveroso è
invece la distinzione fra un «primo Rinascimento», durante il quale le spinte innovatrici vennero
soprattutto dalla letteratura, e un «secondo Rinascimento» (o «maturo Rinascimento»), dove le istanze di
modernità, giunte al grado più alto di consapevolezza teorica e di fecondità operativa, investirono tutti i
settori della vita culturale, conseguendo una pienezza di risultati che già recava in sé i primi germi della
decadenza.
In quanto prima espressione del Rinascimento, l’Umanesimo può essere racchiuso, grosso modo, nel
tempo compreso tra la fine del Trecento e l’ultimo decennio del Quattrocento. Nasce, dunque, e si rivolge
in un contesto politico e sociale assai ricco di forze in espansione e di spinte innovatrici. Si assesta, in
questi anni, il regime signorile e diventa un’istituzione, alle milizie cittadine si sostituiscono le compagnie
di ventura, guidate da audaci condottieri, per i quali la guerra è un mestiere, e talvolta un’arte. Le Signorie
maggiori assoggettano quelle minori nell’ambito di una stessa ragione o in regioni contigue. Qualcuna,
come quella viscontea, già padrona dell’intera Lombardia, punta, nei primi anni del Quattrocento, a uno
Stato più ampio e sembra dar corpo al fantasma letterario dell’Italia unita.
Fra i caratteri dell’Umanesimo, al primo posto si situa l’appassionata rivisitazione del mondo classico
lungo le direttrici ideali già segnate dal Petrarca e dal vecchio Boccaccio. Gli ultimi anni del Trecento e i
primi decenni del Quattrocento videro i dotti mobilitati in devoto pellegrinaggio, alle biblioteche dei
monasteri d’Italia e d’Europa a liberare le voci dei padri antichi dal «sepolcro medievale». Gli umanisti,
se si prescinda dai soliti bigotti della grammatica, presenti in ogni epoca, cercarono nei testi dell’antica
sapienza l’immagine di se stessi, una patria dell’anima, l’eco ingrandita di una voce che già risuonava
nella loro coscienza rinascimentale. Di qui l’entusiasmo con cui essi annunciavano la scoperta di un
nuovo manoscritto greco o latino; di qui la risonanza immediata e profonda che l’evento suscitava in tutta
la società culturale. Non si creda però che di fronte al manoscritto riesumato l’umanista smarrisse ogni
facoltà critica, e ripetesse l’atteggiamento ciecamente reverenziale dello studioso medievale, cui
l’intervento restauratore sul testo sarebbe parso oltraggio al sacro principio d’autorità. Filologo agguerrito
e spregiudicato, l’umanista fu attentissimo a individuare a correggere gli errori dei codici; ne espunse
senza complimenti le indebite aggiunte dovute allo zelo moralistico dei fatti copisti; ne ricostruì frasi o
periodi lacunosi; provvide, attraverso confronti, ragionamenti, congetture, a ricostruirne la «lezione»
genuina. E in tal modo promosse nella cultura italiana ed europea un abito critico che non tardò a dar
frutti cospicui anche nel campo delle scienze «pratiche». Non è senza significato il fatto che alcuni
umanisti fossero anche medici e giureconsulti; e fu proprio dal raccordo fra campi diversi dello scibile
che nacquero «uomini universali» come
Leon Battista Alberti e Leonardo da vinci. Il filologismo
umanistico si sostanziò di un robusto storicismo.
A monte dell’Umanesimo filologico c’è dunque l’Umanesimo filosofico: c’è la filosofia antropocentrica
del Rinascimento, che fa dell’uomo il centro dell’universo, lo celebra artefice ed arbitro del suo destino,
ne esalta l’intelligenza intuitiva e creativa, l’energia con la quale assoggetta la fortuna e costruisce il
mondo della sua storia. La dignità e l’eccellenza dell’uomo e, in effetti, il tema dei temi nel pensiero dei
secoli XV e XVI. Gli umanisti lo affrontarono con l’animo rivolto al messaggio dei classici, giacché
hanno scoperto che nel mondo greco-romano la letteratura, la filosofia e l’arte, se talvolta si sono arrese
ad un cupo fatalismo, ben più spesso hanno esaltato l’umana «virtù» come forza creatrice di bellezza e di
armonia e come istitutrice di civiltà nel conquistato equilibrio fra le leggi della natura e le esigenze dello
spirito.
La lotta al Medioevo come ad un’era di oscurità e di barbarie parve dunque un dovere ai nuovi cultori del
libero pensiero e della razionalità critica. Sembrò agli umanisti che l’uomo medievale, nella pratica
dell’ascetismo negatore della vita e nell’accettazione del dogmatismo mortificatore dell’intelligenza,
avesse smarrito i propri connotati più nobili, obliterando, insieme, la lezione dei classici e l’annuncio
cristiano. Gli umanisti esagerarono nella condanna sommaria del Medioevo, perché non può dirsi barbara
od oscura una civiltà che ha espresso il francescanesimo e il poema dantesco, e che, nel travaglio vitale
della sua storia, ha preparato talune fra le conquiste più alte dell’era moderna. Tuttavia è innegabile che
nella visione medievale l’uomo è subordinato all’autorità divina e al potere politico che da essa deriva, e
s’innalza al grado più alto di dignità solo attraverso l’esercizio delle virtù cardinali e teologali, per cui è
obbligato a diffidare della natura quando non riesca a vederla come figlia di Dio, e a fare dell’arte una
guida alla bellezza morale ed alle verità trascendenti. L’umanista rifiuta questi obblighi: afferma il valore
della natura in tutti i suoi aspetti, svincola l’arte dalla finalità metafisiche, dà al concetto di bellezza tutta
la latitudine possibile, laicizza l’idea di virtù, sostituisce all’aspro ascetismo una religiosità serena e
operosa nel mondo, e questo vede non come «valle di lagrime», ma come dimora godibile e perfettibile in
cui l’uomo ripete giorno per giorno la creazione di Dio. E così l’ipotesi che l’Umanesimo continui
naturalmente il Medioevo è artificiosa non meno dell’altra che pone una netta frattura fra le due civiltà. Si
può dire, dunque, che l’Umanesimo fu un effettivo superamento del Medioevo nella misura in cui ne
raccolse e ne svolse con critica coscienza gli sparsi preannunci di un’epoca nuova nella storia degli
uomini.
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Assunti i testi classici a modelli di assoluta perfezione letteraria, gli umanisti si sentirono in obbligo di
imitarli scrupolosamente nei contenuti e nelle forme espressive. Si creò così una contraddizione con se
stessi, visto che non si può in pari tempo celebrare l’uomo come libero creatore e prescrivergli in arte il
dovere della ripetizione mimetica. Il problema esiste ed alcuni umanisti ne ebbero coscienza e
procurarono di risolverlo attribuendo al principio dell’imitazione la maggiore elasticità possibile. Già il
Petrarca, in un passo delle Familiari, aveva affermato la necessità di un’ «imitazione originale», per cui il
lettore dei classici ripetesse nel personale processo creativo l’opera dell’ape che trasforma in miele tutto
suo i vari succhi assunti dai fiori; ma il concetto dell’imitazione come ricreazione si precisa con
perentoria chiarezza nella polemica sorta fra il Poliziano e Paolo Cortese sul finire dell’ 400, proprio in
ordine al problema del rapporto fra i moderni e gli antichi. Il Cortese sosteneva la necessità di imitare il
più fedelmente possibile Cicerone, aureo modello di perfezione stilistica; il Poliziano, invece, rivendicava
il diritto dello scrittore moderno a tradurre la propria ispirazione in forme personali: «Tu mici dici che
dopo aver tanto studiato Cicerone non mi esprimo come Cicerone. Ma io non sono Cicerone e proprio da
Cicerone ho ad essere me stesso». La posizione del Poliziano è emblematica: essa riflette lo spirito con
cui gli Umanisti maggiori si accostarono agli antichi maestri per metterne a frutto la lezione di dignità, di
umanità e di alto decoro formale, senza rinunciare a sé stessi; ma è anche vero che nei minori assai spesso
l’imitazione fu pigro ricalco, operazione scimmiesca, ossequio esteriore e fanatico a quel ciceronismo che
sarà per secoli fra le disgrazie della letteratura italiana.
Nei primi decenni del Quattrocento fu il latino lo strumento espressivo privilegiato dagli umanisti, mentre
il volgare, per lo più limitato ad usi di pratica necessità, cadde in tale discredito, come lingua letteraria,
che Niccolò Piccoli, in onta all’idioma della Commedia, definì Dante «poeta di ciabattini e di fornai» e
Cristoforo Landino si disse disposto ad accettare il toscano, a patto che forse ben farcito di nobilitanti
parole latine. Il rifiuto umanistico investì non solo il volgare, ma anche il latino medioevale delle scuole,
come quello che aveva imbarbarito l’armonica dizione dei testi classici, scaturita dal culto della «divina
eloquenza». Tuttavia, pur modellandosi sui maestri della latinità aurea, il latino dei primi umanisti ebbe
un che dell’elastica vivacità del volgare. Agli inizi del secondo Quattrocento, la fortuna del latino declinò,
perdendo il suo carattere di lingua viva e fu allora che il volgare uscì dal ghetto di lingua ancillare e
guadagnò via via terreno nella considerazione dei maggiori umanisti.
Al fervore degli interessi umanistici non bastavano le Corti e le Università, e presto sorsero cenacoli
privati, dove convennero a discutere problemi di varia attualità culturale ed artistica uomini accomunati
dalla fede negli studia humanitatis. Quando i cenacoli divennero stabili, si dissero classicamente
accademie. Ne nacquero dappertutto, quali, ad esempio, i più prestigiosi e influenti Accademia fiorentina,
Accademia antoniana, Accademia romana ecc.
L’Accademia fiorentina fu fondata, a Firenze, dal greco Gemuisto Pletone, che fruì
dell’accorto
mecenatismo
di
Cosimo
de’ Medici,
nata
con
un
contenuto
prevalentemente filosofico e ne ebbe come un fervido animatore in Marsilio Ficino.
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I principali rappresentanti dell’Umanesimo
Coluccio Salutati
Il primo scrittore che appartiene al cosiddetto «Umanesimo civile fiorentino» fu Coluccio Salutati, un
ricercatore instancabile di testi classici, che scoprì fra l’altro le Lettere familiari di Cicerone; fu un
filologo attento e sagace, autore di vari trattati (come ad. es., De fato, fortuna et casu («Il fato, la fortuna e
il caso»), so occupò del concetto di «virtù» come forza morale e intellettuale che trionfa sulla fortuna e
sul caso; scrisse anche De saeculo e religione *«Il mondo e la religione»), De Tiranno («Il Tiranno»), in
cui si esalta le libertà repubblicane contro ogni forma di dispotismo.
Leonardo Bruni
Nato nel 1374, m. nel 1444, ad Arezzo, un lettore del Petrarca, svolse attività di cancelliere presso il
Vaticano e al comune di Firenze, tradusse dal greco in latino alcune opere fondamentali di Platone e di
Aristotele, scrisse una Laudatio florentinae urbis, fu biografo in volgare di Dante e di Petrarca, ma
acquistò la sua fama come autore di una Historia fiorentina, in cui si ispira ad opere di Livio.
Marsilio Ficino
Nato a Figline in Valdarno nel 1435, Marsilio Ficino era figlio di un medico, iniziò a Firenze gli studi di
medicina, ma presto si volse alla filosofia, trovando nell’opera di Platone e dei neoplatonici ed Ermes
Trismegisto la risposta agli interrogativi della sua coscienza religiosa, morale ed estetica. A solo 18 anni,
attirò su di sé l’attenzione e la stima di Cosimo de’Medici, che lo incaricò di tradurre le opere di Platone e
nel 1462 gli donò la villa di Montevecchi a Careggi. Qui Ficino, circondandosi di discepoli e amici,
fondò, sul modello platonico, una vera e propria accademia, che ebbe il maggiore prestigio durante la
signoria del Magnifico. Nel 1473 prese gli ordini sacerdotali, dimostrando con questa decisione che il
culto del pensiero platonico non significava per lui rifiuto dell’ortodossia cristiana. Morì a Firenze nel
1499.
La sua opera più importante è la Teologia platonica, un trattato di diciotto libri, in cui, cristianizzando
Platone e neoplatonici e confutando le dottrine degli epicurei e degli avverroisti, definisce il suo concetto
di religione come di un mistico slancio dell’animo verso un mondo di perfezione ideale, dove il Vero, il
Buono e il Bello si identificano. Pur senza negare credito alla rivelazione cristiana, che anzi nel libro De
christiana religione difenderà vivacemente contro il giudaismo e il maomettanismo, il Ficino della
Teologia assai spesso sembra proporre una sorta di religione naturale in cui trovano spazio e
legittimazione un po’ tutte le religione storiche, accomunate fra loro dal bisogno dell’Infinito e
dell’Eterno. Profonda influenza ebbe nella letteratura e nell’arte del Quattrocento e del Cinquecento il
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concetto ficiniano dell’artista come creatura che intuisce la bellezza ideale riflessa dalla realtà celeste nel
mondo fenomenico e la rappresenta in segni allusivi e simbolici, secondo un’operazione mimetica, che
richiama quella del demiurgo platonico.
Giovanni Pico della Mirandola
Ebbe una breve vita (morì a 31 anni) che fu spesa nello studio della cultura latina, greca, egiziana,
babilonese, ebraica ed araba, per cogliervi le tracce di una comune sapienza, rivelatrice dell’umana
dignità in ogni tempo e luogo. Nato a Mirandola, nel 1463, studiò diritto canonico a Bologna e filosofia
scolastica a Padova; trasferitosi a Firenze, familiarizzò con il Ficino, assimilandone il suggestivo
platonismo. Ebbe anche qualche problema scontroso con il Vatican (il papa Innocenzo III), per colpa di
aver progettato e bandito un concorso di filosofia, con la pubblicazione di novecento tesi o «Conclusione»
su argomenti di varia cultura, alcune scritte da lui, le altre ricavate da filosofi latini, egiziani, greci, arabi;
alcune di esse furono giudicate dal Vaticano come eretiche e Pico della Mirandola fu costretto a rifugiarsi
in Francia, popi fu arrestato. Ritornato, perdonato dal papa Alessandro VI, poté riprendere gli studi nella
Firenze del Magnifico. Negli ultimi di vita, influenzato dalla predicazione del Savanorala, impresse al
proprio pensiero un orientamento ascetico. Morì avvelenato dal suo segretario nel novembre del 1495.
La sua opera più conosciuta è il De hominis dignitate. scritta come prologo alla discussione delle tesi
sulla filosofia. In essa il Pico sostenne con vivaci argomentazioni che l’uomo, diversamente dalla natura,
sfugge ad ogni determinismo, sicché, artefice del proprio destino, può con libero arbitrio abbassarsi al
livello del bruto o sollevarsi al Divino. Allo stesso proposito di celebrazione dell’umana dignità si ispira
l’Heptaplus, in cui il Pico, utilizzando la sua vasta erudizione, tentò un’interpretazione «settemplice»
(donde il titolo) della Bibbia e della creazione. Ne De astrologia prese posizione contro l’astrologia, cui
negò ogni credibilità scientifica, giudicandola una sciocca superstizione, per altro contraria alla fede
cristiana e al principio della libertà dell’uomo. Nel De ente et uno («L’essere e l’unità») se impegnò a
dimostrare la sostanziale concordanza fra il pensiero platonico e quello aristotelico. In queste opere il
Pico è anche scrittore attento alla limpidezza e all’efficacia dello stile.
Leon Battista Alberti
Figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, nacque a Genova il 14 febbraio 1404 dopo che la famiglia
era stata bandita da Firenze ad opera degli Albizzi a causa del suo coinvolgimento nel tumulto dei
Ciompi.
Poche notizie si hanno dei suoi primi studi: sappiamo che iniziarono a Venezia, dove il padre si trasferì
per motivi di affari, e che continuarono nel 1415 prima a Padova, alla scuola del ciceroniano Gasparino
Barzizza, poi a Bologna, dove frequentò la facoltà di diritto e dove nel 1421 ebbe la notizia della morte
del padre.
Gli anni seguenti dovette affrontare difficoltà ed amarezze causate da discordie e soprusi familiari
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Nel 1428 conseguì la laurea in diritto canonico, dopo aver studiato anche matematica e fisica.
Trasferitosi nel 1428 a Firenze (dopo la revoca da parte della Signoria del bando che aveva
colpito la sua famiglia), fu molto probabilmente (sino al 1431) in Francia e in Germania al seguito del
cardinale Albergati.
Nel 1432 divenne segretario del patriarca di Grado, Biagio Molin, e fu da questi fatto nominare
abbreviatore apostolico (notaio) alla corte pontificia. Rimase nell'orbita della corte papale fino al 1464,
quando papa Paolo II abolì il collegio degli abbreviatori. Il legame con la corte papale gli permise di
dedicarsi alla sua attività di letterato e di studioso senza più avere difficoltà finanziarie.
Nel 1432 intanto aveva ottenuto il priorato di San Martino a Gangalandi presso Signa.
Nel 1435 seguì papa Eugenio IV a Firenze dove entrò in contatto con l'ambiente artistico fiorentino in cui
operavano, tra gli altri, Brunelleschi, Ghiberti, Paolo Uccello e Luca della Robbia.
Dal 1436 fu poi a Bologna e a Ferrara, dove nel 1438 si aprì il Concilio delle Chiese romana e bizantina.
Consulente per le opere architettoniche alla corte di Lionello d'Este a Ferrara nel 1438, si occupò in
particolare del monumento equestre di Niccolò I e del campanile della cattedrale.
Nel 1439 tornò a Firenze dove organizzò nel 1441 il Certame coronario sul tema dell'amicizia.
Nel 1444 fu nuovamente a Roma dove collaborò al programma di interventi urbanistici voluto da Niccolò
V, dedicandosi in particolare alla sistemazione del Borgo Curiale, e soprintendendo al restauro di alcuni
importanti monumenti antichi ( tra gli altri San Pietro e Santo Stefano Rotondo), alle opere di
fortificazione e agli acquedotti.
Tra il 1447 e il 1451 si pone la costruzione di Palazzo Rucellai a Firenze; al 1450 circa risale il progetto
per il Tempio Malatestiano di Rimini, al 1455 la facciata fiorentina di Santa Maria Novella (terminata nel
1470). Fu a Mantova nel 1459 con Pio II, dove soggiornò in occasione della celebre dieta per la crociata,
nel 1463 e poi nel 1470 e 1471, ideò in questa città le chiese di San Sebastiano e Sant'Andrea. Al 1467'70, in occasione di un ritorno a Firenze, risalgono infine la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio
e la tribuna della Santissima Annunziata.
Morì a Roma nell'aprile del 1472.
Leon Battista Alberti è stato a lungo considerato come il modello dell’umanista, come l’uomo che più ha
saputo incarnare l’Uomo Nuovo nato dall’Umanesimo, un uomo integrale e universale, che sa trarre dalla
vita e dal mondo tutto ciò che questi gli possono offrire, un uomo fatto di anima e corpo, rivolto insieme
al cielo e alla terra, libero seppure con i vincoli dati dalla fortuna. È questo l'uomo della città terrena, cui
la religione non comanda più rinunce o ascesi, ma di "ben vivere, umanamente vivere questa vita che è
pur dono di Dio, in questo mondo che è pur tempio di Dio" (Garin, Educazione umanistica, p. 7-8).
Seppure visse il momento della crisi dell’Umanesimo civile fiorentino, Alberti condivise ed incarnò
almeno in parte questo modello, rivolgendo i suoi interessi a tutti i campi del sapere del tempo ed
acquistando una conoscenza veramente enciclopedica. Fu infatti architetto, pittore, letterato, filosofo,
musico, fisico, chimico, pedagogo e matematico, anticipando la figura di Leonardo da Vinci. Summa di
questo sapere è l’architetto (non il filosofo) che diviene, nella prospettiva di Alberti, il modello dell’uomo
integrale: "È l’architetto che cementa le comunità umane costruendone le sedi, che ne orienta gli edifici
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secondo astrologia, che ne scandisce il tempo con gli orologi, che struttura le istituzioni nei palazzi e nei
templi, che regola le acque e apre le strade, che difende dai nemici e vince le guerre senza sangue" (Garin,
Umanisti Artisti Scienziati, p. 160); dell’uomo che impone un ordine razionale alla propria vita,
programmando e razionalizzando il proprio tempo ed utilizzando le proprie capacità per fronteggiare la
fortuna; di uomo che antepone la vita attiva e operosa (sia in ambito privato, sia in ambito pubblico) alla
vita contemplativa, che sa trasformare la realtà per adattarla ai propri bisogni e alle proprie esigenze.
Insieme all’architetto dobbiamo ricordare anche il borghese, l’uomo d’affari ricco di una esperienza
acquisita non sui libri, ma con la frequentazione degli uomini e della società
Il saggio dunque non è il filosofo, che Alberti identifica nel teologo-filosofo della tradizione scolastica,
ma il pensatore non professionale e non professorale che ha imparato dagli artigiani e dalla natura a
conoscere l’uomo e il mondo (Giannozzo, De familia).
Nella costruzione dell’uomo ideale un ruolo di primo piano è esercitato, secondo gli Umanisti italiani del
Quattrocento, dallo studio dei classici antichi. La filologia, nel suo sforzo di ripresentare i classici nel loro
volto originario, assume il compito di educare gli uomini, ristabilendo il dialogo con i grandi del passato.
Alberti non contribuì ad aprire questa prospettiva, ne fu semmai un erede, lucido e critico laddove rifiutò
atteggiamenti da epigono e da imitatore, peraltro non giudicati negativamente dagli intellettuali
dell’epoca. Nella sua ambizione di essere considerato il nuovo Vitruvio, egli frequentò con assiduità i
testi classici, ripetutamente citati, anche con sfoggio di erudizione, e presenti come punto di riferimento
nelle sue opere, ma non cercò in essi modelli da copiare quanto piuttosto di apprendere da loro per
"mettere innanzi nuove cose trovate da noi per vedere se gli si può acquistar pari o maggior lodi di loro
(De Re Aedificatoria, I,9).
Oltre agli elementi classici presenti nelle opere di Alberti architetto, vanno qui ricordati alcuni aspetti che
costituiscono lo sfondo sul quale Alberti costruisce il suo rapporto con gli antichi: l’alta considerazione
che Alberti, almeno dopo il ritorno a Firenze, mantiene del presente: come è scritto nella dedica a
Brunelleschi del «De Pictura», il presente supera l’antichità nel trovare nuove arti e scienze, senza
precettori e modelli come poterono fare gli antichi, i quali poterono contare per raggiungere i risultati che
conosciamo, sull’edificazione di una lunga tradizione: il presente non è solo una rinascita, ma una nuova
fondazione di un’arte e di una scienza mai viste prima; l’indipendenza che anche in questo ambito Alberti
seppe mantenere nei confronti dell’Umanesimo codificato e di moda del suo tempo. Se guardiamo alla
letteratura, i suoi riferimenti classici furono soprattutto Plauto, Luciano, Esopo e non gli autori apprezzati
dagli umanisti fiorentini: Platone, Aristotele, Quintiliano; l'autonomia che mostra nei confronti della
semplice imitazione dei modelli classici. Come nota Malerba, anche negli Apologhi, nel Cane e nella
Mosca egli si sottrae a tale imitazione dei modelli, Esopo e Luciano, rifiutando l’utilizzo di soggetti e
personaggi definiti: "la volpe o il pavone, il lupo o l’agnello, difficilmente possono sottrarsi all’esopismo
cristallizzato dalla tradizione, mentre l’ombra dell’uomo o l’ottone o il sale, o anche certi animali dotati di
una personalità complessa e non univoca come il cane, inducono l’autore ad allontanare o comunque a
rendere incerto e ambiguo il messaggio".
Pur muovendosi in un ambito già esplorato dagli umanisti italiani, Alberti sembra voler sgretolare e
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smembrare procedure e codificate per introdurre nei prodotti letterari che hanno come modello i classici,
chiaroscuri, contrasti e un forte carattere di originalità.
Un aspetto particolare del rapporto con gli antichi riguarda la questione della lingua per la quale abbiamo
la presa di posizione di Alberti nella lettera dedicatoria a Francesco d’Altobianco Alberti del Libro III del
«De famiglia». In essa Alberti fa propria la tesi sostenuta da Flavio Biondo nel «De locutione romana» in
un dibattito avvenuto a Firenze nel 1435, secondo la quale in primo luogo nell’antica Roma vi era una
sola lingua che aveva assunto due forme, il latino classico e quello di uso comune, ed in secondo luogo il
volgare discende dal latino corrotto dopo la caduta dell’Impero per le invasioni straniere.
Secondo Alberti il volgare è in grado di esprimere qualunque contenuto e di rivolgersi ad un numero più
ampio di persone. Per dare dignità letteraria al volgare e mostrarne le potenzialità espressive, è
sufficiente, che i letterati comincino ad utilizzarlo rimediando alle sue mancanze sintattiche e lessicali
tramite il latino. Questo atteggiamento ha una puntuale corrispondenza con la prosa albertiana ricca di
latinismi, sia nel lessico, sia nella struttura sintattica delle frasi.
Si deve dunque rimarcare come Alberti compia pertanto un passo decisivo verso il superamento del
pregiudizio, secondo il quale il volgare non poteva essere utilizzato per trattare argomenti seri.
Lorenzo de' Medici
Nacque a Firenze nel 1449. Ebbe una raffinata educazione classica e fu in stretto contatto con i più illustri
umanisti del tempo. Nel 1469, alla morte del padre Piero, ereditò la signoria di Firenze. Scampato nel
1478 alla congiura ordita dalla famiglia rivale dei Pazzi, riuscì a creare un saldo potere personale, che
mantenne fino alla morte, avvenuta nel 1492. Diede prova di grande abilità diplomatica riuscendo ad
imporre una politica di pace ed equilibrio agli altri principi italiani.
Fu sincero amante dell'arte e della letteratura e del suo splendido mecenatismo beneficiarono alcuni tra i
più importanti artisti e letterati del tempo. Fu detto per antonomasia il Magnifico.
Nella sua vasta e diversificata produzione letteraria, in volgare, ricordiamo: le Rime ed il Comento ad
alcuni sonetti d'amore, raccolte di liriche che risentono dell'influsso del platonismo idealizzante di
Marsilio Ficino e presentano echi stilnovisti, petrarcheschi e danteschi; la Caccia col falcone, i Beoni, la
Nencia da Barberino, poemetti realistici che si rifanno alla tradizione comica, burlesca e parodica
tipicamente toscana; il Corinto, un poemetto pastorale di imitazione virgiliana; i Canti carnascialeschi (tra
cui famosissimo il Trionfo di Bacco e Arianna), liriche di ispirazione popolaresca destinate ad essere
cantate durante le feste del carnevale. Scrisse anche componimenti di carattere religioso.
1) Il politico. Lorenzo fu anzitutto un politico, un uomo di Stato, signore assoluto di Firenze e arbitro
della vita politica italiana. Si preoccupò di conservare alla città di Firenze l'egemonia sull'intera Toscana.
Scampato alla congiura che la famiglia dei Pazzi aveva ordito contro di lui, impresse una svolta
decisamente autoritaria al suo governo, e fu così spietata la vendetta del suo partito sugli avversari che il
papato e il regno napoletano pensarono di approfittarne per coalizzarsi in una guerra contro Firenze. Ma il
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Magnifico riuscì a convincere il re di Napoli a staccarsi dall'alleanza col papa, ottenendo così la
possibilità di accrescere il prestigio di Firenze. A partire da questo momento, Lorenzo per 11 anni sarà il
realizzatore di un accorto programma di equilibrio e di pace fra i vari Stati della penisola. Solo dopo la
sua morte si riaccenderanno forti discordie fra i prìncipi: cosa che favorirà le invasioni straniere di
Francia e Spagna.
2) Il mecenate. Lorenzo accolse nella sua corte filosofi, letterati e artisti, realizzando nella sua persona la
figura ideale del principe rinascimentale. Diede nuovo impulso al volgare, rivalutando la tradizione
stilnovistica e trecentesca di Firenze, e sostenendo la superiorità del toscano sugli altri volgari. Il fine era
anche quello di accrescere il proprio peso politico in Italia attraverso il primato culturale-linguistico di
Firenze.
3) La personalità poetica. Molteplici sono gli aspetti della sua attività letteraria: vari i generi affrontati, le
tecniche... Egli stesso si compiace di descriversi come un raffinato dilettante, incline a intendere
l'esercizio letterario come evasione dalle faccende politiche quotidiane. Questo carattere sperimentalistico
della sua produzione è in realtà tipico di tutto il '400, specialmente di quegli scrittori che preferivano
scrivere in volgare. Lorenzo, nelle sue opere, si appropria del mondo degli interessi e dei gusti di tutte le
classi sociali che compongono il dominio della sua signoria: contadini, ceto borghese, intellettuali e
aristocratici. Per ognuna di queste classi egli mostra di avere la giusta considerazione, rafforzando il
proprio prestigio di signore preoccupato del bene dei sudditi.
Opere
1)«Nencia Da Barberino». Lorenzo immagina che un pastore-contadino canti l'amore per una pastora,
Nencia, di cui esalta le bellezze prosperose, ma a cui rimprovera il carattere duro e freddo: di qui la
struggente malinconia del contadino, che è sì rozzo e incolto ma non volgare. Lorenzo sorride nel vedere
le manifestazioni di certi sentimenti, ma sa anche scorgere, dietro quelle manifestazioni ingenue e rozze,
una sofferente e spontanea umanità.
2) «Canti Carnascialeschi» (canzoni a ballo). Lorenzo s'ispira alla tradizione popolare e buffonesca del
carnevale, ingentilendo però i contenuti e la forma, rinnovando i metri e facendo comporre da musici
nuove arie che accompagnassero i testi. Queste composizioni venivano cantate su carri addobbati, da
compagnie di uomini mascherati, rappresentanti il trionfo di divinità pagane o di virtù allegoriche o delle
arti (corporazioni). Altri temi comuni: esaltazione della vita gioiosa e del diletto sensuale, il motivo della
bellezza fuggitiva, l'invito a godere la breve stagione della giovinezza. Nel Trionfo di Bacco e Arianna,
Lorenzo invita i propri sudditi a godere del presente, lasciando da parte le civili preoccupazioni, che si
sobbarca la signoria sollecita del bene di tutti. Qui il corteo trionfale è mitologico, concentrato sulla figura
di Bacco (dio del vino e della frenetica gioia).
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO:
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Cinquecento, il Seicento e i
Settecento dal rinascimento all’illuminismo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1992. pp. 3139; 81-85; 115-147.
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Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 1. Duecento, Trecento,
Quattrocento. Firenze, La Nuova Italia, 1995.
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode»,
s.a. (Si veda soltanto le pagine consacrate agli autori studiati).
Marchese. Riccardo. Letteratura e società. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro
della cultura europea. / 1 / Dalle origini al secolo XVI. Firenze, La Nuova Italia, 1975.
DOMANDE-ARGOMENTO:
1. Spiegare l’etimologia della parola “Umanesimo” e il significato ulteriore del concetto-epoca.
2. Quali sono le principali caratteristiche del movimento umanistico e le essenziali conseguenze per la
cultura e la scienza universale?
3. Enumerare i principali rappresentanti del Rinascimento italiano.
4. Svolgere un discorso sui contributi di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola all’affermazione del
pensiero moderno in Europa e nel mondo.
5. Sapete il posto del pensiero di Ficino e Pico nella formazione di Mircea Eliade?
6. In breve, tracciare un “ritratto” di Alberti: come si può essenzializzare il suo contributo allo sviluppo
del pensiero moderno dal punto di vista della civiltà europea moderna?
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Matteo Maria Boiardo
Matteo Maria Boiardo nacque a Scandiano, presso Reggio Emilia, da nobile e ricca famiglia, nel 1441.
Non conobbe i disagi economici che assillarono il Pulci e poté ben dedicarsi per tutta la vita agli studi,
alla caccia ed alle feste di palazzo, dividendo il tempo fra gli ozi del feudo avito e quelli del palazzo
ducale degli Estensi di Ferrara. Morì nella sua stessa città natale nel 1494.
La sua cultura, pur non ampia né profonda, ebbe l'impronta del gusto umanistico che, insieme con i modi
fini e gentili acquisiti dall'educazione aristocratica che gli fu impartita, conferì quel tono di ricercato
distacco nei confronti della materia della sua opera maggiore, l' "Orlando innamorato". La quale nasce
tuttavia da una isti tiva adesione al mondo cavalleresco, inteso come mondo di primitivi, ove la forza rude
si mescola ad una certa ferinità del sentimento e determina, nell'opera, quell'atmosfera dominata da un
non so che di selvatico. Sicché l'ispirazione si impoverisce nel complesso e solo a tratti balza fuori con la
forza di un torrente in piena. Questa incapacità del Boiardo di dar libero ascolto alla voce più profonda
del suo cuore è provata dal fatto che la materia del suo poema, pur essendo sapientemente distribuita
secondo un ordine organico e coerente, risulta può sempre frammentaria: perché l'ordine logico degli
avvenimenti non corrisponde all'onda del sentimento, ma è frutto di una esperta regia.
L' "Orlando innamorato", iniziato forse nel 1476, si compone di tre parti: le
prime due -rispettivamente di 29 e 31 canti - furono pubblicate nel 1487; la terza
fu lasciata interrotta alla XXVI ottava del nono canto. L'argomento è tratto dalla
materia del ciclo carolingio, ma il tono con cui questa è trattata è piuttosto quello
proprio dei romanzi bretoni.
Ecco in breve la trama: Carlo Magno ha bandito una grande giostra e per l'occasione ecco convenuti a
Parigi oltre ventimila cavalieri fra cristiani e pagani. Mentre i guerrieri partecipano ad un banchetto
offerto dall'imperatore, si presenta la bellissima Angelica, figlia del re del Cataio, la quale sfida tutti i
cavalieri a battersi col fratello Argalia: quelli che saranno sconfitti dovranno accettare di divenire suoi
schiavi, mentre l'eventuale vincitore l'otterrà in isposa. Risulta vincitore il saraceno Ferraguto, ma
Angelica, per sottrarsi all'impegno, fugge, inseguita da Orlando e Ranaldo. Durante la fuga e
l'inseguimento accade che Ranaldo beva alla fonte dell'odio mentre Angelica, avendo bevuto a quella
dell'amore, si invaghisce follemente del paladino. Poiché Ranaldo si disinteressa di Angelica, tocca ad
Orlando, innamorato non corrisposto, non solo di difendere la fanciulla dagli assalti di Agricane, re di
Tartaria, ma ancora di accompagnarla in Francia alla ricerca di Ranaldo. Qui infuria la lotta tra i cristiani
e il re africano Agramante, che ha invaso il suolo francese aiutato dalle armi di Mandicardo, figlio di
Agricane, di Rodomonte, re di Sarza, e di Marsilio, re di Spagna. Orlando prende parte alla guerra, mentre
la situazione sentimentale tra Angelica e Ranaldo si capovolge, avendo la prima bevuto alla fonte
dell'odio ed il secondo a quella dell'amore. Quindi-Orlando e Ranaldo si scontrano in un duello per amore
di Angelica, ma Carlo li separa, affida Angelica al vecchio Namo e promette di darla in isposa a quello
dei due cugini che darà miglior prova nella guerra contro gli invasori. A questo punto il poema si
interrompe. Ludovico Ariosto ne continuerà il racconto in un'opera di ben altra fattura, nell' "Orlando
Furioso".
Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (1454-1494)
Avendo grandi capacità intellettuali, il Poliziano viene assunto, giovanissimo, da Lorenzo il Magnifico,
come precettore dei suoi figli. Alla corte medicea svolge anche mansioni di cancelliere e segretario di
Lorenzo. Sia questi che Piero de' Medici si affidarono a lui per le "relazioni pubbliche" anche fuori
d'Italia. Scrive versi greci, latini e volgari. Difende Lorenzo dall'accusa di tirannide, ma per i contrasti con
la moglie di lui, che gli contesta il metodo pedagogico, troppo laico e umanistico per lei, Poliziano si
stabilisce in altre corti emiliane, lombarde e venete. In seguito si riconcilia con Lorenzo e torna a Firenze,
esercitando l'incarico di insegnante di letteratura greca e latina. Possiede un tale bagaglio culturale che
vengono ad ascoltarlo anche dall'estero. Grazie soprattutto a lui, Firenze diventa il più prestigioso centro
di irradiazione umanistica del '400 europeo. L'uccisione di Giuliano de' Medici nella Congiura dei Pazzi
comporta l'interruzione di quella che diventerà la sua opera più famosa -le "Stanze"- cominciata proprio
per celebrare la Giostra del 1475 vinta dallo stesso Giuliano. Poliziano dovrà allontanarsi da Firenze ed
esiliare in città come Venezia, Verona, Mantova. Poi riprenderà il suo posto di "principe della cultura",
accanto a Lorenzo. Sarà questo il periodo degli studi filologici sui testi aristotelici e degli studi sulla
poesia latina. Con lui praticamente nasce la scuola filologica. Suo principio fondamentale è che
nell'imitazione dei classici non è bene scegliere un solo modello, ma cercare il meglio ovunque esso sia,
senza discriminare fra scrittori e periodi letterari. È il maggior poeta lirico italiano del XV sec.
Opera maggiore: «Stanze Per La Giostra», poemetto dedicato a Giuliano dei Medici (fratello di Lorenzo).
Motivi dominanti: rappresentazione idillica della campagna, esaltazione della bellezza, ansia per la
giovinezza che passa, evasione dalla realtà di ogni giorno (avvertita come fastidiosa) per trasferirsi in un
mondo di sogni, dove domina il valore della bellezza. Questo mondo viene percepito come effimero,
destinato a scomparire di fronte all'impatto con la realtà.
Luigi Pulci (1432-1484)
Appartenente ad una nobile famiglia decaduta, Luigi Pulci nacque a Firenze nel 1432. Nel 1451, a soli 19
anni, fu costretto ad assumere insieme ai fratelli la responsabilità dei debiti accumulati dal padre, morto
quell’anno, e si impiegò come segretario presso un ricco mercante. Nel 1461 entrò a servizio della
famiglia Medici e fu particolarmente caro alla madre di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia Tornabuoni, oltre
che amico personale di Lorenzo il Magnifico. Si impose alla cerchia di intellettuali e artisti che si
raccoglieva intorno al giovane principe grazie al suo temperamento bizzarro e alle sue prove letterarie.
Per conto di Lorenzo svolse numerose missioni ufficiali guadagnando grande stima e influenza all’interno
della corte medicea. Dopo il 1471 il suo prestigio cominciò gradualmente a calare; di cultura non
vastissima anche se non superficiale, Pulci era infatti legato al recupero della tradizione popolare
attraverso canoni espressionisti, indirizzo letterario che aveva attratto inizialmente il giovane Lorenzo ma
che era stato superato ben presto dal più raffinato neoplatonismo ficiniano.
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L’opera di maggior spicco nel corpus di Pulci è il poema in ottave «Morgante», commissionatogli da
Lucrezia Tornabuoni. Completato già prima del 1470 venne pubblicato soltanto otto anni più tardi, in 23
canti; una seconda edizione del poema, in 28 canti, fu pubblicata nel 1478. Si tratta di una parodia dei
poemi epico-cavallereschi in cui l’attenzione dell’autore è volta soprattutto a creare una lingua che fonda
tecnicismi e voci dialettali fortemente espressive, a scapito dell’intreccio molto spesso meccanico e
schematico.
Altre opere di Pulci sono l’«Epistolario», numerosi sonetti e favole villerecce, la «Giostra di Lorenzo» in
160 stanze e un «Vocabolarietto» di lingua furbesca.
Morì a Padova nel 1484.
Il Pulci non ebbe vasta cultura, ma fu sempre attento e cordiale scrutatore dell'animo umano, assai meno
superficiale di quanto potrebbe apparire a chi volesse ridurne la personalità ad uno spirito bizzarro dalle
mille trovate scanzonate e stravaganti.
Scorre infatti, tra le pagine della sua opera maggiore, il "Morgante", una vena di umanità limpida, sincera,
di quelle che sgorgano spontaneamente, che non sono frutto di una lunga e tormentosa macerazionedialettica, ma dell'intinto e basta e che, perciò, non hanno l' impegno eroico di combattere una battaglia,
di onorare un vessillo, di affrontare un martirio, ma semplicemente il desiderio di discorrere con gli
uomini delle cose degli uomini, con simpatia, qualche risata non maligna, qualche momento di
malinconia senza dramma.
Essendo tale la disposizione del Pulci, il tono del suo libro non poteva che essere sostanzialmente comico,
tinteggiato qua e là di note commosse e pensose.
Il "Morgante", che fu composto su suggerimento di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico, a partire
dal 1460, è certamente un'opera geniale, ma frammentaria. Esso non nacque dalla sollecitazione di una
profonda ispirazione né ebbe mai un disegno organico nella mente dell' autore. Fu anzi iniziato di
malavoglia dal Pulci che, per i primi canti, si limitò a seguire pedissequamente, ma vivacizzandola ed
adeguandola al suo temperamento, la materia di un rozzo cantare popolaresco dello stesso secolo, l'
"Orlando". In seguito il Poeta si andò sempre più affezionando a quella materia e ne sviluppò la trama in
maniera più libera, in tono più spiccatamente originale, insomma con una personale e più autentica
partecipazione.
Nel 1470 il Pulci diede alle stampe i primi 23 canti dell'opera, che, completa degli ultimi 5, uscì a Firenze
nel 1483. Il poema eroicomico narra le avventura del paladino Orlando, dopo che questi ha abbandonato
il suo signore, il re Carlo Magno, che lo ha in sospetto per le calunnie di Gano di Maganza. Nel suo
girovagare, Orlando giunge ad un convento assediato da tre giganti. Ne uccide due e converte al
cristianesimo il terzo, Morgante, che gli sarà poi fedele scudiero. Insieme affrontano un'infinità di
traversie, aiutati anche da un mezzo gigante, Margutte, che è divenuto amico di Morgante. Gli episodi più
divertenti sono proprio quelli che hanno a protagonisti Morgante e Margutte : il primo, grosso come una
montagna ed armato di un battaglio di campana, è sempre pronto alla rissa e sconquassa tutto quello che
gli capita davanti; il secondo, spergiuro, ladro, miscredente, è specialista nel gabbare il prossimo al solo
scopo di divertirsi. I due eroi troveranno una morte singolare: Margutte, che ha sempre fatto ridere gli
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altri con i suoi scherzi muore per il troppo ridere, avendo visto una scimmia che aveva calzato i suoi
stivali; Morgante, che scrollava le torri con una spallata, muore per il morso di un granchiolino.
Si discute se questo poema abbia derivato qualcosa da due poemi anonimi e anepigrafi noti come
"Orlando" e "Spagna". Sostanzialmente, in ogni caso, è una parodia delle canzoni di gesta che erano ben
presenti agli immediati destinatari dell'opera, la brigata medicea cui Pulci leggeva l'opera man mano che
la componeva. Le canzoni di gesta sono la base su cui si esercita una parodia linguistica di provenienza
burchiellesca, tendente a privilegiare tecnicismi e voci dialettali fortemente espressive. La tensione
linguistica è in fondo l'unico impegno unitario del poema. Sul piano della svolgimento della vicenda si ha
una successione meccanica e schematica di personaggi situazioni ed episodi. L'ottava stessa ha un
funzionamento narrativo piuttosto meccanico.
Il tema, soprattutto nei primi 23 canti, è risolto in chiave popolaresca e picaresca: Carlo Magno è un
vecchi svampito, i paladini si comportano da briganti, le dame prefigurano la Dulcinea di Cervantes. Il
personaggio più riuscito e più aderente al gusto di Pulci è Rinaldo, sempre pronto alle avventure amorose
e alle risse. Ma indimenticabili sono i personaggi di Morgante e Margutte. Il gigante istintivo e bonario,
che muore al canto XX, dopo atti di prodigioso eroismo, per la puntura di un granchiolino, si contrappone
a Margutte, il mezzo gigante vorace e furfante che enuncia un credo materialista e irriverente rimasto
famoso (canto XVIII), e che muore soffocato dalle sue stesse risate. A un clima culturale più impegnato
riconducono i cinque canti aggiunti nell'edizione del 1483, ispirati all'anonima "Rotta di Roncisvalle".
Qui è l'ideale di un'epica orientata in senso provvidenzialistico, mentre costante si fa la tensione
allegorico-polemica. Ciò porta a privilegiare la riflessione e a relegare la comicità e il ridicolo nei luoghi
tradizionali per la cultura ufficiale, ai margini. L'eterodossia di Pulci sembra in sintonia con il
razionalismo umanistico del circolo ficiano, di cui il diavolo Astarotte, una delle migliori invenzioni del
poema, divulga estrosamente gli ideali di tolleranza religiosa. Pulci seppe far rivivere l'esperienza
burchiellesca, ampliandola oltre i limiti delle rimerie burlesche. Il suo poema eroicomico ebbe influenza
sui poemi eroicomici successivi. Si pensi al "Baldus" di Folengo, e al "Gargantua e Pantagruel" di
Rabelais.
La poesia del Pulci si manifesta nella ricca presenza di esperienze, temi, intenzioni e linguaggi diversi,
che compongono un organismo la cui unica legge è la varietà. L'originalità di questa poesia consiste nel
continuo e vivo trascorrere dall'uno all'altro motivo, e l'unità del Morgante è da ricercare proprio nel
fondamentale atteggiamento di inesauribile esperienza delle cose e delle forme, nella curiosità dei sensi e
dell'intelletto che guidano il Pulci alla costruzione del suo poema.
Il «Morgante», impostato e condotto sul canovaccio di due antichi poemi, nella consapevolezza stessa del
Pulci, dichiara la sua novità piú autentica non in un accento che da quella materia si innalzi e s'inarchi in
un cielo di poesia a sfondo etico, ma in un esercizio d'arte di diverso impegno e di diversa indole.
Cavalleria e religione, ideali umani e miti della più flagrante contemporaneità lasciano eticamente
indifferente l'anima di Luigi e valgono solo se considerati su di un piano di esclusivo interesse estetico,
come pretesti, contenutisticamente via via mutevoli, di una libera ricerca di colori e di impasti nuovi e
sempre variati. L'originalità del poeta sta in quel suo perpetuo tentare esperienze nuove, approdi in terre
sconosciute o poco conosciute, in zone ancora vergini: in quel suo anticipare assaggi su materie e forme,
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temi e modi prima trascurati o timidamente accostati dalla cultura poetica. Soprattutto nell'aver
vagheggiato nella loro molteplicità codesti diversi e talora opposti motivi e nell'averli audacemente tentati
, e rimescolati traendone effetti di contrasto e sorprendenti esiti. La freschezza pungente del Morgante
consiste proprio in quel gusto che lo anima, dell'irregolare e dell'inconsueto, in quel bisogno di evasione
dagli schemi tradizionali, in quell'avventura di forme strane. Necessità intrinseca al suo sentire, di
spezzare i confini soliti e, attraverso gli sconvolti profili delle cose e dei rapporti o, semplicemente, le
sagome meno abusate o più dimenticate della realtà, di tentare strade e sentieri più pittoreschi ed ameni,
di immettere insomma un'aria più fresca e stimolante, aria di boschi e di campi, sulle carte polverose della
letteratura tradizionale, cortese e scolastica. Un'allegra vicenda di figure e di ritmi si dispiega, come in
una variopinta e rumorosa fiera, lungo tutto il poema, dove pure si incontrano, nella molteplice ressa di
toni, sorrisi lievi e fragorose risate, ma dove non c'è soltanto né soprattutto comicità, e, di non essere « ...
tanto satir, quant'ei pare in vista », confesserà lo stesso poeta. Una vicenda, infine, guidata da una mera
legge estetica, di musicale capriccio, ma estranea naturalmente ad ogni ordinato piano di natura
psicologica e storica, trattandosi di una poesia ignara, per cosí dire, di una qualsiasi collaborazione di
origine intellettuale e morale, e che sembra appagarsi in un'abbandonata vacanza dell'anima perduta ad
inseguire forme e colori. Poesia dunque senza dimensioni e senza sviluppi, e tutta tramata su veloci prove
e assaggi svagati, poesia filologica, appunto, che si celebra in un caratteristico ed accentuato gusto del
dettaglio e del particolare minuto.
Ma l'unità della poesia del Morgante esige di essere affermata con un ultimo più deciso e puntuale
chiarimento. Poi ché si tratta di un'unità che non va confusa e intesa come un semplice ripetersi di
atteggiamenti, vale a dire, nel nostro caso, come costanza di quell'abitudine di attenzione al' particolare
per sé preso, quale semplice fedeltà, insomma, ad una poetica del frammento. Il valore e l'estensione di
essa assume in effetti un senso più vasto e complicato. Poiché occorre proprio respingere, contro facili
fraintendimenti, ogni giudizio troppo disposto a ritenere frammentaria una poesia che, a meglio
considerare, appare invece ben saldamente costruita. Soltanto si dovrà badare che non è già in questione
una costruttività di natura intellettuale o etica, narrativa o psicologica, ma piuttosto una costruttività di
ordine puramente estetico. Il poema, si diceva, procede per agglutinazioni, per accumuli successivi, si
dispone come cucitura di frammenti, di ritagli: sennonché questo, se dimostra l'assenza di un intervento di
natura intellettuale che conferisca un'ossatura capace di tradursi in termini logici come ordinata
prospettiva e puntuale vicenda, se documenta altresí l'estraneità ad un reale impegno di carattere etico e
ad un'effettiva disciplina morale che mantenga saldi e costanti ideali e leggi, non sembra d'altra parte
dover rifiutare la possibilità di una coerenza estetica. Quando si parla di amore del contrasto, di gusto di
incontri violenti, di gioia dell'inatteso, si postula evidentemente l'esistenza di un rapporto che leghi in
unità i due termini del contrasto e dell'incontro e della sorpresa, anche se cotesto legame dovrà essere di
opposizione anziché di somiglianza. Cotesto poetare, mentre nel suo carattere assoluto celebra il
frammento e s'appaga dell'isolato colore, istituisce poi, in effetti, una perpetua necessità di nessi che
impedisce una considerazione frammentistica dei relativi colori. Esiste dunque una volontà lirica
connettiva nel poeta, che, a sua volta, produce nel lettore, un implicito senso di attesa, un istintivo
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richiamo di un effetto di contrasto. La legge del poema è una legge di mutabilità e di varietà, e la sua
unità è, dicevamo, l'unità dell'abito di Arlecchino. Ed è appunto in conseguenza di questa autonomia e
insieme ínterdipendenza dei singoli nuclei lirici, di codesta esaltazione del particolare che si ricompone in
una superiore definitiva unità, che la poesia del Pulci appare così inafferrabile e difficile ad ogni proposta
interpretativa. È la mobilità irrequieta della sua parola, della sua espressione, quel che rende cosí
sfuggente il profilo di questa strana esperienza d'arte. In questa irrequietezza fantasiosa e fantastica
consiste il segreto della poesia di Luigi Pulci, la sua misteriosa seduzione e, insieme, la sua effettiva
difficoltà. Difficoltà bivalente e bilaterale, valida cioè non solo per l'interprete, costretto a spogliarsi di
ogni ingombrante contenutismo e a tener dietro al complesso gioco del poeta, ma anche per lo stesso
poeta, al quale la mobilità di codesta lirica avventura richiede una finezza ed una cultura attivissime, e per
il Pulci appunto non sempre disponibili. Ed in ciò è forse da segnare il più vero limite di codesta originale
espressione.
Girolamo Savonarola (1452-1498)
Nato a Ferrara, entra, a 23 anni, nell’Ordine domenicano a Bologna, dopo essersi travagliato nello studio
teologia e della Bibbia con cui ha sostituito i primi interessi per la medicina, la musica e la poesia. Nel
1482 è trasferito a Firenze, nel convento di S. Marco, dove inizia la sua attività de «predicazione dei
disperati». Predica con la tempesta eloquenza di un profeta biblico: attacca il dispotismo del Magnifico,
ma miscredenza e i miti edonistici di larghe fasce della società fiorentina, lo spirito neo-pagano che gli
sembra di cogliere al fondo della cultura umanistica. È dunque un asceta, e può anche sembrare un
anacronistico fantasma piovuto in pieno Rinascimento dai cieli più cupi del Medioevo.
In realtà, egli incarna, con un di più di passionalità missionaria, l’aspirazione di molti intellettuali del
tempo ad inquadrare nello spirito cristiano le conquiste del pensiero moderno. Il suo ascetismo non è di
stampo medievale: non è fuga nella solitudine, ma milizia animosa nel mondo, affinché la città terrena
s’accosti il più possibile alla città di Dio; è un ascetismo vigorosamente pragmatico, inteso non solo al
recupero della coscienza individuale, ma anche alla cristianizzazione della prassi politica. Di qui l’assiduo
impegno del frate nella vita pubblica di Firenze, il suo proposito di gestire concretamente il potere che gli
viene del favore del popolo e da alcuni settori della media borghesia. Dopo la caduta di Piero dei medici
(1494), egli è praticamente l’arbitro di Firenze. Si fa promotore di un reggimento repubblicano, che pone
sotto l’ideale governo di Cristo, e proclama la necessità che Firenze diventi una sorta di nuova
Gerusalemme, da cui inizi la radicale riforma della società contemporanea: una riforma che investa non
solo il mondo laico, ma anche la Chiesa, la cui corruzione ha per lui l’emblema più squallido nella figura
di Alessandro VI Borgia, il papa concubino e simoniaco. L’azione del Savonarola non tarda a suscitare
fiere opposizioni e il Papa lo scomunica, congiurando per la rovina del frate; sarà arrestato, condannato a
morte come eretico e il 23 maggio 1498, il Savonarola viene impiccato e poi bruciato sul rogo in piazza
della Signoria.
Ha scritto trattati di mistica, quali, sul trionfo della Croce, Triumphus Crucis, Lettere molto interessanti
come documento della sua personalità e della situazione politica e sociale di Firenze; un Trattato circa il
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reggimento e il governo della città di Firenze, in cui condanna la tirannide nella persona di Lorenzo de’
Medici; alcune Laude di edificazione religiosa non prive di suggestioni nella loro schietta e rude
semplicità di stile. Il Savonarola appartiene però alla storia della letteratura per le Prediche, che furono
raccolte non da lui, e che le pronunciava nel fervore dell’improvvisazione; si trova in esse un profondo
senso del Divino, che se il più delle volte dà luogo ad immagini di terribile potenza biblica nella profezia
e nell’ammonimento, talvolta si esprime nei toni di un’accorata e paterna esortazione al ripiegamento
interiore e alla preghiera. Il Savonarola non si propose certo finalità letterarie e artistiche, che anzi
considerava cose frivole e vane, ma qua e là la sua rude eloquenza attinge un vigore che non è solo
morale, ma anche fantastico, e sfiora la poesia.
La predicazione del Savonarola
Nella sua predicazione il Savonarola non si attiene agli schemi del procedimento scolastico, ma si
riaccosta al tipo dell'omelia; egli infatti svolge la sua predica con il continuo ricorso a passi dell'Antico
Testamento, che egli mette a riscontro, con appassionata veemenza e impeto profetico, con gli
avvenimenti della realtà contemporanea.
Le prediche del Savonarola, esaminate dal punto di vista letterario, non rendono che in parte l'idea fedele
del tessuto genuino con cui il predicatore le ha pronunciate dal pergamo. Molte di esse sono riassunti e
compendi (pervenutici dai tachigrafi, in modo particolare da Lorenzo Violi) o si tratta di versioni e di
amplificazioni degli schemi lasciatici in bozza dal grande oratore. Ciononostante costituiscono un
importante monumento di eloquenza sacra e formano un anello assai importante nella serie delle prose
che seguono a quelle del Trecento e precedono quelle del Cinquecento.
Sarebbe quanto mai interessante studiare comparativamente, dai due punti di vista contenutistico e
formale, la produzione in volgare del Savonarola e quella del Machiavelli. Ne uscirebbero risultati
culturali assai interessanti. Come già fu osservato, le prediche del Savonarola, per la loro struttura si
accostano di più al tipo dell'omelia sacra che non alla trattazione tematica di carattere missionario.
Mancano nella sua produzione oratoria le parti classicamente disposte ed architettate: l'esordio, la tesi o
proposizione del tema, il rigoroso sviluppo dell'enunciato, la frequenza delle citazioni dotte, il finale
sostenuto ed appassionante.
Fissava, è vero, prima di salire sul pulpito i capisaldi del suo sermone; ma, raramente, vi si atteneva con
fedeltà. Parlando, passava ben presto da un motivo all'altro, secondo che lo trasportava il volo del suo
estro veemente. Non si conteneva lungo i binari del raziocinio pacato e compassato proprio della
scolastica. Ben presto veniva investito da un interiore fuoco travolgente. Mosso da questo soffio
bruciante, dava luogo ad una predicazione rivoluzionaria. È vero che anche lui, come i predicatori del suo
tempo, indulse all'interpretazione allegorica della Sacra Scrittura con un fare, a volte, bizzarro e
cervellotico, cadendo in esagerazioni di pessimo gusto. Anch'egli cita filosofi e poeti, ma non è serrata in
questi termini l'ossatura della sua predicazione. Citazioni, allegorie, esempi, similitudini, racconti,
sillogismi e forme ben note alla filosofia e alla teologia degli ecclesiastici, sono elementi accessori nella
sua predicazione. La base essenziale di questa, invece, sta nell'interpretazione del Vecchio Testamento,
applicata alle condizioni della Chiesa, alle vicissitudini storiche e politiche dell'Italia, alle esigenze ed agli
eventi della città di Firenze. La sua parola sgorga viva e penetrante dal suo prendere immediato contatto
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con la folla dei suoi ascoltatori consenzienti o dissenzienti. In ciò consiste la spiegazione e la ragione del
suo procedere a bagliori e a scatti, in dialoghi drammatici di forte rilievo e di marcato chiaroscuro. In ciò
la sua popolarità, in ciò il suo innervarsi ed innestarsi, Sacra Scrittura alla mano, nell'ingranaggio degli
avvenimenti contemporanei, nel groviglio dei problemi dell'umanità traviata e travagliata. Con sguardo
acuto scorge l'elemento universale e categorico, predicabile tanto per il popolo ebraico dell'antichità
quanto per la vita e i costumi dei suoi contemporanei, vicini a lui o lontani da lui; onde il passato nella sua
morale ed ideale consistenza non solo si identifica con il presente, ma anche si proietta nell'avvenire e
quasi lo anticipa.
Da questo contenuto profetico-biblico del suo parlare, si dilatano gli orizzonti della sua chiaroveggenza.
A1 lume delle verità rivelate che non falliscono e non conoscono tramonti, egli misura persone e cose e
fatti contingenti; ne svela il significato profondo alle moltitudini che si sentono da lui mosse, comprese,
interpretate e direi anche liberate da un gorgo di tenebre e di angoscia. Mai come nel Savonarola, il
popolo ha intuito che predicazione ed azione sono una stessa realtà vivente ed operante, un'assoluta
esigenza di fede e di grazia, il vivificatore alito di Dio.
In un'atmosfera di idillio il Sannazzaro attua la sua esile vena di poesia, tutta nutrita di fonti letterarie, che
trova il suo accento originale nell'evocare una sottile suggestione di tristezza e nella classica evidenza
delle descrizioni del paesaggio e degli aspetti della natura.
Nell'Arcadia c'è una sottile vena di sentimento, un'aura d'elegia che qualche volta affascina ancora. Il
tempo l'ha scolorita: ma essa conserva, nelle sue pagine più sincere, una grazia molle, una sfumatura di
raccoglimento triste. Sopra il suo orizzonte troppo uguale passa talora l'ombra lieve di una nube, nel suo
disegno svanito risalta ancora qualche linea lieve. Citare, qui, è più difficile del solito: perché quel velo di
malinconia vi si dissolve fra mani, e quasi dappertutto si vedono le tracce o i ricalchi di un modello. Ma
certo i motivi patetici di Virgilio risuonavano come sospiri nell'anima del Sannazaro, e la mestizia che
spira sul libro come un fiato di nebbia è - dovunque venga - un sentimento delicato e non mentito.
Si sente qua e là per il romanzo pastorale e amoroso la presenza di una fantasia
meditabonda che riempie dell'immagine amata ogni solitudine.
Un'eco della melodia di pianto che erra per le rime del Petrarca, risuona ancora in questa prosa lenta e
raccolta. E quella pacata malinconia d'amore che noi abbiamo disimparato, ci attira come l'immagine
d'una vita più composta e più intima.
Insieme con questo rimpianto della donna lontana mormora in queste pagine la nostalgia della patria: e i
due temi elegiaci confluiscono in una sola musica triste.
Aveva certo un'anima sentimentale; e la sua insistenza soverchia sopra le tinte fosche, e la scena esagerata
di desolazione che egli descrive nella chiusa, ne sono una prova.
Ma era, insieme, un classico: due pagine della prosa ottava hanno, qua e là, con
l'impeto della passione, l'evidenza di contorni della poesia antica. Carino
racconta il suo disperato dolore, quando, abbandonato dalla sua pastorella, esce
di notte per boschi senza sentieri e per monti aspri e, postosi a sedere ai piedi
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d'una quercia testimone della sua lontana felicità, si lamenta della giovinetta
crudele. Il soliloquio comincia patetico, sparso dei ricordi affettuosi e semplici
della vita comune in mezzo alla campagna; poi si alza in un'invocazione lirica e
dolente alle divinità pietose dei miseri amanti: alle Napee che sfiorano con le
bionde teste le onde chiare, alle Oreadi che cacciano ignude per le alte ripe, alle
Driadi; poi si abbandona in un desiderio ardente di morte.
La tenue vena di tristezza e l'evidenza di alcune linee descrittive sono i piccoli pregi superstiti di questo
libro. La vita pastorale dell'Arcadia non è tutta frusta come si dice. Nel paesaggio passa di quando in
quando una voce viva, un alito fresco: il mattino i greggi con le loro campane risvegliano per le tacite
selve gli uccelli addormentati: un ruscello si move, appena, tra le piante, non turbato da rami o da fronde,
fra rive non tocche da piede di uomini o da animali; un gruppo di pastori riposa sui lentischi: gli alberi
sibilano sul loro capo, le onde mormorano veloci fra l'erbe, cicale calandre tortore cantano e piangono
intorno, «ogni cosa redole de la fertile estate». Questi tocchi brevi e rari dicono che il poeta aveva il senso
dell'idillio.
Leonardo da Vinci
Fra gli artisti-scrittori del secondo Quattrocento si distingue nettamente Leonardo da Vinci, personalità di
sovrana grandezza, che, spaziando sui più vari settori dello scibile, concretizza, ancor meglio dell’Alberti,
il mito dell’«uomo universale» vagheggiando nel Rinascimento.
Nasce, figlio naturale, dal notaio fiorentino Ser Pietro, a Vinci, borgo toscano presso Empoli, nel 1452.
Giovinetto, si trasferisce a Firenze, dove frequenta da apprendista la bottega d’arte del veroccio ed entra
nelle grazie del Magnifico, che prende a proteggerlo. Le sue prime prove pittoriche risentono della
maniera del Verrocchio, ma nell’ Adorazione dei Magi, rimasta incompiuta, è già un linguaggio originale.
Lavora presso la Corte di Ludovico il Moro, a Milano, e vi realizza quasi le sue tutte pittoriche e gran
parte delle sue ricerche tecnologiche. La caduta del Moro lo costringe a vagare per l’Italia. Si reca a
Mantova, a Venezia, a Roma, poi si mette al servizio di Cesare Borgia e, nel ruolo di «ingegnere
generale», ispeziona le fortificazioni delle Marche e dell’Umbria ed altre ne realizza. Ritornato a Firenze,
cui si sente legato, prepara, in contesa con Michelangelo, il bellissimo cartone della battaglia di Anghiari,
poi andato perduto. Dalla Toscana passa nuovamente a Milano, «pittore e ingegnere ordinario» di Luigi
XII; ma dopo la battaglia di Ravenna entra al servizio di papa Leon X, a Roma. Nel 1516 segue il re
Francesco I in Francia e quivi muore, 3 anni dopo, nel castello di Cloux, presso Amboise.
Leonardo si ritiene soprattutto un scienziato. Nella celebre lettera con cui offriva i propri servigi a
Ludovico il Moro, pur affermando di non temere confronti come pittore, scultore e architetto, sottolineò
particolarmente le proprie referenze di scienziato e di tecnologo, dicendosi capace di costruire nuove
macchine da guerra, ponti mobili, carri armati, navi, micidiali ordigni, fortificazioni, opere di ingegneria
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idraulica e di ristrutturazione urbanistica. Fu anche un grande fisico, un grande botanico e un grande
fisiologo. Come fisico indagò sul volo degli uccelli (e ne cavò l’idea di una macchina volante che
consentisse all’uomo la navigazione aerea), sulla caduta dei gravi, sul moto dell’aria e dell’acqua, sulla
composizione degli elementi, sul fenomeno della riflessione della luce e sui corpi celesti; come botanico,
aprì al mondo moderno nuove strade, studio, come fisiologo, l’organismo umano e animale.
Affermando di essere «omo sanza lettere», Leonardo non intese confessare un limite culturale, ma
distanziarsi polemicamente, lui uomo di scienza, dai letterati puri, da quegli umanisti per i quali le norme
della retorica contavano più che le leggi della natura, le parole più che le cose, la «favole» più che la vita
reale. Ironico e sarcastico fu Leonardo contro di essi, talvolta spingendo la polemica fino
all’indiscriminata condanna di tutto l’Umanesimo letterario. Ma non si creda che Leonardo fu sordo alla
grande letteratura; in effetti, ne ha scritto anche lui, come ad es. Favole, Pensieri, Facezie, Apologhi,
Lettere, opere in cui possiamo trovare pagine straordinarie di poesia e uno stile accuratissimo. Ma anche
nei suoi celebri trattati (Trattato delle Pittura, come anche nel Del moto e misura delle acque), l’autore
non risulta affatto «omo sanza lettere»; al contrario, c’è in essi uno scrittore sensibile alla cultura
letteraria, assiduamente impegnato ad elaborare il proprio linguaggio, sia sugli esempi classici, sia su
quelli della più saporosa e vivace tradizione volgara toscana. In genere, Leonardo è prosatore robusto, ma
chiaro e conciso; privilegia il linguaggio immaginoso, ma solo per rendere più incisivi i concetti,
rifuggendo dagli svolazzi ornamentali, così cari a tanti umanisti contemporanei.
Quindi, nel contrasto tra i letterati disdegnosi di ogni attività e di ogni scritto volti a fine pratico, si
inserisce la polemica di Leonardo in nome dello scienziato inteso come ricercatore e sperimentatore della
natura. Ma per Leonardo anche la pittura è scienza: di qui il carattere non solo dei suoi appunti e delle sue
osservazioni sparsi intorno agli aspetti e ai fenomeni naturali, ma anche delle sue più organiche
considerazioni sulle arti figurative.
I crescenti contatti degli sperimentatori colle scienze teoriche rendevano tormentoso in essi il problema di
un'adeguata preparazione letteraria. Essi erano generalmente degli uomini vulgari o sanza lettere, vale a
dire privi di una sicura conoscenza del latino, la lingua ufficiale della scienza, l'accesso insostituibile al
mondo dei libri. L'abilità manuale, l'esperienza acquisita dopo anni di lavoro li rendeva sicuri
nell'osservazione della natura e nelle sue pratiche applicazioni, ma la mancanza di latino li isolava dalla
tradizione scritta del pensiero scientifico. A tale difetto cercava di supplire la collaborazione degli amici
letterati, che fungevano da intermediari fra la scienza dei libri e l'empiria degli artisti; ma quanto più in
Leonardo andava accentuandosi l'interesse per la pura ricerca scientifica, anche a scapito dell'attività
artistica, tanto più doveva pesargli quella mancanza di lettere; e quanto più si accumulavano i frutti della
sua diretta osservazione della natura, aprendo sempre nuovi orizzonti alla conoscenza, di tanto cresceva la
sua insofferenza per la scarsa considerazione della cultura ufficiale alle sue attività.
Risaliva al mondo antico, e alla sua divisione sociale in uomini liberi e schiavi, il disprezzo per ogni
attività implicante un lavoro manuale. Le arti liberali erano indirizzate alla pura contemplazione della
verità; erano, per usare un'espressione di Leonardo, discorso mentale, puro svolgimento di pensiero,
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esercizio delle facoltà superiori dello spirito, avente in sé il proprio fine senza umiliarsi nella mediazione
di un fine pratico, come facevano le arti servili o meccaniche, richiedenti un lavoro muscolare e perciò
affidate agli schiavi; e anche il medioevo cristiano aveva conservato alle arti meccaniche una posizione di
inferiorità, suffragata dalla convinzione che la fatica corporea fosse conseguenza del peccato originale.
La posizione della poesia e delle arti belle (pittura e scultura) rimaneva tuttavia alquanto incerta. Queste
ultime specialmente imitavano, sì, la natura, ma della natura solo le superfici dei corpi, l'aspetto esterno; e
mentre la poesia trovava nei poeti stessi degli abili difensori, la pittura restava indifesa. Per giunta, a
Firenze, da quando la vita culturale era dominata dall'accademia platonica, aristocratica ed estetizzante, i
letterati erano ancor meno disposti ad apprezzare il lavoro dei ricercatori delle arti meccaniche.
A questo punto e in questo clima dev'essere sorto nell'animo di Leonardo il moto di ribellione contro i
letterati, i trombetti e recitatori dell'altrui opere. Posto tra il mondo naturale, ch'egli sentiva di dominare
meglio di tanti altri uomini, e quello dei libri, che gli sfuggiva in gran parte, egli reagì proclamando
l'eccellenza della natura sui libri: Se bene come loro, non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più
degna cosa a leggere allegando la sperienzia, maestra ai loro maestri.
Né egli poteva ammettere che la sua non fosse scienza, ma solo empiria, contaminata dal quotidiano
commercio col mondo dei sensi e della materia. Al contrario, egli affermava che la pittura era vera
scienza o discorso mentale, sia perché non più affidata alle sole risorse istintive dell'occhio e della mano,
ma fondata ormai su un completo sistema di norme teoriche; sia perché il metodo dell'esperienza, anziché
umiliarla, l'avvalorava di una certezza che la poneva sopra il gridore delle vane schermaglie sillogistiche.
Questo è il senso fondamentale della polemica che occupa la prima parte del cosiddetto Trattato della
Pittura; questo è il programma di lavoro che abbraccia tutta la vita di Leonardo.
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO:
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Duecento, il Trecento, e il
Quattrocento dal Medioevo all’umanesimo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1991. pp. 369411.
Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 2. Cinquecento, Seicento,
Settecento. Firenze, La Nuova Italia, 1995. Si vedano le ultime 50 pagine.
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode»,
s.a. Si vedano le pagine consacrate ai autori studiati.
Marchese. Riccardo. Letteratura e società. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro
della cultura europea. / 1 / Dalle origini al secolo XVI. Firenze, La Nuova Italia, 1975.
DOMANDE-ARGOMENTO:
1. Caratterizzare la fine del Quattrocento dal punto di vista culturale; quali sono i rappresentanti che
portano avanti lo spirito rinascimentale e quale il contributo di ciascuno di loro?
2. Come appare e si motiva l’interesse per la tematica per i grandi poemi narrativi nel quadro della cultura
italiana rinascimentale e post-rinascimentale?
3. Descrivere la trama del poema «Morgante» di Luigi Pulci e la sue scelte stilistiche.
4. Qual è il contributo di Leonardo da Vinci allo sviluppo del pensiero scientifico e culturale universale.
Enumerare 3/4 idee fondamentali oppure scoperte con delle grandissime conseguenze nel campo
epistemologico mondiale.
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Pietro Bembo
Nacque nel 1470, da famiglia patrizia, a Venezia,. dove compì i porimi studi, si recò,
col padre, a Firenze, dove, negli ambienti figiani, trasse orientamenti decisivi per la sua
formazione spirituale. Passò da Messina, a Padova, a Ferrara, dove conosce Ariosto e
frequenta l’affascinante Lucrezia Borgia, della quale s’era innamorato; poi, lo troviamo
ad Urbino, dove strinse amicizia col cardinale Giovanni de’ Medici, il futuro papa Leon
X, il quale lo inviterà a Roma. Ritirato a Padova, poi passa per Venezia, con incarichi
culturali, poi di nuovo a Romna, dove morì, nel 1547.
Umanista dottissimo, il Bembo ci ha lasciato vari scritti latini d’impeccabile stile
ciceroniano, fra i quali «Aetna» («Etna»), dodici libri della «Historia Veneta», l’epistola
«De invenzione»; scrisse in volgare le sue più significative opere, quali «Asolani»,
«Prose della volgar lingua», e, poi, la sua creazione poetica raccolta nelle «Rime», di
stampo petrarchisto.
È impossibile parlare della lirica del Bembo senza implicare un discorso di troppo più vasta portata sulla
complessità della sua figura di critico e di platonico filosofo: insomma d'istitutore generale di un costume
i cui caratteri coinvolgono settori ben più vasti di quanto non sia quello di una semplice pratica
sonettistica. Potremmo, volendo, raccogliere anche tra i moderni qualche testimonianza favorevole al tono
e alla sensibilità della sua voce; ma è fin troppo evidente a quali pericoli andrebbe incontro una
disposizione critica sprovveduta e affidata a semplici reazioni di gusto. Un'identificazione dei fatti poetici
del Bembo con i caratteri della sua più vasta missione culturale fu perciò sempre favorita dalla
responsabilità storica che il Bembo aveva assunto .nel quadro del suo tempo; e nella stessa maniera che
quel ruolo di protagonista di una complessa vicenda della cultura italiana fu più o meno approvato e
condiviso dai posteri, le stesse prove poetiche dello scrittore ne risentirono profondamente.
Per
questo già il rinnovato interesse degli Arcadi identificava nel poeta l'umanista pioniere di una cultura
nuova. Sommamente indicativo è a questo proposito il giudizio del Muratori: « Il secolo seguente dal
1500 insino al 1600 fu senza dubbio il più fortunato per l'italica poesia, essendo questa, per così dire,
rinati e giunta ad incredibile gloria in ogni sorte di componimenti. A Pietro Bembo, che fu poi cardinale,
l'Italia è principalmente obbligata per sì gran beneficio. Non solamente la lingua nostra per cura sua tornò
a fiorire più che ne' tempi andati, ma il gusto ancor del Petrarca tornò a regnare negli ingegni italiani ». È
già evidente attraverso queste poche righe in quale misura il neopetrarchisrno arcadico per la sua
posizione reazionaria in senso antimarinistico fosse determinato ad una esaltazione dell'esperienza lirica
del XVI secolo e alla sua riduzione, per quanto più possibile assoluta, all'intervento storico del Bembo.
Da una tale impostazione si doveva giungere conseguentemente a riconoscere tutti i crismi a quella
poesia. Sempre il Muratori affermava: « Ora, generalmente parlando, i poeti di quel secolo ebbero gusto
sano, scrissero con leggiadria, adoperarono pensieri profondi, nobili, naturali, ed empierono di buon sugo
i lor componimenti ». Assai affine al giudizio del Muratori, dovrà considerarsi, quanto al Bembo, quello
del Gravina che, dopo avere indicate le vicende della italiana lirica, conclude: « Poté questo genere di
poesia ripigliar colle mani del Bembo la cetra del Petrarca »; dove, oltre l'apparato eloquente del discorso,
si dovranno avvertire le stesse ragioni storiche che avevano ispirato il Muratori. Anche il Gravina
d'altronde, come il Muratori, avvertiva, secondo una più segreta disposizione critica, l'insufficienza
artistica di tanta parte di quella poesia: masi trattava di un rilievo proposto cautamente e non emerso a una
piena coscienza: quella cetra del Petrarca fu « imitata poi degnamente da stuolo sì numeroso, che non
trova qui -luogo per sé capace; e così noto, che muri oltraggio riceve dal nostro silenzio. Conciosiaché
niuno di loro per propria invenzione richieda da noi giudizio distinto, se non che il Casa ». Ora, se quella
limitazione non implicava la figura del Bembo, ciò era dovuto soltanto alla preoccupazione di
contrapporre polemicamente il secolo XVI al XVII in nome del petrarchismo, del quale appunto nel
Bembo si riconosceva il massimo rappresentante. Debbono perciò considerarsi come improntati a un
carattere di eccezionalità i giudizi del Crescimbeni e del Quadrio che nel Settecento sembrano
distinguere, se pure con un carattere di precisazione, la realtà poetica del Bembo dalle sorti del
petrarchismo, lamentando in quelle Rime un eccesso d'imitazione. Dalle premesse critiche dei primi
arcadi - vorremmo soprattutto insistere sul Muratori e sul Gravina -, secondo un'accentuazione della
tendenza apologetica della lirica cinquecentesca si doveva giungere, per quanto concerne il Bembo, alla
posizione estrema d'incondizionato favore rintracciabile nelle Annotazioni di Anton Federigo Seghezzi
alle Rime secondo la grande edizione veneziana del 1729; oppure, sviluppando le intenzioni critiche
larvatamente ostili a un'eccessiva imitazione petrarchesca, si doveva approdare al furore iconoclastico di
un Bettinelli o di un Baretti, ove sarebbe illusorio cercare di scorgere un interesse diretto - sia pure
ispirato da una determinazione ostile - al testo e alla figura individuale del poeta: ancora una volta la
considerazione generale sul petrarchismo s'identificava nella persona stessa del Bembo. D'altronde il
Baretti, distinguendo più lucidamente dei critici precedenti - e dello stesso Bettinelli - un petrarchismo
riducibile ai propri esercizi poetici da un petrarchismo come fatto essenzialmente critico e culturale,
sembrava proporre la formula critica di un Bembo inutile poeta ma indispensabile uomo di cultura
secondo un'indicazione ancora una volta a piacere estendibile dalla persona specifica del Bembo al
complesso di tutto il fenomeno petrarchistico.
Così il Baretti riconosceva che «l'Italia e forse tutta l'Europa deve moltissimo a' cinquecentisti»,
precisando che «le lingue dotte, e la grammatica, e l'arte del dire, e tutte le parti della filologia, principali
fondamenti di tutte le scienze, furono da' cinquecentisti coltivate molto e rese piane e di facile acquisto al
mondo». Che tale impostazione, sottolineando il carattere critico e culturale del petrarchismo rispetto a
quello creativo e di riflesso biografico ed esistenziale esaltato soprattutto dal Cinquecento, costituisse una
novità per il suo stesso senso quasi storicizzante, non è dubbio; ma dovrebb'essere altrettanto evidente il
pericolo di «facilità» a cui per la deficienza di approfondimenti ulteriori sarebbe potuta approdare tale
formula. Recentemente il Croce riproponeva un'interpretazione della figura del Bembo articolata secondo
un riconoscimento della sua attività culturale e una negazione della sua opera artistica. Infatti, dopo aver
riconosciuto che «il Bembo adempì un ufficio di molta importanza nella storia della poesia e della critica
italiana», conclude che sulla sua «gloriosa figura di apostolo» non gettarono ombra le sue opere (il Croce
usa la parola pesare «delle quali il De Sanctis a ragione si sbrigò con recise parole negative».
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Particolarmente degli Asolani il Croce osserva che si tratta di « una delle molte teorie dell'amore che si
ebbero nel Cinquecento e delle più deboli e pallide »; e quanto alla poesia riconosce il valido giudizio di
pedanteria; e, nelle sue pratiche applicazioni, il concetto d'imitazione che ebbe il Bembo gli pare
«ripetizione propria dei particolari di una poesia o di un poeta, disciolto il loro nesso».
Ma nel quadro di un'intelligenza più approfondita dell'opera del Bembo, il Ferrero aveva già avvertito che
«ad una piena comprensione e ad un equo giudizio su quel grande letterato non è né legittima né utile una
rigida separazione fra i due aspetti dell'opera sua: la quale dovrà invece essere considerata unitariamente,
vedendo negli «Asolani», nelle «Prose», nelle «Rime»... tre momenti di una stessa attività, di cui l'uno
non può stare, e non può essere interamente compreso senza l'altro». E queste parole del Ferrero
vorremmo intendere non tanto nel senso di una stretta interdipendenza dei vari documenti artistici o critici
del Bembo, quanto secondo l'esigenza di recuperare un significato compiuto di quella figura non soltanto
per la sua umanistica istituzione rettorica, ma nelle stesse dimensioni degli «Asolani» e delle «Rime», che
furono avvertiti dal Cinquecento come gli esempi più validi dello spiritualismo petrarchesca, e delle
esigenze di perfezione estetica proposte dal Canzoniere in vita e in morte di Laura.
Nonostante che il carattere di esercizio retorico sia ineliminabile a ogni pagina dell'intera opera bembiana,
in coerenza alla teoria dell'imitazione, dovremmo indicare nelle «Rime» il documento massimo di un
petrarchismo di costume per il quale il «Canzoniere» fu modello di stile, ma anche specchio di vero
amore e perfetto itinerario di vita.
Ludovico Ariosto
Nato a Reggio Emilia nel 1 474 da Niccolò, l'Ariosto visse i suoi primi anni in un
ambiente agiato e signorile. Spinto, senza alcun frutto, agli studi del diritto, ottenne
finalmente di potersi dedicare alle lettere. Strinse amicizia con altri giovani letterati, fra
cui Alberto Pio, Ercole Strozzi e il cugino Pandolfo Ariosto; seguì le lezioni
dell'umanista Gregorio da Spoleto, i cui insegnamenti ricordò sempre con riconoscenza;
frequentò le feste e le rappresentazioni teatrali di corte; fece le prime prove poetiche
dedicandosi dapprima alla lirica latina (agli anni 1494-1503 risalgono i Carmina, in cui i
modelli di Tibullo e Orazio vengono ripresi in modi ora scolastici, ora più eleganti e
raffinati) e quindi a quella in volgare, stimolato anche dalla presenza in quegli anni a
Ferrara di Pietro Bembo.
A Ferrara, dove si trasferì con la famiglia, gli morì il padre e Ludovico, primo di dieci figli, fu costretto a
provvedere al sostentamento dei familiari. Fu cos1 al servizio del cardinale Ippolito d'Este (che poi si
rifiutó di seguire in Ungheria, dimostrando un orgoglioso e - per quei tempi - coraggioso spirito di
indipendenza) e del fratello di questo, il duca Alfonso. Da quest'ultimo ebbe incarichi difficili e rischiosi
(come il governatorato della Garfagnana, regione infes tata dai briganti). Da ultimo, fornito di un modesto
vitalizio si ritirò a vivere in Ferrara, in una umile casetta ("parva sed apta mihi"), allietato dall'amorevole
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compagnia dell'adorata Alessandra Benucci. Qui realizzò il sogno della sua vita di condurre un'esistenza
assolutamente libera e completamente immersa nei suoi sogni di poeta, visitando tutto il mondo, ma su
"Tolomeo", cioè sulle carte geografiche. E qui mori nel 1533.
Le liriche sono in latino ("Carmina") e in italiano ("Rime") e non hanno altro valore che di indicare quale
fu il tirocinio artistico del Poeta. Quelle in volgare risentono anch'esse dell'influenza del Petrarca
(nell'ambito della dottrina di Bembo), ma i motivi assorbiti sono originalmente trasformati.
Le commedie sono un tentativo di dare all'Italia una commedia originale, naturalmente sull'esempio dei
classici (Plauto e Terenzio). Sono cinque: "La cassaria"(composta dapprima in prosa e rappresentata a
Ferrara il 5 marzo 1508, rielaborata e riscritta poi in endecasillabi sdruccioli e così rappresentata il 19
febbraio 1531 a Ferrara. È la prima commedia regolare del teatro italiano. Benché il titolo e la trama
ricalchino quelli di alcune commedie di Plauto e Terenzio, La Cassaria, che ha come principale motore
dell’azione il servo Volpino, è invenzione originale dell’Ariosto).
"I suppositi" (composta dapprima in prosa e rappresentata a Ferrara il 6 febbraio 1509 e a Roma, davanti
a Leone X, il 6 marzo 1519; riscritta poi in endecasillabi sdruccioli fra il 1529 e il 1531. Centro
dell’azione, e motivo di tante complicazioni, è lo scambio delle parti fra il padroncino Erostrato e il servo
Dulippo allo scopo di conquistare la bella Polinesta. L’espediente dello scambio di persona è desunto dai
Captivi di Plauto).
"Il negromante" (in endecasillabi sdruccioli, iniziata nel 1509 e condotta a termine nel 1520, a istanza di
Leone X, il quale però non la fece rappresentare. In forma rielaborata, essa fu messa in scena a Ferrara nel
carnevale del 1528. Mentre alcuni elementi della trama derivano dalla tradizione classica, altri sono
moderni. Tutta moderna è la figura del Negromante, che presenta analogie con un personaggio della
Calandria del Bibbiena).
"La Lena" (in endecasillabi sdruccioli, rappresentata per la prima volta a Ferrara, nel carnevale del 1528,
replicata l’anno seguente, con l’aggiunta di due scene e un nuovo prologo. Frutto della maturità del poeta,
è commedia mossa e vivace, nella quale hanno spicco i personaggi di Lena ruffiana e del servo Corbolo.
Mentre alcuni motivi derivano, secondo la consuetudine, dalla tradizione latina, altri sono derivati dalla
novellistica volgare, e ad essa (Boccaccio, Decameron, VII, 2) risale anche l’espediente della botte in cui
il giovane Flavio, amante di Licinia, si nasconde per non essere colto dal padre di lei).
"Gli studenti" (quest'ultima, rimasta incompiuta, fu condotta a termine dal fratello Gabriele che la
pubblicò col titolo di "Scolastica" ). Le prime due commedie seguono negli ambienti e nei personaggi il
modello latino, mentre le altre mettono in scena situazioni e personaggi tipici dell'età contemporanea.
Dal punto di vista artistico non hanno un gran valore, neppure le migliori ("Il negromante" e "La Lena"),
perché anch'esse peccano di incoerenza psicologica nei personaggi e sono labili e incerte nei motivi: ciò è
naturale giacché l'Ariosto ha il temperamento del poeta lirico, non quello di drammatico.
Le Satire sono sette e rappresentano il tentativo di richiamare in vita un genere classico da lungo tempo
obliato. Seguono il modello oraziano, dal momento che l'Ariosto non solo ha simpatia letteraria per
Orazio, ma ha anche affinità spirituale con questo. E come quelle del Venosino, le satire dell'Ariosto
hanno un carattere discorsivo, sono ricche di un'arguzia ilare e vivace, si ispirano di frequente a fatti
personali dell'autore, cercano di nascondere in un'apparente trascuratezza la realtà di uno stile meditato ed
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eletto.
Orlando furioso
E' un poema cavalleresco dedicato ad Ippolito d'Este. Fu iniziato tra il 1502 e il 1503 e pubblicato a
Venezia il 1516 in 40 canti, Nel 1521 usci una seconda edizione migliorata nella lingua e nello stile e nel
1532 la terza e definitiva in 46 canti. Le fonti dell'opera sono: l' "Orlando innamorato" del Boiardo (di cui
si riprendono i personaggi principali e gli antefatti), il "Morgante" del Pulci, i romanzi bretoni,l'
"Odissea", l' "Eneide", le "Metamorfosi" di Ovidio, la "Tebaide" di Stazio.
L'Ariosto imita ancora Orazio, Properzio, Lucano, Apuleio ed altri.
E' difficile, se non impossibile, sunteggiare la trama dell' opera, che è ricchissima di episodi, neppure
sempre integralmente esposti nel medesimo luogo, ma spesso interrotti e ripresi varie volte. E' possibile
invece distinguere tre motivi fondamentali cui assegnare di volta in volta i singoli episodi: il motivo
erotico (l' amore di Orlando per Angelica e quello di Ruggero e Bradamante), il motivo encomiastico
(glorificazione della oasa d'Este discendente dalle nozze di Ruggero e Bradamante) e il motivo epico
(guerra tra Agramante e Carlo Magno attorno alle mura di Parigi).
Malgrado le apparenze di costruzione aperta ai capricci della fantasia, il «Furioso» ha struttura ben salda.
Non è una giustapposizione di «cantari» a sé stanti, ma un tutto organico, un cosmos regolato da una
lucida intelligenza architettonica. La partitura in canti è già «una prima organizzazione del racconto», ma
la vera spia del controllo ariostesco sulla materia è neui prologhi che aprono a un tratto lo sviluppo
narrativo.
Assunto l’impegno di cantare «le donne, i cavallier, gli amori, le cortesie, le audaci imprese» nel quadro
del leggendario conflitto fra i saraceni di re Agramente e i cristiani di re Carlo in terra di Francia,
l’Ariosto raccolse in una sorta di summa tutto il romanzesco poetabile, attingendo (ma con spirito
originalissimo) a molteplici fonti, sia romanze sia classiche; e compose una trama assai fitta, così fitta che
si può riassumere solo a patto di trascurare alcuni episodi laterali, che pur concorrono all’armonica unità
dell’insieme.
Al mondo cavalleresco il poeta guarda, con smaliziato occhio moderno, non come ad una civiltà da
confrontare con i nuovi tempi per trarne indicazioni morali o messaggi da utilizzare esemplarmente, ma
come alla metafora di una vita primigenia scandita sui ritmi del puro naturale negli spazi interinati della
favola. L’Ariosto intuì che a dar corpo ai miti del Rinascimento, da lui assimilati con serena
consapevolezza storica, nessun’altra materia sarebbe stata più disponibile di quella cavalleresca, se un
poeta di polso l’]avesse completamente affrancata dai paradigmi medioevali e riciclata nel gioco di una
fantasia spregiudicamene laica; e su questa intuizione costruì il mondo del Furioso, ossia la sua favola
moderna, in cui gli eroi dell’epos antico esprimono non più ideali del Medioevo romanzo, ma lo spirito
del maturo Rinascimento italiano. Colpisce nel poema il rilievo che vi assume la natura, concepita, al
modo dei pensatori e degli artisti del Quattrocento, quale sede di libere forze vitali; la natura come
paesaggio di luminosa apertura, spazio senza tempo, ma anche come meccanismo d’istinti e di impulsi
immediati a muovere i personaggi e a connotarli come creature fuori della storia, con un che di aurorale e
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di divinamente infantile, anche quando le loro azioni sono gesta. Concepiti come fenomeni della natura,
gli eroi ariosteschi vanno liberi da condizionamenti religiosi, né incarnano saldi principii civili. La loro
vita si svolge in linea orizzontale e non verticale: la trascendenza non li turba né li incuriosisce, e negli
istanti della sconfitta non invocano Dio, ma bestemmiano la sorte. Sensibilissimi all’amore, essi amano
senza pathos spirituale, in totale abbandono alle premure dei sensi, onde il loro amoroso gioire o soffrire
rivela quasi sempre un’immediatezza carnale all’origine.
Tutto istinto è l’amore di Orlando: un amore dai ciechi impulsi irrazionali e insieme sano e innocente nel
fondo come quello degli animali. Gli eroi ariosteschi concepiscono naturalisticamente non solo l’amore,
ma anche la guerra. Combattendo, obbediscono non ad una necessità storica, ma ad un’esigenza organica,
ossia ad una legge della loro natura; non si sentono difensori della fede, della patria, del sovrano, quanto
liberi avventurieri impegnati ad affermare sé stessi, il proprio diritto ad esistere come individui.
Il Poeta rappresenta mirabilmente tutto un mondo meraviglioso ed affascinante, in cui s'immerge
dominandolo. A questo mondo fantastico è imposta la legge del movimento, ordinato e regolato dal
Poeta, che ha la virtù di dar vita e grazia a tutto ciò che tocca, di rappresentare con esattezza tutto ciò che
crea. L'opera ha una suggestione tutta sua, che deriva da quella composizione, operata dal Poeta, di realtà
e fantasia.
Il poema ha avuto in tutti i tempi grande fortuna, ma i critici si sono sforzati sempre vivamente di
individuarne l'unità artistica, per definirne il valore. Da ultimo il Croce ha affrontato il problema e lo ha
risolto individuando l'unità di ispirazione nel sentimento dell'armonia: il poeta avrebbe accettato con lo
stesso interesse tutti i vari sentimenti umani perché sommamente impressionato dalla divina armonia che
li regola. Da ciò dipende l'inconsistenza della fisionomia dei singoli personaggi, non mai completamente
definiti, in quanto non hanno un significato reale in se stessi, ma rappresentano l'immensa varietà degli
atteggiamenti dell' Uomo investito e nutrito dall'infinita gamma dei sentimenti. L'Ariosto fu il cantore per
eccellenza di tutti i sentimenti umani, dell'amore come dell'odio, del coraggio come della viltà, ed ognuno
rappresentò nelle varie sfaccettature in cui si presenta nella realtà della vita. Ecco perché l'Ariosto è
giustamente considerato uno dei maggiori poeti "lirici" di tutti i tempi.
Niccolò Machiavelli (1469-1527).
Discendente da famiglia che diede numerosi magistrati a Firenze, ma che per non
essersi dedicata ai commerci visse di un modesto patrimonio, fece i suoi studi in
casa sotto la guida di un maestro Matteo dal quale imparò bene il latino. Dopo la
fine del Savonarola, nel maggio 1498 entrò nella carriera politico-diplomatica e fu
nominato segretario della seconda cancelleria. Di un anno appena posteriore
all’accesso ai pubblici uffici è il primo suo scritto di materia politica, il Discorso
fatto al Magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa, che nonostante l’acerbità dello
stile rivela già la logica rigorosa e il realismo che avrebbero caratterizzato gli
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scritti della maturità. Nel 1499 ebbe due legazioni di non grande importanza,
connesse alle esigenze della guerra di Pisa, presso Iacopo IV Appiani signore di
Piombino e presso Caterina Sforza Riario; nel maggio dell’anno successivo fu
inviato con incarichi più delicati alla corte di Francia e rimase lontano da Firenze
per sei mesi. Tornato in patria ebbe varie altre missioni diplomatiche in Toscana,
delle quali le più importanti furono, nel giugno e nell’ottobre 1502, quelle presso il
Valentino, il quale, profittando della ribellione di Arezzo e della val di Chiana,
minacciava l’integrità del territorio fiorentino. Il Machiavelli fu mandato a Roma
dove direttamente poté osservare la fine della fortuna del Valentino e rendersi
conto degli umori del nuovo papa, al quale egli stesso indicò i pericoli
dell’espansione veneziana in Romagna. Dopo la disfatta francese al Garigliano fu
inviato una seconda volta in Francia, da dove ritornò nel marzo 1504. Altre
missioni dovette assolvere presso Giampaolo Baglioni signore di Perugia e a Siena
presso Pandolfo Petrucci.
Nel 1506 si dedicò con grande passione alla difficile questione del riordinamento delle milizie fiorentine,
e sulla fine dell’anno quando venne istituito l’ufficio dei Nove dell’ordinanza e della milizia ne fu
nominato cancelliere.
Alla fine del 1507 andò presso l’imperatore Massimiliano I, alla cui corte già si trovava in qualità di
ambasciatore di Firenze Francesco Vettori: soggiornò specialmente in Svizzera e Tirolo e dalle
osservazioni sui costumi tedeschi ricavò l’acuto Rapporto delle cose d’Alemagna, rielaborato poi nel
1512 nel Ritratto delle cose della Magna. Presso l’imperatore stette sino al giugno 1508. Nel 1509
presente alla resa di Pisa fu tra coloro che sottoscrissero l’atto di sottomissione; si recò poi a Mantova e a
Verona dopo la disfatta di Agnadello in legazione presso l’imperatore Massimiliano.
Frattanto, poiché la svolta della politica di Giulio II in senso antifrancese rendeva estremamente precaria
la posizione di Firenze, il Machiavelli partì per la Francia con incombenze diplomatiche assai delicate:
due furono allora le sue legazioni, la prima nel 1510 e la seconda nel 1511.
Il 16 settembre 1512 i partigiani dei Medici occuparono il palazzo della Signoria e la repubblica cadde. Il
Machiavelli fu naturalmente coinvolto nella reazione che seguì: non solo venne allontanato dai suoi uffici,
ma sospettato di complicità nella congiura di Pietro Paolo Boscoli nel febbraio 1513 fu per breve tempo
imprigionato. La sanzione ultima fu di lì a poco la condanna al confino: si ritirò allora nella sua casa
dell’Albergaccio a Sant’Andrea in Percussina presso San Casciano, occupandosi dell’amministrazione del
piccolo patrimonio familiare, ma intanto dalla corrispondenza con gli amici e specialmente con Francesco
Vettori cercava di avere notizie della vita politica, che restava pur sempre la sua passione, e soprattutto si
dedicò nel raccoglimento e nello studio a comporre le opere nelle quali il suo pensiero si spiega in sintesi
luminosa.
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Divenendo il confino progressivamente meno rigoroso il Machiavelli poté recarsi di tempo in tempo a
Firenze, dove frequentò anche le riunioni degli Orti Oricellari. Nel novembre 1520 venne stipendiato per
due anni per scrivere la storia di Firenze. L’anno seguente fu mandato a Carpi presso il capitolo generale
dei frati minori che Firenze voleva staccare dagli altri confratelli, e da quell’ufficio di scarso rilievo trasse
spunto un interessante carteggio col Guicciardini che si trovava allora a Modena. Tornato a Firenze il suo
maggiore impegno fu attendere a scrivere la storia "a fiorini di suggello", ma le vicende private di quegli
anni non ci sono in tutto note: certamente non subì persecuzioni per la congiura del 1522 contro il
cardinale Giulio de’ Medici, alla quale parteciparono alcuni dei frequentatori degli Orti Oricellari;
sappiamo che in quel periodo si colloca l’amore per una donna fiorentina, la Barbera, recatosi
espressamente a Roma nel maggio 1525, a Clemente VII, al quale, durante il soggiorno romano, il
Machiavelli propose anche di tentare in Romagna un arruolamento conforme a quello da lui sperimentato
con l’"Ordinanza della milizia". A tal fine fu mandato presso il Guicciardini, allora presidente della
Romagna, ma questi giudicò irrealizzabile il piano dell’amico. L’anno seguente nell’imminenza della
guerra tra la lega di Cognac e Carlo V ebbe finalmente una mansione politica importante: fu nominato
provveditore e cancelliere dei Procuratori delle mura, una magistratura che avrebbe dovuto provvedere
alla difesa di Firenze; e per ragioni del suo ufficio ebbe anche occasione di recarsi presso Giovanni dalle
Bande Nere. Ma la sconfitta della lega e gli errori di Clemente VII determinarono nel 1527 la cacciata dei
Medici da Firenze e la breve instaurazione della Repubblica. Invano sperò allora di avere un incarico nel
nuovo governo: per l’età avanzata e soprattutto per essersi compromesso con i Medici fu lasciato in
disparte e forse l’amarezza sofferta affrettò la sua fine: dopo breve malattia la morte lo colse il 21 giugno.
Nasce col Machiavelli il concetto della politica come scienza: un concetto tutto moderno, senza
precedenti nella storia del pensiero umano. Intuita la possibilità di garantire all’azione politica il rigore
con cui le scienze esatte – la matematica e fisica, ad esempio – sviluppano la loro ricerca sulla base di
leggi universali e assolute, Machiavelli ha indicato gli obblighi che la politica deve osservare per
assurgere a scienza. Quali sono questi obblighi?
– Il primo è quello dell’aderenza alla «verità effettuale», ossia alle situazioni quali sono in effetti e non
quali si vorrebbero che fossero, e insomma a «come si vive» e non a «come si dovrebbe vivere». Alla luce
di codesto realismo appariranno ingenue utopie le dottrine di quanti «si sono immaginati repubbliche e
principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero».
– Un altro obbligo è l’emancipazione dalla morale e dalla religione. La politica, pensa Machiavelli, non
sarà mai scienza, se continuerà a distinguere fra azioni buone e azioni cattive in base ai criteri dell’etica
cristiana. Ufficio della politica non è la santificazione delle anime, ma la ricerca spregiudicata di tutti i
mezzi che concorrono al fine immediato della utilità dei cittadini nelle compagine dello Stato; e ciò
significa che l’uomo politico deve agire in piena libertà rispetto alle norme della morale religiosa e non
deve farsi scrupolo di eluderle o infrangerle, quando il seguirle comporti ostacolo e danno al suo agire. Su
questo postulato dell’autonomia della prassi politica torneremo più avanti, illustrando le tesi del Principe;
qui osserviamo com’esso configuri nel pensiero machiavelliano un tratto di così spregiudicata modernità,
che non possono sorprendere le appassionate reazioni consenso e di dissenso con cui lo si è accolto nel
corso dei secoli.
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Alla fondazione della scienza politica Machiavelli non diede il senso di una disinteressata conquista
dell’intelligenza laica, ma quello di un’operazione necessaria al conseguimento di un fine concreto: la
costruzione dello Stato. Per lui lo Stato, repubblica o principato, era la suprema garanzia dell’ordine
civile, ed anzi la condizione stessa di quest’ordine, giacché solo nell’organismo statale, sotto l’imperio
della legge, gli uomini, che Machiavelli giudica, pessimisticamente, «ingrati», volubili, simulatori e
dissimulatori, fuggitori di pericoli, cupidi di guadagno» (Principe, cap. XVII) possono controllare il loro
feroce individualismo e dar luogo a quell’impegno comunitario che via via trasforma un «vulgo» in
nazione. Naturalistica è la concezione che Machiavelli ha dello Stato. Questo è per lui un organismo che,
come ogni altra creatura vivente, rientra nelle leggi della ciclità naturale: nasce, si sviluppa, deperisce,
muore. Perché il suo sviluppo sia pieno e gagliardo, e il suo declino cominci il più tardi possibile, occorre
che gli uomini di governo eserciti, tutto laico e virile, del coraggio, dell’intraprendenza, della saggezza e
della sagacia. Virtù politica, dunque: necessaria allo Stato come le virtù cardinali e teologali sono
necessarie alla religione. È per essa che, come insegna la storia, le nazioni crescono in prestigio e in
potenza, e la cieca fortuna ha potere soltanto sulla metà delle azioni umane.
Sappiamo che Machiavelli distinse nettamente la morale politica da quella religiosa; ma ciò non significa
che gli sfuggisse l’importanza sociale della religione in quanto elemento di coesione e stimolo al
miglioramento dei costumi nell’ambito della comunità statale. Egli sapeva benissimo come il governo di
un popolo osservante dei precetti della fede fosse infinitamente più agevole che quello di un popolo tratto
dalla miscredenza alla «corruttela». Come si vede, la religione è apprezzata da Machiavelli solo in quanto
giovi alla salute dello Stato e non contrasti coi fini terreni cui tende l’azione di governo. Identificato lo
Stato con la più alta delle costruzioni morali dell’uomo, Machiavelli sfiorò quella che in termini moderni
chiamiamo «statolatria». Il principe da lui disegnato nel suo scritto più celebre ha tutta l’aria di un
sacerdote e di un martire.
Quanto le sue opere letterarie si iscrivono in linea con la visione globalizzante che gli umanisti avevano
della cultura. Si deve dire che il Machiavelli poeta non configura una personalità di grande rilievo. Assai
più felice risulta la sua produzione letteraria in prosa, che si illustra di un brioso racconto, Belphagor
arcidiavolo, e di una commedia da assumre fra i capolavori del teatro italiano: la Mandragola.
Scritta, fra il 1518 e il 1520, nel rifugio del «Albergaccio», questa commedia è senza dubbio la prova più
alta del teatro rinascimentale italiano. La sua trama, articolata con sapiente alacratità ideativa in cinque
atti, è la seguente:
Callimaco, giovine borghese fiorentino, si è invaghito della bella e virtuosa Lucrezia, mal maritata al
vecchio messer Nicia Calducci; e quando aprende che costui smania dalla voglia di aver figli, ordisce, con
l’aiuto del parassita Ligurio, un piano che gli permetta di godere le grazie di quella donna. Fintosi
medico, fa credere a Nicia d’aver scoperto in una posizione d’erba mandragola la terapia della sterilità
femminile. Quel beveraggio è infailibile, ma espone a rischio di morte, per avvelenamento, chi per primo
si unisca alla donna che ne abbia fatto uso. Il candido Nicia è perplesso: l’idea che Lucrezia sperimenti la
virtù del farmaco lo entusiasma, ma non vuol mettere a repentaglio la propria vita. Callimaco, che ha
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previsto la sua reazione, lo assicura prospettandogli la possibilità di votare al sacrificio un «garzonaccio»
del luogo, da rapire e da introdurre, di notte, nella camera di Lucrezia. Quando anche costei, in un primo
tempo riluttante, si lascia persuadere alla prova dalle preghiere della madre Sostrata e dai consigli
interessati del suo confessore, Fra’ Timoteo, il meccanismo della beffa è completo. Callimaco, travestito
da «garzonaccio» viene portato nella camera di Lucrezia, e, rimasto solo con lei, rivela la propria identità
ed implora il perdono e l’amore. Ottiene l’uno e l’altro, perché Lucrezia, maturata dall’esperienza alla
convinzione che il mondo è in potere dell’astuzia, decide di farsi astuta anche lei e sta al gioco,,
sostituendo ala virtù cristiana la «virtù» machiavellica. Nicia avrà il sospirato erede; Callimaco seguiterà
ad essere l’amante di Luicrezia; e su tutti scenderà la benedizione di Fra’ Timoteo…
Francesco Guicciardini (1483 – 1540)
Di antica e nobile famiglia fiorentina, dopo gli studi di diritto in patria, a Ferrara, Padova e Pisa, e
l’esercizio fortunato dell’avvocatura, si avviò alla carriera diplomatica. Nel 1512 era ambasciatore in
Spagna, né perdette il suo posto per la caduta della repubblica e il ritorno dei Medici; anzi, rientrato in
patria (gennaio 1514), ebbe da Leone X nel 1516 la nomina a governatore di Modena, cui s’aggiunsero
successivamente il governatorato di Reggio e Parma, e importanti funzioni militari quando si accese la
guerra tra Francesco I e Carlo V in Lombardia (1521). Con l’elezione di Clemente VII al soglio pontificio
fu nominato presidente della Romagna, carica che tenne dal maggio 1524 al gennaio 1526; quindi fu
l’anima della nuova alleanza del papa con la Francia, e nominato nel giugno 1526 luogotenente pontificio
partì per la guerra contro Carlo V, il cui potere egli considerava esiziale alla libertà italiana.
Disgraziatamente gli eventi precipitarono sino al sacco di Roma (1527) e alla cacciata dei Medici da
Firenze.
Il Guicciardini tornò in patria, ma quando vi prevalse il partito degli arrabbiati, minacciato della confisca
dei beni e d’arresto riparò presso il papa. Solo con la capitolazione di Firenze (agosto 1530) poté
ristabilirsi nella sua città e vi tenne alte funzioni politiche, ma poiché era tra coloro che miravano a
limitare l’assolutismo mediceo, incontrò l’ostilità di Clemente VII, sicché, mentre si attendeva di nuovo la
presidenza della Romagna ottenne soltanto l’incarico di vicelegato a Bologna (1531-1534). Nel 1535
ebbe ancora una parte notevole nella politica fiorentina, difendendo a Napoli i diritti del duca Alessandro
e l’indipendenza di Firenze contro le richieste dei fuorusciti che s’erano appellati all’imperatore Carlo V.
Dopo l’uccisione del duca Alessandro favorì l’elezione del diciassettenne Cosimo, ma presto cadde in
disgrazia come capo del partito antimperiale; perciò appena cinquantaquattrenne dovette rinunziare alla
politica attiva e si ritirò nella sua villa di Santa Margherita in Montici, presso Arcetri, dove trascorse in
solitudine gli ultimi tre anni di vita.
Decisamente l'opera sua maggiore è la "Storia d'Italia", in venti libri, composta nel ritiro di Arcetri dal
1537 al 1540, e pubblicata integralmente soltanto nel XIX sec., primo esempio di storiografia italiana che
si interessi di tutta la penisola e non già di una sola città. In quest’opera, il cui stile è composto ma non
artefatto, il Guicciardini dà alta prova della sua capacità di osservatore acuto e spregiudicato, la misura
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del suo intelletto capace di dominare, senza le forzature del teorico Machiavelli, un vasto quadro di
vicende e un mondo di personaggi, che egli non descrive retoricamente dall’esterno, ma interpreta nei
segreti moventi psicologici.
Espone criticamente i fatti salienti che vanno dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) alla morte di
Clemente VII (1534): le invasioni francesi di Carlo VIII e di Luigi XII, le guerre tra Francesco I e Carlo
V, la Lega Italica del 1495, la Lega di Cambrai contro Venezia, la Lega Santa contro i Francesi e la Lega
di Cognac contro Carlo V. L'indagine storica è condotta con rigore ed acume su documenti ufficiali e
l'esposizione è fatta in una elegante prosa classicheggiante. Particolarmente pregevoli sono le pagine in
cui con brevi ma incisivi tratti descrive le personalità dei protagonisti di quei fatti: Carlo VIII, Luigi XII,
Francesco I , Carlo V è Ludovico il Moro, Girolamo Savonarola, Alessandro VI, Cesare Borgia, Giulio II,
Leone X, Clemente VII.
Il suo pensiero politico è pero espresso nei "Ricordi politici e civili" (403 pensieri scritti in varie
occasioni, contenenti il succo della propria esperienza politica e civile e destinati pertanto ai propri
"nipoti" e non già alla pubblicazione: furono infatti scoperti e pubblicati solo nel 1857) e nelle
"Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli" (39 osservazioni con cui respinge le conclusioni cui è
pervenuto l'amico Machiavelli nei suoi ragionamenti sulla politica; l'opera fu scritta tra il 1528 e il 1529.
Anche il Guicciardini, come il Machiavelli, crede che l'uomo sia un fenomeno della natura soggetto a
leggi fisse ed immutabili, ma, a differenza del grande amico, ritiene che l'uomo sia naturalmente portato
più al bene che al male e se fa nella realtà più spesso il male che il bene, ciò è dovuto al fatto che le
tentazioni sono tante e la coscienza umana debole, ma ancora di più al fatto che proprio facendo il male
l'uomo riesce più facilmente e più spesso a realizzare il proprio tornaconto. Questo tornaconto personale,
che il Guicciardini chiama "particulare", è in effetti la molla che fa scattare tutte le azioni umane: esso il
più delle volte corrisponde al benessere materiale, al potere, ma può anche nobilitarsi corrispondendo
all'interesse dello Stato, alla gloria, alla fama. Per realizzare il "particulare", sia in senso politico che in
senso domestico, non è possibile rifarsi alla storia e trarre insegnamenti da fatti già accaduti per risolvere i
fatti del presente, perché nella storia i fatti non si ripetono mai: anche quando una circostanza presente
sembra riflettere un episodio della storia passata, in effetti la situazione attuale è ben diversa, diversi
essendo gli uomini che si trovano ad affrontarla. Quindi non c'è da sperare in una scienza della politica,
ma contare esclusivamente sulla propria "discrezione", cioè una qualità innata nell'uomo, ma che solo
pochi posseggono in misura rilevante, che fornisce la capacità di intuire di volta in volta la scelta da
operare, la strada da percorrere, per realizzare il proprio vantaggio e difendersi dai pericoli della vita. Però
se la storia non può darci leggi universali di comportamento, la nostra esperienza personale può bene
affinare in noi la "discrezione". E l'uomo deve attenersi esclusivamente al suo rapporto contingente con la
realtà, perché è vana e semplice esercitazione mentale il volersi interessare di cose soprannaturali ed
invisibili. E nel rispetto di questa considerazione, egli condivide col Machiavelli la necessità di badare
solo alla "verità effettuale", ma della situazione italiana contemporanea dà una valutazione diversa: per luì
non è possibile fare dell'Italia di quel tempo uno stato unitario, e propende invece per una confederazione
di piccoli stati, possibilmente retti a repubblica ma governati comunque da "savi". Egli è contrario al
potere temporale dei papi (anche se li servì per proprio tornaconto) e condivide col Machiavelli il
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desiderio di vedere l'Italia liberata dagli stranieri.
Significativo a tal riguardo è il seguente pensiero del Guicciardini: "Tre cose desidero vedere innanzi
della mia morte; ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica
bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti e barbari; e liberato il mondo della tirannide di
questi preti".
Per entrambi intellettuali, Machiavelli e Giucciardini, l'uomo è un "fenomeno" della Natura soggetto a
leggi fisse e immutabili, ma per Machiavelli esso è spregevole e soprattutto egoista, mentre per
Giucciardini l'uomo è naturalmente portato a fare il bene, anche se più spesso fa il male perché le
tentazioni della vita sono tante, la coscienza è debole e soprattutto perché il più delle volte facendo il bene
si va contro i propri interessi e facendo il male si realizza un utile. Machiavelli però ammette che l'uomo,
nella vita sociale, può comportarsi meglio di quanto consenta la sua natura se la forza della legge lo
costringe a posporre il proprio interesse a quello generale dello Stato; Guicciardini invece, da questo
punto di vista, è piuttosto pessimista.
Per Macchiavelli dalla storia si possono ricavare insegnamenti utili per determinare i comportamenti da
usare in politica, mentre Guicciardini afferma che ciò non è possibile perché i fatti storici sono irripetibili:
anche quelli contemporanei che apparentemente hanno spiccate analogie con fatti antichi, sono in realtà
profondamente diversi perché avvengono in condizioni mutate e con persone diverse.
are).
Torquato Tasso
Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544 dal poeta Bernardo e dalla nobildonna Pistoiese Porzia de'
Rossi. Quando il padre seguì nell'esilio il suo signore, il principe di Salerno Ferrante Sanseverino, portò
con sé Torquato in un lungo peregrinare di città in città e il giovinetto sentì molto il distacco dalla madre,
che non poté più riabbracciare perché la donna mori di stenti a Napoli, ere era tenuta quasi prigioniera dai
fratelli che la spogliarono di tutti i suoi beni. Studiò nelle università di Padova e di Bologna (da dove fu
espulso per aver scritto una satira contro gli studenti ed i professori). Fu assunto al servizio del cardinale
Luigi d'Este e poi del di lui fratello Alfonso II, vivendo alla corte ferrarese gli anni più belli della sua
vita,onorato e benvoluto da tutti, soprattutto dalle principesse Lucrezia ed Eleonora. Sono di questi anni
(1572-1575) i suoi capolavori, l' "Aminta" e la "Gerusalemme Liberata". Intanto, preso da scrupoli
religiosi e letterari, sottopose la "Gerusalemme" al vaglio di critici famosi (che riscontrarono nel poema
rari difetti, amareggiando il Poeta che non condivideva i loro giudizio ed auto denunciandosi al Tribunale
dell'Inquisizione, che lo assolse da ogni accusa.
Da allora alternò momenti di serenità e lucidità a momenti di vera e propria follia, finché il duca Alfonso
fu costretto a farlo rinchiudere nell'ospedale di
S. Anna, ove rimase per ben sette anni. Liberato per
intercessione del principe Vincenzo Gonzaga, fu condotto a Mantova, ma dopo un anno, insofferente
come sempre, iniziò una lunga peregrinazione in varie città, finché si ritirò a Roma, ormai stanco e
ammalato.
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Qui il papa gli conferì l'onore della corona poetica, ma la cerimonia dell'incoronazione sul Campidoglio
non poté effettuarsi per le aggravate condizioni di salute del Poeta. Il 25 aprile del 1595, a soli 51 anni, il
Poeta morì nel monastero di Sant'Onofrio sul Gianicolo.
Le "Rime", circa 2000, sono di vario metro e di varia ispirarione. Molte di esse sono dedicate a due donne
da lui amate, Lucrezia Bendidio di Padova e Laura Peperara di Mantova, o alle principesse di casa d'Este,
e rappresentano l'arte migliore del canzoniere. Altre sono encomiastiche o di argomento religioso.
Il "Torrismondo" è una tragedia si stampo classico che si rifà per l'argomento all' "Edipo re" di Sofocle e
per lo stile alle tragedie di Seneca (gusto, dell'orrore). Il Re Torrismondo, in cinque atti e in versi, portata
a compimento nel 1587 a Mantova. Vi è ripresa la materia dell'incompiuta tragedia Galealto, re di
Norvegia, cui il poeta aveva dato mano al tempo della composizione della Gerusalemme liberata. Non
senza scoperte reminiscenze dell'Edipo re di Sofocle e ispirandosi per la descrizione del paesaggio e dei
costumi nordici all'opera di Olaus Magnus «Historia de gentibus septentrionalibus», tradotta dal latino in
italiano nel 1565, il poeta vi tratta dell'incesto che inconsapevolmente Torrismondo, re della Gotia,
compie con sua sorella Alvida, creduta figlia del re di Norvegia, e della tragica fine dei due giovani.
Divenuto amante di Alvida, sposa promessa del re di Svezia Germondo. Torrismondo però scopre che
Alvida è sua sorella e cerca di convincerla ad accettare le nozze con Germondo, ma la donna crede ad un
inganno dell'amante che vorrebbe liberarsi di lei e si uccide. Sul suo cadavere si uccide anche
Torrismondo, ossessionato dal rimorso.
Opera macchinosa e più eloquente che poetica, il Torrismondo trova accenti di commozione lirica in
alcuni momenti in cui é cantata l'infelicità del destino umano.
Negli ultimi anni di vita il Tasso si dedico alla composizione di poemetti di argomento sacro, quali il
"Monte Oliveto", "Le lacrime di Maria Vergine", "Le lacrime di Cristo" e il "Fondo creato", nel quale, ad
imitazione di Dante e di Lucrezio, svolge il racconto biblico della creazione.
I "Dialoghi" sono 27 discorsi di varia filosofia e letteratura scritti fra il 1578 ed il 1595.
"La Gerusalemme conquistata", rifacimento della Gerusalemme liberata cui il Tasso attese negli ultimi
anni della sua vita per dare il poema che fosse conforme alle idee estetiche esposte nei Discorsi del poema
eroico e ai suoi scrupoli religiosi. Venne pubblicata nel 1593. A parte alcuni sparsi acquisti di poesia, è
l'opera di un artista stanco, e la retorica vi prevale sulla poesia: vennero soppressi gli episodi di Olindo e
Sofronia, di Erminia fra i pastori, del viaggio alle Isole Fortunate, e il tono generale mutò sia per la
ricerca di eloquenza e sonorità nella versificazione, sia per l'ampliarsi delle parti encomiastiche, le
minuziose descrizioni dei fatti d'arme, le troppe notizie storiche e geografiche. In difesa del nuovo poema
il Tasso compose il lucido scritto critico Del giudizio sovra la sua Gerusalemme da lui medesimo
riformata.
Nei "Discorsi dell'arte poetica" (1567-1570) e nei "Discorsi del poema eroico"(1594), il poeta cerca di
conciliare le esigenze della tradizione classica, tanto cara ai letterati del Rinascimento (prima metà del
Cinquecento), con quelle della nuova spiritualità religiosa dell'età controriformistica (seconda metà del
Cinquecento).
Egli pertanto afferma che la poesia è imitazione della natura, non però in riferimento alla realtà oggettiva
("vero"), sì invece alla interpretazione ideale della realtà ("verisimile"). Quindi deve prendere spunto
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dalla storia, per dotarsi di una certa autorevolezza, ma deve anche cedere alle esigenze fantastiche del
poeta. Inoltre, specie nel genere del poema eroico, la poesia non può privarsi del "meraviglioso",del
"sovrannaturale'', elementi tipici dei poemi classici, ma deve sostituire alla mitologia antica, quella
pagana, la mitologia moderna, quella cristiana (insomma santi, angeli e demoni, in luogo delle divinità
pagane). Inoltre le tre unita aristoteliche di luogo di tempo e di persona vanno conciliate con le esigenze
di libertà dei poeti moderni: pertanto, se "uno" deve essere il personaggio centrale dell'opera (Goffredo,
per quanto riguarda la "Gerusalemme Liberata"), "una" l'azione principale (la liberazione di Gerusalemme
ad opera dei Crociati) ed "uno" il luogo (il campo di battaglia intorno alle mura della città santa), ciò non
toglie che da essi possano derivare innumerevoli episodi e personaggi tratti in situazioni, momenti e
luoghi diversi.
Aminta
E' un dramma pastorale diviso in cinque atti, con un prologo, alcuni cori e intermezzi, ed un epilogo. Fu
composto nel 1573 e rappresentato quello stesso anno nell'isoletta di Belvedere sul Po, durante una festa
di corte.
Il pastore Aminta ama, non corrisposto, Silvia. La fanciulla, catturata da un satiro e legata nuda ad un
albero, è liberata da Aminta, ma fugge via, per la vergogna, senza degnare neppure di uno sguardo il suo
salvatore. Aminta si dispera e medita il suicidio, che tenta di fatto quando viene a sapere che Silvia,
durante la fuga, è stata assalita e sbranata dai lupi: il suo mantello è stato, infatti, trovato insanguinato nel
bosco. IL dramma è però a lieto fine, in quanto Silvia è riuscita a salvarsi dai lupi abbandonando il velo
insanguinato e il tentativo di suicidio di Aminta non è riuscito Perché una siepe ha attutito la caduta di
Aminta gettatosi in un precipizio. Silvia, commossa per il gesto d'amore, si concede ad Aminta.
L'opera ha un tono piuttosto lirico che drammatico e fa l'elogio dell'età dell'oro, quando l'uomo viveva a
contatto con la natura, libero dagli impacci di una morale convenzionale creata dalla cosiddetta civiltà,
quando era "lecito ciò che piace" e non c'erano remore all'effusione di ,una sana sensualità. L' "Aminta"
esprime "una fondamentale aspirazione dell'anima e della poesia tassiana: l'abbandono al piacere, a una
voluttà obliosa, il vagheggiamento di un libero espandersi dell'anima e dei sensi, o meglio di una
sensualità trasfigurata in dolcezza, in pura, immediata gioia vitale senza più la coscienza del limite e del
peccato" (Pazzaglia). E si inquadra benissimo nel clima della vita vagheggiata alla corte estense, alcune
personalità della quale è forse possibile intravedere nei personaggi dell'opera.
Gerusalemme Liberata
Nel 1558 Torquato Tasso aveva appena compiuto quattordici anni e si trovava col padre ad Urbino,
quando gli giunse la notizia che una scorreria di pirati saraceni aveva toccato le coste della Campania e
messo a ferro e fuoco la natìa Sorrento. La sorella Cornelia, che viveva assistita dai parenti dopo la morte
della madre, avvenuta due anni prima, era riuscita a salvarsi a stento.
La notizia turbò l’animo dell’adolescente, generando in lui, forse per la prima volta, un sentimento
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misto di timore e di sdegno nei confronti del mondo islamico. Erano quelli, del resto, anni carichi di
tensioni per l’Europa: i Turchi minacciavano l’Occidente cristiano; la Chiesa di Roma, che proprio in
quel periodo era impegnata a fronteggiare la Riforma protestante e avvertiva con crescente
preoccupazione il pericolo di una perdita irreparabile di credito e di prestigio all’interno del mondo
cristiano, guardava con apprensione ad Oriente, giudicando tutt’altro che remota l’eventualità di
un’invasione musulmana dell’Europa.
Sull’onda dell’emozione suscitata in lui da questi avvenimenti, Torquato si interessò alla storia dei
rapporti tra Cristianità e Islam, approfondendo in particolare lo studio delle crociate. Era ancora vivo in
lui il ricordo della visita fatta da fanciullo al monastero di Cava dei Tirreni dove era custodito il sepolcro
di Urbano II, il papa che aveva bandito la prima crociata. La sua formazione letteraria, inoltre, gli aveva
già fatto conoscere le opere più illustri della tradizione canterina, dall’«Orlando Innamorato» del Boiardo
al «Furioso» dell’Ariosto, nelle quali i nemici da combattere erano appunto i Mori, sempre pericolosi e
temibili, anche se votati alla sconfitta nella fantasia degli autori. Soprattutto lo appassionò la Historia
Belli Sacri di Guglielmo di Tiro, cronaca medievale della prima crociata.
L’età dei Tasso apriva la lunga stagione della Controriforma, che si proponeva di orientare in senso
morale e religioso l’impegno degli intellettuali. Lo sforzo prodotto dalla Chiesa nella rigorosa difesa
dell’ortodossia cattolica contro le confessioni riformate non poteva non avere ripercussioni sulla cultura:
perché esso risultasse efficace era necessario il pieno controllo di ogni canale di diffusione della cultura e
di ogni mezzo idoneo ad orientare la sensibilità della gente e ad influenzarne le idee in ambito morale e
religioso. Di qui l’istituzione, o l’impiego più severo che in passato, di strumenti, quali il Tribunale
dell’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti, atti ad inquisire, censurare, reprimere qualsiasi manifesta o
anche solo sospetta deviazione dall’ortodossia. A farne le spese furono soprattutto il pensiero umanistico
e, conseguentemente, la produzione artistica e letteraria che a quel pensiero si richiamava: l’uno e l’altra,
infatti, essendo improntati ad una profonda fiducia nelle capacità dell’uomo, esaltavano ideali, valori e
comportamenti connessi ad una concezione antropocentrica ritenuta ormai incompatibile con il nuovo
orientamento. Questo dunque, sovrapponendosi all’ottica tutta laica e mondana del Rinascimento e spesso
entrando in conflitto con essa, stimolò atteggiamenti diversi: se alcuni scrittori fecero proprie le istanze
controriformistiche e impressero alle loro opere il marchio di una religiosità sincera, più numerosi furono
coloro che aderirono al nuovo indirizzo in maniera ipocrita e conformistica. In entrambi i casi venne a
disgregarsi a poco a poco quel sentimento di equilibrio e di sicurezza che aveva caratterizzato l’epoca
precedente; soprattutto venne meno quella condizione di libertà intellettuale che si era dimostrata terreno
fertile per la grande fioritura dell’arte rinascimentale.
Quanto al dibattito sulla questione estetica, fattosi particolarmente acceso verso la metà del secolo
nei circoli letterari e nelle accademie, ci si rifaceva molto più rigorosamente che in passato all’autorità,
considerata indiscutibile, dei classici, di Platone, Aristotele e Orazio su tutti.
Platone sostiene l’origine irrazionale dell’ispirazione poetica: il poeta non è che un tramite tra Dio e
gli uomini, giacchè, quando egli compone, è in realtà il dio che, sostituendosi alla sua mente, gli detta i
versi.
Aristotele, nella sua Poetica, attribuisce alla tragedia tre funzioni fondamentali: quella edonistica,
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mirante cioè al diletto dello spettatore; quella euristico-didascalica, per la quale il fruitore dell’opera
doveva essere istruito sulla natura e sui meccanismi di funzionamento di sentimenti e passioni; quella
morale, infine, rispondente allo scopo di indirizzare il pubblico ad una condotta virtuosa.
Orazio, infine, riprendendo nell’Ars poetica le teorie dello Stagirita, individua l’essenza dell’arte
poetica nel miscere utile dulci, ovvero in un giusto contemperamento della funzione pedagogica (docere)
e di quella edonistica (delectare).
Il trentennio che seguì la morte dell’Ariosto (1533) e precedette la pubblicazione dell’Amadigi fu
caratterizzato da un intensificarsi del dibattito sui problemi estetici, con esiti che dovevano influire in
modo determinante sulle scelte del Tasso. Nel 1536 fu pubblicata la Poetica di Aristotele nella traduzione
latina di Alessandro de’ Pazzi. Il testo fu ben presto considerato un riferimento obbligato per qualsiasi
studio di poetica e alimentò di fatto una copiosa produzione: nel 1548 uscirono le Explicationes de arte
poetica in librum Aristotelis di Francesco Robortello, il quale estendeva anche ad altri generi, in primo
luogo all’epica, i canoni che riguardavano la tragedia; inoltre definiva compiutamente il principio di
imitazione e le funzioni edonistica e catartica che Aristotele aveva attribuito alla poesia; nel 1550
Vincenzo Maggi pubblicò le In Aristotelis librum "De poetica" explicationes, il primo e più autorevole
testo nel quale si fissava in modo rigido la norma delle cosiddette tre unità aristoteliche di luogo, tempo e
azione. Meritano appena un cenno i saggi, tutti della seconda metà del Cinquecento, di Piero Vettori,
Giovanni Antonio Viperano e Leonardo Salviati, nei quali si discute in particolare del rapporto tra le due
funzioni fondamentali della poesia, la pedagogica e l’edonistica, con la conclusione, quasi unanime, che
la ricerca del dilettevole, come mezzo per suscitare l’interesse del lettore, va subordinata all’esigenza di
trasmettere un insegnamento che educhi al culto dei valori morali.
Nel tempo della maturità del Tasso vennero dati alle stampe i lavori del trentino Giulio Cesare
Scaligero e del modenese Ludovico Castelvetro. Il primo, nei Poetices libri septem (pubblicati postumi
nel 1561) interpreta in senso rigorosamente moralistico il testo aristotelico; il secondo è autore di una
Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta, pubblicata nel 1570, nella quale, privilegiando la dimensione
del piacevole, definisce la dottrina del verosimile, sulla quale, in quegli stessi anni, il Tasso fonda la sua
poetica. Nel verosimile, sostiene il Castelvetro, si realizza il principio classico dell’ imitazione poetica
della natura. La poesia deve distinguersi sia dalla storia, che ha per oggetto la realtà documentata, sia
dalla filosofia, che ha compiti speculativi; essa può e deve avvalersi del meraviglioso (una delle
componenti d’obbligo del poema epico nell’età umanistico-rinascimentale), prodotto dalla facoltà
immaginativa del poeta, e mira innanzitutto al diletto del pubblico.
Non va dimenticata, infine, tra le voci più autorevoli in tema di poetica, quella del ferrarese Giovan
Battista Giraldi Cinzio. Nel Discorso intorno al comporre de’ romanzi (1554) egli fornì della regola
pseudoaristotelica dell’unità d’azione un’interpretazione che fu accolta con favore da molti scrittori:
persuaso della necessità di incentrare l’opera su un unico protagonista, secondo il modello dell’epica
classica, ma affascinato nel contempo dalle scelte del Boiardo e dell’Ariosto, che avevano introdotto nei
loro poemi diverse trame e più protagonisti, trovò un compromesso tra le due istanze, proponendo un solo
protagonista autore di più azioni.
Tra i primi poeti che vollero applicare le teorie del Cinzio ci fu il padre del Tasso. Inizialmente
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orientato a comporre il suo Amadigi seguendo il modello del Trissino, cambiò idea dopo aver conosciuto
le proposte poetiche del Cinzio. Ma la sua opera non ebbe miglior fortuna di quella del poeta vicentino.
L’esempio del padre e il desiderio di cimentarsi in un genere regolato da una normativa tanto elaborata
stimolarono di nuovo le ambizioni del Tasso, che nel giro di appena un anno riuscì a progettare, a
stendere e a dare alle stampe un poema in dodici canti di ottave, il Rinaldo, la cui pubblicazione a
Venezia nell’aprile del 1562 lo riempì d’orgoglio.
La «Gerusalemma liberata» è un poema epico composto da venti canti in ottave di endecasillabi. Ne è
argomento la fase finale della prima crociata, che si conclude con la conquista di Gerusalemme. Dopo lo
scontro decisivo tra le forze cristiane e l’esercito egiziano accorso a dar man forte agli assediati, la Città
Santa è presa d’assalto ed espugnata. L’ultima resistenza dei musulmani, asserragliati nella torre di David
col re Aladino e con Solimano, capo dei predoni arabi, è vinta e Goffredo entra da trionfatore nel tempio,
dove scioglie il voto davanti al Santo Sepolcro di Cristo.
Non è il caso di soffermarsi sulle numerose inesattezze storiche del racconto giacché, come si è chiarito
nei capitoli precedenti, al poeta è concessa una libertà che allo storico non è consentita: mentre
quest’ultimo è vincolato dalla fedeltà alle fonti, il primo può spaziare nel campo della finzione letteraria,
attenendosi unicamente al criterio del verosimile.
La materia è distribuita nei venti canti in modo disuguale (il numero medio di ottave per canto è vicino a
cento: il XV, che è il più breve, ne conta 66; il XX, il più lungo, 144) e, come ha acutamente rilevato il
critico Ezio Raimondi, è strutturata nel suo svolgimento secondo il modello della tragedia classicistica,
che prevede una divisione in cinque atti. Questa ripartizione, che costituisce un’ulteriore conferma
dell’avvicinamento dei generi epico e tragico nel secondo Cinquecento, non è esplicita – Tasso non ne fa
cenno - , ma si coglie con chiarezza e senza forzature ad un’attenta lettura del poema. Si propone qui di
seguito un compendio della trama per atti e per canti (per un’esposizione più particolareggiata si veda
l’appendice).
Atto I (canti I-III)
Gerusalemme
Dopo il proemio la scena si apre sull’accampamento cristiano, dove Goffredo viene eletto comandante
supremo dell’esercito [I], quindi si sposta all’interno della città di Gerusalemme. Qui si svolge il
drammatico episodio di Olindo e Sofronia: la donna, per evitare rappresaglie ai danni della comunità
cristiana, si è accusata del furto di un’icona della Vergine, che il re Aladino aveva fatto sottrarre al tempio
dei cristiani e collocare in una moschea; viene pertanto condannata al rogo. Olindo, segretamente
innamorato di lei, si autoaccusa nel tentativo di salvarla, ma invano. Interviene la vergine guerriera
Clorinda, che ottiene dal re la liberazione dei due giovani, promettendogli in cambio il proprio aiuto in
guerra [II]. L’esercito crociato giunge finalmente sotto le mura di Gerusalemme e si scontra subito con il
nemico; rifulge il valore di Argante e di Clorinda tra i pagani, di Tancredi e Rinaldo tra i cristiani [III].
Atto II (canti IV-VIII)
Cielo e inferno, amore e guerra
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La scena si apre sugli abissi infernali, dove le forze del male congiurano contro l’esercito cristiano. Il re
di Damasco, il mago Idraote, invia nel campo crociato la bellissima nipote Armida, la quale,
dichiarandosi perseguitata e bisognosa di protezione, getta lo scompiglio tra i guerrieri, molti dei quali
sono sedotti dal suo fascino e trascurano per lei i propri doveri [IV]. In un diverbio Rinaldo, il più
valoroso tra i cavalieri cristiani, uccide Gernando e si dà alla fuga [V]. Tancredi, che è innamorato di
Clorinda e amato dalla principessa saracena Erminia, viene ferito in duello da Argante. Erminia vorrebbe
raggiungerlo di nascosto nella sua tenda per curarlo, ma, scoperta e scambiata per Clorinda, è costretta ad
una fuga precipitosa [VI], che la porta nel mondo idillico dei pastori, dove soggiorna per qualche tempo
alla ricerca di un’impossibile serenità. Intanto la situazione volge al peggio per i cristiani: Tancredi con
altri valorosi guerrieri finisce prigioniero di Armida in un castello incantato e i demoni scatenano le forze
della natura contro il campo crociato [VII]; Sveno muore eroicamente ucciso da Solimano e Goffredo è
accusato di aver fatto uccidere Rinaldo, di cui vengono mostrate le armi e le vesti sporche di sangue, e
solo con l’aiuto del Cielo riesce a sedare una rivolta scoppiata all’interno dell’accampamento [VIII].
Atto III (canti IX-XII)
La sofferenza
Entrano direttamente in campo le forze infernali e quelle celesti: la furia Aletto con uno stuolo di diavoli
guida Solimano in un attacco al campo crociato, ma intervengono vittoriosamente l’arcangelo Michele e
cinquanta guerrieri sfuggiti alla prigionia di Armida grazie a Rinaldo [IX]. Solimano è salvato dal mago
Ismeno, che lo rende invisibile e lo trasporta nella reggia di Aladino, mentre Goffredo si fa raccontare dai
cinquanta cavalieri le loro vicissitudini e ha la conferma che Rinaldo è vivo [X]. Decide quindi di sferrare
un attacco alle mura di Gerusalemme, servendosi di una torre mobile che consenta di scalare le
fortificazioni, ma l’attacco viene respinto e i musulmani effettuano una sortita infliggendo danni e perdite
al nemico [XI]. Nella notte Clorinda, dopo aver incendiato con Argante la torre mobile, rimane chiusa
fuori e non riesce a rientrare nella città; viene così raggiunta da Tancredi, che non l’ha riconosciuta e la
sfida a duello. Ferita a morte, prima di spirare la vergine guerriera chiede e ottiene dal suo uccisore il
battesimo [XII].
Atto IV (canti XIII-XVII)
La riscossa
Invano i cristiani tentano di ricostruire la torre col legname della selva di Saron: il mago Ismeno ha
stregato la foresta, popolandola di fantasmi che impediscono a chiunque di avvicinarsi.
Contemporaneamente una terribile siccità si abbatte sul campo cristiano, gettandolo nello sconforto. La
provvidenziale caduta della pioggia segna la fine delle sofferenze e l’inizio della riscossa [XIII].
Goffredo, illuminato da un sogno, decide di perdonare Rinaldo e invia sulle sue tracce Carlo e Ubaldo
[XIV]. Grazie alle informazioni del mago di Ascalona i due guerrieri, dopo un viaggio irto di pericoli
[XV], giungono nel meraviglioso giardino di Armida, dove trovano Rinaldo accecato dalla passione e
completamente soggiogato dalla maga. L’eroe, richiamato ai suoi doveri, abbandona Armida, che tenta
disperatamente di trattenerlo dichiarandogli il suo amore [XVI], e ritorna al campo, dopo aver ottenuto
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una nuova armatura dal mago di Ascalona. Nel frattempo le truppe egiziane sono accorse in aiuto degli
assediati. L'atto si chiude con la visione delle future glorie della casata d’Este, di cui sarà capostipite
Rinaldo [XVII].
Atto V (canti XVIII-XX)
Il trionfo
Pentito e riaccolto nell’esercito come un salvatore predestinato dal Cielo, Rinaldo si
confessa a Pietro l’Eremita, che lo invita a compiere un’ascensione solitaria sul monte
Oliveto per purificarsi delle sue colpe. Riacquistata la Grazia di Dio, l’eroe spezza
l’incantesimo della selva di Saron, permettendo ai cristiani di ricostruire la torre
d’assedio. I crociati vincono la battaglia decisiva, espugnano le mura e dilagano nella
Città Santa [XVIII]. L’ultimo grande oppositore, Argante, è ucciso in duello da
Tancredi, che rimane ferito e viene amorevolmente assistito da Erminia, mentre
Solimano e Aladino si rifugiano nella torre di David [XIX]. Nello scontro finale contro
gli Egiziani rifulge il valore di Rinaldo, col quale si ricongiunge Armida, fattasi
cristiana. Le ultime resistenze sono vinte: morti Solimano, Aladino e tutti i campioni
pagani, Goffredo entra da liberatore nel tempio del Santo Sepolcro e scioglie il voto
[XX]
L’ispirazione della Liberata si nutre anche di un sincero sentimento della vita religiosa e
morale. La religiosità tassesca è assai più complessa che non sembri a chi la rinchiude
negli schemi della Controriforma, per poi negarle ogni fecondità poetica. Essa è la
religiosità tormentata (e dunque non formalistica) di un uomo che non riesce a staccarsi
dalla lusinghe mondane, ma pure aspira al riposo nel Divino; che avverte le suggestioni
dell’edonismo rinascimentale, ma non sa abbandonarsi senza tristezza e rimorsi; che
s’apre ancora ai voluttuosi richiami della bellezza sensibile, ma dietro ad essa
percepisce il senso della vanità e l’ombra della morte. Chi nega alla Liberata il respiro
della poesia religiosa ama sottolineare il timbro tutto esterno ed enfatico dei versi in cui
il Tasso descrive le cerimonie del culto cattolico (messe, processioni, battesimi,
confessioni, comunioni), denuncia l’aridità e la gonfiezza della preghiera di Goffredo a
propiziare la pioggia, trova «raggelata nel cliché dell’iconografia del tempo» la
figurazione, nel primo canto, del Padre Eterno e quelle degli angeli e dei demoni in giro
per il poema.
Quanto al sentimento morale della vita, non v’è chi non avverta la presenza sia nel
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clima generale della crociata, concepita come ineluttabile dovere, imperativo della
coscienza cristiana, sia nell’intimo dei personaggi, dove spesso s’afferma dopo
perplessità e contrasti che ben riflettono la tormentata psicologia tassesca. Il problema è
di vedere se da quel sentimento nasca «struttura» o poesia. Ebbene, per noi la moralità
diffusa nella Liberata è troppo viva e sofferta perché la si possa liquidare come
omaggio esteriore allo spirito del tempo: senza di essa, donde nascerebbe la struggente
malinconia che soffonde tutto il poema e gli assicura la sua unità psicologica e
musicale? E non deriva da essa quel rilievo di pathos per cui i personaggi della Liberata
stanno ai personaggi del Furioso come le figure scolpite a quelle dipinte? Provate a
togliere a Rinaldo il sentimento della responsabilità etica, ossia a lasciarlo nel giardino
di Armida, a avrete fatto di lui un banale erotomane; e se la stessa operazione tentaste
per Goffredo, vi toccherebbe poi dar ragione a chi lo giudica freddo ed astratto. Il
palpito della vita morale concorre alla poeticità di Tancredi, di Clorinda, di Sofronia, di
Olinda, ma anche di Solimano e di Argante, che sanno inevitabile il crollo del regno di
Giuda, a pure continuano a battersi per compiere sino in fondo il loro dovere; e in
questa lotta senza speranze colorano di umana malinconia il loro titanismo barbarico.
La sentimentalità del Tasso pervade anche la natura, animandola d’una vita interiore che
sottolinea e spesso dilata in cosmico respiro quella dei personaggi e s’accorda al variare
delle situazioni. Il paesaggio come stato d’animo è già in Petrarca; ma il Tasso svolge
con più franco abbandono, emotivo e maggior coerenza fantastica l’intuizione
petrarchesca, e come poeta della natura starebbe a suo agio nell’Ottocento romantico. Il
paesaggio della Liberata non ignora la solarità, a conosce anche le luci tenere e fresche
dell’alba, ma in prevalenza è notturno, giacché la notte meglio s’intona allo spirito
malinconico e sognante del poeta e delle sue creature. Potremmo addurre molti esempi
di «notturni» tasseschi, che sono tra i momenti più intimi e fiscalmente incantati del
poema.
Tra i freghi che il poema intese al vero hanno particolare spicco gli episodi d’amore, che
attestano la natura lirica e patetica della più alta ispirazione tassesca. Nella Liberata
l’amore non è, come nel Furioso, una gioiosa e superficiale avventura dei sensi, né
somiglia granché a quello contato nella parentesi tutta naturalistica dell’Aminta: è un
sentimento intimo e segreto, che score le radici dell’essere come una forza oscura e
fatale, la quale trae e vagheggiamenti voluttuosi e a fantasie languide e dolci, ma anche
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a presagi funesti in un clima di suspense, e nel suo chiuso ardore non dà gioia, bensì
tristezza e un senso di sconfitta e di solitudine. Tale è l’amore in Olindo, prima che una
drammatica circostanza gli consenta di sposare Sofronia; tale è in Erminia, che ama
invano Tancredi; tale è in Tancredi che ama invano la pagana Clorinda; tale è in
Armida, quando, non più maga ma donna, patisce l’abbandono di Rinaldo.
Amore come pathos, dunque: condanna piuttosto che grazia; tumulto che scopre
all’amante il male di vivere o, per dirla con lo stesso poeta, «l’alta tragedia dell’umano
stato». Se in tutto il poema scorre una vena autobiografica, va detto che nella resa del
motivo d’amore l’autobiografismo del Tasso s’esprime con particolare abbandono. Ai
suoi vinti d’amore il poeta guarda non già con l’occhio della sorridente ironia ariostesca,
ma con quello dell’umana, accorata adesione; e in essi compassione se stesso:
l’immagine della propria solitudine e della propria malinconia.
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO:
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Cinquecento, il Seicento e i
Settecento dal rinascimento all’illuminismo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1992. pp. 3139; 81-85; 115-147; 147-173; 227-265.
Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 2. Cinquecento, Seicento,
Settecento. Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.31-45, 49-67; 165-189.
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode»,
s.a. Si veda pp. 202-214; 214-227; 227-233; 263-281.
DOMANDE-ARGOMENTO:
1. Il contributo fondamentale di Pietro Bembo nella storia della lingua italiana.
2. Descrivere in breve il pensiero politico di Machiavelli in base alla lettura del suo «Principe».
3. Quale sono le idee cardinali delle pagine documentariste di Guicciardini?
4. Tracciare il profilo artistico di Lodovico Ariosto.
5. Descrivere la struttura e la novità poetica del poema cavalleresco ariostesco.
6. Descrivere la struttura e la poetica del Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
7. Enumerare le altre opere letterarie di Tasso e la loro impostazione nel campo della letteratura italiana
del Cinquecento.
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BIBLIOGRAFIA GENERALE
Bellini, Giovanna, Mazzoni, Letteratura italiana. Storia, forme, testi. / 2 / . Roma/Bari,
Laterza, 1991.
Filipelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni Il Tripode, s.a.
Getto, G. Antologia e storia della letteratura italiana. La Scuola, 1995.
Gibellini, Pietro, Oliva, Gianni, Tesio, Giovanni. Lo spazio letterario. Antlogia della letteratura italiana. / 2 / .
Brescia, La Scuola, 1992.
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Marchese, Riccardo. Letteratura e realtà. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro della
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Pazzaglia, Mario. Letteratura italiana: testi e critica con lineamenti di storia letteraria. / 1 /. Bologna,
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Zanobini, Franco. Il presente della memoria. Storia e antologia della letteratura italiana. /2-3 /. Firenze,
Editore Bulgarini, 1990.
48
UNIVERSITATEA DIN CRAIOVA
FACULTATEA DE LITERE
SPECIALIZAREA: LITERATURĂ ITALIANĂ
ÎNVĂŢĂMÂNT LA DISTANŢĂ
Anul universitar: 2006-2007
Disciplina: Literatura italiană
Anul II, sem. I,II
Titularul cursului: conf. univ. dr. George Popescu
DAL BAROCCO AL POSITIVISMO
La civiltà barocca
Il barocco (Origine e la terminologia; genesi e motivazioni morali del Barocco; il linguaggio
GIAN BATTISTA MARINO
TOMMASO CAMPANELLA
GIAN BATTISTA VICO
CARLO GOLDONI
VITTORIO ALFIERI
PREROMANTICISMO
ROMANTICISMO EUROPEO
Romanticismo italiano
Significato e storia del termine "Romantico"
Caratteri generali del Romanticismo europeo
Equivoci e problemi critici del Romanticismo
Il superamento della filosofia materialistica in Foscolo, Manzoni e Leopardi
UGO FOSCOLO
GIACOMO LEOPARDI
ALESSANDRO MANZONI
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L’ETÀ MODERNA
La problematica della definizione del moderno
La datazione
Il contenuto: l’impostazione filosofica, l’impostazione ideologica, il punto di vista estetico
La nuova unità culturale costruita nell’epoca barocca prosegue solo parzialmente nell’età dell’Illuminismo, il
quale accomuna sì in uno sforzo di rinnovamento l’intera Europa, ma assume caratteri profondamente
differenti nelle varie nazioni. In Francia, si tratta di un illuminismo che tende alla critica sociale e alla
sistemazione di un nuovo sapere, sia facendo ricorso ad una ragione di tipo scettico (Voltaire), sia invocando
un ritorno alla natura e al sentimento (Jean-Jackques Rousseau). In Gran Bretagna, la linea dominante è
quella empiristica, diretta sia nel campo morale (Shaftesbury e Jeremy Bentham), sia in quello conoscitivo
(David Hume). In Germania, infine, l’illuminismo assume un carattere spiccatamente critico e sistematico.
Alla costruzione di un completo sistema razionalistico da parte di Christian Wolf si affianca la critica storica
e religiosa di Gotthold Ephraim Lessing e soprattutto l’impresa di Immanuel Kant. Egli presenta la sua
filosofia come interprete più adeguata dell’Illuminismo: una filosofia come liberazione da ogni vincolo
autoritario e scoperta nell’animo umano delle fonti della conoscenza e della moralità.
Le discussioni sulla filosofia di Kant sono in gran parte all’origine della breve e intensa stagione del
Romanticismo tedesco, in cui le tendenze culturali e artistiche del tempo vengono tradotte in raffinate e
complesse forme speculative. Johann Gottlieb Fichte sviluppa la filosofia critica di Kant in direzione
idealistica, concependo l’uomo, nella sua assoluta libertà e tensione verso l’infinito, come origine e senso di
tutta la realtà. Friedrich Schelling intende completare questo modello di filosofia «trascendentale»
affiancandovi una filosofia della natura che segua l’emergere dell’uomo a partire dalle forme di esistenza più
elementari. Infine Georg Wilhelm Hegel ritiene che lo iato tra filosofia trascendentale e filosofia della natura
possa essere colmata solo tramite una filosofia dello spirito che prenda in considerazione la realtà umana in
tutte le sue espressioni sociali, storiche, artistiche, religiose: la filosofia diventa così la perfetta
autocomprensione dell’uomo.
Quindi, quando parliamo della modernità e vogliamo di definirne le caratteristiche, dobbiamo volgere lo
sguardo al progetto illuminista, quale emerse nell’Ottocento. Tale progetto aveva come fine la conoscenza e
la trasformazione della realtà, attraverso la costruzione di una scienza obiettiva, di una morale e un diritto
universali ed autonomi, in vista dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita. Metro e strumento
di tale tensione progettuale è la ragione, organo di verità e strumento di progresso, “lume” rischiaratore delle
“tenebre”) da qui la metafora della “luce” così cara all’Illuminismo e comune alle lumières francesi, alla
Aufklärung tedesca, all’Enlightement inglese e ai Lumi italiani). La ragione assume così una doppia funzione,
critica e normativa: critica in quanto è di fronte al “tribunale della ragione” che si devono presentare
tradizioni, dogmi e filosofie affinché ne venga esaminata la legittimità, la fondatezza, l’utilità; normativa in
quanto è la stessa ragione che deve definire i criteri e le norme in base alle quali indirizzare la vita dell’uomo;
diminuire le sofferenze degli individui e raggiungere la maggior felicità possibile per il genere umano.
Prima articolazione di tale progetto è la lotta contro il pregiudizio, la superstizione, il fanatismo, contro tutte
quelle forze che hanno impedito il libero e critico uso della ragione: bersaglio la tradizione, l’autorità, il
potere politico, i privilegi, le religioni “positive” (ossia fissate in dogmi, in apparati), le metafisiche.
L’Illuminismo si presenta, allora, come movimento fortemente laico, antimetafisico ed antisistematico,
contrapponendo al sistema e all’ideale deduttivo della scienza cartesiana sempre un sapere unitario, ma
consistente nell’osservazione dei fatti e nella formulazione di principi generali continuamente verificati
dall’esperienza e dai mezzi propri di ciascuna disciplina.
La ragione illuministica vuole essere una ragione non astratta, ma una forza che penetra nell’esperienza e
funziona al suo interno; una forza che crede nella realizzazione dell’uomo mediante un sapere vero e utile.
Da ciò l’esaltazione della scienza e delle sue capacità di trasformazione della realtà.
Centro e soggetto di tale realtà è l’uomo, che con i suoi sforzi, i suoi errori ed i suoi successi diventa l’autore
o coautore dell’universo storico: non si ricercano più un Dio o una Provvidenza quali responsabili dell’ordine
degli eventi e la storia non è più considerata un processo necessario, assicurato metafisicamente nei suoi
presupposti ed esiti. La storia è, invece, un ordine problematico che può essere affrontato solo dalle energie
congiunte degli individui e dagli strumenti che la ragione e la scienza mettono a disposizione.
L’Illuminismo si fa portatore, quindi, di un atteggiamento di fiducia nei confronti della storia, vista come
processo graduale di incivilimento, di progresso e realizzazione dell’uomo. Atteggiamento, questo,
certamente ottimista che credeva nell’effettivo sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di
modi di pensiero che andassero verso la liberazione dall’irrazionalità del mito, dall’uso arbitrario del potere e
dal lato oscuro della stessa natura umana. Soltanto attraverso un tale progetto potevano rivelarsi e realizzarsi
le qualità universali, eterne e immutabili dell’umanità all’interno di un mondo in continuo cambiamento ed
espansione.
Giambattista Marino
Giambattista Marino nacque a Napoli nel 1569e morì a Napoli nel 1625.
L'opera letteraria di Marino è sterminata.
Le poesie minori sono quasi tutte comprese nelle raccolte: La lira (1608) che riprende gran
parte delle „Rime” edite nel 1602, oltre a tutta una serie di sonetti, madrigali, canzoni. La
Murtoleide è una raccolta di rime composte nel 1608-1609 contro Gaspare Murtola: furono
pubblicate per la prima volta nel c.1619, insieme alle „Marineide” dell'avversario. Gli
Epitalami (1616) sono componimenti di intonazione cortigiana. La galleri (La galeria,
1619) illustrazione in versi di pitture e sculture reali o immaginarie.
La sua opera principale e L'„Adone” che fu terminato e stampato a Paris nel 1623. Già pensato negli anni
romani, questo poema si dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un totale di
oltre 40 mila versi in ottave.
Il fanciullo Amore, punito dalla madre Venere, per vendicarsi la fa innamorare del
bellissimo Adone, che visita con la dea il Palazzo d'Amore. La descrizione di questo
palazzo, inframezzata dal racconto di varie favole (Amore e Psiche, Eco e Narciso,
Ganimede, Ila), l'elenco delle delizie del Giardino del Piacere, l'unione dei due amanti, un
excursus autobiografico sono l'argomento di molti cantanti successivi. Stravaganti
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avventure, provocate dalla gelosia di Marte e dalla maga Falsirena, separano i due amanti.
Venere fa eleggere Adone ritrovato re di Cipro. Mentre la dea è a Citera, Marte fa uccidere
Adone da un cinghiale. Venere celebra per l'amante esequie fastose, mutandone poi il
cuore in un fiore.
L'argomento è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone,
provocando l'ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una
lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la descrizione del giardino
del piacere, la gara tra il musico e l'usignolo, la tragedia di Atteone ecc., derivando spunti
dagli autori antichi: Ovidius, Apuleius, Claudianus.
Manca unità d'azione: ma proprio questa è la novità della tecnica mariniana. In essa si
mette in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si svolge per
successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza nesso logico, con l'appoggio
di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore, iperboli, antitesi, con effetti di 'pianissimo'
e di sonorità acuta. Il poema diventa così una 'fabbrica di meraviglie', volta a produrre
continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio nell'imprevedibile. Un
virtuosismo tecnico-stilistico che a un letture odierno risulta noioso; i momenti più
interessanti sono quelli in cui la sensualità di Marino diventa capacità di auscultare e
riprodurre voci insolite e segrete della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte
perfezioni di ritmo e gioco formale.
4) Il poeta di professione
Marino è un grande virtuoso della parola: fu ammirato in vita, disprezzato dalla critica del
XVIII e XIX secolo. Egli fu un professionista, un letterato che viveva della sua penna per
cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire con gli argomenti e con le
proprie capacità tecniche.
La mirabolante varietà metrica costituisce uno degli artifici pirotecnici del poeta. Il suo
godimento e la sua bravura supremi sono nel continuo accarezzamento delle forme. Marino
non arretra davanti a nessuno spettacolo, a nessuna descrizione, la più vasta e alata o la più
volgare e minuziosa. Le metafore, le metonimie, le sineddochi, la sinonimia sono il suo
bagaglio tecnico e contenutistico.
Tommaso Campanella
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Tommaso Campanella nasce a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568. Entra nell’ordine dei domenicani, ma
viene ben presto accusato di eresia e subisce numerosi processi e condanne. Una volta ritornato a Stilo
ordisce una congiura contro il governo spagnolo per realizzare il suo ideale socio politico: una repubblica
teocratica della quale poter essere capo e legislatore. Nel 1599 la congiura viene scoperta e Campanella viene
condotto a Napoli; qui, per evitare la pena capitale, si finge pazzo e sostiene la finzione anche sotto tortura.
Rimane in carcere 27 anni, ma la sua attività intellettuale non cessa ed è anzi in questo periodo che compone
le sue opere più importanti. Nel 1626 viene liberato e portato a Roma, da dove tuttavia fugge qualche anno
dopo per rifugiarsi a Parigi; qui muore il 21 maggio 1639.
Le opere principali dal punto di vista filosofico sono Del senso delle cose e della magia e Filosofia reale, di
cui fa parte la Città del Sole, mentre gli scritti politici più notevoli, oltre alla Città del Sole, sono Monarchia
di Spagna e Monarchia del Messia. La Città del Sole, la fisica e la metafisica di Campanella non sono fini a
se stesse, ma costituiscono il fondamento di una riforma religiosa che dovrebbe riunire tutti gli uomini in
un’unica comunità politica.
Nella Città del sole viene delineata minuziosamente la struttura dello stato perfetto: al governo c’è un
principe sacerdote, denominato Sole o Metafisico, che si distingue per la vastità, la profondità e la
completezza della conoscenza. Egli infatti deve essere non solo esperto in ogni ramo dello scibile, ma anche
«metafisico e teologo» e deve conoscere compiutamente «la radice e prova d’ogni arte e scienza, e le
similitudini e le differenze tra le cose».
Collaborano con lui Pon, Sin e Mor, tre alti ufficiali con dignità sacerdotale che trasferiscono in ambito
politico le tre primalità della metafisica di Campanella: Potenza, Sapienza e Amore. Il primo presiede alla
milizia, il secondo alle scienze e il terzo all’educazione. Tutti durano in carica a vita, a meno che «essi stessi,
per consiglio fatto tra loro, cedono a chi veggono saper più di loro e aver più purgato ingegno». Pon, Sin e
Mor conoscono in modo completo le arti e le scienze che interessano i loro rispettivi uffici, ma sono anche
«filosofi, istorici, naturalisti e umanisti»; alle loro dipendenze ci sono tre ufficiali che sovrintendono ciascuno
ad altri tre ufficiali subalterni.
Ad eccezione di Sole, Pon, Sin e Mor , tutti i preposti alle cariche pubbliche vi accedono attraverso il voto di
un’assemblea composta da quelli che hanno compiuto i vent’anni e che si riunisce ogni due settimane.Le
caratteristiche peculiari della città ideale di Campanella sono la comunanza dei beni e delle donne e la
religione naturale. Per quanto riguarda la regolamentazione dei rapporti sessuali, Campanella supera i limiti
posti da Platone nella Repubblica e sostiene che debba riguardare tutti i cittadini e non soltanto alcune classi.
Se da un lato pertanto viene abolita l’istituzione della famiglia, dall’altro vengono poste rigorose norme di
eugenetica circa l’accoppiamento tra maschi e femmine quando è indirizzato al fine primario della
procreazione.
Ma ben più rilevante nell’opera di Campanella è lo spazio dedicato alla formulazione della religione naturale.
La religione dei Solari è dettata dalla pura ragione e si identifica con la metafisica; è pertanto innata in tutti
gli uomini ed è il fondamento delle religioni positive che vengono acquisite o aggiunte ad essa. Mentre
tuttavia le religioni positive possono essere imperfette o addirittura false, quella innata è sempre vera ed è la
norma che misura il loro effettivo valore. Campanella ritiene che il cattolicesimo sia la religione più vicina a
quella naturale: il cattolicesimo infatti «nulla cosa aggiunge alla legge naturale se non i sacramenti» e, se
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viene tolta ogni possibilità di abuso attraverso una riforma della Chiesa che riconduca il cattolicesimo alla
sua vera natura, l’unica vera legge sarà quella cristiana.
Giambattista Vico
La vita, le opere e la formazione culturale
Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da famiglia modesta. La prima posizione polemica di Vico nei
confronti del razionalismo cartesiano è contenuta nel De nostri temporis studiorum ratione.
Nella «Scienza nuova», il suo capolavoro Vico concentra i propri interessi su quello che
egli chiama il “mondo civile”: l'ambito dei costumi, del diritto e della politica, considerati
nella concretezza delle loro realizzazioni e trasformazioni, cioè nell' elemento della storia.
La storia è infatti, la scienza nuova che dà il titolo al capolavoro vichiano, il cui assunto
fondamentale consiste nell' estendere ad essa il principio del verum ipsum factum, che nei
lavori precedenti era primariamente applicato alla matematica: a differenza del mondo
naturale, che è creato da Dio e da Dio soltanto può essere pienamente conosciuto, il
„mondo civile” è opera dell' uomo e può essere oggetto di un vero e proprio sapere
scientifico. In questo modo Vico interrompeva una lunga tradizione - che proveniva da
Aristotele, ma era stata recentemente confermata da Cartesio e dal cosiddetto „pirronismo
(cioè scetticismo ) storico” - secondo la quale della storia non si dà scienza.
Nello stesso tempo egli anticipava quell' interesse per i princìpi e il significato generali dello sviluppo storico
che sarebbe stato alla base delle numerose „filosofie della storia” (come si disse poi) germinate, a partire
dalla metà del Settecento, sul terreno dell' illuminismo e del romanticismo. La scienza storica è resa possibile
dal concorso di due discipline, le quali riflettono la duplicità del suo scopo. In primo luogo, la storia deve
accertare i fatti, distinguendo criticamente ciò che è veramente accaduto da ciò che è privo di fondamento. In
ciò soccorre la filologia, intesa da Vico in senso molto lato come l'insieme delle discipline aventi una
funzione documentaria mediante l' analisi critica delle testimonianze del passato: la filologia è la scienza del
certo. In secondo luogo, la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti già filologicamente
accertati. Perciò essa ha bisogno della filosofia, che è la scienza del vero, delle cause che possono spiegare
gli avvenimenti.
Affinchè la storia raggiunga il suo scopo, il certo e il vero devono convergere mediante una stretta
collaborazione tra filologia e filosofia; e gli insufficienti risultati conseguiti nel passato della storia come
scienza sono imputati da Vico al fatto che i filosofi non accertarono le loro ragioni con l' autorità de' filologi,
così come i filologi non curarono d' avverare le loro autorità con le ragioni dei filosofi (DegnitàX ). Lungi dal
limitarsi ad accertare filologicamente i fatti, la storia deve „inverare” filosoficamente il certo, spiegandone la
natura. In che cosa quest' ultima consista è detto chiaramente nella Degnità XIV: Natura di cose altro non è
che nascimento di esse in certi tempi con certe guise , le quali sempre sono tali , indi tali e non altre nascon le
cose. Per conoscere la natura delle cose occorre dunque conoscere la loro genesi, i modi e le forme ( le
„guise” ) in cui sono nate, la causa che le ha prodotte. E poichè, come si è visto, il „mondo civile” è fatto di
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uomini, per conoscere e spiegare i fatti storici occorre fare riferimento al modo in cui essi sono nati nella
mente degli uomini, prima ancora che nella concretezza della realtà.
La storia si configura dunque come una metafisica della mente umana, un' analisi dello sviluppo dell' attività
spirituale dell' uomo, inteso sia come singolo sia come specie. Il primo compito di chi coltiva la „scienza
nuova” è dunque quello di ricostruire una lingua che preceda la formazione di tutti i linguaggi storici, una
lingua mentale comune a tutte le nazioni, sulla base della quale si può comporre un vocabolario mentale
comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi (Degnità XXII). Questa sintassi e questo lessico
mentali costituiscono la struttura fondamentale della vita psichica dell' uomo in quanto tale, e presiedono allo
sviluppo graduale dei suoi sentimenti, delle sue fantasie e dei suoi pensieri. Indipendentemente dai luoghi e
dalle culture in cui nascono, gli uomini hanno pertanto alcune modalità comuni di sentire e di pensare (e
quindi di agire) a seconda del grado di sviluppo storico in cui si trovano.
Le tre eta'
Gli uomini prima sentono senz'avvertire, e poi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente
riflettono con mente pura. La Degnità LIII illustra i tre momenti dello sviluppo ideale della „metafisica della
mente umana”, ai quali corrispondono altrettante facoltà conoscitive. Nell' infanzia dell' umanità (come in
quella dell' individuo) prevale il senso, che comporta una conoscenza ancora oscura e confusa del proprio
oggetto.
Nella giovinezza predomina invece la fantasia: in essa la chiarezza della rappresentazione è accompagnata da
un intenso stato emotivo che, se corrobora l' efficacia dell' immagine, ne limita però l' oggettività. Nella
maturità, infine, gli uomini pervengono alla ragione, che consente una riflessione serena, libera dalle oscurità
del senso e dall' emotività della fantasia. A queste facoltà Vico fa corrispondere tre età, anch' esse ideali,
dello sviluppo storico. Ciò non significa che in ciascuna età operi una sola facoltà con esclusione delle altre
due, ma soltanto che in essa una delle tre facoltà, come s' è detto, prevale sulle altre, le quali rimangono
tuttavia presenti.
L' età degli dei, che corrisponde al senso , rappresenta la fase primitiva della storia umana. Vico respinge le
contemporanee rappresentazioni dello stato di natura come età dell' oro e dell' innocenza, e dipinge i primi
uomini come stupidi, insensati ed orribili bestioni, nei quali la limitatezza della della vita spirituale viene
compensata dalla forza fisica e dalle gigantesche dimensioni. Alcuni di questi giganti, tuttavia, raggiungono
un livello spirituale sufficiente a provare una storia di meraviglia metafisica di fronte agli eventi della natura:
privi di raziocinio, ma forniti di una robusta sensibilità, essi identificano le forze naturali con le divinità, a
loro volta immaginate a somiglianza dell' uomo. Poiché tutta la realtà viene così „sentita” come divina (di quì
il nome dato da Vico a quest' età), la religione costituisce il primo passo dei giganti verso la civiltà.
Nel contempo essa diventa principio di altre due conquiste. In primo luogo, i giganti, temendo l' ira degli dei,
abbandonano il costume animalesco di accoppiarsi a caso e danno luogo a matrimoni solenni, nucleo dell'
istituto della famiglia e segno della moralità incipiente. In secondo luogo, essi cominciano a seppellire i loro
morti e a considerare sacri i recinti in cui sono avvenute le sepolture ( nascono i cimiteri ).
Nell' età degli dei sono quindi già presenti i tre principi che Vico ritiene essere comuni a tutti gli uomini,
allorchè essi cominciano ad avere un' attività spirituale. Per quanto riguarda l' organizzazione politico sociale,
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i primi uomini non conoscono vere e proprie istituzioni in forma patriarcale, nei quali il padre di famiglia è
anche re, avendo timore soltanto della divinità, detiene il potere assoluto su tutti gli altri membri. La facoltà
della fantasia, invece, prevale nell' età degli eroi, che è rappresentata dalla Grecia omerica e dalla Roma dei
re. La continuità con l' età degli dei è dimostrata dal fatto che gli eroi, i grandi uomini che dominano questo
periodo (Achille, Teseo, Romolo), pretendono di discendere da divinità .
Alla lunga tuttavia i famoli si ammutinano contro il potere dei forti che li dominano, costringendo questi
ultimi a organizzarsi in veri e propri Stati aristocratici, dal momento che ciascun padre-re del precedente
regime patriarcale entra a far parte della nuova classe dirigente. Si configura così negli Stati la distinzione tra
due ceti fondamentali : da un lato i patrizi, che tendono per inclinazione naturale a conservare inalterata l'
organizzazione dello Stato, e i plebei, che mirano invece continuamente a sommuoverla per migliorare la loro
condizione. Nonostante le concessioni da parte dei patrizi ai plebei volte ad una migliore dominazione (leggi
agrarie) , la tensione tra i due gruppi sociali rimane costante, fino a portare al progressivo riconoscimento
dell' eguaglianza di tutti i cittadini. Con la rivendicazione dell' eguaglianza di natura tra gli individui
(strettamente legata al riconoscimento della loro comune ragione) si entra nell' età degli uomini, a cui
corrispondono come realizzazioni storiche la Grecia classica, la Roma repubblicana e la civiltà moderna. In
quest' età, le repubbliche si trasformano da aristocratiche in popolari, nelle quali le distinzioni sociali e
politiche non sono più affidate all'ascendenza nobiliare o plebea, ma al censo, ovvero alla ricchezza e
all'operosità dei cittadini.
L' età degli uomini è la fase in cui la ragione trova il suo più vasto campo di applicazione: solo in essa può
quindi nascere la filosofia, cioè una metafisica che non sia più semplicemente sentita o fantasticata, ma sia
affidata alla riflessione della mente pura. Anche la filosofia comunque rientra nell' ambito del mondo civile
dato che essa ha tra i suoi compiti (come traspare dalla filosofia di Platone , che è una delle più esemplari
realizzazioni dell' età degli uomini) la ricerca di un principio di giustizia comune a tutti (la giustizia in sè, per
dirla con Platone). Lo schema triadico che segna le fasi della storia secondo Vico non è irreversibile. A causa
dello scetticismo, dell' anarchia e del lusso sfrenato , gli stati dell' età degli uomini possono avviarsi a un'
inesorabile decadenza, che li fa ripiombare all' inizio del ciclo mentale dell' umanità. Un esempio classico di
questa barbarie ritornata è il Medioevo , nel quale Vico vede la perdita totale di quei valori storici che erano
stati realizzati dalla classicità greco-romana.
Naturalmente, questo comporta anche il ritorno, con rinnovata vigoria, di quel senso e quella fantasia che si
erano illanguiditi nell' età razionale degli uomini: il Medioevo è anche l' età di Dante. Vico chiama ricorso
questo ritorno del corso, appunto, della storia alle sue origini ideali (non cronologiche, ma psicognoseologiche). La teoria vichiana dei corsi e dei ricorsi presenta quindi parecchie analogie con le
interpretazioni cicliche del processo storico elaborate nell'antichità specialmente dagli stoici: ma di esse Vico
non condivide affatto il carattere necessario e ripetitivo. Il ricorso storico, la ricaduta alle origini, è soltanto
una possibilità, che deriva dal fatto che la successione delle tre età non ha un carattere necessario o definitivo,
ma riflette la tendenza ideale dell'umanità a seguire lo sviluppo di quella che è la sua intrinseca struttura
mentale.
La sapienza poetica
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Le linee di distinzione tra le tre età non sono da Vico segnate tutte con la stessa decisione. Più marcatamente
distinta dalle età degli dei e degli eroi appare l' età degli uomini, poiché la fantasia è tanto più robusta quanto
più debole è il raziocinio (Degnità XXXVI), e quindi la fase più razionale dello sviluppo umano deriva la sua
forza , per così dire, dalla debolezza delle fasi in cui predominano senso e fantasia . Assai prossime appaiono
invece le prime due età, nelle quali le facoltà prevalenti non solo non si oppongono , ma si completano
vicendevolmente: la fantasia si fonda necessariamente sui sensi e i sensi trovano nella fantasia la loro più
naturale espansione . Infatti , l' età degli dei e quella degli eroi (ovvero la facoltà del senso e della fantasia)
hanno in comune l' elemento della poesia , intesa etimologicamente - secondo un' accezione che avrà molta
fortuna nel romanticismo - come fare , creare ( dal greco poieìn). I primi poeti, i „poeti teologi” che
immaginano Giove e le altre divinità, sono veri „creatori” di realtà.
Attraverso la poesia i popoli primitivi ed eroici hanno creato idee, costumi, comportamenti e quindi in
generale, una realtà che prima non esisteva. Da qui deriva la grande importanza attribuita da Vico alla
sapienza poetica, che costituisce anche uno degli elementi più originali della sua trattazione. La sapienza
poetica degli antichi, infatti, non è priva di verità: „vero poetico” e „vero metafisico” coincidono. I contenuti
della sapienza poetica non sono diversi da quelli della sapienza razionale.
Ma ciò non significa, come sostenevano i razionalisti seicenteschi, che essa fosse „sapienza riposta”, e ciò
cioè un sapere già conosciuto consapevolmente in forma razionale, ma intenzionalmente velato da
un'espressione misterico-allegorica, della quale deve venire spogliato per essere restituito alla sua purezza
concettuale. Al contrario, le immagini fantastiche in cui si esprime la sapienza degli antichi sono necessaria
espressione del loro modo di sentire e di pensare, e fanno tutt' uno con esso. Con il che Vico non fa altro che
affermare il valore autonomo della poesia nei confronti del pensiero logico-razionale. Di conseguenza, gli
strumenti di cui si avvale il sapere poetico sono assai differenti da quelli della conoscenza razionale.
Se quest'ultima opera mediante i concetti astratti dell' intelletto, la poesia costituisce invece universali
fantastici (o „generi fantastici”), nei quali una particolare immagine del senso e della fantasia esprime un
contenuto conoscitivo a carattere generale (analogo a quello che nel sapere razionale è il concetto): così, nella
cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio, Ulisse quella della prudenza. Tenendo conto che
la sapienza poetica, come si è detto, ha sempre un contenuto di verità , anche l' universale fantastico non è
mera fantasia, ma è una realtà (ancorchè fantastica) superiore alla stessa realtà fisica: Da qui esce questa
importante considerazione in ragion poetica: che il vero capitano di guerra, per esemplo, è l' Goffredo che
finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono
veri capitani di guerra (DegnitàXLVII).
La concezione vichiana della poesia si riflette su quella del linguaggio. Come gli uomini hanno cominciato a
pensare per universali fantastici e non per concetti, essi hanno iniziato a parlare in poesia, e non in prosa. Il
linguaggio cantato precede quindi quello parlato, come si evince anche filologicamente dal fatto che le prime
testimonianze letterarie dei popoli antichi sono poemi e non opere in prosa. Dal che consegue anche, per
Vico, l'infondatezza della tesi che sostiene l'origine convenzionale e arbitraria del linguaggio. Le lingue
hanno un'origine naturale, poiché sono la traduzione fonica delle immagini poetiche che i popoli hanno
sviluppato nell' antichità in accordo con il loro grado di sviluppo mentale e storico. Soltanto nella terza età degli uomini e della ragione - sopravviene la componente convenzionale del linguaggio. In piena armonia
con questi presupposti teorici è la dottrina della discoverta del vero Omero, che Vico considera uno dei
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maggiori risultati - sul piano filologoco e filosofico - della sua ricerca, tanto da dedicarvi un intero libro della
Scienza nuova .
La tesi vichiana - oggi non più accolta, ma di estrema importanza storica per lo sviluppo della „questione
omerica” - è che Omero non sia nè un poeta singolo, nè un cantore immaginario, ma il popolo greco nel suo
insieme. In altri termini, Omero è una realtà storica non in quanto persona fisica, ma perché rappresenta il
„carattere eroico” unitario in cui si sono riconosciuti i diversi rapsodi che in Grecia andavano cantando le
epopee popolari dell' Iliade e dell' Odissea. Anticipando teorie che saranno riprese nel 1800 dai Romantici, il
filosofo napoletano afferma che la poesia omerica non può considerarsi il prodotto di un solo autore, ma di
tutto il popolo greco nel suo „tempo favoloso”, l'ordito collettivo di intere generazioni di cantori popolari che
si celebrarono dietro il simbolico nome di Omero.
Infine, il linguaggio per Vico non è un prodotto dell'intelletto umano, ma un'operazione della fantasia, il
frutto di quel momento in cui l'uomo avverte le cose con animo perturbato e commosso. Esso è scaturito a
guisa di canto dalla commozione degli uomini primitivi; è sorto tra gli uomini come opera poetica, come
espressione emotivo-fantastica. E' questa una delle concezioni più audaci di Vico, una concezione che fa del
linguaggio un atto del tutto creativo, quell'atto che si ripete ancor oggi ogni volta nelle pagine degli scrittori,
quando essi usano sì le parole consuete, ma per ciò stesso che le usano le rinnovano del tutto, piegandole alle
loro diverse esigenze, alla visione nuova che essi propongono delle cose e degli uomini.
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO:
Bellini, Giovanna, Mazzoni, Giovanni. Letteratura italiana. Storia, forme, testi. / 2 / Il
Seicento e il Settecento. Roma-Bari, Laterza, 1991.
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Cinquecento, il Seicento e i
Settecento dal rinascimento all’illuminismo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1992. Si veda pp.
281-323, 3230-329; 363-371 e 445-454.
Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 2. Cinquecento, Seicento, Settecento.
Firenze, La Nuova Italia, 1995. Si vedano pp. 196-199; 196-199, 247-253.
Marchese. Riccardo. Letteratura e società. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro della
cultura europea. / 2 / Dal secolo XVI all’Alfieri. Firenze, La Nuova Italia, 1975.
DOMANDE-ARGOMENTI:
1. Quali sono le principali caratteristiche del barocco europeo ed italiano?
2. Quali sono le tappe essenziali dell’avventura poetica di Giambattista Marino e le
principali linee della poetica marinista?
3. Qual è il ruolo del Campanella nei cambiamenti del pensiero moderno italiano?
4. In che cosa si differenzia l’utopismo del Campanella da altri, soprattutto, inglesi?
5. Commentare qualche particolare della poesia dell’autore di «La Città del Sole».
6. Le tappe della vita di Giambattista Vico.
7. Descrivere il piano e le principali idee dell’opera «Scienza Nova»
8. Rilevare il contributo della «Scienza Nova» allo sviluppo della letteratura e dell’arte moderna italiana ed
europea.
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Cesare Beccaria
Cesare Beccaria nacque a Milano nel 1738 da una famiglia ricca e nobile.
Viene educato dagli 8 ai 16 anni in un collegio a Parma, senza distinguersi affatto per intelligenza o per
successo negli stufi.
Si iscrisse poi all'Università e a vent'anni, nel 1758, si laureò in Legge presso l'Università di Pavia.
L'adesione alle idee degli illuministi francesi, da Montesquieu a Diderot a Rousseau, e la collaborazione
intensa con Pietro Verri, e Alessandro (*) dovevano dare i loro frutti e li diedero con la pubblicazione del
capolavoro di Beccaria , Dei delitti e delle pene.
Quest'opera di Beccaria, è indubbiamente il testo più noto dell' intero illuminismo italiano; ed è anche il più
importante, se si considera la sua fortuna in Europa e la sua influenza sui pensatori successivi . In esso
convergono alcune delle idee sociali più significative della nuova cultura che andava affermandosi, espresse
in uno stile raffinato e limpido al tempo stesso, un modello di esposizione per i nuovi filosofi. Interessante è
il fatto che quando venne pubblicata l' opera , l' autore aveva appena 25 anni e che quel successo restò l'
unico nella sua lunga carriera di scrittore e filosofo: tutti gli altri suoi scritti sono pressappoco sconosciuti.
Lo scritto venne dato alla stampa nel 1764 a Livorno presso lo stesso editore che pochi anni dopo avrebbe
pubblicato la prima edizione italiana dell' Enciclopedia di Diderot e D'Alembert. Beccaria preferì far
comparire come anonimo l' opuscolo, temendo ripicche personali e ritorsioni e, infatti, parecchie furono le
reazioni di condanna, soprattutto da parte della Chiesa cattolica, che nel 1766 inserì l' opera nell' Indice dei
libri proibiti, senza però arrivare a bruciarla pubblicamente, come invece era stato fatto per l' Uomo macchina
di La Mettrie.
Beccaria in ambito letterario si schiera in favore di una letteratura rinnovata nello stile, fedele al bisogno di
esprimere concetti concreti (cose) secondo procedimenti razionali. Anche Cesare Beccaria , come Pietro
Verri , concepiva la cultura in termini utilitaristici, ossia quale strumento di intervento concreto sulla realtà
con il fine di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini: e qui emerge tutto il suo spirito
illuministico , il quale a sua volta mutua la concezione utilitaristica da Francesco Bacone e dal suo „ sapere
per potere „. Il tema di Dei delitti e delle pene, propostogli da Pietro Verri, ben si apprestava ad affrontare da
un punto di vista specifico e circoscritto la questione della giustizia, e dunque della politica e della società , e
infine del rapporto tra società e benessere. Per questa ragione, attaccando apertamente il comportamento dei
vari stati intorno alla questione della giustizia, Beccaria metteva in discussione l'intero assetto del quale quel
comportamento era espressione , finendo con l'adombrare, nelle proposte di un rinnovamento giudiziario, una
società fondata su valori interamente alternativi.
Carlo Goldoni
Nato il 25 febbraio 1707 a Venezia dal medico Giulio Goldoni e da Margherita Salvioni, studiò prima a
Perugia poi a Rimini. Nel 1721 fuggì a Chioggia su una barca di comici, la compagnia di Florindo de'
Maccheroni, affascinato dalla vita avventurosa dei teatranti. Nel 1723 a Pavia si iscrisse ai corsi di
giurisprudenza del collegio Ghislieri, ma fu espulso per aver scritto una sa tira, Il colosso , contro alcune
ragazze della città. Seguì il pa dre a Udine, Modena, Feltre. Morto il padre, si laureò in legge nel 1731 a
Padova, cominciò la professione a Venezia ma un intrigo amoroso lo portò a Milano.
All'interno della produzione e della vita di Goldoni possiamo distinguere queste fasi: 1) l'apprendistato
(1734-1748); 2) il teatro Sant'Angelo (1748-1753); 3) il teatro San Luca (1753- 1762); 4) il periodo Parisno
(1762-1793).
Nel 1732 uscì il suo primo lavoro a stampa, l'intermezzo Il gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi.
Nel 1734 conobbe a Verona il capocomico Giuseppe Imer, gli fece leggere una sua tragicommedia in versi,
Belisario, ne ebbe un giudizio positivo: lo seguì a Venezia impegnandosi a lavorare per il teatro da lui di
retto, il San Samuele. Vi restò fino al 1743. Dal 1741 fu anche console di Genova, e nel 1736 si era sposato
con la genovese Nicoletta Connio. I nove anni di lavoro per Imer furono un periodo di apprendistato e
ricerca. Tentò generi diversi, tragedie melo drammi seri e giocosi. Riuscì meglio in alcuni intermezzi comici
(La birba, 1734; Monsieur Petiton, 1736), e in commedie come Momolo cortesan (1734) in parte scritto e in
parte a soggetto (poi rifatto con il titolo „L'uomo di mondo” 1755-56), e La donna di garbo (1743), la sua
prima commedia interamente scritta. Nel 1744 a causa dei debiti del fratello abbandonò Venezia. Dopo varie
soste si fermò a Pisa dove nel 1745-1748 esercitò l'avvocatura.
Nel frattempo scrisse per il 'Truffaldino' Antonio Sacchi Il servitore di due padroni (1745), metà canovaccio
e metà scritto, e lo scenario Il figlio d'Arlecchino perduto e ritrovato (1746). Per il 'Pantalone' Cesare
D'Arbes scrisse Tonin Bellagrazia (1745) e I due gemelli veneziani (1747). Sono testi che segnano il
passaggio dall'„improvviso” allo studio dei caratteri.
Goldoni al teatro Sant'Angelo
Nel 1748 rientrò a Venezia e firmò un contratto quadriennale con l'impresario
Girolamo Medebach, la cui compagnia recitava al teatro San'Angelo. La prima
commedia rappresentata fu La vedova scaltra (1748) che sviluppa lo schema della
„Donna di garbo”, con un personaggio centrale su cui fa perno l'interno movimento
scenico. Protagonista di questi tre atti in prosa è Rosaura, bella vedova che ha quattro
pretendenti: il galante francese Le Blau, l'inglese flemmatico e laconico Lord
Runebif, l'orgoglioso spagnolo Don Alvaro di Castiglia, e l'italiano gelosissimo e
appassionato conte di Bosconero. Per mettere alla prova il loro amore si presenta a
ognuno di essi travestita, negli abiti e con i modi delle rispettive nazioni. Solo
l'italiano si mostra refrattario al fascino della sconosciuta, e a lui Rosaura concede la
mano. La cameriera francese di Rosaura, Marionette, consola Le Blau combi nando
un veloce matrimonio con Eleonora, sorella di Rosaura. Le altre commedie scritte nel
1748-1750 sperimentano invece una tematica sentimentale e realistica, con
interessanti appro fondimenti delle diverse situazioni sociali (La putta onorata, 174849; La buona moglie, 1749-50; La famiglia dell'antiquario, 1749-50).
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Goldoni al teatro San Luca
Nel 1753, a causa di contrasti, si separò da Girolamo Medelbach, e negli ultimi mesi di quest'anno passò al
teatro San Luca di Antonio Vendramin. I rinnovati assalti polemici di Pietro Chiari lo spinsero a scrivere
commedie letterarie, drammi per musica, drammi romanzeschi d'ambiente esotico (come: La sposa persiana,
La bella selvaggia). Tutta roba a lui poco congeniale. Si aprì in questo periodo a interessi per i modelli della
cultura borghese europea (Il filosofo inglese, Il medico olandese ). Le cose migliori però sono le commedie
corali in dialetto. Dopo Le massere (1755) è Il campiello (1756), con cui Goldoni riscopre la ricchezza
espressiva del mondo popolare. „Il campiello” è in cinque atti in versi e in dialetto veneziano. La scena è in
una piazzetta („campiello”), un giorno di carnevale. Pasqua, un po' sorda, ha fretta di maritare la figlia Gnese,
per potersi ri sposare; la vecchia Catte, per la stessa ragione, vorrebbe che sua figlia Lucietta sposasse presto
il merciaio Anzoletto; Orsola la frittolera cerca moglie per il suo Zorzetto.
Carlo Goldoni ha scritto un numero impressionante di commedie fra i quali ricordiamo: “Il gondoliere
veneziano ossia gli sdegni amorosi (intermezzo 1732), “Belisario (tragicommedia, (1734), “La birba
(intermezzo (1734), “La donna di garbo” (1743), “Il servitore di due padroni” (1745), “I due gemelli
veneziani (1747)”, “La vedova scaltra” (1748), “La putta onorata” (1748-1749), “Il bugiardo”, “La bottega
del caffè”, “Locandiera” (1753), “I rusteghi” (1760), come anche un’opera importante conclusa negli ultimi
anni di vita trascorsi nel suo lungo esilio parigino, “Mémoires” (1787).
Carlo Goldoni mirava a sostituire lo scenario della Commedia dell’arte, il canovaccio recitato
«all’improvviso» dagli attori, con una commedia di carattere, essenzialmente realistica e fondata su un testo
scritto. La riforma nu fu attuata bruscamente, con una traumatica rottura di abitudini e convenzioni ormai
secolari, bensì con saggia gradualità, per tappe successive: in un primo tempo il Goldoni mantenne le
maschere trasformandone i tipi e adattandoli a una diversa concezione del teatro, che in senso lato si può
definire moralizzata; in un secondo tempo le commedie scritte e senza maschere presero il posto degli
scenari.
La Commedia dell’arte o teatro delle maschere era nata verso la metà del XVI-lea secolo come spettacolo
recitato da professionisti (di qui il significato di «arte») riuniti in compagnie di girovaghi che menavano vita
grama, malvisti com’erano dal potere politico e religioso. Ogni attore si specializzava in un ruolo particolare,
identificandosi nella maschera che gli copriva il volto e lo rendeva riconoscibile al pubblico. L’azione veniva
schematicamente fissata in canovacci o scenari che permettevano agli attori di esibirsi in un’estrosa
improvvisazione di dialoghi, lazzi e battute, gesti e comportamenti mimici, secondo una tecnica recitativa
codificata e quindi riciclabile. L’origine delle maschere è in parte folclorica (Arlechino), in parte sociale,
come Pantalone.
Il grande critico e storico letterario Attilio Momigliano scrive nella sua ben nota Storia della letteratura
italiana nel capitolo a Goldoni dedicato>
“Quest'incertezza artistica, orientata però sempre verso la rappresentazione dell'ambiente, dura fino alla
Bottega del caffè, una delle sedici commedie scritte dal Goldoni nel 1750 per riguadagnarsi il pubblico che in
quell'anno pareva stanco della sua opera. Qui, come poi nel Campiello e nel Ventaglio, l'ispirazione muove
dalla visione della scena. È l'ambiente che genera, colorisce, guida gli intrighi e i pettegolezzi dell'azione:
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caffè, campiello e piazzetta sono insieme il motivo pittoresco e psicologico di queste tre opere. Una
straordinaria mobilità ed evidenza di fantasia combina gli episodi, le entrate e le uscite dei personaggi in
modo da rievocar senza posa la topografia e il colore dei luoghi; una singolare armonia di concezioni regola
la condotta dell'azione in modo che essa sembra nascere continuamente dall'ambiente vizioso e ozioso di una
bottega di caffè, dall'ambiente pettegolo di un campiello e di una piazzetta. Sembra che dal caffè spiri un'aria
di equivoco e di vizio, dal campiello e dalla piazzetta un'aria di pettegolezzo, di chiacchiericcio, di effimero
litigio.
Il protagonista della Bottega del caffè, don Marzio, é piantato con una risoluta sicurezza nel centro di
quell'ambiente, fra una barbieria una bisca una locanda e la casa di una ballerina, a braccar notizie e scandali.
II tono generale della commedia è mantenuto con difficile misura sui confini fra l'opera buffa e il dramma, e
sembra suggerito insieme dal protagonista - pettegolo in apparenza, cinico e brutale nel fondo -, e
dall'ambiente - in apparenza vivace per la mutabilità degli intrighi e delle sorprese, in realtà serio per quel
fermento di vizi e di miserie che vi brulica dentro -. La superficie della commedia è rappresentata da quel
grande motivo d'opera buffa che la fantasia fertile e triviale di don Marzio trova per rappresentare
l'immaginario affluire di clienti nella casa della ballerina: «Flusso e riflusso per la porta di dietro». Il fondo,
dalla mostruosa rapidità inventiva di don Marzio, da quel ghigno di vizioso e di ozioso con cui spaccia le sue
calunnie, dalla vigliaccheria con cui sfugge alle conseguenze della sua maldicenza; e si riassume nella scena
23a dell'atto II quando, durante il parapiglia che succede fra Placida e Vittoria che sorprendono i mariti per le
ciarle di don Marzio, egli esce pian piano dagli stanzini della bisca e se la svigna dicendo «Rumores fuge».
Caricando le tinte scure, avremmo una commedia realistica; caricando quelle luminose, una commedia ilare,
leggera: il carattere della Bottega del caffè è questa comicità rapida, mutevole, contornata di ombre e - nelle
scene culminanti - sbalzata con un'evidenza di trovate che annuncia, dietro il pittore d'ambienti che già
conoscevamo, il creatore di carattere. Ma già in questa conquista si afferma che il Goldoni sarà geniale
pittore di personaggi quasi soltanto nella sfera della comicità grottesca e graziosa. Le battute che illuminano
don Marzio e sembrano delinearlo come per incanto dinanzi ai nostri occhi, sono dello stesso genere di quelle
che dipingeranno i rusteghi e sior Todaro...
Migliori del Campiello, che nel terzo e quarto atto decade più di una volta verso il tono dell'operetta, sono le
Baruffe chiozzotte (1762). Hanno - da una parte - maggior rilievo psicologico, - dall'altra - un fare più arioso.
Argomento della commedia sono le baruffe dei pescatori di Chioggia, concentrate intorno ai fidanzati Titta
Nane e Lucietta. Essa è insieme la pittura di un borgo di pescatori e la rappresentazione rumorosa capricciosa
e drammatica delle passioni di questi popolani. La pittura è ariosa, diversa dal quadretto di genere tipo
Campiello: l'inizio della commedia può far pensare, per il senso del paesaggio e dell'atmosfera, ai Malavoglia
del Verga: due gruppi di donne lavorano all'aperto, scrutando il tempo, in attesa che tornino dal mare le
barche degli uomini. Ma quest'impressione iniziale, potentemente pittoresca, questa pennellata larga e sicura
che ci introduce nella vita di un borgo di pescatori, è più che altro una bella ouverture. L'attenzione del
Goldoni è rivolta piuttosto a quelle liti che qui, diversamente dal Campiello, intonate come sono a quella
ruvida e forte razza di popolani, hanno un gagliardo rilievo e, a lampi, vera forza drammatica. Gli uomini
sono un po' bravi, le donne più timorose e prudenti. Il vero e proprio pregio della commedia consiste nella
sagacia e nella grazia con cui è ritratta la volgarità pittoresca dell'ambiente popolano, in quel senso artistico
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della veemenza, della spontaneità, della tenerezza popolana, che culmina nella famosa scena 3a dell'atto II, la
più appassionata rappresentazione goldoniana di bizze, di liti e di orgogli di innamorati.
Il Ventaglio (1765) è la più perfetta fra le commedie d'ambiente. Mirabile sopra tutte la prima scena, dove
con pennellate così leggere e vive è già dipinto tutto l'ambiente paesano, e quello aristocratico, dei
villeggianti: l'osteria, la farmacia, la bottega del ciabattino, quella della merciaia; i rumori del lavoro
quotidiano che si mescolano alle chiacchiere dei villeggianti oziosi, l'aria dei campi e del paese, con quel
senso insieme di vita e di tranquillità; l'umore pettegolo del piccolo borgo da cui verrà fuori la tragicomica
odissea del ventaglio. C'è un'arte superiore nello scegliere ed accennare appena i motivi e disporli
nell'apparente disordine della realtà e nel reale ordine dell'arte. Forse non c'è altra commedia del Goldoni in
cui la pittura lieve e mobile dell'ambiente e l'osservazione sagace e fugace degli uomini siano così bene
armonizzate. Si può vedere anche in questo quella tenuità settecentesca di linee e di tinte, che è riconoscibile
in tutto il teatro del Goldoni.
Abbiamo finora parlato di commedie d'ambiente. Ci resta da parlare di quelle di carattere. Anche in esse,
nonostante la maggior gravità del tema, l'intonazione è visibilmente settecentesca. Scegliamo le migliori: La
locandiera (1753), I rusteghi (1760), Sior Todaro brontolon (I762). Le date ci mostrano che in complesso il
Goldoni arrivò alla conquista del carattere dopo quella dell'ambiente; l'esame ci mostra che anche scrivendo
commedie che in confronto con altre sembrano di carattere, egli non cessò di essere descrittore d'ambienti.
Quelle sue commedie ci dicono piuttosto, che con gli anni la capacità psicologica del Goldoni si è
approfondita. Ma quella di esse in cui il protagonista è più autonomo - Sior Todaro - è anche la più debole...
La locandiera e i Rusteghi si reggono, invece, dal principio alla fine: e sono, in misura diversa, insieme
commedie di carattere e d'ambiente. La locandiera è una delle commedie più armoniche del Goldoni,
mirabile per la rispondenza fra l'ambiente e l'azione, fra questi e i personaggi. Sembra il ritratto di una
figurina di donna abile e seducente, l'attuazione perfetta del tentativo che il Goldoni ha ripetuto tante volte
cominciando dalla Donna di garbo e dalla Vedova scaltra, ed è insieme un quadro di vita settecentesca. La
differenza dalla Bottega del caffè, che è in modo più manifesto commedia di ambiente, non è poi fortissima.
Il tema è un episodio di vita di locanda, particolarmente di vita di locanda del Settecento: Mirandolina
domina; ma senza quel marchese, quel conte, quel cavaliere, quelle comiche, non la potremmo immaginare.
La grazia seduttrice di Mirandolina è il tema dominante della commedia: ma non potrebbe stare senza quelli e non altri - temi di accompagnamento. Mirandolina è la luce del quadro: ma il quadro è quell'episodio di vita
settecentesca.
La locandiera è una delle commedie che meglio guidano il lettore allo studio del Goldoni come principe dei
nostri poeti settecenteschi ed arcadi. Il tono con cui è svolto l'innamoramento del cavaliere misogino occasione per descrivere la protagonista e l'ambiente - è mantenuto in uno stupendo equilibrio fra il
canzonatorio e il drammatico, fra lo scherzoso e il passionale: e solo al colmo dell'azione il passionale
sormonta, per poi lasciar finire la commedia serenamente com'era incominciata. Uno scioglimento
drammatico spegnerebbe tutta la grazia della commedia che è, in fondo, nonostante la solidità della
psicologia, uno scherzo. Attorno alla figura della protagonista, mantenuta nell'ambito d'una civetteria onesta
e graziosa, modulata sopra un tema fra canzonatorio e patetico, si svolge un episodio d'una morbidezza, d'una
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fugacità, d'una leggerezza settecentesche: e la protagonista, quella regina dei cuori, anche se non è incipriata
e in guardinfante, ci fa ripensare al secolo in cui come non mai la donna fu signora e sovrana. Tutta la
commedia ha un delicato sapore di rievocazione storica: e perciò questa volta la solita chiusa rosea del
Goldoni è perfettamente intonata.
Nei Rusteghi non c'è quest'idealizzazione costante, questa fine smorzatura dell'azione e dei personaggi,
questa sensibilità e fragilità che arieggiano il Metastasio. E tuttavia anche nei Rusteghi, in questo tema che
per noi sarebbe drammatico, si sente un'impostazione e una maniera più graziosa che grave, il solito spasso
delicato del Goldoni che osserva lo spettacolo della vita.
I Rusteghi sono il suo capolavoro, riassumono e fondono tutte le sue attitudini: quelle di pittore e psicologo di
un ambiente, e di disegnatore di caratteri. A questa commedia mette capo l'insistente motivo goldoniano della
bella onestà antica, affidato per lo più a Pantalone, rappresentato dal popolo e dalla piccola borghesia, e
cominciato già con la Putto onorata: ma quel tanto di oratorio che vi era sempre rimasto, qui svanisce, e il
tema, guardato ancora con simpatia, è però sfumato d'un lieve sorriso di canzonatura. L'onestà dei rusteghi
trascende i limiti, sconfina nella tirannia e nella pedanteria: di qui quell'atteggiamento complesso del
Goldoni, fra il tenero e il ridente, che in tutta la commedia, e particolarmente nella scena in cui Lunardo e
Simon si sfogano e si confessano (II, 5) ci presenta il poeta sotto un aspetto più alto del solito, quasi come
uno spirito superiore.
Anche questa scena, dove la morale dei rusteghi è sfumata con una così perfetta fusione di canzonatura e di
simpatia, rimane in una sfera di alta e serena comicità; e certe battute, dietro le quali si vedono le facce e i
gesti dei personaggi, hanno la linea di un'amabile caricatura. Anche i Rusteghi, come la Bottega del caffè,
hanno un fondo serio e onesto ma sono tramati, delicatissimamente, sopra una linea di opera buffa. Cosa
evidente sopra tutto nell'apertura dell'atto terzo, nel concilio dei rusteghi, radunati in terzetto di bassi più o
meno profondi per riparare lo scandalo dei due fidanzati che, contro le regole del buon tempo antico, si sono
visti in faccia prima del matrimonio.
Il Goldoni ha simpatia per i vecchi, ma parteggia per i giovani; e perciò muove insensibilmente la commedia
dalla rappresentazione della tirannia dei rusteghi all'imbarazzo e alla resa, e quindi da un tono un po' chiuso e
grigio ad un tono via via più ilare. L'apertura della commedia è una mirabile armonia di tinte scure,
malinconiche, modeste. Si sente il peso di quella vita, di quell'aria chiusa, si vede quella casa vecchia. Le
figure, i dialoghi, le cose - appena accennate, ma toccate da un intuito sicuro -, tutto dà un senso di
monotonia e di clausura: bastano poche battute per entrare in quella casa, per respirarne l'aria. È l'arte delle
Baruffe chiozzotte e del principio de Le massere, che rende così bene il risveglio delle case, l'aria tra
frizzante e dormigliona che spira nelle vie d'una città all'alba.
C'è qui il senso dell'atmosfera, che è più difficile che il senso scenografico dell'ambiente, e rivela uno spirito
più largo e più poetico. Sentite che quella camera è vecchia e spenta; e in essa e in quei sospiri di Lucietta e
Margarita verso la libertà e i divertimenti del carnevale che finisce, sentite già la presenza del padrone, di
Lunardo. Pure questa vita sorvegliata non vi dà un'impressione penosa quei battibecchi fra quelle due
compagne di prigionia - la figlia e la matrigna -, quel po' di grazia e di tenerezza che mormora nel fondo di
questa scena di rammarico, correggono l'impressione grigia e danno il tono giusto del contrasto da cui prende
motivo la commedia. Già nella prima scena, che è la più scura, serpeggiano i toni comici che si alzeranno via
via nel seguito dell'azione. Lunardo, sopraggiungendo nella scena seconda, dà corpo a quella clausura, ma
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insieme la orchestra con un motivo comico già più sensibile. L'osservazione della figura di Lunardo, e della
sua incompatibilità con la giovane moglie, diverte la nostra attenzione verso gli aspetti ameni di quel
ménage: e così succederà per gli altri rusteghi.
Questa doratura di sorriso che sfuma e alleggerisce il quadro grigio e angusto, e vela la potente concezione
psicologica dei quattro protagonisti, è forse l'aspetto più sapiente della commedia e il colmo della finezza
artistica del Goldoni. E questa doratura che permette anche qui, come nella Locandiera, una chiusa serena, in
perfetta armonia con il carattere fondamentale della commedia.
Anche questa commedia è, con un'umanità e una simpatia più profonda del solito, tutta settecentesca.
Settecentesco è l'ambiente che si ribella ai rusteghi e trionfa: Felicita, piena di spirito, di prontezza, di brio,
ma onesta, il tipo di donna protagonista di tutto il mondo femminile goldoniano: la matrigna e la figliastra,
sempre ondeggianti fra le liti e le paci; le malinconie e le stizze di Lucietta, le sue ansie e le sue gioie; quei
fidanzati appassionati e ingenui. Ma settecenteschi sono pure i rusteghi, così quando sono veduti ad uno ad
uno, come quando sono radunati in colloqui che ci danno una misurata ma evidente impressione di duetti o di
terzetti comici.”
Vittorio Alfieri
Nato a Asti nel 1749, di famiglia nobile, rimase orfano di padre, ma godette di una vita piena di successi e di
piaceri.
Alfieri è un erede dell'illuminismo, ma ha smarrito l'ottimismo settecentesco. Porta alle estreme conseguenze
le idee libertarie del XVIII secolo in una accezione radicale e individualistica, originariamente anarchica (o,
se si vuole, di matrice aristocratica radicale): dopo l'esperienza della rivoluzione francese, la sua divenne
ideologia conservatrice e nazionalistica. Ciò che contribuì alla sua fortuna nel XIX secolo delle lotte
nazionalistiche italiche. Nella sua produzione sono atteggiamenti tipici della cultura europea del suo tempo:
dalla produzione ossianica e sepolcrale, e dallo sturm-und-drang. Con Alfieri irrompe nella letteratura
italiana una violenza affettiva e espressiva nuova, una tensione irriducibile al senso comune. La sua scrittura
in versi e in prosa è concentratissima, spigolosa, anticonversevole e antimelodica, anti-arcadista. Sono
caratteristiche che si trovano espresse pienamente nelle tragedie. Alfieri realizzava le tragedie attraverso tre
fasi: ideazione, stesura in prosa, versificazione. Le sue strutture riflettono un intenso travaglio.
Il ritmo è quello degli endecasillabi sciolti, spezzati. Sono deliberatamente eliminati tutti gli elementi
accessori: per esempio il coro, i confidenti, mantenuti anche dalla tragedia francese, è soppresso. Nelle
intenzioni di Alfieri, la realizzazione e contrapposizione di un modello italiano, diverso da quello francese.
Una riforma che non ebbe seguito. Alfieri evita gli intrecci complicati, i colpi di scena e i mutamenti
psicologici: le sue tragedie sono dominate dalla figura del protagonista che si sottrae a ogni possibile
compromesso e su cui fin dall'inizio incombe la catastrofe: campione di una umanità in lotta per la propria
affermazione, necessariamente destinato a soccombere.
Giuseppe Parini
Nato a Bosisio (Como) nel 1729, il padre era un modesto commerciante di seta. Studiò a Milano, e nel 1754
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divenne sacerdote per poter usufruire di una piccola rendita lasciatagli da un parente. Fu precettore per alcuni
anni in casa di nobili (i Serbelloni fino al 1762, poi gli Imbonati). Ammesso nel 1753 nell'Accademia dei
Trasformati, partecipò alla vita intellettuale della Milano illuministica.
In tutte le sue „Odi” scritte sotto impulsi illuministici, Parini si mostra intellettuale attento al concreto,
cantore di una sanità che è anche compiutezza umana, fervore di attività utili, fiducia nell'incivilimento,
capacità di ascoltare le voci di tutta la comunità. Diverse saranno le più tarde „Odi” neoclassiciste.
Uno stesso impianto illuministico è nel Giorno. Si tratta di un poema satirico in endecasillabi sciolti. Le
prime due parti furono pubblicate in vita: Il mattino (1763), Il mezzogiorno (1765). In seguito lavorò a
rifinire queste parti, completò Il vespro, mentre La notte fu lasciata incompiuta: queste due ultime parti
furono pubblicate nel 1801.
Ne Il mattino e ne Il mezzo giorno, Parini, che immagina di essere precettore di un giovane aristocratico, fa
una serie di densi quadri della vita fastosa e fatua dei nobili, tra lezioni di ballo, incipriature, riti
dell'abbigliarsi, pranzi, visite mondane, passeggiate in carrozza. Parini guarda con ironia o con sdegno i
salotti eleganti, il lusso e gli agi, condanna recisamente quanti indegnamente fruiscono di quel benessere. Le
convinzioni egualitarie lo indirizza no verso una critica di questo mondo ozioso. Ma la sua è una critica non
politica, ma morale: si augura in fondo che l'aristocra-zia torni degna dei privilegi di cui gode, vincendo
infingardaggine e dissipazione, e assumendo un fattivo ruolo sociale. Di contro il „volgo” è possibile modello
di operosità, castigatezza, virtù familiari.
Uno degli aspetti della produzione di Parini fu l'uso di temi spesso dimessi o „vili”, situazioni riprovevoli o
meschine, in un linguaggio di estrazione illustre, a volte magniloquente. Il risultato è l'ironia, o la
nobilitazione del quotidiano. Grazie a lui si ha il risanamento di una materia verbale un po' abusata, in un
difficile equilibrio tra diversi registri stilistici. Si sente l'influenza del latino, le frasi sono lontane dalla facile
cadenza musicale metastasiana. Non il suono, ma le idee e i concetti premono a Parini, che si pone come
rappresentante di una letteratura non evasiva, inaugurando un modo nuovo di fare poesia che influenzerà
moltissimo la prima parte del secolo successivo in Italia.
La sua opera ebbe larga risonanza nei contemporanei, tra riserve (Pietro Verri) e consensi (Carlo Gozzi,
Baretti). In epoca romanticistica, venuta meno l'adesione ai moduli della sua poetica, ci si soffermò piuttosto
sul valore morale della sua figura. La critica crociana lo ha considerato come il maggior esponente
dell'arcadismo.
REPERTORIO BIBLIOGRAFICO:
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Cinquecento, il Seicento e i
Settecento dal rinascimento all’illuminismo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1992. pp. 491517.
Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 2. Cinquecento, Seicento, Settecento.
Firenze, La Nuova Italia, 1995. pp. 399-412.
Bellini, Giovanna, Mazzoni, Giovanni. Letteratura italiana. Storia, forme, testi. / 2 / Il Seicento e il
Settecento. Roma-Bari, Laterza, 1991.
Dizionario della letteratura italiana del Novecento. Diretto da Alberto Asor Rosa. Torino, Einaudi, 1993.
Si veda la voce Carlo Goldoni.
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode», s.a.
pp. 366-375; pp. 387-399 e 399-417.
66
Marchese. Riccardo. Letteratura e società. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro della
cultura europea. / 2 / Dal secolo XVI all’Alfieri. Firenze, La Nuova Italia, 1975. Si veda il capitolo
consacrato all’autore.
DOMANDE-ARGOMENTI:
1. Qual è la visione di Beccaria sul rapporto uomo-stato, e come vede egli la relazione fra colpa e punizione?
2. Chi è Carlo Goldoni? Un breve excursus biografico.
3. Si chiede di definire in breve la poetica teatrale della Commedia dell’arte?
4. Che porta di nuovo Godono nell’ambiente del teatro come spettacolo?
5. Quali sono i personaggi tipologici goldoniani? E il loro significato sociale e morale?
6. Descrivere in breve una delle tante commedie del Goldoni.
7. Cosa porta di nuovo nel teatro e nel clima culturale Alfieri in Italia alla fine del Settecento?
8. Perché Giuseppe Parini godeva di una grande fama e stima nella sua epoca? Argomentare con i suoi
principali contributi di natura poetica e stilistica.
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PREROMANTICISMO
Il preromanticismo è un insieme di sentimenti che sembrano annunciare il vero romanticismo, per esempio,
l'importanza del sentimento, la malinconia, il pessimismo, il sentimento della morte, i paesaggi lugubri,
l'amore per il primitivo, (sentimenti spontanei privi di razionalità). Non si deve però staccare l'illuminismo
dal preromanticismo, perché vi sono aspetti illuministici anche in poeti preromantici come l'Alfieri
(illuminista), che è il più grande poeta preromantico italiano, piena di passione impetuosa, di malinconia, di
solitudine: autore di “Saul”.
In Francia abbiamo uno scrittore illuminista in cui ritroviamo anche molti sentimenti preromantici: Rousseau,
il quale diceva che solo con il ritorno alla natura l'uomo poteva essere felice; però Rousseau crede che l'uomo
possa ritornare alla felicità naturale perché egli è un illuminista (cioè ottimista) e crede che con una giusta
cultura l'uomo possa ritornare alla naturalezza dei suoi sentimenti, mentre i romantici, pur amando la natura,
non credono che l'uomo possa raggiungere la felicità perché c'è stata la delusione storica della Rivoluzione
Francese.
Il più importante movimento preromantico in Germania fu lo «Sturm und Drang» (traduzione di “Tempesta e
Assalto”) che si ribellava alla ragione dell'illuminista, esaltando il sentimento e la natura. A questo
movimento partecipò il poeta Goethe che scrisse “I dolori del giovane Werther”, un romanzo epistolare
conosciuto anche da Foscolo. I sentimenti preromantici furono anche conosciuti per mezzo della cosiddetta
poesia sepolcrale degli inglesi Young (“Pensieri Notturni”) e di Gray (“Elegie sopra un cimitero di
campagna”) soprattutto per i poemi di Ossian che sono delle opere pubblicate da MacPherson e che si
possono considerare dei canti popolari forse scritti da un certo Ossian, un antico guerriero e poeta scozzese,
che in Italia furono tradotti da Cesarotti. Questi poemi parlavano della morte, della notte, del piacere al
dolore, di paesaggi tristi e di tombe. Come dice il critico moderno Binni, l'Ossian di Cesarotti fu molto
importante per i poeti italiani, perché gli fece conoscere temi nuovi.
Romanticismo europeo
Il Romanticismo è un importante e complesso movimento letterario che si ha in tutta Europa ma soprattutto
in Germania tra la fine del '700 e la seconda metà dell'800. La parola Romanticismo ha vari significati: in
Inghilterra “Romantic” viene da romanzo che vuole dire qualche cosa di fantastico, avventuroso; in Francia
"Romantique" vuole dire passione, sentimento; in Italia "Romantico" quasi sempre si oppone al classico. Il
Romanticismo comincia con la Rivoluzione Francese. Il concetto più importante di questo movimento è
quello della vita come continuo divenire, mutamento. Mentre per il classico la vita deve seguire regole fisse,
per il romantico l'artista deve essere libero. Il Romanticismo è un movimento complesso in cui si possono
notare due importanti direzioni:
1. il realismo oggettivo, in cui si parla di problemi reali, umani, della vita di ogni giorno reale (Manzoni);
2. il soggettivismo in cui la poesia è molto intima e fantastica. (Leopardi). Come dice il critico Bosco questi
due aspetti si svilupperanno più tardi e precisamente il primo nel Verismo, il secondo nel Decadentismo,
('900).
Una delle caratteristiche importanti del Romanticismo è il dolore, in cui si vede il male o la malattia del
secolo. Questo dolore è dovuto al fatto che l'uomo sogna una realtà felice ma non trova una società che frena
i suoi grandi sogni: conflitto individuo-società. Proprio per questo motivo un'altra importante caratteristica
del Romanticismo è il desiderio di evadere, fuggire dalla triste realtà, o ritornando al passato o sognando
paesi lontani, primitivi. (esotismo). Questo conflitto individuo-società è uno dei più importanti motivi sia del
preromanticismo (Rousseau) sia del romanticismo e a questo proposito bisogna ricordare il vittimismo per
cui l'uomo si sente vittima della società e si lamenta; il titanismo (i titani erano giganti che si ribellavano ai
Dei) per cui l'uomo sfida la società e anche se perde non si lamenta. Tutte le discussioni attorno al
Romanticismo iniziano in una famosa rivista tedesca "Athenäeum" a cui collaborarono i fratelli Schlegel. In
Europa molte idee del Romanticismo tedesco vengono fatte conoscere dalla scrittrice francese madame De
Stael. Quindi le più importanti caratteristiche del Romanticismo sono: il concetto di storia come divenire
continuo mutamento, l'amore verso il medioevo, come origine della Nazione moderna e come periodo ricco
di leggenda e di religiosità, mito della poesia primitiva, e amore, quindi, per Omero, Dante e l'inglese
Shakespeare, il concetto dell'arte popolare e della funzione patriottica della letteratura, l'amore per la lingua
vicina a quella parlata, e poi l'eroismo.
Romanticismo italiano
In Italia le discussioni cominciarono nel 1816 quando appare su di un giornale, intitolato «La biblioteca
italiana», un articolo di Madame De Stael che parlava delle traduzioni. Infatti la scrittrice esortava gli italiani
a conoscere le letterature straniere. Il primo manifesto del romanticismo italiano si può considerare “La
lettera semiseria di Grisostomo”, di Berchet, in cui si condannano le regole classiche e si esalta una poesia
popolare, viva, attuale, educativa e cristiana. Un giornale milanese che affermò le idee romantiche fu il
Conciliatore, (a proposito della lettera semiseria, si chiama così perché Grisostomo, che scrive al figlio, dopo
aver parlato delle idee romantiche, finisce col dire che aveva scherzato), quindi il Conciliatore concilia
l'antico con il moderno, in cui si parlava di letteratura italiana, straniera, ma anche di idee politiche liberali e
patriottiche, perciò la polizia austriaca lo censurò. A questo giornale collaborarono scrittori patrioti come
Silvio Pellico, Confalonieri.
Il Conciliatore affermava il concetto di utilità e di italianità. Le caratteristiche principali del romanticismo
italiano sono: rifiuto delle regole classiche (unità di luogo, di tempo, di azione nella tragedia) letteratura
popolare, patriottica, morale e religiosa, importante soprattutto fu l'amore per la realtà concreta (realismo);
amore per un linguaggio concreto. Infatti in Italia interessarono poco o temi fantastici, o dell'orrido, perché
grazie alla tradizione classica in Italia si amava l'armonia e la serenità. Il Romanticismo italiano non si può
dire che derivi del tutto dal romanticismo tedesco perché trova i suoi precedenti nella letteratura italiana del
secondo '800 (preromanticismo). Caratteristica fondamentale del romanticismo italiano è quella di essere
equilibrata perché è sempre presente la tradizione classica: infatti accanto al sentimento c'è sempre la
religione.
Significato e storia del termine "Romantico"
Il termine romantico comparve per la prima volta in Inghilterra alla fine del '600 nel senso di “cose di poesia
da romances” «Roman» significava «francese» ed anche una narrazione poetica, una specie di poesia
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romanzesca, con un significato peggiorativo, come gotico, diverso dalla verità naturale. Nel Settecento il
termine ebbe fortuna, assumendo il senso di “attraente, pittoresco, primitivo, nostalgico ed anche
disposizione d'animo sentimentale e fantasiosa”.
In Inghilterra “romantico” era lo stesso col dire gotico e medievale, un sostantivo indicante una tendenza
verso la civiltà romana cristiana contrapposta a quella romana e classica. In Germania l'antitesi “classico
romantico” fu accolta, alla fine del Settecento, da Novalis, secondo cui il termine romantico esprimeva le
esigenze estetiche e spirituali della nuova scuola poetica che appunto in Germania si definiva romantica, con
un programma contrapposto al classicismo tradizionale.
La storia del concetto romantico, come coscienza di un preciso programma culturale, si fa iniziare in
Germania negli anni 1798-1800, sotto la spinta di Federico Schlegel, che fece conoscere il nuovo manifesto
romantico nella rivista Athenäeum nel 1798, diretta anche dal fratello e a cui collaborarono il Novalis e lo
Schelling. Veniva proclamato l'avvento di una nuova civiltà, con una nuova estetica, una nuova filosofia, una
nuova concezione religiosa e sociologica e una nuova letteratura.
Molte cause storiche concorsero alla nascita della poetica romantica, quali, ad esempio:
1. la crisi delle ideologie illuministiche, che in Germania venivano frantumate dalla filosofia Kantiana e
idealistica, dalla rivoluzione antinapoleonica e dal rinato culto delle tradizioni storiche del medioevo
germanico, dal culto della nazione di contro al cosmopolitismo illuministico;
2. il movimento letterario dello “Sturm und Drang” che, pur non essendo un movimento romantico, anticipa,
anche se vagamente, il movimento romantico;
3. la letteratura preromantica inglese (Sepolcrale). Ma soprattutto bisogna ricordare come centro d'origine del
Romanticismo il gruppo di letterati e ideologi tedeschi, alla fine del Settecento, con a capo Herder,
ammiratore della poesia popolare e dell'arte primitiva.
Herder faceva una distinzione precisa fra la poesia naturale, espressione delle esigenze del
popolo e delle caratteristiche nazionali e la poesia d'arte, basata sul principio
dell'imitazione di modelli. Veniva considerata vera poesia quella naturale, cioè
quella della Bibbia, di Omero, di Sofocle, di Shakespeare, Ossian e dei canti
popolari. Da questo gruppo e dallo “Sturm und Drang” presero le mosse i fratelli
Schelling e i poeti Novalis, Tieck, fondatori e critici del Romanticismo. Essi
muovevano dalla concezione estetica di Federico Schiller, che distingueva la poesia
ingenua degli antichi e quella sentimentale dei moderni: la poesia antica è quella
che imita la natura e la sua arte è soprattutto realistica e oggettiva, mentre quella
moderna è sentimentale, perché si basa sul mondo interiore del poeta. Il
Classicismo era quindi visto come il mondo della serenità, della felicità che si
appaga della vita, vista come completa realizzata.
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Il mondo romantico, simboleggiato dalle cattedrali gotiche, non si appaga dei beni di
questa vita e cerca l'ultraterreno, in un'ansia infinita.
Il Cristianesimo, con le sue idee rivoluzionarie, operò la frattura fra la civiltà antica e
quella romantica-moderna, insegnando un nuovo sentimento di intimità spirituale e
anche l'ansia della redenzione. (Da qui il nostalgico, il patetico, il sentimentale).
Diversi furono nei vari paesi, i caratteri del Romanticismo ed anche i limiti cronologici.
Con approssimazione, in Germania iniziò il 1797, in Inghilterra il 1798, in Francia
il 1813, in Italia il 1816, anche se già segni precorritori si erano visti in Alfieri e in
Foscolo.
Caratteri generali del Romanticismo europeo
Il Romanticismo fu un complesso movimento storico, politico, letterario, filosofico, sociale
che, iniziato in Germania alla fine del 1700 e ai primi del 1800, si diffuse in tutta
l'Europa per particolari condizioni storiche. Avendo assunto caratteri diversi in ogni
nazione, è difficile definirlo perché, per la diversità della tradizione nazionale, in
alcuni paesi sembrò un movimento rivoluzionario, in altri un movimento di
restaurazione o come fede nell'umanità buona allo stato di natura... Ma, nonostante
tali diversità, si possono descrivere i caratteri generali, comuni a tutti i paesi.
Pur polemizzando con l'Illuminismo, il Romanticismo si può considerare lo svolgimento e l'antitesi di quel
movimento. Dall'Illuminismo prende e sviluppa i concetti di libertà, di fratellanza e di democrazia,
cambiando la libertà come fine in «libertà come mezzo», la democrazia in senso più popolare. Ma si deve
distinguere la prima della seconda generazione romantica. (De Sanctis, Manzoni). Infatti, nella prima,
(Foscolo, Leopardi, Manzoni) il fondo culturale fu quello illuministico e quindi il romanticismo apparve
continuazione della cultura illuministica. Gli amici del “Conciliatore”, a Milano, si sentivano eredi degli
amici settecenteschi del "Caffè". Nella seconda generazione romantica, il distacco dall'Illuminismo fu più
forte.
Già ai primi dell'Ottocento, quando i romantici incominciavano a prendere coscienza della
loro nuova poetica, le ideologie illuministiche, le esperienze riformistiche e le
campagne napoleoniche avevano frantumato la struttura secolare della vecchia
Europa e il Settecento illuminista aveva allargato la cultura verso il popolo (Opere
didattiche). Goldoni, Parini, Alfieri con la loro opera volevano educare il popolo o
la borghesia. I romantici esprimono pure questa esigenza, con temi più attuali.
(Esortazione di Foscolo a studiare la storia, esigenza patriottica, nei “Sepolcri”,
messaggio civile-politico di Manzoni).
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Nei romantici è vivissimo il senso di una poesia veramente educatrice del popolo: infatti la
“poesia popolare” sarà una delle esigenze fondamentali dei romantici. Per quanto
riguarda il concetto di libertà, i romantici la considerano mezzo per raggiungere
altre libertà fino ad arrivare al marxismo. Però, mentre nell'illuminismo si hanno
idee esasperate contro la tradizione, i romantici sono più moderati e accettano la
storia autentica, considerandola basilare per determinare le origini della civiltà di
ogni nazione europea. I romantici tedeschi esaltarono soprattutto la storia
medievale, perché proprio nel Medioevo la Germania nacque come nazione civile.
Dobbiamo ricordare ancora altri aspetti del Romanticismo, che pur segnando un
ritorno alla tradizione, sostanzialmente sono nuovi.
1. L'importanza data al sentimento, contro il razionalismo degli illuministi, secondo il
quale tutti gli uomini erano uguali, mentre per i romantici il sentimento è diverso in
tutti gli uomini e ne caratterizza la libera individualità. (Il Foscolo nei “Sepolcri”
afferma la forza eroica del sentimento contro la fredda ragione che rende inutili le
tombe). Tale scoperta del sentimento è l'aspetto centrale del Romanticismo che
corrisponde in filosofia alla scoperta della creatività “kantiana” dello spirito; però il
romanticismo filosofico si muove sempre sulla ragione analizzata più criticamente,
mentre il Romanticismo letterario si muove sulla vita del sentimento. Per questo, in
alcuni romantico c'è dissidio interiore tra ragione e sentimento;
2. Il chiarimento e l'esaltazione del concetto di Patria e di nazione, in contrapposizione al
cosmopolitismo napoleonico. Questo aspetto venne sviluppato soprattutto nei paesi
che avevano perduto la loro libertà a causa delle guerre napoleoniche e del
congresso di Vienna;
3. Il ritorno alla fede religiosa, con cui il romanticismo superò il meccanismo materialistico
del "Sensismo" e dell'ateismo razionalista. La fede che si costruirono i romantici
era o fede nel culto delle umane illusioni (Foscolo) o nella poesia eternatrice degli
eroi, o nella contemplazione idilliaca della natura (Leopardi) o nella fede cristiana
(Manzoni). Mentre il cristianesimo dei romantici tedeschi è di origine protestante,
quella degli italiani è cattolico o giansenista;
4. Il concetto dell'arte popolare, nato dalla funzione educativa della poesia, per cui
s'allontana la mitologia e i metodi razionali del Classicismo, per affermare un'arte
spontanea senza le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione;
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5.Inquietudine e passionalità, nata dall'importanza data alla vita psicologica, da cui
l'individualismo in contrasto con l'egualitarismo settecentesco; esaltazione della
fantasia contro il rigido intellettualismo.
In questo periodo la restaurazione fece da moderatrice e da guida nei rapporti civili della
vita spirituale delle masse. In Italia l'esigenza patriottica sfociava nella rivoluzione
risorgimentale e così anche in Germania e nei paesi Balcani. Ma per quanto
riguarda la politica, il contrasto tra i romantici e illuministi è più netto. I romantici,
esaltando la fantasia, non accettavano i principi razionali ed estetici del classicismo
illuministico preferendo Omero a Virgilio, Dante e Petrarca. Venne rinnovato
anche lo stile, che doveva adeguarsi alle esigenze del sentimento e la lingua si
avvicinò a quella parlata e popolare; furono divulgati generi letterari nuovi, come i
romanzi, le tragedie e i romanzi storici, le novelle in versi, le ballate.
(Riallacciandosi all'ultima letteratura settecentesca come lo «Sturm und Drang», il
Preromanticismo e il Neoclassicismo.)
Equivoci e problemi critici del Romanticismo
Finora si è parlato di Romanticismo come scuola o sistema storico. Ma il Romanticismo si
deve anche intendere come sensibilità, se si pensa che un Foscolo e un Leopardi,
che si dichiararono classici, ebbero una spiritualità spontaneamente romantica e lo
stesso Manzoni, così moderato nel suo stile classico, si fece maestro dei romantici.
Il primo equivoco da chiarire è la distinzione che già sin dai primi dell'ottocento si
faceva tra classicisti e romantici.
Classicisti erano considerati i poeti che avevano imitato i classici e moderni quelli che si
ispiravano alla poetica romantica. Da questo conflitto classico- romantico
rimanevano fuori i classici veri e propri, che erano considerati anzi poeti
contemporanei alla loro età così come volevano essere i romantici per la loro epoca.
Ma classicisti e romantici, polemizzando gli uni contro gli altri, si sentivano
entrambi moderni e contemporanei: per esempio Monti e Foscolo, pur
polemizzando con i romantici, si sentivano contemporanei di loro periodo ma
nessuno dei due, per la venerazione portata al mito poetico, identificava la poesia
col vero e con la storia. D'altra parte i romantici tedeschi, che avevano tanto
polemizzato con la mitologia classica, avevano creato una più misteriosa mitologia
di origine germanica coi “Nibelunghi”.
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Vi era pure l'altro equivoco tra romantico e moderno: infatti, quelli che si dichiaravano
romantici conoscevano direttamente i testi della letteratura tedesca e inglese?
Giudicando dagli esempi tradotti dal Berchet (“Eleonora e il cacciatore feroce”),
non pare che conoscessero a fondo quella letteratura. I concetti di patria e di
patriottismo erano comuni agli uni e agli altri, e giustificabili erano le accuse dei
classicisti che rimproveravano ai romantici di divulgare la cultura dei tedeschi, ma
non meno giustificabili erano le accuse dei romantici ai classicisti che tenevano in
vita una rivista «austriacante».
Per amor di patria si scontravano tra di loro, perché i classicisti esaltavano la cultura
italiana come erede degli antichi classici, che non aveva nulla da imparare dagli
stranieri e i romantici volevano l'Italia inserita tra le nazioni straniere e con una
cultura rinnovata, senza accorgersi di volere la stessa cosa. Erano i metodi diversi.
Il Romanticismo fu un movimento così complesso che ebbe aspetti anche opposti
tra di loro come il "liberalismo", da una parte, e la "restaurazione" dall'altra; la
religione della libertà e il ritorno alla fede dogmatica del Cristianesimo; il
Titanismo e il Vittimismo; la reazione e la rivoluzione; il realismo e il patetico.
Tale complessità fu spiegata dal critico Bosco con una distinzione fra scuola
romantica (regole precise) e sensibilità romantica (in cui ci sarebbero gli aspetti più
complessi e contraddittori del movimento). Si deve dire ancora che il
Romanticismo tedesco influì scarsamente sui grandi poeti. (Qualche eco si sentirà
nella Scapigliatura lombarda).
Un altro equivoco da chiarire è che l'articolo di Madame de Stäel fu solo uno stimolo per
entusiasmare alcuni e scandalizzare altri, perché quei problemi erano già presenti nella
cultura milanese e dieci anni prima il Foscolo nei Sepolcri aveva espresso il suo alto
messaggio patriottico e romantico; ancora la rivoluzione napoletana era stata un esempio
del patriottismo di alcuni intellettuali. Perciò il movimento romantico in Italia si può dire
che si svolse in maniera autonoma e differente da quella germanica, condizionata non solo
dalla nostra cultura classica, ma soprattutto dalle condizioni politiche e sociali della
penisola italiana dopo il Congresso di Vienna.
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Se la data dell'inizio del Romanticismo tedesco nel 1800 e di quello italiano nel 1816 è molto vaga, in quanto
è molto stretto il legame tra illuminismo settecentesco e Romanticismo, ancora più equivoco è la data della
fine, perché il Romanticismo sopravvive nel Verismo (Manzoni) e nel Decadentismo (Leopardi) con la terza
generazione romantica.
Il Romanticismo, complesso movimento storico, politico, letterario, filosofico, sociale, artistico, iniziato in
Germania alla fine del 1700 e ai primi dell ‘800, si diffuse in tutta l’Europa grazie ad una particolare
situazione storica, causata dalla crisi delle ideologie illuministiche, in seguito al diffondersi della filosofia
Kantiana e idealistica, dal fallimento del dispotismo politico di Napoleone e dal culto della nazione contro il
cosmopolitismo e illuminismo. Quindi, data la sua complessità, è molto difficile, non solo ridurlo ad una
precisa definizione tecnica ma anche determinarne i limiti cronologici. Comunque come data di scadenza, in
Germania, si preferisce il 1797, anno di pubblicazione della rivista «Athenäeum», che propose grandi
problematiche al mondo culturale ed accademico di tutta Europa, grazie alla partecipazione di un gruppo di
intellettuali (tra cui, i fratelli Schlegel, Novalis, Schelling), che proclamavano l’avvento di una nuova civiltà,
caratterizzata da una nuova estetica, da una nuova concezione filosofica, religiosa e sociologica, e anche da
una nuova letteratura. Essi, partendo dalla concezione estetica di Schiller, che distingueva la poesia ingenua
degli antichi e quella sentimentale dei moderni, affermavano che la poesia antica è quella che imita la natura
con un’arte soprattutto realistica e oggettiva, mentre quella moderna è sentimentale, perché basata
sull’esperienza interiore del poeta.
Questi intellettuali presero le mosse sia da quello che si può considerare il centro di origine del
Romanticismo, il gruppo di letterati degli ideologi tedeschi, verso la fine del Settecento, con a capo Herder,
grande ammiratore della poesia popolare e dell’arte primitiva, sia dallo Sturm Und Drang (tempesta e
assalto), movimento che anticipa quello romantico; in Inghilterra, il 1798, quando fu stampato il programma
aggiunto alle “Lyrical Ballades” da Wordsworth a Coleridge; in Francia, il 1813, con la traduzione del corso
di letteratura drammatica del tedesco Schlegel e l’Allemagne di M. de Staël; in Italia, il 1816, col primo
manifesto del Romanticismo italiano "La lettera semiseria di Crisostomo" di Berchet con le versioni delle
ballate tedesche "Leonora" e "Il cacciatore selvaggio" del Bürger. In tale lettera il Berchet, poeta tipicamente
romantico, per aver posto le basi della poetica romantica in Italia, condanna le regole classiche e l’imitazione
dei modelli, esaltando una poesia spontanea, popolare, ispirata a sentimenti vivi e attuali, educativa, morale,
nazionale, cristiana: l’arte deve essere popolare, estesa a tutta la classe borghese emergente; la mitologia deve
essere bandita, perché tratta fatti lontani dalla realtà e quindi diseducativi; l’Italia si deve aprire agli influssi
della letteratura moderna europea; la naturalezza e il sentimento diretto della realtà storica portano ad imitare
solo la natura ed a trattare fatti contemporanei al periodo in cui si vive; La lingua e lo stile devono essere
semplici e naturali. Agli stessi principi di utilità, di concretezza, di buon senso, di modernità, di moralità e di
italianità si ispira il periodico "Il Conciliatore", che nello stesso titolo propone una conciliazione del nuovo
col vecchio (la nostra tradizione classica) a differenza della poetica tedesca, più estrema.
A questo riguardo, basti pensare all’atteggiamento moderato del Manzoni verso il Romanticismo. Il periodo
storico tra la fine del Settecento e il congresso di Vienna (1814) vede l’Europa –vivere- uno dei periodi più
drammatici della sua storia con il definitivo crollo delle società di antico regime, con il fallimento delle attese
rivoluzionarie della Rivoluzione Francese, con la tragica fine dello straordinario periodo napoleonico ed
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ancora con l’anacronistico ritorno al passato dell’Europa della restaurazione, emersa dal congresso di Vienna,
essendo il potere riportato nelle mani delle tradizionali e screditate aristocrazie: da tutto questo nasce la
delusione storica, presente in molti intellettuali. Poiché l’ondata di rivolta, che in Francia aveva dato un duro
colpo agli ordini preesistenti, si era diffusa un po’ in tutti gli stati europei, il processo di Restaurazione che
fece da moderatrice e da guida nei rapporti civili della vita spirituale delle masse, avvenne alla luce del
compromesso tra il vecchio e il nuovo. Infatti, la borghesia in ascesa, già presa in considerazione durante le
esperienze rivoluzionarie e napoleoniche e poi ben inserita nel progresso delle strutture capitalistiche,
diventava sempre più insofferente. In campo letterario e filosofico, si diffondevano scritti con aspirazioni che
rifiutavano il vecchio ordine: si pensi all’ideologia liberale e allo spirito nazionale. Questi ricchi fermenti
culturali, aspiranti ad un ordine nuovo, si allineavano con i progressi nell’economia, per cui si affermava
sempre di più il binomio progresso-libertà. I grandi fatti nuovi che caratterizzeranno l’Europa della
restaurazione saranno i fermenti nazionali in tutti quei paesi delusi nelle loro aspirazioni unitarie come
l’Italia, la Germania, la Polonia, dove l’esigenza patriottica sfociava nella rivoluzione risorgimentale. Quindi
l’età della restaurazione appare molto complessa e contraddittoria mentre, come risposta ad una situazione
così complessa si ha un movimento culturale, quello romantico, anch’esso vario e contraddittorio. Pur
polemizzando con l’Illuminismo, il Romanticismo si può considerare sia come svolgimento,
approfondimento di esso sia come antitesi. Infatti dall’illuminismo esso prende, approfondendoli, i concetti di
libertà, di fratellanza e di democrazia, intendendo però la libertà non come fine ma come "mezzo" per
raggiungere altre libertà fino al marxismo e la democrazia in senso più popolare. Si deve dire però che nella
seconda generazione romantica (De Sanctis, Tommaseo, Mazzini), il distacco dall’Illuminismo fu più forte.
Per i romantici, la poesia deve veramente essere educatrice del popolo, mentre la conoscenza della storia
viene considerata basilare per stabilire le origini della civiltà di ogni nazione europea. I tedeschi, ad esempio,
esaltavano il medioevo, perché fu in quel periodo che la Germania nacque come nazione civile. Ma l’aspetto
centrale del Romanticismo è senz’altro la scoperta del sentimento (diverso in tutti gli uomini, che presentano
quindi una libera individualità), che corrisponde in filosofia alla scoperta della creatività Kantiana dello
spirito, anche se il Romanticismo filosofico analizza la ragione più criticamente, mentre quello letterario si
muove sulla via del sentimento. Infatti per Kant la realtà è frutto dell’attività creatrice del pensiero, ponendo
però dei limiti alla ragione teoretica, che può conoscere solo il manifestarsi fenomenico della realtà, mentre
gli idealisti sono portati alla conoscenza globale della realtà, come un tutto organico di finito e infinito, che
illumina il primo. Questa via seguono Fichte, Schelling ed Hegel, che giunse ad affermare che "tutto ciò che
è reale è razionale", frutto dell’attività creativa del pensiero umano e quindi degno di essere considerato.
Tale affermazione che il soggetto pensante può creare anche dal nulla tutta la realtà, ha come conseguenza sia
l’esaltazione del vitalismo individuale sia una concezione metafisica della ragione, con il disprezzo per la
realtà empirica, che spesso nei romantici provoca uno stato di insoddisfazione, causato dal contrasto tra
ideale e reale.
Un altro aspetto importante del Romanticismo è l’esaltazione del concetto di Patria, soprattutto nei paesi che
avevano perduto la loro indipendenza per le guerre napoleoniche e per il congresso di Vienna. Si deve anche
ricordare il ritorno alla fede religiosa con cui il Romanticismo superò il meccanicismo materialistico
dell’Illuminismo. Ancora, l’inquietudine e la passionalità erano sentite come espressione dell’individualismo
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contro l’egualitarismo settecentesco. In Italia, i più grandi interpreti del Romanticismo furono Manzoni, col
suo amor patrio, la sua fede religiosa e il suo bisogno di educare il popolo mediante le su opere; Leopardi,
con la sua inquietudine la sua aspirazione d’Infinito e la sua contemplazione idilliaca della natura e anche il
Foscolo, da considerare meglio un neoclassico romantico, con la sua fede nel culto delle Illusioni e nella
forza eroica del sentimento contro la fredda ragione (Sepolcri) In Inghilterra, gli scrittori che più
caratterizzarono il Romanticismo furono per la lirica Byron, simbolo del poeta ribelle e satanico e Shelley;
per la narrativa Walter Scott, iniziatore del romanzo storico a cui si ispirò il Manzoni per i Promessi Sposi;
molto successo ebbe pure Dickens.
In Francia le idee romantiche, divulgate da , Madame de Stäel, si affermarono con De Lamartine, De Musset,
De Vigny, Victor Hugo e soprattutto con la grandissima opera narrativa di Honorè de Balzac e di Stendhal. In
Spagna si deve ricordare l’opera di José de Espronceda; in Russia le opere di Puşkin e di Gogol. I maggiori
narratori americani dell’Ottocento, Poe, Melville e Hawthorne, seguono soprattutto le vie del "nero": Poe con
racconti basati sul mistero, l’orrore, il brivido dell’arcano, Hawthorne con la "La lettera scarlatta" e Melwille
con "Moby Dick". I rivolgimenti politici e sociali dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento, trasformando
la composizione sociale e i gusti del pubblico, provocarono anche mutamenti nella produzione musicale:
infatti, la presenza delle nuove categorie emergenti comportò richieste verso una musica meno evasiva e più
legata ai problemi politici e sociali dell’epoca. Con il tedesco Beethoven, si aprì una nuova era musicale, non
solo per le novità tecniche, ma anche per l’impegno professionale e il senso di responsabilità. Ad
incoraggiare questo processo di rinnovamento furono proprio le idealità romantiche, quali la libertà di
ispirazione e di espressione, che permisero la ricerca di nuovi contenuti musicali che riflettessero gli ideali
civili, politici e morali della cultura romantica. Nel campo della musica strumentale ricordiamo il polacco
Chopin, l’austriaco Schubert, il tedesco Schumann, Listz. In Italia il melodramma subì un grande
rinnovamento dando molta importanza alle vicende umane messe in scena, ai caratteri dei personaggi e ai
contenuti letterari. Rossini e soprattutto Donizetti e Bellini sentirono molto l’influsso della cultura romantica,
che essi espressero particolarmente attraverso l’amore infelice. Qualitativamente e di gran lunga più
innovativo fu però Verdi, che cercò di esprimere caratteri più virili ed eroici, con argomenti che riflettessero
il clima di tensione politica e di patriottismo dell’epoca in opere come “Nabucco” o “La battaglia di
Legnano”.
Gli sconvolgimenti storici di questo periodo con la conseguente crisi di idee all’interno della società,
portarono ad una nuova immagine di artista solitario, rispetto al ruolo di educatore morale e civile precedente
di genio incompreso che, convinto dell’impossibilità di modificare la società si chiude in se stesso,
immaginando mondi fantastici in cui rifugiarsi, creando la cosiddetta "pittura visionaria", di cui un precursore
fu il pittore svizzero Füssli che si ispirò ad autori come Dante e Shakespeare, rivalutati nel romanticismo
perché autori genuini e forti. La pittura del Romanticismo affrontò anche temi tratti da riti magici e misteriosi
come si vede nei dipinti di Goya, che tratta spesso convegni notturni di streghe e demoni in onore di Satana.
Un pittore che sentì fortemente sia il bisogno di tenere vive le regole neoclassiche del decoro, sia l’esigenza
romantica di esprimere una profonda ricerca interiore fu il francese Delacroix. Ricordiamo la sua famosa
opera “La libertà che guida il popolo”, in cui il pittore vuole dimostrare la propria adesione ai moti
rivoluzionari (le tre giornate di Parigi del Luglio 1830) ritraendosi accanto alla figura femminile
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rappresentante la Libertà, nel personaggio col cappello nero armato di fucile.
Conclusione
Da quanto letto, il Romanticismo è un movimento in cui convivono aspetti anche opposti fra di loro come il
"liberalismo" e la "restaurazione" la religione della libertà e il ritorno alla fede dogmatica del Cristianesimo;
il Titanismo e il vittimismo; la reazione e la rivoluzione; il realismo e il poetico. A questo riguardo, il critico
Bosco distingue una scuola romantica, con regole precise, e una sensibilità romantica, con gli aspetti più
complessi e contraddittori del movimento. Perciò se la data di inizio del Romanticismo tedesco del 1800 e di
quello italiano del 1816 è molto vaga, per lo stretto legame tra Illuminismo settecentesco e romanticismo,
ancora meno chiara è la data della fine, perché il Romanticismo sopravvive nel Verismo e nel Decadentismo.
A questo riguardo, il critico Bosco parla di Romanticismo bifronte, con due aspetti apparentemente non
conciliabili fra di loro: da una parte, il movimento tende alla concretezza, ad una visione reale, storica
(Manzoni); dall’altra all’indefinito, al vago (Leopardi). Per questo, il Romanticismo sfocerà nel Naturalismo,
nel romanzo sperimentale e anche nel decadentismo simbolista. Il Romanticismo esiste ancora oggi, non solo
perché alcune sue esigenze sono universali, come l’aspirazione all’infinito, la sensibilità, l’angoscia del
dubbio universale, l’inquietudine e l’insoddisfazione, lo scontro fra ideale e reale, ma anche per l’attuale
individualismo attivo, che comporta l’autonomia dell’individuo, limitata però dalla piena padronanza che egli
deve avere su se stesso e dal concetto della superiorità dell’interesse del tessuto sociale cui appartiene.
Il superamento della filosofia materialistica in Foscolo, Manzoni e Leopardi
La filosofia del Materialismo, che nega l’esistenza di sostanze spirituali, afferma che la
materia è all’origine di tutte le cose, che vengono generate secondo un rapporto
deterministico di causa-effetto, senza nessun finalismo e che inoltre anche la vita spirituale
dell’uomo deriva dalla materia che forma il corpo. Attorno alla metà del Settecento, tale
dottrina viene ripresa, diventando materialismo meccanicistico, da un gruppo di filosofi
dell’Illuminismo. Il Materialismo meccanicistico in Italia fu fatto proprio dal Foscolo e dal
Leopardi che scrisse una serie di appunti su di esso anche nello Zibaldone. Lo stesso
Manzoni, nella sua concezione della storia, parte da una concezione illuministica
meccanicistica, vedendo nella storia stessa, sangue ed ingiustizie senza nessuna speranza di
redenzione o di felicità in terra. Così come Foscolo, che inizialmente vede nel mondo
tirannide, oppressione e nessuna speranza di salvezza o di fiducia; anche Leopardi,
precisamente nello Zibaldone, afferma che <<la materia può pensare, la materia pensa e
sente>>.
Ma, in un secondo momento, i tre autori, ognuno in modo diverso, riescono a superare la filosofia
materialistica, da cui erano partiti. Foscolo, dopo la delusione del trattato di Campoformio, con cui Venezia
viene da Napoleone ceduta all’Austria, cade in un profondo pessimismo e la sua filosofia materialistica è così
forte che il protagonista de "Le ultime lettere di Jacopo Ortis" si suicida senza nessun’altra speranza. Ma, con
"I Sepolcri" il Foscolo, dopo aver iniziato il Carme con una concezione materialistica: “A che servono le
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tombe, se tutto nasce e finisce nella materia?”, però supera tale concezione materialistica, perché il suo cuore
si ribella alla ragione, la quale freddamente conclude che la vita è materia, è un ciclo continuo di vita e di
morte. A questo punto, il poeta si affida alle Illusioni, ideali che, respinti dal filosofo, vengono accettati dal
sentimento dell’uomo, incapace di credere che tutto verrà dimenticato dopo la morte, anche le gesta di grandi
e valorosi uomini .
Foscolo con la ragione si rende conto che le Illusioni, come la Tomba, l’Amore, la Bellezza, la Poesia,
l’Amicizia, non esistono realmente, ma con il cuore sente che l’uomo non può fare a meno per vivere e per
superare le tragedie, le miserie e le ingiustizie della vita, di affidarsi alla fede in queste Illusioni.
Per il poeta, la più importante delle illusioni è la Poesia, pura e libera dal servilismo politico; grazie ai poeti
come Omero che, traendo ispirazione dal sepolcro di Troia, dove erano seppelliti i grandi eroi, cantò gli stessi
eroi e le loro imprese, i fatti e gli uomini grandi della Storia diventano eterni, combattendo e superando la
concezione materialistica che vuole che tutto finisca con la fine stessa della Materia. Così, nei "Sepolcri",
Foscolo supera il pessimismo e l’arida filosofia materialistica con la fede nelle Illusioni, che alimentano il
cuore dei giovani eroi per grandi imprese; egli stesso, lasciando ai posteri un’opera come "I Sepolcri" che
stimola alla libertà e a grandi gesta, sa che diventerà immortale ed eterno, anche dopo la sua morte, perché
immortale sarà la sua opera.
Anche nell’Ode “All’amica risanata” la visione della malattia della donna (cioè della triste e peritura realtà) è
superata dalla fede nell’Illusione della bellezza che, ispirando il poeta, rende divina quindi eterna la stessa
donna mortale. Illusione delle illusioni è quindi la Poesia, eternatrice dei miseri ed aridi fatti umani, che si
nutre a sua volta di Illusioni quali la Bellezza, l’Amore, la Patria. Nelle “Grazie”, le idee pongono un velo di
civiltà, armonia, divinità, al misero mondo umano, che viene così alla fine trasfigurato in un’aura di sogno e
di simboli che fanno diventare la storia, Metastoria. E’ proprio con i Miti del mondo classico che Foscolo
riesce a superare l’iniziale concezione materialistica: Omero, Venere, Aiace, personaggi reali che, divenuti
grazie alla Poesia, eterni, sono ormai Ideali supremi che hanno trasfigurato e superato la triste realtà e che
quindi incarnano dei valori assoluti e necessari, che permettono al sentimento degli uomini e alla loro stessa
civiltà di sopravvivere alla breve esistenza terrena.
Anche il Manzoni, prima della conversione aveva una concezione meccanicistica del mondo, governato da
una forza operosa che affatica le cose di moto in moto come il Foscolo e come più tardi il Leopardi. Ma
mentre il Foscolo affida la sua immortalità alle opere poetiche, il Manzoni riesce a superare la sua concezione
materialistica con la fede in Dio e nella Provvidenza che illumina e spiega, secondo un imperscrutabile
giudizio divino, le tragiche e misteriose vicende della vita. I “Promessi Sposi” narrano la storia di due umili
filatori di seta, Renzo e Lucia, il cui matrimonio viene impedito da Don Rodrigo, un signorotto prepotente
che, invaghitosi di Lucia, ideò un rapimento, servendosi di un signore malvagio, l’Innominato. Da questo
rapimento, deriva tutta una serie di peripezie a cui vanno incontro sia Renzo sia Lucia, fino alla conclusione
quando i due Promessi Sposi possono finalmente sposarsi.
Dietro la vicenda di questi due umili personaggi, appare lo sfondo del ‘600, con la Peste, la presenza di
personaggi storici e soprattutto con la Provvidenza che illumina tutto e tutti, perché anche la storia è, il
Manzoni, rivelazione di Dio in terra così come per Dante la storia, la politica si fonde con la Teologia.
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Tale opera infatti, rappresenta la fede degli umili sventurati, che nonostante le angherie dei potenti, non
smettono mai di credere in Dio, il quale “non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una
più certa e più grande…”. E’ questa grande fede in una vita ultraterrena, che sostiene e dà forza agli umili,
per i quali ci sarà vera giustizia, felicità e uguaglianza nel regno dei cieli. Ne “I Promessi Sposi” si ha un vero
superamento della concezione tragica, arida, materialistica della vita: infatti bisogna accettare la vita e le sue
ingiustizie come fiduciosa attesa di Dio, come lotta contro le ingiustizie (Lucia, padre Cristoforo) perché i
guai di questo mondo quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende
utili per una vita migliore. Perciò questo romanzo si può veramente considerare il poema del Dio che atterra e
suscita, che affanna e che consola, come direbbe Dante. All’ideale-giustizia di Adelchi, qui subentra quello
del Dio-Provvidenza, di Padre Cristoforo: anche il dolore, qui è accettato come un dono di Dio. A differenza
dell’Adelchi, dove da una parte c’era l’ingiustizia degli uomini, dall’altra la giusta giustizia di Dio, ne “I
Promessi sposi” il male e il bene si trovano nelle mani di Dio e gli uomini sono solo strumenti, “Baiuli”
(come dice Dante nel canto VI del “Paradiso”) della Sua volontà.
E’ quindi la profonda carità che eleva e supera le tragedie e tutti i personaggi, in una visione ultraterrena, di
eternità, dentro cui e per cui si muove la storia, in una unità intrinseca tra umano e divino, proprio come nel
Poema dantesco. Nell’Inno sacro, la “Pentecoste”, Manzoni, rivolgendosi alla schiava che invidia la donna
libera, le ricorda che anche per lei ci sarà libertà ed uguaglianza dopo la vita terrena e che il Regno dei Cieli è
degli infelici. In questo modo, il poeta trova una spiegazione alla Sventura della storia, facendola diventare
Provvida Sventura: tutte le sventure e le tragedie che si abbattono sul mondo e sulle persone, avendo fede in
Dio, sono "provvidenziali" cioè volute dalla Provvidenza divina per condurci, alla fine, alla salvezza e felicità
eterna. Ricordiamo l’ode “Il cinque maggio”: Napoleone, dopo una vita di gloria, alla fine viene relegato in
una piccola isola, solo e dimenticato da tutti; ma una Mano gli viene incontro per condurlo, in questo
momento di Provvida Sventura, nel regno della gloria eterna. Lo stesso succede ad Ermengarda, (“Adelchi”),
rifiutata dal marito Carlo Magno e accolta nel regno dei cieli, nel momento di massima solitudine e di
infelicità. E’ chiaro, quindi come il Manzoni, partito da una concezione tragica e materialistica, riesca a
superarla nella Fede nell’attesa fiduciosa della Grazia di Dio che scende dovunque come "aura consolatrice".
Anche Leopardi, pur non essendo filosofo nel senso comune della parola, parte da una cultura filosofica
materialistica: ricordiamo l’operetta morale “Dialogo della natura e di un islandese”: “La vita di questo
universo è un perpetuo circuito di produzione e di distruzione…:a chi piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tute le cose che lo compongono?” La
concezione materialistica presenta, però, pure il senso della nullità dell’uomo e della vita affettiva, riflettendo
il poeta sul rapporto tra il fine della natura cosmica e il fine della natura umana, che non coincidono. Infatti
nello “Zibaldone” s’afferma che il fine della natura umana è la felicità… mentre il fine dell’esistenza
generale non è la felicità degli uomini.
Il poeta supera quindi la concezione filosofica-materialistica del Settecento, scoprendo questa disarmonia tra
la vita dell’uomo e quella dell’universo, che alla fine è la scoperta della spiritualità dell’uomo contro la realtà
materialistica della natura. Il fine dell’uomo è quindi diverso da quello della natura: gl’ideali umani forse
sono illusioni, espressioni del cuore, proiettate e cantate nel futuro o nel ricordo vago e idillico del passato.
Ricordiamo “A Silvia”: "Silvia… rimembri ancor". In questo idillio viene svolto il motivo della speranza
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delusa e stroncata prematuramente: il canto, muovendo da un ricordo personale (Silvia sarebbe Teresa
Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta a ventun anni nel 1818), oltrepassa quella lontana
realtà: la memoria della giovinetta, come dice il critico Flora è: “non più soltanto evocativa e pietosa, ma
poetica… è cioè assunta in un significato lirico, ad esprimere non un fatto particolare ma il divino e l’eterno
che è in un episodio terrestre”. Quindi Teresa è qui diventata Silvia, una fanciulla che si affaccia al limitare
della giovinezza “quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / e tu, lieta e pensosa, il limitare /
di gioventù salivi?”. (“A Silvia” vv. 3-6).
In questo Idillio, Silvia lavora e canta, perché simboleggia anche la Speranza sua (e del poeta) in un dolce
futuro. Alla fine Silvia muore prima di giungere al fiore dei suoi anni, così come -muore– la Speranza del
poeta, prima che egli possa vivere la piena giovinezza. L’essenza dolorosa del canto (potremmo dire
materialistica nella constatazione della cruda realtà), è però superata dal Mito, dall’Incanto, “dolce e ameno
inganno” della Giovinezza e quel senso di gioiosa attesa, presente negli occhi “ridenti e fuggitivi” di Silvia.
Anche ne “Il Sabato del villaggio” il poeta ricorda con dolcezza il sabato del suo villaggio, le ragazze e i
ragazzi in festa nell’attesa dell’Amore… Il Leopardi non ha la fede religiosa del Manzoni e perciò, quando
osserva il rapporto tra le finalità della natura, sempre in un perpetuo circolo di vita e di morte, e le finalità
dell’uomo, che cerca disperatamente la felicità, non credendo nell’immortalità dell’anima, supera la materia e
trova l’infinità dello spirito, come supremo ideale. Più che superamento o risoluzione del materialismo, il suo
atteggiamento si può meglio definire come idealismo naturalistico: egli crea, come poeta e non come
filosofo, le infinite Illusioni della sua anima, i miti della Giovinezza, della Felicità, della Gloria.
Anche se in un secondo momento, Leopardi affiderà alla Ragione, il compito di affrontare
le tristezze della vita, strappando il velo delle illusioni per guardare in faccia virilmente e
titanicamente il vero, il suo sentimento è e rimarrà fondamentalmente un sentimento di
commozione, di turbamento verso quegli anni lontani, verso quel mondo ideale di fremiti e
di speranze, mondo proiettato nel futuro e nel passato. Così l’iniziale materialismo
illuministico, rischiarato dalla voce del sentimento, è già diventato titanismo morale, forza
spirituale, “infinito” che supera il finito. Oggi, più che mai, in un mondo proiettato verso
un progresso senza limiti, l’uomo accoglie la voce leopardiana che parla ai nostri cuori,
ricordandoci i nostro “infiniti” limiti e le nostre tragiche infelicità ma anche, e soprattutto,
la nostra innata sete di “Infinito” che ci fa smaniare: “…e un fastidio m’ingombra / la
mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar
pace o loco”. (“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, vv.117-121)
Ugo Foscolo
Nacque nel 1778 a Zante, un'isoletta dello Jonio, che Lui chiamò affettuosamente Zacinto, all'epoca
appartenente alla Grecia. Della sua vita dobbiamo ricordare i seguenti fatti: la nascita in un luogo greco gli
fece amare il mondo classico; le sue partecipazioni alla vita militare ci fanno capire il suo attivismo. Quando
muore il padre si trasferisce a Venezia con la madre. Ma quando con il Trattato di Campoformio Venezia
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venne ceduta all'Austria si allontana dalla città e a Firenze s'innamora di Isabella Roncioni, a Milano di
Antonietta Fagnari Arese e in Francia, da una inglese, ha la figlia Floriana. Morì a Londra nel 1827, stanco,
ammalato e povero. Ora le sue ceneri sono nella chiesa di Santa Croce a Firenze, che egli aveva cantato nei
Sepolcri.
Quando scoppiò la Rivoluzione francese egli era pieno d'amore, di gloria e partecipò a quel sentimento di
libertà con molto ardore. Quando ritornarono gli austriaci in Italia offrirono al Foscolo la direzione di un
giornale letterario, La biblioteca italiana, ma Foscolo rifiutò e fuggì a Londra. Le opere maggiori del Foscolo
sono: “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, “Le Odi”, “I Sonetti”, “I Sepolcri” e “Le Grazie”. Nel Foscolo la
vita, molto impegnata in quegl'ultimi anni della Rivoluzione francese e dalla fine di Napoleone, e l'arte sono
molto legate: basti pensare alle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” in cui si nota tutta la sua delusione politica.
Come dice il Sapegno, il Foscolo si può considerare un esempio di romantico, perché la sua vita fu
appassionata, inquieta, ricca di amori e malinconica. Il Foscolo si può considerare un neoclassico-romantico
per il pensiero della morte, per il suo amore patriottico, e perché ama un'arte libera. Nel Foscolo si hanno
anche motivi del preromanticismo europeo come la poesia sepolcrale e l'amore del lugubre. Il pessimismo del
Foscolo deriva dal fatto che egli vede nella vita annullati gli ideali di libertà e di giustizia, e secondo la
concezione materialistica crede che tutto sia materia. Ma questo pessimismo viene superato dalle “illusioni”,
che sono gl'ideali, i sentimenti come l'amore, la bellezza, la Patria, la tomba e la poesia. Il Foscolo le chiama
illusioni perché non esistono realmente ma sono necessarie per continuare a vivere.
A questo punto dobbiamo fare una differenza fra il Foscolo e l'Alfieri: mentre l'Alfieri è chiuso e non vive la
realtà concreta, il Foscolo anche se, come l'Alfieri, s'accorge del conflitto fra reale e ideale, vive la realtà del
suo tempo. C'è una differenza con il Monti: mentre il classicismo del Monti è fredda imitazione, in Foscolo è
un modo per dare serenità ai suoi turbamenti; in sostanza si può dire che il Monti non partecipa alla vita del
suo periodo mentre Foscolo vive tutti i problemi della sua età.
Le ultime lettere di Jacopo Ortis
Quest’opera un romanzo epistolare che ha un carattere autobiografico, perché il Foscolo nella figura di
Jacopo esprime tutti i suoi sentimenti. Questo romanzo parla di un giovane, Jacopo Ortis (Foscolo), che
avendo saputo del trattato di Campoformio, con cui Bonaparte dava Venezia all'Austria (1797), si rifugia sui
Colli Eugani dove incontra Teresa, già promessa sposa ad Orlando. Jacopo, innamoratosi di Teresa,
preferisce allontanarsi e poi ritorna di nuovo sui Colli Eugani dove Teresa si è già sposata e Jacopo, disperato
per la delusione amorosa, ma anche per quella patriottica si uccide. Questo libro si può considerare il primo
romanzo del romanticismo italiano, soprattutto per l'aspetto autobiografico, perché il Foscolo mette nel libro
le sue idee. Il Foscolo nello scrivere questo libro ricordò senz'altro opere precedenti del '700 (come l'Alfieri),
“I dolori del giovane Werther” di Goethe, Il Gray, “La Nuova Eloisa” di Rousseau, il poema di Ossian. Però,
mentre, per esempio, nel romanzo di Goethe è importante soprattutto la delusione amorosa, nel Foscolo è
molto importante la delusione politica. Questo romanzo fu molto amato dagli uomini risorgimentali, i quali
videro in esso molto amore patriottico e lo spirito di libertà.
Le Odi
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Sono due: “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e “All'amica risanata”. Nella prima si
parla soprattutto della bellezza, difatti in quest'opera la preoccupazione del poeta è quella
di vedere ritornare l'antica bellezza nella donna ferita ed esorta le Grazie (divinità) a
guarire la sua donna, la quale caduta da cavallo come la Dea Diana guarirà più bella di
prima. Come si vede quest'opera si rifà al neoclassicismo per il linguaggio elegante che poi
viene trasfigurato in un mito. Nella seconda Ode abbiamo il mito della bellezza più
profonda che serve a consolare gli uomini, ed anche il mito della poesia eternatrice che poi
vedremo nei Sepolcri e che vuole dire che la poesia serve a rendere eterne le azioni degli
uomini. Quest'ode parla della sua donna che guarisce dopo una malattia e che con la sua
bellezza rallegra i giovani; il poeta con il suo canto trasforma la bellezza mortale della
donna in bellezza immortale, anche quest'ode si rifà al neoclassicismo e si considera più
perfetta della prima.
I Sonetti
Sono dodici (12), I più famosi sono: “In morte del fratello Giovanni”, “A Zacinto”, “Alla Sera”. Il primo
parla del suicidio del fratello e dell'importanza delle tombe. Il terzo parla della sera, che simile alla morte dà
un senso di pace. Il secondo, “A Zacinto”, parla della sua Patria lontana, poiché lui è in esilio e Foscolo
ricorda l'eroe Ulisse, che rappresenta l'uomo esule lontano dalla Patria, figura dell'eroe romantico; in
quest'ultimo sonetto si parla già dell'importanza del Sepolcro, della tomba illacrimata che se lontana dalla
Patria non viene confortata dal pianto dei parenti.
I Sepolcri
Questo carme fu iniziato nel 1806, ma già, il Foscolo l'aveva cominciato nel 1804, prima,
quindi, della pubblicazione in Italia dell'editto di Saint Cloud, legge con cui Napoleone
poneva i cimiteri lontani dalle città e le scritte sulle tombe dovevano essere tutte uguali. Fu
dedicato allo scrittore Pindemonte, come una lettera di risposta, perché Pindemonte aveva
parlato pure lui dei cimiteri. Il motivo occasionale, superficiale, del carme fu l'editto di
Saint Cloud del 1804, ma conosciuto in Italia più tardi. Questo editto proibiva la differenza
tra morti comuni e morti illustri.
Però, i veri motivi derivano dal sentimento foscoliano che già abbiamo visto nell'Ortis, nei “Sonetti” e nelle
“Odi”, e soprattutto dall'amore del Foscolo verso i grandi valori spirituali dell'umanità, che vivono anche
dopo la morte. Questo carme vuole dimostrare che le tombe inutili ai morti sono utili ai vivi, perché fanno
nascere in chi le visita sentimenti buoni, se queste tombe appartengono a persone oneste.
I motivi principali del carme sono: il sentimento romantico della morte e quello delle illusioni che ci
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permettono di sopravvivere. I “Sepolcri”, secondo il Foscolo, servono a rinforzare l'affetto familiare, a farci
ricordare il passato glorioso della Patria e quindi spingere i giovani a grandi gesta, ed infine servono ad
ispirare la poesia. Nel carme, la natura è vista come una forza che trasforma continuamente la materia e per
questo, il Foscolo, s'avvicina al materialismo del settecento. In quest'opera la morte e la vita sono sempre
presenti, perché anche se si parla della morte, il carme si può considerare un incitamento alla vita eroica.
Nei Sepolcri sono ricordati grandi uomini come il Machiavelli, Dante, Petrarca, Alfieri; anzi, a proposito del
"Principe", del Machiavelli, Foscolo dice che il Machiavelli con la sua opera voleva far vedere ai popoli tutte
le colpe e i delitti del Principe, con la scusa di parlare ai principi stessi. Anche "I Sepolcri" si può considerare
un'opera romantica e classica per la mitologia che presenta, per le espressioni armoniose e soprattutto per
l'armonia che c'è nei Sepolcri fra la vita e la morte.
Le Grazie
E' un carme che nacque quando il Foscolo vide lo scultore Canova lavorare intorno al gruppo delle Grazie. Si
divide in tre inni: il primo a Venere, il secondo a Vasta e il terzo a Pallade. Con quest'opera il Foscolo canta
gli aspetti più nobili della civiltà umana che sono state insegnati agli uomini dalle Grazie. (Amor di Patria, la
danza, amore verso il prossimo). Le Grazie secondo il mito greco erano tre figlie di Giove. Oggi la critica
vede nelle Grazie un importante esempio di romanticismo neoclassico, perché cerca di portare serenità al
dolore degli uomini.
GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)
Itinerario della biografia poetica
Leopardi nasce a Recanati (Marche, ma allora Stato della Chiesa) nel 1798, primogenito di 9 fratelli, 5 dei
quali sopravvissuti. La sua famiglia è di origine nobile, anche se titolata di recente: essa traeva sostentamento
da un precario reddito agrario e dal gioco di destrezza rappresentato dalla richiesta e dall'assegnazione di
dote. Il patrimonio comunque era stato dissestato dalle manie collezionistiche e dalla cattiva amministrazione
del padre Monaldo (un conte di idee legittimiste e sanfediste). La madre, Adelaide Antici, sembrava vivere
con l'unico scopo di restaurare la passata ricchezza. Nella primavera del 1798, quando Napoleone passò per
la Marca anconetana e direttamente da Recanati, Monaldo, che era il nobile più in vista del luogo, si rifiutò di
vederlo.
La puerizia di Giacomo fu "mozartiana": estro, grazia, destrezza, capacità di memoria e di assimilazione
prodigiose. Tuttavia, nel 1810, i genitori improvvisamente decisero, per ragioni rimaste ignote, ch'egli non
avrebbe goduto i privilegi del maggiorascato e che invece si doveva favorire la sua carriera ecclesiastica: e
così fu tonsurato.
Già a 10 anni, poiché non lo soddisfacevano i due precettori cui l'aveva affidato la famiglia, inizia a studiare
da solo nella ricchissima (anche se antiquata) biblioteca paterna (12.000 volumi), che era stata messa insieme
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comperando all'asta i fondi sequestrati dai francesi a conventi, congregazioni, istituti religiosi. Si applica
soprattutto alla filologia greca e latina, impara l'ebraico e le lingue moderne. Con 7 anni (1812-17) di studio
"matto e disperatissimo" si rovina la salute in modo irreparabile e diventa un ragazzo prodigio.
In questo periodo compone circa 240 opere: traduzioni, saggi eruditi e filologici, tragedie, inni, commenti,
discorsi, ecc. Tutte di scarso valore contenutistico, ma utili per comprendere il retroterra culturale del giovane
Leopardi. Egli infatti non aveva studiato solo gli autori antichi, ma anche i testi degli illuministi e materialisti
francesi e inglesi del Settecento: Locke, Helvetius, Voltaire, Montesquieu, d'Holbach, Rousseau. Le idee di
questi Illuministi vengono combinate con una posizione teorico-politica piuttosto conservatrice, frutto
dell'ambiente arretrato in cui il giovane Leopardi viveva. Ad es. egli si compiace della sconfitta di Murat ad
opera degli austriaci nel 1815 (Murat era stato messo da Napoleone sul trono di Napoli), esalta l'assolutismo
illuminato (cioè attende dal "principe" ciò che ormai i patrioti aspettavano dal popolo), considera
l'unificazione nazionale un'utopia (vedi ad es. Orazione agli italiani del 1815), non mette in discussione i
valori delle classi privilegiate... Non dimentichiamo ch'egli trascorse tutta la sua vita durante il periodo più
oscuro della ventata restauratrice seguita al Congresso di Vienna del 1815. Nel Discorso di un italiano sulla
poesia romantica (1817) assume una posizione antiromantica e antispiritualista.
Fra i 17 e i 18 anni matura un improvviso mutamento di gusto letterario: passa dalla astratta erudizione e
dalla retorica alla poesia e alla letteratura. Questo mutamento probabilmente dipese dal fatto che la pessima
condizione fisica l'aveva portato a una forte crisi esistenziale, ovvero a una riflessione più personale sulla
propria vita. Inizia a leggere le opere di Alfieri, Monti, Parini, Foscolo, Goethe, Byron... per sentirsi più
vicino alla sensibilità e alle problematiche del Romanticismo. Del quale però se condividerà certi
atteggiamenti esistenziali, come l'angoscia, l'oblio, la malinconia, nonché la polemica contro la mitologia
greca e l'imitazione pedissequa della tradizione classica, non accetterà mai l'esaltazione eroica, la
passionalità, il sentimentalismo, il nesso letteratura/politica, ecc. Nel 1817 inizia a raccogliere note letterarie,
filosofiche, personali, nello Zibaldone che, continuato sino al 1832, verrà pubblicato postumo nel 1898.
Si sente particolarmente valorizzato quando un grande letterato come Pietro Giordani apprezza la sua
traduzione di una parte dell'Eneide. Anzi, l'amicizia col Giordani, di idee democratico-illuministiche, lo
porterà a modificare sensibilmente le sue opinioni politiche conservatrici. Tanto che le canzoni civili
All'Italia e A Dante (1818) gli attirano le simpatie degli ambienti carbonari. Ad es. nella canzone Monumento
a Dante, egli rimprovera alla Francia le confische dei nostri beni artistici e la perdita delle divisioni italiane
durante la campagna di Russia.
Avrebbe voluto nel '19 recarsi a Roma per contattare ambienti culturali più stimolanti di quello di Recanati,
ma non avendo ottenuto nella capitale alcun lavoro e non essendo la sua famiglia disposta a stipendiarlo, è
costretto a rinunciare. Il desiderio di uscire da Recanati, come da una prigione, è un motivo centrale della sua
vita: esprime in una forma concreta quella sua ansia romantica di una realtà diversa da quella in cui con la
"ragione illuministica" s'era chiuso. Egli infatti dell'Illuminismo (almeno fino all'incontro col Giordani) non
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aveva apprezzato le idee politiche democratiche ma solo quelle idee filosofiche orientate verso il
materialismo meccanicistico e sensistico.
Eppure la produzione migliore del Leopardi avviene proprio nel periodo di Recanati (in cui passerà 25 dei
suoi 39 anni di vita): L'infinito, La sera del dì di festa, Alla Luna, Ultimo canto di Saffo, Ad Angelo Mai... Il
motivo sta nel fatto che il Leopardi riesce a coniugare una perfezione stilistica pressoché assoluta con una
profonda liricità e con una acuta percezione della vanità delle cose. Frustrato sul piano dei sentimenti e delle
relazioni amorose, privo di attività lavorativa, poco attratto dalla vita sociale del suo paese, Leopardi matura
idee sempre più pessimiste, decisamente avverse a ogni forma di illusione o di consolazione. Lo testimonia
anche il contenuto delle sue Operette morali, composte nel 1824 (pubblicate a Milano nel '27, mentre la
censura borbonica sequestrerà una seconda edizione stampata a Napoli nel '36). Il tema dominante delle
Operette (scritte in forma dialogica) è l'analisi dei profondi limiti della ragione umana nella lotta contro la
natura. Lo stato d'animo con cui vennero concepite -a detta dello stesso Leopardi- era quello
ironico/satirico/ribellistico. Esse s'imporranno negli anni Venti del nostro secolo come modello supremo di
ogni prosa moderna.
Quando finalmente ottiene di potersi recare a Roma, la sua delusione è totale: Roma gli appare come una
grande Recanati, vuota e superficiale. Tuttavia gli si aprono alcune prospettive. Riceve da un editore di
Milano l'incarico di curare un'edizione delle opere di Cicerone e un commento al Petrarca. L'assegno mensile
gli permette di fare alcuni viaggi a Milano, Bologna, Firenze e Pisa ove incontra alcuni degli intellettuali più
in vista dell'epoca: dal Monti al Manzoni. Finché, incapace di un proficuo lavoro a causa delle sue precarie
condizioni di salute, abbandona l'impiego e ritorna a Recanati, dove in 16 mesi di cupa disperazione (182830) compone liriche famosissime come Passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio,
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Esce dalla disperazione accettando la generosa offerta che
alcuni intellettuali di Firenze gli fanno per poterlo avere nella loro città.
Nel 1831, in occasione dei moti carbonari, il paese di Recanati lo elegge, all'unanimità, deputato
all'Assemblea Nazionale che doveva convocarsi a Bologna, ma la città viene rioccupata dagli austriaci, per
cui il Leopardi, che era a Firenze, deve rifiutare l'incarico.
Sempre alla ricerca di un clima adatto al suo fisico malato (asma, idropisia polmonare, neurastenia...), muore
a Napoli nel 1837. Le ultime opere sono ironiche e satiriche, contro l’ottimismo del secolo e la sua fede
positivista nel progresso, contro gli austriaci che a Napoli avevano soffocato i moti liberali degli anni '20, ma
anche contro i liberali che s'illudevano di poter realizzare facilmente l'unificazione nazionale, e contro i
pontifici che erano del tutto avversi a tale unificazione. La critica del Leopardi continua ad essere anche
contro l'atteggiamento ostile ch'egli ravvisava nella natura e nel destino nei confronti degli uomini (vedi La
Ginestra, nella quale esalta i valori della compassione e della solidarietà umana).
A. Schopenhauer lo consacrò come pensatore nei Supplementi al quarto libro del Mondo come volontà e
rappresentazione e nel 1858 gli dedicò un percorso di letture. F. Nietzsche considerava Leopardi come il
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massimo prosatore del secolo, anche se sul piano filosofico scorgeva in lui un rappresentante del "cattivo
nichilismo". Da notare che le Università di Bonn e di Berlino offrirono a Leopardi la cattedra di filologia, che
egli rifiutò adducendo motivi di salute.
Nel Palazzo Leopardi di Recanati è possibile visitare la Biblioteca, insieme coi manoscritti giovanili del
poeta (si conservano gli originali dell'Inno a Nettuno e della Canzone ad Angelo Mai). In un edificio
moderno attiguo vi è la sede del Centro Nazionale di Studi Leopardiani che, costituito nel 1937, raccoglie
6.000 volumi.
Il pensiero e la poetica
1. Il tema centrale della sua meditazione: la ragione della vita, la sua giustificazione, la natura della felicità.
Cioè: cos'è la vita, a che serve, dove tende, cos'è la felicità, perché essa manca, o è inferiore a quella voluta?
La sua filosofia non fu mai vero e proprio "sistema", ma un corpo di riflessioni sulla condizione dell'uomo:
perciò piuttosto che filosofo Leopardi è stato in passato definito "moralista".
Recentemente, invece, la filosofia leopardiana è stata molto rivalutata, per esempio da Emanuele Severino.
2. Leopardi rifiuta (lettera a De Sinner, 1832) il collegamento tra pessimismo e infelicità personale. Ma
questa fu "stimolo conoscitivo", cioè gli rivelò quanto possa la Natura nel determinare la felicità dell'uomo.
3. Il pessimismo leopardiano va inserito nella problematica storico-culturale del suo tempo e in parte con
esso spiegata: crisi ideologica dell'illuminismo, atmosfera chiusa e retriva della Restaurazione, accentuazione
di questi caratteri a Recanati, soffocamento di ogni slancio vitale e ogni aspirazione alla grandezza,
impossibilità di una vita indipendente, libera e creativa (come faceva sperare la società più dinamica,
borghese, nata dalle riforme napoleoniche e dalla fiammata rivoluzionaria).
4. Punto di partenza simile al Foscolo: perdita della fede (infelicità personale, influenza del Giordani,
identificazione Chiesa / Restaurazione ), accettazione del sensismo (felicità = pienezza e ricchezza di
sensazioni), passaggio al materialismo (tutto è materia, non c'è lo spirito, non c'è Dio, "una forza misteriosa
governa il mondo e l'uomo").
5. Primo stadio del pessimismo: Leopardi ritiene di essere uno dei pochi infelici in un mondo in cui c'è la
felicità, ma fuori da Recanati: cfr. Lettera al Giordani, del 1817.
Secondo stadio del pessimismo: pessimismo "storico". Leopardi, influenzato da Rousseau, ritiene che l'uomo
sia stato un tempo felice, perché vicino alla Natura, madre amorosa, e sia vissuto "naturalmente", cioè di
sogni, fantasie, illusioni, forti sentimenti, grandi ideali. Gli antichi, perciò, i classici, vicini alla natura, negli
antichi tempi, furono "felici" perché ignari dei limiti della condizione umana.
L'uomo moderno, invece, civile e dominato dalla ragione e dal calcolo utilitaristico, ha strappato i veli delle
illusioni, ha conosciuto il vero, e ha tolto all'uomo la felicità derivata dall'ignoranza e dalle illusioni antiche.
L'infelicità, quindi, è un prodotto della storia.
6. Crisi e sdoppiamento del concetto di Natura. Intorno al '24 matura una riflessione: qual è la natura della
felicità? Ricercare un piacere (connesso alle sensazioni) che tende irrimediabilmente all'infinito, che non si
appaga mai in una quiete durevole; ma il mondo in cui l'uomo è posto non consente questo definito e
"assoluto" appagamento. Dunque: l'uomo ha bisogno della felicità, ma è condannato a non averla mai
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veramente.
L'infinito che l'uomo cerca, per soddisfare pienamente la sua sete di piacere, è dunque una dimensione che
non c'è, è il Nulla: non è lo Spirito hegeliano, il Dio dei credenti, l'Assoluto degli spiritualisti. E',
semplicemente, il Vuoto, il Niente: è a questo Nulla che si arriva quando si va oltre i limiti dell'esistenza (cfr.
L'Infinito).
Ma chi ha fatto l'uomo così? Chi gli ha messo nell'animo quel desiderio? La Natura. Allora essa non è stata
mai madre amorosa, ma sempre perfida matrigna, che ha condannato l'uomo e ogni altra creatura
dell'Universo (è il pessimismo cosiddetto cosmico) alla infelicità perpetua. Anche gli antichi infatti (Saffo,
Bruto) furono infelici e possono accusare la Natura di questo misfatto. Eppure la Natura resta pur sempre la
vita che palpita nelle cose, la bellezza dei campi e del cielo, l'istinto d'amore che riscalda il cuore. Dunque:
duplicità del concetto di Natura.
7. Però se l'esistenza è un mistero assurdo, se l'uomo è votato al dolore e alla disperazione, tuttavia non per
questo l'uomo deve dimenticare la sua "grandezza", che non consiste, umanisticamente, illuministicamente,
storicisticamente, nella capacità di governare la storia, di raggiungere traguardi di benessere e di felicità
collettiva sempre più alti, ma consiste nell'accettarsi per quello che si è: piccoli, deboli, fragili, ma pur dotati
della coscienza di essere, dotati di una mente che può concepire l'infinito, di un cuore capace delle più grandi
avventure sentimentali, di una fantasia che fa sognare sempre, comunque, una vita più bella. Dunque:
contrasto tra le conclusioni della ragioni e le insopprimibili esigenze del cuore. Contrasto fortemente
romantico.
8. E la poesia ha una funzione determinante in questa resistenza disperata ma mai cessata contro la forza
implacabile della Natura.
9. Nel 1830 Leopardi è a Firenze, presso liberali e cattolici. Li frequenta, discute, polemizza con loro: essi
credono nel progresso umano, credono che con la politica, la tecnica, l'economia l'uomo possa raggiungere
livelli di vita più alti e perciò una felicità più appagante. Leopardi ironizza e replica che non si può dare la
felicità alle masse se non la si dà ai singoli: quella è una felicità astratta e perciò inesistente. Non l'economia,
non la politica ecc., ma solo la poesia può procurare all'uomo qualche fonte di diletto, attraverso il recupero
della condizione infantile, felice perché ignorante del vero.
10. Quindi l'uomo non deve vilmente compensare con false speranze la sua miseria reale, ma affrontare a
testa alta il suo destino, su cui incombe la forza cieca e ostile e perfida della Natura. Ma affrontarla significa
riconoscere che solo l'amore, la fraternità (vedi Plotino e Porfirio), la solidarietà possono dare all'uomo i
mezzi per contrastare l'assalto quotidiano portatogli dalla implacabile Natura.
LA POETICA
Il primo documento della poetica leopardiana che si può definire organico e coerente è il Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, scritto come replica alle Osservazioni sul Giaurro del Byron, di
Ludovico di Breme, uno dei collaboratori del Conciliatore, tra i più vicini al romanticismo tedesco.
Per Leopardi il Romanticismo è quello che egli ha potuto conoscere attraverso il Di Breme, almeno nel
1818, attraverso Il Conciliatore e il Berchet.
Ora, da un lato Berchet gli offriva la Leonora (tradotta dal Bürger, cioè un esempio del macabro, dell'orrido,
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dell'inverosimile nordico e fiabesco) come
modello di poesia romantica; dall'altro lato Il Conciliatore
affermava che scopo della letteratura e della poesia è far cosa utile a chi la legge, che la poesia deve ispirarsi
alla storia, alla realtà, ai tempi moderni, deve scaldare il cuore della nazione; il Di Breme, addirittura,
affermava la superiorità dell'età moderna su quella antica perché "la moderna poesia altiera (=superba) se ne
va nei campi della rigenerata filosofia (=lo spiritualismo tedesco)". E lui, il Di Breme, indica poi tra i
contenuti della nuova poesia: la religione, l'amore, la donna ("ben altrimenti poetica per noi, che nol fu per
quei vegetanti bifolchi"), e poi "le usanze, i culti, i climi, i terreni dei nuovi mondi scoperti" e poi "la
fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell'industria ecc."
Il Leopardi, invece, educato al concetto vichiano di poesia come fantasia, ingenuità, immaginazione,
fanciullezza pre-razionale dello spirito,
rifiuta subito, nettamente, il romanticismo del Di Breme, del
Conciliatore e di Berchet (vale a dire il romanticismo quale in Italia era penetrato e rivissuto), e lo condanna
perché esso da un lato sottomette la poesia al vero e all'utile, dall'altro costruisce situazioni drammatiche,
patetiche e commoventi servendosi di mezzi esagerati e non spontanei e verosimili (es.: l'orrido della
Leonora); situazioni (con tutto quel corredo di streghe e spettri e folletti e gnomi) comunque estranee al
nostro gusto di latini, di italiani, nella cui tradizione letteraria e anche popolare c'è un'altra mitologia.
Non tanto distante da Leopardi, anche Manzoni negava che il romanticismo fosse "quel guazzabuglio di
streghe e di spettri…".
Nel 1818, quindi: la poesia degli antichi (= naturalezza, ingenuità, ignoranza del vero, sterminata fantasia,
antropomorfizzazione della natura) è quella perfetta; la poesia dei moderni, quella "romantica", invece, gli
ripugna.
Poco dopo (già nel 1819 inizia il mutamento), maturando il suo pensiero (Rousseau e Madame de Staël), egli
accetta la distinzione degli Schlegel tra poesia d'immaginazione (gli antichi) e poesia di sentimento (i
moderni) [ che per lui diventa corrispondente a quella tra natura (= buona, grande, fonte di felicità) e ragione
(= cattiva, piccola, meschina, fonte di verità e quindi di infelicità)].
Si legge, nello Zibaldone, a proposito della "poesia sentimentale": "la sensibilità era negli antichi in potenza,
ma non in atto come in noi... lo sviluppo del sentimento e della malinconia venuto soprattutto dal progresso
della filosofia)
6. Leopardi riconosce, perciò, che il suo tempo, che i tempi moderni non possono recuperare [Leopardi pare
denunciare qui il progressivo e fatale inaridimento spirituale di una società borghese e cittadina.] l'ingenuità
degli antichi e che "unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo è la poesia sentimentale (cioè
quella dei moderni, la quale non si nutre di favole, immaginazioni e sogni, e fanciullesche e ingenue fantasie,
ma di idee, di filosofiche riflessioni, della cognizione (= sentimento) del vero, della condizione drammatica
dell'uomo esiliato dall'Assoluto, cui peraltro sempre tende; poesia non fondata sulla felice ignoranza, ma
sulla dolorosa consapevolezza del reale). [Per questo si possono leggere, nello Zibaldone, le pagine dei "Tre
modi di vedere le cose", ma si debbono anche esaminare le Canzoni civili e le Canzoni del suicidio, ovvero
Bruto minore e L'ultimo canto di Saffo].
Circa la necessità della poesia sentimentale, cfr., invece, lo Zibaldone: (1820) "La poesia malinconica e
sentimentale un respiro dell'anima. L'oppressione del cuore... non lascia luogo a questo respiro."
"Il suo problema, scrive Sapegno, sarà dunque d'ora innanzi, non più di respingere le esigenze della poetica
romantica (d'altronde insopprimibili, perché Leopardi vive i suoi tempi moderni e non gli antichi), bensì di
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accomodarle al suo sentire. Ciò avviene in due modi:
a) adoperando uno stile e un linguaggio che offrano sensazioni vaghe, indefinite, incerte, indistinte: qualità
tutte, queste, del mondo poetico degli antichi (secondo Leopardi).
b) escludendo dalla poesia elementi realistici, narrativi, di utilità sociale, di insegnamento politico ecc., e
nutrendola invece di elementi autobiografici, lirici, affettivi, memoriali, fondati sull'immediatezza del
sentimento.
Di qui la poetica della rimembranza e dell'infinito.
Dell'"infinito" perché appunto l'infinito, cioè quello che non ha confini, l'indeterminato, il vago, lo smisurato,
il remoto ecc., sono caratteri della poesia; della "rimembranza" perché questi caratteri non si possono avere
dal presente (che è sempre "vero", non falsificabile, prosaico, circoscritto) e si possono trovare solo nel
ricordo e, in particolare, nella rimembranza della fanciullezza e del fanciullesco fantasticare o temere o gioire
ecc.
PERCIO' LA POESIA E' TANTO PIU' AUTENTICA QUANTO MENO IMITA (riproduce cioè il reale) E
QUANTO PIU' CANTA (cioè effonde liberamente l'ispirazione del cuore). Perciò le sue poesie Leopardi le
chiamerà CANTI.
Però, attenzione: anche quando il poeta, tramite il ricordo, recupera la condizione felice dell'adolescenza
("che pensieri soavi, che speranze, che cori..."), non per questo egli può dimenticare il presente, il suo e
l'universale dolore; non per questo l'angosciosa "verità" della condizione umana è accantonata; anzi, ritorna e
si scontra (ecco il valore drammatico dell'idillio leopardiano) con quel dolce passato, che si è concluso
proprio "all'apparir del vero".
Perciò la poesia leopardiana più grande nasce da una miracolosa combinazione di dolce e smemorato
fantasticare e di asciutto e severo dolore, una alternanza di felicità momentanea, rubata all'angoscia presente
con il ricordo, e di disperata consapevolezza del niente, riscaldata però dalla fiamma remota di speranze e di
illusioni non spente mai del tutto.
SVILUPPO DELLA POESIA LEOPARDIANA
1. Un primo tempo della poesia leopardiana è quello che si apre nel 1816 (il poeta ha appena diciotto anni).
Due titoli sono già significativi, perché anticipano temi futuri: Le rimembranze e L'appressamento della
morte.
I veri e propri CANTI, però, cominciano nel 1818, con due canzoni, cosiddette "civili": All'Italia e Sopra il
monumento di Dante.
Le due canzoni sono animate da una evidente volontà di sognare, e di realizzare, almeno attraverso i versi,
grandi imprese, nutrite di nobili ideali (= azioni genericamente eroiche, il riscatto della patria). C'è il
desiderio di uscire dalla propria solitudine e di slanciarsi verso la speranza di grandi azioni. Leopardi è qui
un giovane che dentro forme letterarie classiche (la canzone tradizionale, il linguaggio fortemente letterario)
cala una tensione eroica schiettamente preromantica ("l'armi, qua l'armi. Nessun pugna per te? Io solo
combatterò, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco agli italici petti il sangue mio.")
Nella canzone All'Italia è poi già evidente il tema della superiorità morale degli antichi, i quali appaiono al
giovane poeta generose creature pronte a morire per la patria (è rievocato il sacrificio delle Termopili), al
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contrario dei moderni, indifferenti al cospetto della decadenza italiana.
2. Altri canti di questo periodo (1819-20), però, già sono privi dello slancio gagliardo delle canzoni civili.
Nella canzone ad Angelo Mai (un cardinale dotto che aveva riscoperto certe opere di Cicerone), ad esempio,
Leopardi già canta la propria infelice storia personale, segnata dal progressivo tramonto delle illusioni
adolescenziali; e nella sua storia personale vede simboleggiata la storia stessa dell'umanità, decaduta da un
eroico passato nel meschino e arido presente.
3. Un'importanza particolarissima hanno, però, in questo primo tempo, le CANZONI DEL SUICIDIO (182122).
In esse Leopardi canta le tristi vicende di due famose figure della classicità greca e romana, Saffo e Bruto.
Infelici figure di personaggi che furono sconfitti dal destino, delusa la prima nel suo sogno d'amore, il
secondo nel suo ideale politico di libertà.
Saffo e Bruto, come è evidente, sono altrettante proiezioni delle delusioni leopardiane, sono creature il cui
dolore antico egli sente fraterno. Ma essi sono anche qualcosa di più: con la disperazione che spinge Saffo e
Bruto al suicidio tramonta anche, nel Leopardi, il mito della classicità come epoca in cui gli uomini furono
naturalmente felici, perché più vicini alla condizione naturale. Anzi! La Natura ha fatto nutrire a Bruto
illusioni e ideali tanto alti quanto irrealizzabili, e a Saffo ha dato, con perfida malizia, un corpo sgraziato che
accoglieva un animo sensibile e assetato d'amore, dal quale, appunto, la sua bruttezza l'avrebbe sempre tenuta
lontano.
Le due canzoni, insieme all'altra (Alla primavera o delle favole antiche), sono davvero l'addio al mito della
felicità antica. Anche il mondo antico ha sperimentato, in forme diverse dai moderni - tutti raggelati dalla
freddezza della ragione - la sua parte di irrimediabile dolore, al quale nessuna creatura dell'universo può
sottrarsi.
3. Dal punto di vista stilistico, tutti questi "canti" tentano di fondere, come s'è detto, forme classicheggianti
con sensibilità moderna e romantica. Sebbene, come si sa, l'adesione del Leopardi al romanticismo non sia
esplicita e dichiarata, per le ragioni note.
4. Nel biennio 1819-1821 fiorisce anche, però, un piccolo gruppo di liriche brevi, I piccoli idilli, che sono
veramente la prima originalissima voce della poesia leopardiana.
In essi Leopardi si allontana decisamente dalla suggestione degli esempi classici, dalla mitologia, dalle forme
retoriche e metriche consuete, dai miti della sua cultura. In essi Leopardi si pone esclusivamente all'ascolto
del suo cuore, delle voci più intime della sua coscienza infelice; si pone con ansia e con stupore di fronte
allo spettacolo della natura vera, quella di Recanati, quella familiare, non quella libresca dei suoi amati autori
greci e latini. E' una nuova lirica, nella quale, come egli dice di Petrarca, è il cuore che parla, non è il poeta
che parla del cuore: quindi un tentativo, riuscito, di assoluta immediatezza e sincerità espressive, un vero
silenzioso accorato colloquio con se stesso.
Si apre, in questo modo, tutta una stagione della lirica moderna, in parte precorsa dal Foscolo, nella quale è
l'"io" del poeta il vero centro dell'emozione lirica. Tra questi "piccoli idilli" spiccano L'infinito e La sera del
dì di festa.
Questi due componimenti già preludono ai motivi più alti del tempo successivo: i temi dell'infinito e della
ricordanza.
5. Un secondo tempo della poesia leopardiana si fa iniziare dopo gli anni delle Operette Morali, scritte quasi
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tutte tra il 1824 - 25, con qualche aggiunta nel '27 e nel '32.
La "rinascita" della poesia leopardiana, dopo gli anni delle prose meditative e filosofiche, si annuncia,
durante il consolante soggiorno pisano, con Il Risorgimento: la dolcezza della vita a Pisa fa "risorgere" nel
poeta il bisogno di riscaldare il cuore alle illusioni di un tempo, di tornare a sognare la sua perduta e sempre
invocata e mai raggiunta felicità, pur nella piena consapevolezza del disinganno fatale.
E' il tempo degli immortali capolavori: A Silvia, Le ricordanze, Il Canto notturno, La quiete dopo la
tempesta, Il sabato del villaggio.
E' anche il tempo della più originale poetica leopardiana: quella della rimembranza e dell'infinito.
Tornano i ricordi, con il loro alone di magia, tornano i volti e le voci e le ansie di un tempo, racchiuse entro i
contorni sfumati e "indefiniti" della memoria. Torna il passato rievocato e cantato e pianto alla luce del
doloroso presente ormai senza più speranza. Eppure è dolce rievocarlo, è dolce rievocare perfino il dolore
che fu.
Questi canti si segnalano per la funzione del paesaggio, che diventa l'interlocutore muto eppur eloquente del
poeta; per la presenza della più quotidiana realtà (galline, cacciatori, artigiani... ) tutta però risolta nella
dimensione del simbolo, perché ogni creatura cantata porta con sé, apparendo sulla scena, un significato del
destino universale; infine questi "GRANDI IDILLI" rompono decisamente con la tradizione metrica,
abbandonano la canzone con schema prefissato e si distendono dentro la forma della canzone libera,
originale creazione leopardiana anch'essa, nata per adeguare più perfettamente il ritmo sentimentale al ritmo
poetico. Per esempio, senza schema precostituito si alternano i settenari nei momenti di raccoglimento
pensoso e gli endecasillabi negli slanci del canto.
6. Un terzo tempo della poesia di Leopardi è quello legato alle esperienze fiorentine, all'amore tempestoso
per Fanny Targioni Tozzetti, alla polemica con i liberali cattolici toscani.
Leopardi non ha ancora esaurito la sua vitalità intellettuale e poetica. Il poeta, di fronte alla sconvolgente
esperienza dell'amore, e stimolato dal dibattito intellettuale intorno all'idea di progresso, ritrova le sue energie
e mentre ribadisce le sue convinzioni sulla condizione umana, mentre irride a quelle che gli sembrano stolte e
vili (non magnanime e generose) illusioni di felicità e di benessere; mentre denuncia questo, egli pure
dichiara con forza la dignità dell'uomo che ha il coraggio di aprire gli occhi di fronte al vero, che sa
accogliere nel suo cuore aspirazioni nobili all'amore e alla fratellanza universali.
Ecco A se stesso, con l'addio alla dolcezza dei ricordi e dei rimpianti, con la nuda e fredda dichiarazione di un
pessimismo totale; ma ecco Il pensiero dominante, con l'altissima lode, quasi un inno, al sentimento
dell'amore, forza universale che può e deve spingere gli uomini ad una nuova fraternità; ecco La Ginestra o il
fiore del deserto, che fa dell'umile pianta il simbolo di una eroica speranza: nel deserto della vita umana c'è
ancora posto per una poesia che sappia annunciare un messaggio di fratellanza; c'è ancora la speranza che gli
uomini, riconoscendosi deboli, poveri, oppressi e perseguitati da una invincibile e malefica NATURA,
sappiano stringersi in un abbraccio di solidarietà, per contrapporre, eroicamente, alla prepotenza cieca della
Natura e del Fato, la resistenza alta e nobile dell'amore.
Quel Leopardi che a Napoli languiva per mille malattie trovava ancora, nei versi, la forza di credere che
un'umanità nuova potesse nascere: non più felice, perché questo gli appariva impossibile, ma più consapevole
del proprio destino e perciò più coraggiosa e generosa, meno cieca e meno vile. Capace di affrontare a testa
alta la vera nemica, la NATURA e di soccombere davanti ad essa con dignità.
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7. Francesco De Sanctis, a ragione, ebbe a scrivere che se Leopardi, morto nel 1837, fosse vissuto fino al '48,
certo i combattenti delle giornate napoletane di quell'anno, "se lo sarebbero trovato al fianco, sulle barricate".
De Sanctis aveva intuito quanta forza d'animo e quanta energia morale si sprigionasse ancora da quel poeta
che sembrava parlare solo di Nulla e di Morte.
Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni
1) Notizie biografiche
Nato a Milano nel 1785, sua madre era Giulia Beccaria, figlia di Cesare, giurista e filosofo. Giulia aveva
sposato controvoglia Pietro Manzoni, ricco possidente del lecchese, molto più anziano di lei. Alessandro nacque dopo due anni e mezzo di matrimonio: esiste il sospetto che fosse frutto della relazione di Giulia con
Giovanni Verri. Il matrimonio di Giulia con Pietro Manzoni ebbe breve durata. Nel 1792 avvenne la
separazione, e Giulia andò a convivere con il conte Carlo Imbonati, con cui si stabilì a Pari gi. Alessandro
studiò nei collegi dei padri somaschi, a Merate [Brianza] fino al 1796 e poi (fino al 1798) a Lugano dove
ebbe saltuarie lezioni da F. Soave, l'unico insegnante di cui conservò un grato ricordo. Si trasferì a Milano, al
collegio dei No- bili retto dai barnabiti, fino al 1801. A Milano ebbe contatti con gli esuli politici rifugiati,
come A. Mustoxidi, Lomonaco, Cuoco. Lesse l'opera di Vico. Conobbe Monti e Foscolo, divenne amico di
Ermes Visconti. Questo primo periodo milane- se si chiuse nel 1805 quando Manzoni raggiunse la madre a
Paris, cui le era morto Imbonati.
Gli anni Parisni (1805-1810) furono anni decisivi per la sua formazione. Frequentò gli ideologi repubblicani
che si riunivano nel salotto di Sophie de Condorcet: P.J.G. Cabanis, A.L.C. Destutt de Tracy, C. Fauriel.
Approfondì la conoscenza della grande tradizione moralistica francese. Sul piano più personale, grande
importanza ebbe il recupero del rapporto affettivo con la madre. Mentre Manzoni procede a una revisione
delle sue idee religiose: dall'agnosticismo, a una forma di deismo volteriano, poi con un interesse sempre
maggiore per i temi teisti.
Nel 1807 morì il padre. Nel 1808 Manzoni sposa la ginevrina Enrichetta Blondel. Lei era calvinista, il
matrimonio è celebrato secondo questo rito. Nel 1810 il matrimonio è celebrato secondo il rito cattolico:
Enrichetta abiura, e anche Manzoni accetta la conversione al cattolicesimo. E' una conversione in cui ha un
ruolo anche la riflessione sulle teorie gianseniste, e l'influenza del sacerdote Eustachio Degola e poi del vescovo Luigi Tosi a Milano, entrambi fautori di un rigorismo di derivazione giansenista.
Nel 1810 Manzoni torna a Milano. La sua casa diventa luogo di riunione di poeti e letterati: Ermes Visconti,
Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, e, con minore frequenza, Carlo Porta. Manzoni diventa così punto
d'incontro tra il gruppo di Porta e quello de «Il Conciliatore». Gli anni 1812-1827 sono anni molto fe- condi,
ma anche caratterizzati da ricorrenti crisi depressive. Dopo un primo soggiorno fiorentino per «risciacquare i
panni in Arno», nel 1827 è a Firenze con la famiglia. Incontra il gruppo dei liberali toscani che facevano capo
a G.P. Vieusseux e alla sua rivista, «L'Antologia». Conobbe anche Leopardi e Niccolini. Fu accolto come
membro corrispondente dell'Accademia della Crusca.
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Nel 1833-1839 è la morte della moglie Enrichetta, delle figlie Giulia Claudia (sposata a Massimo d'Azeglio),
Cristina, Sofia e Matilde, e infine della madre. Sono lutti che aggravano le sue ricorrenti crisi depressive. Nel
1840 sposa Teresa Borri Stampa.
Trascorre gli ultimi anni onorato e rispettato come il maggiore scrittore italiano vivente. Nel 1861 è nominato
senatore a vita, nel 1862 fu presidente della commissione per l'unificazione della lingua. Morì a Milano nel
1873. Nell'anniversario della sua morte Giuseppe Verdi compose e diresse la "Messa da requiem" dedicata
alla sua memoria.
2) Opere giovanili
Al periodo giovanile, caratterizzato da radicalismo giacobino e deciso anticlericalismo, risale il poemetto in
quattro canti Del trionfo della libertà (1801). Qui Manzoni celebra, nella forma della visione di derivazione
montina, la sconfitta del dispotismo e della superstizione per opera della libertàtrionfante della Repubblica
Cisal- pina. In quegli anni scrisse anche una serie di sonetti, tra cui l'au- toritratto Sublime specchio di veraci
detti, e altri tre: uno dedicato a Lomonaco, l'altro alla musa, il ter- zo ispirato dalla contessina Luigia
Visconti, so- rella di Ermes, di cui era innamorato. Sono componimenti di tipo neoclassicisti, con echi
alfieriani e pariniani e con l'influenza di Monti. Dello stesso tipo l'ode Qual su le Cinzie cime (1802-1803),
l'idillio Adda (1803), e i quattro Sermoni ("Amore e De lia", "Panegirico a Trimalcione", "A G.B. Pagani",
"Contro i poe tastri") scritti nel 1803-1804.
Segni di maturazione sono negli sciolti In morte di Carlo Im bonati (1806), in cui celebra Carlo Imbonati,
l'amante della madre, che Manzoni però non aveva mai co- nosciuto. Lo schema è quello consueto della
visione settecentesca, perdurano gli influssi montini, ma sono presenti anche i primi accenti di un risentito
moralismo, secondo moduli che saranno tipici del Man- zoni successivo. Segno dell'esaurimento
dell'esperienza neoclassi- cista è il poemetto Urania (1809).
3) Opere della maturità
Dopo tre anni di silenzio, nel 1812 Manzoni, convertito ormai al cat- tolicesimo, comincia a comporre gli
Inni sacri. Ne avrebbe dovuto comporre dodici, ne portò a termine solo cinque: "La Re surrezione" (1812), "Il
nome di Maria" (1812-1813), "Il Natale" (1813), "La Passione" (1814-1815) e, più avanti negli anni, "La
Pentecoste" (1817-1822). Manzoni rifiuta la tradizione classici sta e il registro alto del dettato poetico.
Cercava una lingua più comunicativa, che non si curasse degli abbellimenti formali ma in gra- do di
esprimere i contenuti concettuali che gli stavano a cuore (l'apologetica cattolica). E' una scelta che coincide
con una più aperta adesione al romanticismo: romanticismo come rinnovamento dei mo- duli espressivi e del
repertorio tematico, e promozione di una lette- ratura "popolare" nel senso indicato dai romanticisti lombardi,
cioè indirizzata alle persone colte anche se non letterate di professione.
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Al 1821 risalgono due odi, Marzo 1821 ispirata ai moti na- zionalisti di quell'anno (ma pubblicata nel 1848,
insieme al fram mento "Il proclama di Rimini"), e Il cinque maggio dove la biografia di Napoleone è
rivissuta in una folgorante successione di episodi, dall'ascesa alla gloria e all'esilio, sublimati da una
meditazione cristiana sulla storia.
Nello stesso tempo si impegnò nel tentativo di costruire un teatro svincolato dai canoni del classicismo,
basato su una documentata ricostruzione storica. Scrisse così le tragedie Il conte di Carma- gnola (1820) e
Adelchi (1822).
"Il conte di Carmagnola" è tragedia in cinque atti in versi. L'azione si svolge nel 1432, al tempo delle lotte tra
Venezia e Milano. Il senato veneziano è diviso sulla decisione di affidare il comando supremo al conte di
Carmagnola, un capitano di ventura. Il senatore Marino gli è ostile e dubita della sua lealtà. In sua difesa
parla Marco, riuscendo a conquistargli il voto favorevole dell'assemblea. Carmagnola scon- figge i nemici a
Maclodio, ma rifiuta di trarne immediato vantaggio e libera alcuni prigionieri. I senatori giudicano il conte
traditore, e lo richiamano in città. Marco accusato di eccessiva indulgenza è inviato a Tessalonica dopo aver
giurato di non rivelare all'amico il tranello. Carmagnola ignaro, rientra a Venezia dove viene processato e con
dannato a morte. Ultima scena è quella dell'addio alla moglie e alla figlia.
Cinque atti in versi per "Adelchi". Carlo re dei Franchi ha ripudiato Ermengarda figlia di Desiderio re dei
Longobardi. desiderio medita vendetta e progetta di costringere papa Adriano a consacrare re dei Franchi i
figli di Carlomanno riparati alla sua corte con la madre Ger- berga. Adelchi figlio di Desiderio suggerisce di
cercare un accordo con Adriano. Ermengarda torna dal padre e chiede di potersi chiudere in convento. Un
messo di Carlo intima a Desiderio di restituire le terre tolte al pontefice. Il re risponde sdegnosamente, e la
guerra è di- chiarata. Alcuni duchi longobardi tradiscono: nel campo dei Franchi il diacono Martino rivela
l'esistenza di un valico che consente a Carlo di prendere di sorpresa i longobardi attestati alle Chiuse di Susa.
Adelchi si difende fino alla fine. Ermengarda straziata dall'«amor tre mendo» per Carlo, muore in convento,
a Brescia. Il traditore Gun tigi apre ai Franchi le porte di Pavia, ultimo rifugio di Deside rio che, prigioniero,
chiede a Carlo di lasciare libero Adelchi. Adelchi giunge dinanzi a loro morente, ha preferito battersi fino
all'ultimo fedele al suo dovere, anche se non ha più l'illusione di poter separare il giusto dall'ingiusto nella
concatenazione delle azioni umane: offre a Dio la sua «anima stanca».
Del 1822 è il Discorso sopra alcuni punti della storia longo bargica in Italia, la maggiore opera di Manzoni
storico, che raccoglie e coordina i materiali usati in vista della composizione dell'"Adelchi". Alle due tragedie
era sottesa una lucida consape volezza storica e di poetica. Pubblicata nel 1823 (ma scritta nel 1819) è la
Lettera a M.C. sull'unità dei tempi e dei luoghi nella tragedia (Lettre à M.C. sur l'unité de temps et de lieu
dans la tragé die) indirizzata a J.J.V. Chauvet. Man- zoni respinge le regole classiciste delle unità, e riprende
alcune delle formulazioni teoriche di August Schlegel che svilupperà maggiormente dopo: rispetto della
verità storica come garanzia della validità morale e estetica dell'opera, unità d'azione intesa come capacità
dello scrittore di scoprire i nessi obiettivi degli eventi e di rintracciarne il senso. Del 1823 è la lettera al
marchese Cesare D'Azeglio, Sul romanticismo. Nello stesso anno termina la redazione del "Fermo e Lucia",
prima redazione del romanzo storico pubblicato nel 1827 con il titolo de I promessi sposi.
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4) "I promessi sposi"
Nel 1821 inizia la lunga e travagliata composizione del romanzo. La prima redazione, Fermo e Lucia, fu
compiuta nel 1823. Nel la scelta dell'argomento Manzoni obbedisce al gusto del tempo, sull'onda del
successo dell'opera di Scott, per il romanzo storico. E all'istanza di non prevaricare con la fantasia sul «vero»
storico, ma di integrare invenzione e storia per meglio illumi- nare fatti e sentimenti reali. Con autoironia
parlerà per il suo romanzo anche di «cantafavola» (in una lettera al marchese Alfon so della Valle di
Casanova). Una posizione che più tardi muterà radicalmente (si veda "De romanzo in genere e de'
componimenti ecc." 1845).
I promessi sposi furono stampati per la prima volta nel 1827, dopo una ristrutturazione del "Fermo e Lucia".
Una seconda edi zione la si ebbe, a dispense, nel 1840-1842. La prima edizione apporta modifiche sostanziali
all'intreccio e ai fatti del "Fermo e Lucia". La seconda invece è il risultato di una profonda revisione
linguistica, in seguito anche al soggiorno toscano.
La vicenda si svolge in Lombardia, nel 1628-1630, al tempo della dominazione spagnola. Don Abbondio
curato di un paesino posto sulle rive del lago di Como, sta facendo la sua passeggiata serale quan- do è
avvicinato da due «bravi» di don Rodrigo, signorotto del po- sto, che gli intimano di non celebrare il
matrimonio di Renzo Trama- glino con Lucia Mondella. Don Abbondio si affretta intimorito il giorno dopo a
mandare via Renzo venuto a prendere gli ultimi accordi. Renzo interroga la serva di don Abbondio, Perpetua,
e viene a sapere che don Rodrigo ha proibito le nozze perché si vuole fare Lucia. Renzo si rivol- ge
all'avvocato Azzeccagarbugli, che al nome del signorotto si tira precipitosamente indietro. Si tenta il
matrimonio a sorpresa ma don Abbondio frustra ogni tentativo. I bravi tentano di rapire la ragazza. I
"promessi" si convincono di abbandonare il paese. Con l'aiuto di frate Cristoforo, Lucia e la madre Agnese si
rifugiano in un mo nastero di Monza. Renzo va a Milano con una lettera per un con fratello di Cristoforo. Al
monastero si occupa delle due donne Gertrude che, fatta monaca a forza, è legata da un amorazzo con il
nobilotto Egidio. Egidio e l'Innominato, signore prepotente e malavitoso, fanno rapire Lucia per conto di don
Rodrigo. L'Inno minato da tempo ha una serie di rimorsi, e la vista di Lucia, con l'arrivo del cardinale
Borromeo, provocano la crisi. Invece di consegnare Lucia a don Rodrigo, la libera. Lucia e la madre sono
assegnate a donna Prassede, moglie del dotto don Ferrante. Renzo intanto arriva a Milano, proprio mentre il
popolo tumultua a cau sa della carestia. In una osteria beve un po' troppo e comincia a farfugliare contro i
prepotenti. Preso per uno dei capopopolo, è arrestato da due sbirri. E' liberato a furor di popolo. Lascia
Milano, va a Bergamo dal cugino Bortolo. La Lombardia è straziata dalla guerra, calano i Lanzichenecchi, le
popolazioni fuggono, scoppia la peste. Renzo torna a Milano perché ha saputo che Lucia è ospite di don
Ferrante. Ma Lucia ha preso la peste e si trova in un lazzaretto: qui Renzo incontra Lucia, ma c'è un nuovo
intoppo: Lucia al castello dell'Innominato ha fatto voto di castità alla vergine se fosse riuscita a scampare al
pericolo. Frate Cristoforo che si trova al lazzaretto a cercare di dare una mano, la scioglie dal voto. Lucia
guari- sce, la peste si placa, dopo aver fatto un sacco di vittime tra cui don Rodrigo e fra' Cristoforo. I due
«promessi sposi» possono così rientrare nella legalità della famiglia e dei figli.
5) Scritti posteriori
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Derivato dagli studi attorno alla vicenda de "I promessi sposi" è la Storia della colonna infame, che apparve
in appendice all'edizione a dispense del romanzo del 1840-1842. La "Storia" è la ricostruzione delle vicende
della peste di Milano, con un'ot tica attenta soprattutto ai risvolti morali dell'evento.
Il soggiorno fiorentino, importante nel processo di revisione de "I promessi sposi", porta a un
approfondimento da parte di Manzoni dei problemi sulla questione della lingua. Il pensiero linguistico
manzonia- no venne esposto in una serie di scritti successivi: Sulla lin- gua italiana (1845) è una lettera a G.
Carena, Dell'unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla (1868) relazione al ministro della pubblica
istruzione del nuovo regno unitario italico, con relativa Appendice (1869). lettera attorno al libro 'De vulgari
eloquio' di Dante Alighie- ri (1868), la Lettera intorno al vocabolario (1868), la Lettera al marchese Alfonso
della Valle di Casanova (1871, ma pubblicata nel 1874). La trattazione più organica la si trova nel bre- ve
trattato Sentir messa (1835-1836) pubblicato nel 1923, accanto al quale si deve ricordare l'incompiuto trattato
Della lin- gua italiana cui Manzoni lavorò nel 1830-1859. Manzoni consta- tava l'inesistenza di una vera
lingua italiana, riconosceva a tutti i dialetti la dignità di lingue. Ma dovendosi adottare in Italia per esigen- ze
pratiche uno strumento linguistico unitario, proponeva che si sce- gliesse quello che tra i dialetti aveva
maggiore autorità culturale, il fiorentino. Ma non il fiorentino degli scrittori classici, ma quello d'uso vivo, il
solo in grado di rinnovarsi e di soddisfare le esigenze attuali della società italiana. Il prestigio delle teorie linguistiche manzoniane fu enorme in Italia. esse divennero egemoni, e l'insegnamento pubblico della lingua
nell'Italia unitaria si uniformò sostanzialmente alla proposta di Manzoni.
Interessante è lo scritto Del romanzo e in genere de' componi menti misti di storia e invenzione (1845) in cui
Manzoni con- danna l'invenzione in letteratura, e quindi tutto il genere romanzesco (dunque anche "I
promessi sposi"). Con questa condanna, pone in pratica fine alla revisione delle stesure de "I promessi sposi",
e si indirizza oltre che sui problemi linguistici, su problemi di carattere sto- rico-politici, e soprattutto
filosofico-morali. Al primo filone di studi ap- partiene La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione
italiana del 1859 (1860-1872, ma pubblicato nel 1889). Al secondo filone appartiene la revisione definitiva
delle osservazioni sulla morale cattolica (1855) già edite nel 1819, i dialoghi Dell'invenzione (1850) e Del
piacere (1851, edito nel 1887).
6) Caratteristiche dell'opera
Manzoni fu il maggior esponente del romanticismo italiano. Il trovarsi inserito organicamente nel contesto
culturale lombardo lo fece più di altri sensibile alle sollecitazioni provenienti dalla Francia. Partecipò
attivamente al dibattito allora vivo sulla necessità di reimpostare su nuove basi la letteratura. Il suo
romanticismo non accettò acriticamente ciò che proveniva da oltralpe: gli sono estranei l'esasperazione dei
sentimenti e delle passioni, il titanismo, il fascino del mistero ecc. Sulla linea lombarda, mira piuttosto al
superamento dei vecchi schemi classicisti per realizzare una letteratura moralmente e socialmente impegnata.
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Superata la fase di apprendistato poetico, la tendenza dello scrittore a essere presente nella storia del suo
tempo, farsi portavoce di una co- munità, si ha già negli Inni sacri e nelle odi del 1821. un atteggiamento che
si consolida nelle tragedie, soprattutto in Adelchi dove la Grazia riscatta il sacrificio degli affetti e degli ideali
della "ragion di stato"; una superiore visione provvi- denziale proietta fuori dalla storia le vicende politiche e
religiose criticamente ripensate nell'"Introduzione", liricamente interpretate nei cori (il «cantuccio» che
l'autore si riserva per commentare gli avve- nimenti messi in scena). Gli episodi di storia nazionale da lui
scelti come soggetto sono momenti emblematici di un conflitto, tra umili e potenti, tra oppressi e oppressori,
che si perpetua nei secoli. L'apparte- nere a ambedue queste categorie è la caratteristica, con il patetismo
romanticista, di personaggi come Ermengarda e Adelchi.
Ne I promessi sposi tutte le istanze precedenti prendono forma in un vasto disegno narrativo: quella «storia
milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da A.M.» di cui l'autore pretese, con ironica complicità verso il
lettore, di accreditare il fortunato ritrovamento, quasi a giustificare lo scarto tra verità storica e invenzione
romanzesca.
Nel romanzo Manzoni assegna a umili (relativi) come Renzo e Lucia il ruolo di eroi positivi. In questa
condizione rintraccia una nobiltà morale che li eleva al di sopra di chi li opprime, di chi detiene il potere con
un sopruso sfrontato o mascherato da editti inapplicabili (le innumerevoli «grida» contro i bravi) e raggiri
interpretativi (il «latinorum» dei giuristi denunciato da Renzo). Potere come sopraffazione cui si contrappone
il cristianesimo attivo di altri potenti, garante delle speranze degli umili: Federigo Borromeo e, dopo la
conversione, un Innominato. Attraverso la trama non inconsueta di un divieto ma- trimoniale, fitta di intrighi
colpi di scena digressioni analitiche e documentarie su eventi capitali (carestie, rivolta, peste), romanzi nel
romanzo (come quelli di Gertrude la monaca di Monza, di fra Cri stoforo, dell'Innominato), ritratti di
personaggi tipici o singo lari divenuti proverbiali (don Rodrigo, il conte zio, don Abbon dio, il dottor
Azzeccagarbugli, don Ferrante, Perpetua, donna Prassede), va a scoprire nelle tragiche contraddizioni del
XVII secolo le chiavi di una interpretazione socio-politica e etico- religiosa del presente.
Manzoni scarta via le forme lirico-soggettive del romanzo epi stolare e di confessione, recupera le istanze
realistiche della narrativa europea. Alternando diversi registri stilistici (comi co, satirico, umoristico, tragico,
epico, elegiaco), e facendo una costruzione antiretorica, conversevole, lontana dai moduli 'nobili' della
tradizione classicista, tendente a quelli della lingua parlata, dà un modello di romanzo italiano borghese che
rimase per lungo tempo operativo. Anche nella scelta linguistica "I promessi sposi" fecero da modello, e
intere generazioni italiche lo hanno letto come esempio di bello scrivere.
Un laico come *De Sanctis lo esaltò come frutto di un conquistato equilibrio tra reale e ideale, e come primo
originale risultato di una auspicata modernizzazione della letteratura italica. Distinguendo tra poesia e
oratoria, *Croce inscrisse il romanzo nell'ambito dell'oratoria (anche se più tardi attenuò queste riserve).
*Gramsci condannava l'ideologia paternalistica di Manzoni.
Repertorio bibliografico:
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode», s.a.
pp. 436-460.
Sapegno, Natalino. Compendio di storia della letteratura italiana. 3. Dal Foscolo ai moderni. Firenze, La
Nuova Italia, 1995. pp. 31-50.
Marchese, Angelo. Storia intertestuale della letteratura italiana. L’Ottocento: dal preromanticismo al
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decadentismo. Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1990. pp.41-79 (presentazione generale
dell’epoca) e pp. 141-181, su Foscolo.
Marchese. Riccardo. Letteratura e società. Antologia e storia della letteratura italiana nel quadro della
cultura europea. / 3 / Dall’età napoleonica a Verga. Firenze, La Nuova Italia, 1975.
Leopardi, Giacomo. Tutte le poesie e tutte le prose. Roma, Newton Grandi Tascabili Economici, 1997,
1467 pp.
Leopardi, Giacomo. Zibaldone. Roma, Newton, Grandi Tascabili Economici, 1997, 1195 pp.
Nota: si richiede lettura delle principali opere di Leopardi e di Manzoni tradotte in romeno
in varie edizioni.
DOMANDE-ARGOMENTI
1. Dove si manifesta per la prima volta il preromanticismo? Perché in Italia il romanticismo prende alcuni
cenni particolari e una consistente resistenza?
2. Quali sono particolari rapporti di Manzoni e Leopardi con il romanticismo europeo?
3. Le tappe importanti della vita di Foscolo.
4. Enumerare le principali opere foscoliane.
5. La poetica foscoliana: la visione sul mondo, sulla natura, sull’uomo. La stilistica foscoliana.
6. Il contributo di Ugo Foscolo allo sviluppo della poesia e della narrativa italiana ed europea moderna.
7. Tracciare le principali tappe della vita breve e solitaria del Leopardi.
8. Definire la poetica leopardiana nelle sue linee essenziali.
9. Fare un commento oppure un’analisi della poesia “L’Infinito”.
10. Spiegare il pessimismo del Poeta in base al suo pensiero delle «Operetti morali»
11. Qual è l’importanza di Leopardi per la poesia italiana moderna?
12. Specificare i più significativi momenti della biografia di Alessandro Manzoni.
13. Come puoi spiegare la posizione del Manzoni nei confronti con il Romanticismo europeo?
14. Disegnare le linee teoriche essenziali dello scrittore sul romanzo storico.
15. Fare un riassunto della trama del romanzo “I Promessi Sposi”.
16. Enumera le principali novità del romanzo manzoniano nel contesto della letteratura italiana di inizio
Ottocento.
17. Delineare il ruolo del Manzoni nello sviluppo della letteratura italiana moderna.
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BIBLIOGRAFIA GENERALE
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italiani e stranieri con storia letteraria per i trienni delle scuole medie superiori. / III /. Padova, CEDAN, 1995.
Filippelli, Renato. L’itinerario della letteratura nella civiltà italiana. Napoli, Edizioni «Il Tripode», s.a.
Gibellini, Pietro, Olivo, Gianni, Tesio, Giovanni – LO SPAZIO LETTERARIO. Antologia della letteratura
italiana. / 2 /. Brescia, La Scuola, 1991.
Guglielmo, S. / Grosser, Hermann – IL SISTEMA LETTERARIO. Guida alla storia letteraria e all’analisi
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Marchese, Angelo – STORIA INTERTESTUALE DELLA LETTERATURA ITALIANA.. MessinaFirenze, G. D’Anna, 1990.
Marchese, Riccardo – LETTERATURA E REALTÀ. Antologia e storia della letteratura italiana nel
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X X X POESIA ITALIANA. 1124 – 1961. Un’antologia. A cura di Antonio Carlo Ponti con la collaborazione
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Sapegno, Natalino – COMPENDIO DI STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA. / 2 / Cinquecento,
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