L`AMBITO RELAZIONALE E LE POLITICHE DI MARKETING

L’AMBITO RELAZIONALE E LE POLITICHE DI
MARKETING
pag. 1
INDICE
Il marketing e la sua area del decidere
Introduzione
1. Marketing concept e la sua evoluzione
2. Il consumatore
Breve percorso storico sul consumer behavior
L’analisi dei bisogni
3. L’individuazione delle aree strategiche d’affari (ASA)
Il rapporto tra domanda e offerta: la macro-segmentazione
I segmenti dei segmenti: la micro-segmentazione
4. Il posizionamento
5. Il marketing plan
6. La customer satisfaction
Tipologie di clienti tra prospettiva interna ed esterna
La customer satisfaction attraverso la Customer Relationship Management
(CRM)
Misurare la soddisfazione
pag. 2
Il marketing e la sua area dell’agire
1. Il prodotto
Il prodotto come paniere di attributi: componenti e servizi
Il ciclo di vita del prodotto (CVP) integrato con SWOT e BCG
2. Il prezzo
Sulla determinazione del prezzo: verso una concezione olistica
- Determinanti interne di influenza
- Determinanti esterne di influenza
- Approccio analitico alla determinazione del prezzo
Decisioni e scelte strategiche di pricing
3. La promozione o il comunication mix
Pubblicità
Vendita personale
Promozione delle vendite
Pubbliche relazioni
4. La distribuzione fisica e la distribuzione commerciale
La distribuzione fisica
La distribuzione commerciale come sistema
- Le componenti del sistema
- Le strutture operative
Il nuovo contesto della distribuzione: Internet
pag. 3
Introduzione
Nonostante il marketer sia Procter & Gamble, il quale osserva che le persone
sovrappeso vogliono cibi gustosi ma meno grassi e t’inventa Olestra; o CarMax, la
quale rileva che la gente vuole più certezza quando acquista un’automobile usata e
t’inventa un nuovo sistema per vendere automobili usate; o IKEA, che individua
persone che vogliono prodotti relativamente buoni a prezzi bassi e t’inventa il
sistema di fornitura knock-down – tutto ciò illustra una trasformazione di un bisogno
individuale o sociale in un’opportunità di business profittevole tramite la funzione
di marketing1.
In sostanza il marketing si occupa dell’individuazione e della soddisfazione delle
esigenze individuali e sociali. Uno delle più brevi definizioni del marketing è
soddisfare le esigenze con profitto2.
Alcuni eminenti studiosi dell’economia d’impresa hanno sintetizzato al meglio il
ruolo del professionista di marketing, l’inquadramento del quale è necessario per
capire la funzione di marketing. Gli autori si esprimono come di seguito:
“Il professionista di marketing si interessa allo studio dei bisogni e dei desideri del
consumatore, mettendo a punto ipotesi intese a soddisfare quei bisogni rimasti inesauditi,
verificando la validità di queste ipotesi di prodotto, progettandone le caratteristiche, ideando
la confezione ed un marchio di fabbrica, fissando per il prodotto un prezzo che assicuri una
ragionevole redditività dell’investimento, provvedendo alla distribuzione su scala regionale,
nazionale e internazionale, creando un’efficace rete di comunicazioni di marketing per far
conoscere al pubblico la disponibilità del prodotto, procurandosi i media più efficienti per
trasmettere i messaggi commerciali, revisionando l’andamento delle vendite, seguendo il
gradimento della clientela e, infine, modificando i piani di marketing alla luce dei risultati. Il
professionista di marketing dovrebbe essere il personaggio che riunisce in sé la professionalità
del ricercatore di mercato, dell’inventore, dello psicologo, del sociologo, dell’economista,
dell’esperto di comunicazioni, del legale.
Questo è quanto credono i responsabili aziendali di marketing”3.
Ora, considerando il faccino trattato nella figura 1.1, possiamo affermare che il
marketing, nel senso più ampio, è una funzione appartenente all’ambito relazionale,
in quanto questa funzione ha l’obiettivo di relazionare l’interno, nel nostro caso il
sistema impresa, con l’esterno, ossia i sovrasistemi di contesto4 quali intermediari
commerciali, operatori logistici, fornitori di risorse materiali (in questo caso si tratta
Kotler P., Marketing Management, Millenium Edition, Prentice-Hall Inc, New Jersey, 2000, pag. 1.
Kotler P., 2000, op. cit., pag. 1.
3 Panati G., Franch M., Marketing e Impresa, Cedam, Padova, 1987, pag. 10.
4 Sul concetto di sovrasistema rilevante nel contesto di riferimento si vedano le opere di GOLINELLI
G.M., L’approccio Sistemico al Governo dell’Impresa, vol. 1: L’impresa sistema vitale, CEDAM, 2000,
Padova; GOLINELLI G.M., L’approccio Sistemico al Governo dell’Impresa, vol. 2: La dinamica evolutiva
del sistema impresa tra economia e finanza, CEDAM, 2000, Padova; GOLINELLI G.M., L’approccio
Sistemico al Governo dell’Impresa, vol. 3: Valorizzazione delle capacità, rapporti intersistemici e rischio
nell’azione di governo, CEDAM, 2002, Padova; GOLINELLI G.M., L’approccio Sistemico al Governo
dell’Impresa, vol. 1: L’impresa sistema vitale, CEDAM, Padova, 2005; GOLINELLI G.M., L’approccio
Sistemico al Governo dell’Impresa, vol. 2: Verso la scientificazione dell’azione di governo, CEDAM,
Padova, 2008; GOLINELLI G.M., Viable Systems Approach: Governing business dynamics, CEDAM,
Padova, 2010.
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pag. 4
del marketing d’acquisto che non sarà oggetto del capitolo) ed immateriali,
consumatori, ambientalisti, ecc., avendo come finalità quella del raggiungimento,
acquisizione, soddisfazione e fidelizzazione della clientela.
Le relazioni con l’esterno si qualificano dal punto di vista degli input informativi
e fisici, cioè dal punto di vista delle fonti d’informazione private e pubbliche e delle
fonti di materie prime e componenti, e da quello dell’output, ossia dal punto di vista
della distribuzione fisica e commerciale. Nel primo caso ricordiamo ad esempio le
istituzioni delle statistiche, come ISTAT, le quali offrono risorse informative di
notevole importanza per la funzione di marketing (si pensi semplicemente alle
ricerche di mercato), oppure al sovrasistema di fornitura il quale offre l’input delle
materie prime senza le quali non parte il processo produttivo.
Dal lato della distribuzione si potrebbe riferirsi ai distributori commerciali
(considerate i supermercati nei quali fate la spesa), agli operatori logistici che si
occupano della distribuzione fisica dei prodotti industriali (tra gli esempi più
evidenti ci vengono in mente grandi imprese quali, la FedEx, UPS, TNT ecc).
Figura 1 – Il marketing e le altre funzioni dell’impresa
I = input
O = output
T = trasformazione
Fonte: ns. Elaborazione
In entrambi i casi, il marketing ha il compito di coinvolgere i sovrasistemi di
riferimento, siano essi, sovrasistemi di fornitura o di distribuzione. Il coinvolgimento
avviene con l’ampia varietà del ciclo metodo – tecniche – strumenti che questa
funzione dispone. Si pensi ad esempio alla pubblicità e alle promozioni di diversa
natura.
Il ciclo metodo – tecniche – strumenti di marketing è una rappresentazione degli
schemi interpretativi generali e di sintesi che questa funzione utilizza per uno scopo
preciso che Peter Drucker meglio di tutti sintetizza cosi:
“There is only one valid definition of a business purpose: a satisfied customer.”
Sappiamo bene che gli schemi specifici sono derivati degli schemi interpretativi
generali. Il marketing agisce come mediatore tra sistema impresa e sovrasistemi di
contesto; si tratta di una mediazione tra interno ed esterno. Ma interno/esterno non
è uno schema interpretativo generale? Decisamente si, e per di più non inventata dai
responsabili della funzione marketing. E’ uno schema aristotelico che utilizzano
anche gli economisti d’impresa per derivare altri schemi di sintesi (basta pensare alla
SWOT analysis, la quale altro non è che uno schema di sintesi derivato dello schema
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generale interno/esterno utilizzato come schema specifico nel marketing plan e non
solo).
Il fatto che parliamo di relazioni ci fa venire in mente un concetto di notevole
importanza, un concetto che analogamente alla legge di gravità in fisica, serve esso
stesso come “legge di gravità” nei rapporti tra i sistemi. Questo è il concetto della
consonanza5. Essa esprime la compatibilità strutturale tra due o più sistemi vitali (ad
esempio tra il sistema impresa e i sovrasistemi di distribuzione, di consumo,
d’ambiente ecc). Un sistema vitale, diversamente chiamato, è una varietà
informativa6. Ne deriva che la consonanza è la compatibilità tra due o più varietà
informative. Compatibilità rispetto a che cosa? Per rispondere a questa domanda è
necessario ricordare che la consonanza è un concetto strutturale, e nella struttura
abbiamo le relazioni tra le componenti interne della stessa struttura, oppure tra le
componenti interne di una struttura e quelle esterne di un’altra struttura
appartenente ad una altro sistema7. Ciò fa sì che, per trovare la compatibilità tra due
sistemi dobbiamo scavare nella struttura della varietà informativa.
Come già trattato e visto in questo corso, la varietà informativa è composta da
categorie valoriali, schemi interpretativi generali e di sintesi e unità informative. Ciò
fa si che la consonanza tra due varietà informative è la compatibilità tra categorie
valoriali, schemi interpretativi e unità informative.
I concetti di varietà informativa e consonanza sono di notevole importanza per la
sopravvivenza del sistema impresa. Per sopravvivere a lungo bisogna saper
relazionarsi in modo giusto, ma per fare questo è necessario saper leggere i valori e
gli schemi degli interlocutori che popolano l’ambiente e il marketing ha un ruolo
cruciale nella lettura dell’ambiente. Dalla lettura dell’ambiente si ricava il contesto
dei sovrasistemi ritenuti rilevanti per l’impresa con i quali, una volta testata la
consonanza, si attiva la risonanza, ossia l’interazione.
Per comprendere meglio è ora di fare un esempio interessante dove la cultura di
un determinato ambiente assume un ruolo base e considerevole nelle scelte che
andiamo a fare.
La Nestlé quando ha internazionalizzato verso Giappone il mercato dei cereali,
inizialmente, non ha saputo bene come posizionarsi. La cultura giapponese (valori e
schemi) è particolare e diversa rispetto a quella degli stati europei nei quali la Nestlé
serviva già prima questa tipologia di prodotto. Qual è la funzione d’uso dei cereali?
Naturalmente quella di mangiare i cereali con latte o yogurt a colazione. I giapponesi
invece hanno percepito i cereali come degli snack trovando una funzione d’uso
diversa da quella pianificata dall’impresa. Questa incompatibilità (dissonanza) era il
risultato di una lettura non attenta dei valori e degli schemi mentali che i clienti
asiatici possiedono.
E l’impresa che deve adattare la sua varietà rispetto alla varietà del mercato che
serve, e non il contrario. Se un sale manager italiano deve negoziare con clienti
stranieri che non capiscono la lingua italiana, ovviamente è lui che si deve adeguare
alla loro lingua. A questo punto interviene la legge della varietà necessaria (low of
Barile S., Management Sistemico Vitale: Decidere in contesti complessi, Giappichelli, Torino, 2009.
Barile S., 2009, op. cit.
7 Ricordiamo che la consonanza va considerata sempre nella presenza di due o più sistemi
analizzando le strutture rispettive.
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pag. 6
requisite variety) di Ashby8. Qual è la varietà necessaria per accendere la luce?
Sappiamo che il “sistema luce elettrica” è un sistema binario di tipo on/off (salvo il
caso che non sia un reostato con stati intermedi del sistema). Questo è un sapere
necessario per accendere/spegnere la luce. Conoscere la varietà del sistema con cui
ci si confronta è importante e necessario perché influisce sulla consonanza.
Così, in ultima analisi, la metafora della forza di gravità vuole esprimere la forza
attrattiva che un sistema ha nei confronti di un altro sistema. La forza attrattiva si
basa sui valori e sugli schemi che i sistemi vitali possiedono. Bisogna sottolineare che
la consonanza non è unilaterale, ma si tratta di un’attrattività reciproca. Come gli
esempi precedenti se ne possono fare centinaia, basta cambiare gli interlocutori. La
cosa più importante è ricordarsi del perché si sceglie di relazionarsi con un operatore
logistico piuttosto che con un altro, o con un distributore invece di un altro, o con un
individuo (volendo semplificare ancora) anziché con uno diverso, e cosi via.
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Ashby W.R., An Introduction to Cybernetics, Chapman & Hall Ltd, London, 1957, cap. 11.
pag. 7
Il Marketing concept e la sua evoluzione
Alcune imprese cercano il successo comprando un appezzamento di terra,
costruendo una fabbrica, dotandola di personale e macchinari e poi creando un
prodotto di cui, secondo loro, gli acquirenti hanno bisogno. Ma accade spesso che
queste imprese non riescono ad attrarre clienti con ciò che hanno da offrire perché
hanno definito il loro business come «creare un prodotto» invece che come «aiutare i
loro clienti a soddisfare i loro bisogni e i loro desideri». Per esempio, quando i CD
diventarono più popolari dei dischi in vinile, i fabbricanti di giradischi ebbero
l’opportunità di sviluppare nuovi prodotti per soddisfare il bisogno intrattenimento
domestico (home entertainment) da parte dei clienti. Le aziende che non hanno cercato
di sfruttare questa opportunità, quali Dual e Empire, hanno cessato l’attività: queste
organizzazioni non sono riuscite a implementare il concetto di marketing (marketing
concept).
Secondo il concetto di marketing, un’organizzazione dovrebbe tentare di fornire
prodotti capaci di soddisfare i bisogni dei clienti attraverso un insieme coordinato di
attività che permettano anche all’organizzazione di raggiungere i propri obiettivi. La
customer satisfaction (soddisfazione del cliente) è il punto focale del marketing concept.
Per implementare questo concetto l’impresa si sforza di afferrare che cosa
desiderano i clienti e impiega queste informazioni per sviluppare prodotti e servizi
capaci di soddisfare la domanda9. Essa si focalizza sull’analisi dei clienti e del più
ampio ambiente macro-marketing attraverso l’integrazione di risorse, capacità e
competenze10 in ottica di co-creazione di valore con il cliente11.
L’impresa deve anche continuare a modificare, adattare e sviluppare prodotti che
tengano il passo con il variare dei desideri e delle preferenze dei clienti. Per esempio,
la Ben & Jerry’s valuta continuamente la domanda dei gelati e sorbetti da parte dei
consumatori. Sul proprio sito Web mantiene un “cimitero dei sapori” (flavor
graveyard) in cui sono elencate le combinazioni dei sapori che sono state
sperimentate e che alla fine non hanno avuto successo. Inoltre, registra ogni mese i
10 sapori più popolari (top flavors). Le case farmaceutiche quali Merck e Pfizer si
sforzano continuamente di sviluppare nuovi prodotti per combattere malattie
infettive batteriche e virali, varie forme di cancro e altre patologie. I farmaci che
abbassano il tasso di colesterolo, tengono sotto controllo il diabete, alleviano la
depressione o migliorano in altri modi la qualità della vita, procurano alle case
farmaceutiche profitti enormi. Quando fabbricano nuovi prodotti – come Rogaine,
un farmaco impiegato nella cura della calvizie – le imprese devono sviluppare
attività di marketing per raggiungere i clienti e comunicare loro i benefici e gli effetti
Se ci facciamo caso questo è il concetto della consonanza. L’impresa si sforza di adattare la sua
varietà informativa a quella dei clienti, cioè la logica vuole che l’impresa venda non ciò che produce,
ma ciò che il cliente vuole e desidera.
10 Siano A., Gianpaolo Basile G., Confetto M.G., Il ciclo risorse-capacità-competenze nell’approccio
sistemico vitale: dall’individuo all’organizzazione, in: Barile S., L impresa come sistema. Contributi sull’
Approccio Sistemico Vitale, Seconda Edizione, Giappichelli, Torino, 2008.
11 Ci sono alcune nuove tendenze sulla creazione di valore riunite sotto la logica Service Dominant
Logic (S-D Logic). Per approfondimenti sull’argomento si consiglia Lusch R.F., Vargo S.L., The ServiceDominant Logic of Marketing, Armonk, New York: M.E. Sharpe, 2006.
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pag. 8
collaterali dei prodotti. Perciò, il concetto di marketing pone in rilievo che il
marketing parte dai clienti e arriva ai clienti.
Il concetto di marketing non è una secondaria definizione di marketing, bensì è
una filosofia gestionale che guida le attività complessive di un’organizzazione.
Poiché questa filosofia influenza tutte le attività organizzative, e non solo il
marketing, i dipartimenti di produzione, finanza, contabilità, risorse umane e
marketing devono cooperare12 tra di loro.
Per gli operatori di marketing è importane considerare non soltanto i bisogni dei
loro clienti attuali, ma anche i bisogni di lungo periodo della società. Per esempio,
anche se molti genitori desiderano per i propri bambini pannolini confortevoli,
assorbenti e sicuri, la società in generale non desidera pannolini usa e getta che non
siano biodegradabili, in quanto essi causerebbero enormi problemi di smaltimento
oggi e nel futuro.
In sostanza, essere responsabili della funzione marketing significa essere
responsabili per i clienti (intermedi e finali) e per l’ambiente macro-marketing
(socioculturale, economia, ecologia, tecnologia, politica/legale), nonché attuare una
concorrenza leale.13
Figura 2 – Principali attori del mercato e principali fattori dell’ambiente macro-marketing
Fonte: Lambin J. J., 2004.
L’ impresa e ogni altra organizzazione, come lo definiva Chester Barnard, è un sistema cooperativo
che necessita la cooperazione tra gli individui sparsi in vari livelli dell’organizzazione. Barnard Ch.,
The functions of the Executive, Harvard University Press, Cambridge, 1938.
13 Lambin J. J., Marketing Strategico e Operativo, McGraw-Hill, Milano, 2004, pag. 27, 30.
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pag. 9
Oggigiorno avere in mente il cliente per soddisfare le sue attese è una cosa
ovvia per i responsabili di marketing, ma non sempre è stato cosi. Gli orientamenti
sono cambiati con il dinamismo del mercato e con l’aumento della diversità.
I.
Orientamento alla produzione (marketing passivo). Nella seconda meta del
XIX secolo, negli Stati Uniti, la rivoluzione industriale era in piena
espansione. L’energia elettrica, i trasporti su rotaia, la divisione del lavoro, le
catene di montaggio e la produzione di massa permettevano di produrre i
beni più efficientemente. La domanda di prodotti industriali era talmente
forte che superave anche l’offerta (fase del marketing passivo: domanda >
offerta). Un esempio è la catena di montaggio di Ford modello T.
II.
Orientamento alla vendita (marketing operativo). Negli anni Venti del secolo
scorso la domanda di prodotti, fino ad allora forte, calò e le imprese si resero
conto che avrebbero dovuto “vendere” prodotti agli acquirenti. Questa fase di
marketing, durata fino all’inizio degli anni Cinquanta, riteneva che le attività
principali fossero la vendita personale (personal selling), la pubblicità
(advertising) e la distribuzione (placement).
III.
Orientamento al marketing o al cliente (marketing strategico). In questa fase
cominciata all’inizio degli anni Cinquanta, le logiche sono cambiate da push
(spingere verso il mercato, cioè forzare la vendita) a pull (essere il cliente a
chiedere ciò che vuole lui). In sostanza non era più l’impresa a vendere, ma
era il cliente ad acquistare, perciò un orientamento al marketing richiede di
essere in grado di rispondere ai bisogni e ai desideri continuamente mutevoli
dei clienti.
“In tal caso il management non si accontenterà più di esaminare i risultati di
vendita, ma vorrà conoscere l’origine ed esaminare attentamente il comportamento del
consumatore, tanto da indurre le università americane a introdurre nei loro piani di
studio la disciplina «consumer behavior» ”.14
A questo scopo, Amazon.com, fornitore online di libri, VHS, CD, DVD e
altri prodotti, segue gli acquisti online dei clienti e consiglia campi affini.
Orientamento al mercato (market-driven management)15. Nell’ economia
mondiale attuale sorgono nuove esigenze sociali, sostenute dal movimento
ecologista e dal consumerismo16, che chiedono alle imprese una maggiore
sensibilità alle ripercussioni socioculturali della propria attività economica e
industriale. L’industria risponde con il marketing verde, che promuove lo
sviluppo di concetti di prodotto ecologici e con il marketing responsabile, che
si basa su comportamenti etici da parte dell’impresa. Sul piano internazionale,
la crescente interdipendenza dei mercati solleva il dilemma della
standardizzazione o dell’adattamento. Per restare competitivi, è necessario
adottare una strategia di marketing globale o transnazionale nei contesti in
Panati G., Franch M., Marketing e Impresa, Cedam, Padova, 1987, pag. 19.
Lambin J. J., 2004, op. cit.
16 Il consumerismo è il movimento dei consumatori come sovrasistema influente nei confronti delle
decisioni d’impresa. Il movimento consumeristico è il derivato della non soddisfazione dei consumatori
in senso ampio e non semplicemente basata sulla materialità del prodotto. Questa insoddisfazione è
anche e sopratutto un sentimento di risposta ai comportamenti non etici delle imprese. Come sostiene
Drucker, “il consumerismo è la vergogna del marketing”.
14
15
pag. 10
cui le forze che spingono all’adattamento sono ridotte. Tutti questi
cambiamenti nell’ambiente macro-marketing richiedono un rafforzamento
dell’orientamento al mercato delle imprese. Nell’attuale situazione di
turbolenza, l’orientamento al mercato è troppo importante per essere affidato
esclusivamente alla funzione marketing. L’orientamento al mercato come
cultura e filosofia di gestione deve essere diffuso a tutti i livelli e in tutte le
funzioni dell’organizzazione. In questo nuovo contesto, il marketing
strategico è più importante che mai, ma la funzione marketing come reparto a
sé è messa in discussione e deve perciò essere reinventata. Il marketing deve
essere visto non più come una funzione separata, bensì come un processo di
integrazione delle varie funzioni. Il semplice orientamento al marketing è
superato dal momento che pressupone un ruolo funzionale nel coordinamento per
rendere l’impresa più attenta ai bisogni dei soli consumatori. L’orientamento al
mercato pressupone invece che tutte le funzioni dell’impresa tengano conto di tutti
gli operatori (e non solo al consumatore) e i partecipanti che influenzano in
modo diretto o indiretto la decisione d’acquisto.
pag. 11
Il consumatore
1.1 – Breve percorso storico sul consumer behavior
Il consumatore è l’oggetto dell’azione di marketing, il bersaglio da colpire con il
prodotto17 e con gli altri strumenti del marketing operativo (prezzo, promozione,
distribuzione). Cosi, l’unica finalità del marketing è il raggiungimento e la “cattura”
dei consumatori, considerati nel loro insieme e in ogni singola classe.
Come rilevava anche Vilfredo Pareto, tutto comincia dai gusti del consumatore,
perciò l’analisi prende la sua origine dalla domanda che essi esprimono. Nella
scienza economica classica non si trascura ovviamente la domanda, ma le
caratteristiche di chi la esprime non sono così centrali come nel marketing. La
maggior parte degli studiosi di impostazione classica, come John Stuart Mill,
adottava il postulato che ciascun consumatore fa esattamente ciò che corrisponde
alla massima utilità, qualsiasi cosa faccia (concezione utilitaristica) e che l’utilità è
qualcosa di soggettivo, non conoscibile che attraverso la configurazione delle scelte
compiute.
Nonostante alcune lodevoli eccezioni18, l’economia classica – inseritasi sul filone
utilitaristico – non sentì, ad esempio, l’esigenza di svolgere analisi scientifiche dei
bilanci familiari.
Questo interesse cominciò assai più tardi, soltanto con l’opera dello statista
prussiano Ernst Engel19 che elaborò una delle poche «leggi empiriche»
dell’economia, quella sul comportamento del consumatore, la quale afferma che
all’aumentare del reddito diminuisce la percentuale delle spese alimentari in
rapporto alle spese per altri beni20, cioè varia la composizione dei consumi.
A notevole distanza di tempo sarà poi Keynes ad incorporare questa legge
empirica in una «legge psicologica fondamentale» (non empirica) sulla quale – egli
affermava – ci si può fiduciosamente basare, vale a dire che di norma e in media, gli
uomini sono disponibili ad accrescere il loro consumo con l’aumento del reddito, ma
non tanto quanto è questo aumento. La proporzione dell’aumento di reddito
destinata a soddisfare il tenore di vita abituale è chiamata da Keynes «propensione al
consumo», mentre propensione al risparmio è la differenza positiva tra il valore di
reddito effettivo e la spesa del suo tenore di vita abituale.
Lo studio della ripartizione della spesa del consumatore – iniziato da Ernst Engel
– restò a lungo trascurato, finché venne ripreso da Katona, che suggerì di
suddividere la spesa in due classi di voci: quelle non discrezionali, connesse ad
Kotler P., Marketing management, Lied, Torino, 1976, pag. 13, 14, 16.
Nel 1672 William Petty, attraverso alcuni studi sui bilanci familiari, analizzò i comportamenti
d’acquisto di alcune famiglie operaie inglesi; cent’anni dopo nel 1795 il reverendo David Davies
raccolse 137 bilanci familiari di lavoratori agricoltori che vennero pubblicati, corredati da interessanti
considerazioni in merito alla motivazione d’acquisto: Davies D.,The Case of Labourers in Husbandry,
London,1795.
19 Engel E., Lebenstoken belgischer Arbeiter-Familien früher und jetz, in “Bulletin de l’Institut
International de Statistique”, Roma, 1895, così citato in Alberoni F., Miotto A., Sinigatti S., Consumo,
comunicazione e persuasione, Etas Libri, Milano, 1974, pag. 8 e menzionato anche da Meoli U.,
Lineamenti di storia delle idee economiche, UTET, Torino, 1978, pag. 298.
20 Guatri L., Scott G.W., (a cura di), Manuale di Marketing, Isedi, Milano, 1972, pag. 4-23.
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impieghi già presi, ad abitudini e tradizioni; quelle discrezionali, riguardanti
essenzialmente il consumo di beni durevoli ed il risparmio liquido21.
Più in generale Katona afferma l’esistenza di un legame fra «clima psicologico» e
propensione all’acquisto del consumatore, indipendentemente da variazioni di
prezzo e di reddito22.
Intanto, nell’ambito della teoria dell’utilità che era stata da tempo formulata e
sviluppata dalla scuola marginalistica, uno studioso inglese, Edgeworth, aveva
introdotto il concetto di «curve di indifferenza»23
Lungo questa direttrice si mosse anche Fisher24 ribattendo la soggettività dei
criteri di misurazione della soddisfazione del consumatore, della quale non si riuscì
a trovare nessuna valida misurazione di tipo cardinale. L’impasse fu aggirata da
Pareto25 ricorrendo ad un criterio ordinale che, prescindendo dalla psicologia, riuscì a
dare forma alle operazioni soggettive con la cosiddetta «collina del piacere». In
sostanza la collina del piacere prendeva l’origine dai differenti livelli di
soddisfazione soggettiva relativamente ai diversi livelli di reddito disponibile.
In assenza di precisazioni (da parte di Pareto) i livelli di reddito cui ci riferiamo
corrispondono al reddito disponibile in un dato momento. Bisogna aspettare Milton
Friedman26 per capire che il consumatore non fissa (e quindi non ordina) i suoi
consumi in base al «reddito istantaneo», ma in base al «reddito permanente»,
corrispondente alle entrate medie delle quali ritiene di poter disporre durante un
certo periodo di tempo.
Nei “teoremi” menzionati il consumatore appartiene ad una popolazione di
esseri assolutamente identici ed isolati, senza nessuna interazione tra di loro. È stato
Veblen27, per primo, ad osservare che il comportamento del consumatore dipende
(anche) dalla struttura sociale e non da qualche sistema di bisogni naturali. Si tratta
di una scoperta molto importane, in quanto svela le radici del dinamismo dei
consumi: esse si trovano nell’emulazione (effetto dimostrativo). A decidere
l’orientamento dei consumi è la classe che sta in cima alla reputazione e alla stima –
la classe agiata (leisure class) – la quale divenuta gruppo ideale di riferimento
imitativo - comparativo, utilizza due vie dimostrative: lo spreco di tempo (agiatezza
vistosa) e lo spreco di beni (consumo vistoso).
Più tardi la questione verrà ripresa da Duesenberry28 il quale osserverà che la
soddisfazione ricavabile da un individuo con il consumo non dipende dall’atto di
consumo in sé considerato, ma dalla comparazione dei beni che egli usa con una certa
frequenza con beni di tipo superiore usati da altri individui. Per esempio, per un
individuo che utilizza ancora il computer desktop (non molto confortevole) in un
momento in cui i suoi amici utilizzano il laptop (considerandolo in questo caso come
Katona G., L’uomo consumatore, Etas Kompass, Milano, 1964, pag. 63.
Katona G., Analisi psicologica del comportamento economico, Etas Kompass, Milano, 1964.
23 Il metodo di Edgeworth, per mezzo della ricontrattazione, definisce i valori di equilibrio ovvero i
prezzi tali che nessuna domanda disposta a pagarli e nessuna offerta disposta ad accettarli rimanga
insoddisfatta.
24 Fisher I., Mathematical investigation in the theory of value and prices, New Haven, 1926.
25 Pareto V., Manuale di economia politica, Bizzarri, Roma, 1965.
26 Schumpeter J., Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino, 1972, pag. 1307.
27 Veblen T., La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 1949.
28 Duesenberry J. S., Income saving and the theory of consumer behavior, Oxford University Press, New
York, 1967; trad. It.: Reddito, risparmio e teoria del comportamento del consumatore, Etas Kompass,
Milano, 1979.
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bene di tipo superiore rispetto al desktop), ci sarà una tendenza per il primo
individuo di acquistare un laptop in modo tale da migliorare il proprio tenore di vita.
L’importanza dei fattori sociologici è ulteriormente ribadita dalla teoria dei gruppi di
riferimento, che afferma la dipendenza del comportamento di consumo
dell’individuo dal suo gruppo di appartenenza29. L’esempio precedente ne è una
buona dimostrazione.
Le scelte del consumatore sono dunque eterodeterminate (quando il consumo degli
altri aumenta, l’individuo tenderà ad aumentare le sue spese di consumo e tale
aumento sarà indipendente dalle variazioni del proprio reddito) e interdipendenti:
ma l’effetto dimostrativo – già scoperto da Veblen – tenderà ad indirizzarle verso
beni di qualità superiore. A differenza di Veblen, per Duesenberry è però il valore
«successo personale» che garantisce l’integrità del meccanismo consumistico.
Stabilito che nella sfera socioeconomica esiste un meccanismo consumistico
integrato, gli studiosi e gli operatori di marketing hanno spostato l’attenzione sui
fattori che influenzano le scelte dei consumatori nei confronti dei prodotti, intesi
come classi, varietà e marche.
1.2 – L’analisi dei bisogni
Prima di procedere con l’analisi di segmentazione del mercato e del
posizionamento, il primo passo del marketing strategico è quello di analisi dei
bisogni espliciti ed impliciti dei clienti. Fino ad ora abbiamo detto che il compito più
importante e vitale del marketing è quello di soddisfare i bisogni e i desideri dei clienti
(in questa sede ci riferiamo al cliente finale, ossia al consumatore).
Prima di procedere con l’analisi, ci sono alcune domande cruciali che debbono
essere poste per evitare degli equivoci; poi non si può analizzare senza sapere
l’oggetto dell’analisi. La prima domanda, allora, si indirizza verso l’oggetto
dell’analisi.
Qual è l’oggetto: il bisogno o il desiderio? Se questi due termini non sono
sinonimi, il marketing crea i bisogni o i desideri? E infine quanti marketing esistono:
uno solo, o tanti?
Per rispondere alla prima domanda è necessario ricorrere alla dicotomia
struttura/sistema30. I bisogni sono sempre quelli che magistralmente Maslow31 ha
identificato nella sua gerarchia dei bisogni umani. Cioè i bisogni sono parte della
nostra struttura. Da un punto di vista sono oggettivi, in quanto sono sempre quelli,
dall’altro sono soggettivi perché la fase della motivazione che vive ognuno di noi
non è uguale per tutti. Per esempio, chi si trova nel deserto da due giorni ed è
assettato non pensa altro che bere un liquido. In questo caso si tratta di soddisfare un
bisogno fisiologico. È diverso il caso di chi ha avuto relativamente “tutto” dalla vita
e pensa solo a sfruttare il suo massimo potenziale, la sua creatività, a fare
29
30
Meoli U.,1978, op. cit., pag. 478.
Barile S., Contributi sull’approccio sistemico vitale: L’impresa come sistema, Giappichelli, 2008, cap.
3.
31
Maslow A. H., Motivazione e personalità, Armando Editore, 1973, cap. 4
pag. 14
beneficienza o altro. Per questo individuo si tratta di soddisfare il bisogno di
autorealizzazione. Sintetizzando, l’oggettività dei bisogni riguarda l’elenco
“prestabilito” dei bisogni (bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima
e di autorealizzazione), invece la soggettività riguarda la scala nella quale si trova
l’individuo, cioè in quale punto dell’elenco si trova in un dato momento storico ed in
un determinato campo della vita. È consigliabile contestualizzare sempre. Non si
può essere socializzati, stimati o autorealizzati in assoluto, ma solo in un dato
momento storico e per qualche determinato campo della vita. Per esempio, possiamo
essere stimati in famiglia, ma non possiamo dire che della stessa stima godiamo
anche in ambito lavorativo. Dal momento che cambia il contesto (in tempo e spazio)
possono cambiare anche i bisogni.
Per quanto riguarda i desideri, questi sono più fluidi, come i sogni che oggi sono
presenti e domani svaniscono. Si può affermare che il desiderio è sistemico; emerge
dal bisogno di riferimento e anch’esso varia al variare del contesto. Nell’approccio
sistemico vitale è stato detto che la stessa struttura (bisogno) produce più di un
sistema (desiderio) al variare del contesto. Per esempio, ho bisogno di mangiare
(bisogno fisiologico), sono fuori casa e devo fare in fretta; sono costretto ad andare in
un fast food. Devo decidere se andare a mangiare una pizza HUT, o andare da
Pizzico, o andare da McDonald? Supponendo che questi negozi si trovano vicini e i
prezzi non variano molto, per risolvere questa situazione basta capire che cosa
desidero. In questo momento ho il desiderio di mangiare la pizza HUT per soddisfare
il bisogno di nutrimento. Ma un’altro giorno (cambia il contesto ma il bisogno rimane
lo stesso) potrei desiderare di andare da Pizzico o altrove. Come si nota, lo stesso
bisogno (struttura) ha prodotto più di un desiderio (sistema) dal momento che il
contesto è cambiato. Ricordiamo che non solo i desideri possono cambiare al variare
del contesto (variazione di tempo e spazio), ma la stessa cosa possiamo affermare
anche per i bisogni. L’altra cosa da tenere in mente è che sono i bisogni la struttura
sottostante dalla quale emergono i desideri.
La seconda domanda è se il marketing crea i bisogni o i desideri. Quando
vediamo la recente pubblicità, dei mondiali di calcio 2010, di Coca-Cola con
testimonial il calciatore Roger Milla, abbiamo bisogno di bere la Cola o la
desideriamo soltanto? In questo caso la risposta è che il marketing di Coca-Cola ci
crea il desiderio di soddisfare la sete (bisogno fisiologico) con questa bibita storica.
Ma per lo stesso bisogno – la sete – possiamo avere altri desideri, come ad esempio
una birra Heineken, oppure una bottiglietta d’acqua Vitasnella (“l’acqua che elimina
l’acqua”) ecc. Come avete dedotto, il marketing crea i desideri soddisfacendo i bisogni.
La terza domanda: quanti marketing esistono? Che si tratti di marketing di
imprese industriali, di servizi, pubbliche o private, gli strumenti e le tecniche di
marketing sono relativamente sempre le stesse; cambia soltanto il contesto in cui si
va ad operare. Naturalmente il marketing contiene in se un certo grado di elasticità e
di flessibilità che gli consente di adattare le sue variabili con la varianza delle
situazioni. Per esempio, McDonald in Giappone vende riso a colazione, invece in Italia
vende i cornetti a colazione, adattando cosi la variabile prodotto (una delle variabili
del marketing mix) alla cultura del paese in cui serve.
pag. 15
Ora, una volta chiariti questi equivoci, sarebbe necessario vedere più in dettaglio
i diversi bisogni umani ed il loro legame con la scienza multidisciplinare ed olistica
di marketing.
Dal momento che bisogni e motivazione sono un tutt’uno, sarebbe necessario
capire che cosa si intende per motivazione.
Una motivazione è uno stimolo interno che orienta le attività di una persona
verso il soddisfacimento di bisogni o il raggiungimento di scopi. Le azioni degli
acquirenti sono influenzate da un insieme di motivazioni anziché da un’unica
motivazione. In un dato momento alcune delle motivazioni sono più forti di altre.
Per esempio, le motivazioni di una persona a bere una tazzina di caffè sono molto
più forti dopo il risveglio che immediatamente prima di coricarsi. Le motivazioni
influenzano anche la direzione e l’intensità del comportamento.
Lo psicologo statunitense Abraham Maslow (1908 - 1970) propose una teoria
della motivazione secondo la quale gli esseri umani cercano di soddisfare cinque
livelli di bisogni. Dopo avere soddisfatto i bisogni ad un certo livello, gli esseri
umani cercano di soddisfare i bisogni ad un livello superiore nella gerarchia. I
bisogni di ordine inferiore sono propedeutici per la soddisfazione di quelli di ordine
superiore. Come si nota nella figura che segue, a livello di base si situano i bisogni
fisiologici, le necessità per la sopravvivenza quali l’ossigeno, il cibo, l’acqua, il sesso,
l’abbigliamento, l’alloggio. Le imprese che commercializzano cibi e bevande
ricorrono spesso all’appeal dei bisogni fisiologici. Al livello successivo si situano i
bisogni di sicurezza.
Figura 3 – La gerarchia dei bisogni umani
Fonte: ns. elaborazione
La sicurezza è intesa in termini esistenziali, cioè avere anche domani ciò che si ha
oggi. Una vecchia pubblicità degli abiti da uomo FACIS diceva: “ La sicurezza veste
l’abito FACIS”.
pag. 16
Seguono i bisogni sociali, esigenze umane di amore, di affetto e di un senso di
appartenenza. I messaggi pubblicitari dei cosmetici e degli altri prodotti di bellezza,
dei gioielli e persino delle automobili suggeriscono spesso che l’acquisto di questo
prodotti procuri l’amore.
Al livello dei bisogni di stima le persone esigono rispetto e riconoscimento dagli
altri nonché autostima. Possedere una Maserati o una Rolls Royce, fare le vacanze a
Dubai riposando nel lussuosissimo albergo a 7 stelle Burj Al Arab, sono tutti esempi
di coloro che hanno necessità di soddisfare bisogni di stima.
Al vertice della gerarchia si situano i bisogni di autorealizzazione, i bisogni di
realizzare se stessi ossia di crescere e svilupparsi per diventare ciò di cui si può
essere capaci. La US Army, nei propri comunicati per il reclutamento, si è rivolta ai
potenziali arruolanti con lo slogan “ be all that you can be in the Army ”.
pag. 17
L’individuazione delle aree strategiche d’affari (ASA)
Il sistema aziendale per conseguire il successo deve dotarsi di una visione di
lungo periodo (strategie di marketing) e, al fine di ottimizzare le risorse disponibili,
di un piano di azioni da attuare. Le strategie e il piano di marketing, a loro volta,
hanno successo soltanto se l’OdG è in grado di captare le richieste del mercato,
intercettando i bisogni palesi e latenti dei consumatori. Troppi consumatori, troppe
esigenze di acquisto, troppa distanza e troppa dispersione convincono gli
imprenditori ad abbandonare l’idea della competizione ovunque e a ogni costo, per
orientarsi invece verso obiettivi particolari del mercato, più alla portata e più
facilmente raggiungibili, detti “segmenti”. Per sfruttare al meglio le opportunità e
non disperdere energie e risorse, le imprese possono concentrare la propria “capacità
di fuoco” solo sugli acquirenti che hanno il massimo interesse all’acquisto. Questo
risulterà più semplice se gli imprenditori si concentreranno sulla “mente dei clienti”,
piuttosto che sulla qualità del prodotto in sé e dello scaffale.
Nello specifico è conveniente identificare: le opportunità presenti nel mercato di
riferimento, chi è la clientela da servire e come l’impresa pensa di raggiungerla.
Questi primi dati devono essere integrati con le informazioni concernenti l’ampiezza
e il tasso di crescita del segmento o nicchia del mercato, le stime delle vendite e la
stima della quota di mercato che l’azienda si aspetta di ottenere. L’analisi di tutti i
fattori appena elencati consente all’OdG di procedere con quella che viene definita
segmentazione32 del mercato, ossia frazionare il mercato in sub-mercati, in modo tale
che ognuno di loro sia omogeneo al proprio interno ed esternamente (rispetto ad
altri sub-mercati o segmenti) eterogeneo. L’attività di segmentazione consente di:
 evidenziare le eterogeneità nelle preferenze dei consumatori e quindi nelle
scelte dei clienti;
 studiare e scegliere le caratteristiche principali di un prodotto non solo in
funzione del mercato globale ma di uno o più specifici segmenti di consumo
omogenei.33
Le attività di segmentazione cominciano con l’individuazione dei macrosegmenti, per procedere poi con l’individuazione dei micro-segmenti che si trovano
all’interno dei segmenti macro. L’analisi di micro-segmentazione può avvenire anche
in un secondo momento nel tempo e non necessariamente subito dopo la macrW. R. Smith affermava: “La segmentazione di mercato […] consiste nel pensare un mercato
eterogeneo (un mercato caratterizzato da domande divergenti) come un insieme di mercati omogenei di
dimensioni minori, in risposta a differenti preferenze di prodotto tra i segmenti di mercato più
importanti.”
33 Cfr. G. Pellicelli, “Il Marketing”, Utet, 1998, pag. 175: “Il mercato è la somma di più gruppi
eterogenei di compratori (segmenti). Le differenze nella domanda debbono essere perciò individuate e
il programma di marketing deve adattarsi a tali differenze. I segmenti sono quindi diversi, ma
ciascuno nel proprio interno è omogeneo negli aspetti più significativi e può essere raggiunto da un
programma specifico di marketing. Mentre il marketing di massa aveva come fulcro la produzione e
mirava in particolare ai vantaggi delle economie di scala, la segmentazione di mercato ha come
obiettivo il cliente e le sue attese. Per soddisfarle l’impresa è pronta ad adattare il programma di
marketing. […] Con la segmentazione l’impresa non fa produzione di massa, distribuzione di massa e
pubblicità di massa, ma preferisce concentrarsi su una parte del mercato, acquisire una posizione di
vantaggio rispetto ai concorrenti e soddisfare meglio i clienti.”
32
pag. 18
segmentazione. Per esempio, all’inizio la birra Becks produceva la tipica birra amara
(macro-segmento) e solo recentemente è stato introdotto nel mercato la Becks “poco
amara” (micro-segmento), nella quale, oltre al gusto (componente di base nel
prodotto o core component), sono cambiate anche altre variabili di marketing mix: il
packaging component (una delle componenti del prodotto), il prezzo e la promozione
(comunication mix).
1.1 – Il rapporto tra domanda e offerta: la macro-segmentazione
Per introdurre il concetto di macro-segmentazione non si può non utilizzare il
modello di Abell 34. L’obiettivo consiste di definire il mercato di riferimento dal
punto di vista del cliente e non del produttore. A tale proposito così si esprime
Drucker35:
“...è soltanto il cliente che determina il modo d’essere di un impresa, perché la sua
disposizione a pagare per un bene o un servizio converte le risorse economiche in ricchezza e
gli oggetti in merci. Ciò che il cliente compra e considera un valore non è mai
semplicemente un prodotto. È sempre un’utilità, cioè quello che un prodotto o un servizio fa
per lui in termini di soddisfazione dei bisogni.”
Dal testo sopracitato emergono alcuni chiarimenti riguardo le componenti della
figura – 4 .
Il lato di destra della figura riguarda il mercato. All’interno del mercato vengono
svolte le ricerche e l’analisi dei bisogni e dei desideri. I bisogni si manifestano
attraverso la domanda dei potenziali clienti.
Il lato di sinistra esprime la volontà del sistema impresa di offrire qualcosa al
mercato. Una volta analizzati i bisogni e i desideri e poi manifestati attraverso la
domanda, l’impresa comincia la sua negoziazione mostrando al mercato ciò che
dispone: la sua offerta. L’offerta è una miscela del know-what e del know-how. Il
know-what è il prodotto/servizio e il know-how è la tecnologia utilizzata per la
realizzazione di questi.
Segmentazione e diversificazione. La segmentazione descrive la varietà della
domanda ossia la varietà dei bisogni espliciti ed impliciti dal mercato, mentre la
diversificazione riguarda la varietà dell’offerta ossia l’aumento della gamma dei
prodotti all’interno del portafoglio prodotti. Ma visto che la l’individuazione della
domanda precede l’invenzione dell’offerta, o in altri termini, visto che
l’individuazione del bisogno precede logicamente la risposta (il prodotto/servizio),
possiamo affermare che è l’atto della segmentazione che stimola l’atto della
diversificazione. Per maggiori dettagli si rinvia al paragrafo 1.2 di questo capitolo.
Abell D.F., Defining the business: The starting point of strategic planning, Englewood Cliffs, New
Jersey, Prentice-Hall Inc, 1980.
35 Cfr. DRUCKER P.F., Il Management, L’individuo, La Società, FrancoAngeli, Milano, 2002, pag. 2936.
34
pag. 19
Figura 4 – La definizione del business
Diversificazione
Segmentazione
Fonte: ns. elaborazione da Abell D.F.,1980
Settore produttivo e settore merceologico. dalla frase di Drucker – “il cliente con la
sua disponibilità a pagare converte gli oggetti in merci“– si evince che il settore
produttivo è un compartimento di oggetti, invece il settore merceologico è un
compartimento di merci. Perché? Per una semplice ragione: un oggetto per diventare
merce deve avere una funzione d’uso, funzione questa determinata soltanto da chi è
disponibile ad acquistare gli “oggetti”; il cliente. In sostanza, un oggetto diventa
merce una volta appropriato dal cliente, il quale vede nell’oggetto
(prodotto/servizio) un valore d’uso, o un valore simbolico.
Area Strategica D’affari (ASA) e Strategic Business Unit (SBU). La distinzione
tra questi due termini è un dibattito senza fine nella letteratura aziendalistica, perciò
ci è parso opportuno di tentare un semplice chiarimento. Secondo la nostra visione,
lo schema interpretativo generale interno/esterno è utile a spiegare questa
differenza. Nel nostro caso, l’interno è rappresentato dal lato sinistro della figura – 4,
cioè dal sistema impresa. L’esterno, invece, è rappresentato dal mercato di riferimento
il quale è l’unico contenitore di segmenti che noi andremo ad individuare e
possibilmente a servire. Dal momento che si individua un segmento lo chiamiamo
area strategica di affari (ASA); dal momento che si appropria (diventa interno) lo
chiamiamo strategic business unit (SBU). L’appropriamento del segmento significa che
siamo passati dalla potenza (individuare il segmento) all’atto (servire il segmento). In
sintesi, una SBU è un’ASA individuata all’esterno e appropriata all’interno, ma solo
con l’appropriazione (con l’atto del servire) la SBU diventa ASA.
Ricapitolando lo schema di Abell, definiremo il mercato di riferimento in
relazione alle tre domande seguenti:
- quali sono i diversi gruppi di clienti potenzialmente interessati al
prodotto/servizio (chi) ?;
pag. 20
-
quali sono i bisogni/desideri da soddisfare o le soluzioni da trovare (che
cosa)?;
- quali sono le tecnologie esistenti o le attività in grado di fornire tali funzioni
(come) ?
Occorre qui interpretare il termine “tecnologia” in senso ampio; esso fa
riferimento al concetto di mezzi utilizzati (risorse) e ai diversi modi (capacità e
competenze) di soddisfare i bisogni.
In conclusione, a livello di macro-segmentazione si considerano solo le
caratteristiche generali, che sono generalmente sufficienti nei mercati business to
business (B2B). Nel settore dei beni di consumo (mercato business to consumer o B2C),
al contrario, è spesso necessario definire più precisamente le caratteristiche dei
clienti, per esempio in base alle fasce d’età, ai vantaggi perseguiti, ai comportamenti
d’acquisto o allo stile di vita. Di questo si occupa la micro-segmentazione.
1.2 – I segmenti dei segmenti: la micro-segmentazione
Gustosa, frizzante, rinfrescante; che cos’è? Si tratta di uno dei più importanti
prodotti di un valore di milioni e milioni di euro. Prima di diventare un prodotto
offerto largamente al mercato mondiale era un segmento che qualcheduno lo ha
individuato. Quel segmento e prodotto insieme si chiama Coca-Cola. Detto così non
è altro che un macro-segmento, ma anni dopo all’interno di questo macro-segmento
altri segmenti sono fioriti come la coca-cola light, coca-cola zero, coca-cola classic. Si
tratta di micro-segmenti.
Figura 5 – Segmenti tra macro e micro
Macro-segmento Coca-cola
Micro-segmento
Coca-Cola Light
Micro-segmento
Coca-Cola Classic
Micro-segmento
Coca-Cola Zero
Fonte: ns. elaborazione
L’individuazione dei segmenti di mercato è fortemente connesso con i concetti di
diversificazione, segmentazione e differenziazione. Data l’improtanza, prima di
procedere con l’analisi della micro-segmentazione, sarebbe doveroso da parte nostra
mettere in luce alcune sfumatture di questi concetti.
pag. 21
Diversificazione. La diversificazione è un problema della produzione e del portafoglio
prodotti, non del prodotto. Essa corrisponde a un allontanamento simultaneo sia dai
prodotti che dai mercati tipici dell’impresa36.
«L’intensità di tale allontanamento dipende essenzialmente dal grado di novità
dei prodotti che entrano in portafoglio:
a) Se si tratta di prodotti nuovi per l’impresa, ma già esistenti sul mercato
(nella variante) la diversificazione è di carattere imitativo; l’imprenditore
dovrà affrontare una concorrenza diretta sul mercato di destinazione, in
relazione alle caratteristiche e al servizio offerti dal proprio prodotto
rispetto a un prodotto simile che soddisfa lo stesso bisogno, in modo
sostanzialmente analogo.
b) Se quelli che entrano nel portafoglio sono prodotti assolutamente nuovi
sia per l’impresa che per il mercato (nel tipo o nella variante37) si è in
presenza di diversificazione innovativa; l’imprenditore in questo caso
lancia sul mercato un prodotto nuovo, che non incontra alcuna
concorrenza diretta, venendosi a trovare in una situazione simile a quella
del monopolista, anche se nella maggior parte dei casi quando cioè il
prodotto risulta di successo, tale posizione ha una durata relativamente
breve».38
In base al grado di correlazione dei nuovi prodotti (non ha importanza se nel tipo
o nella variante, ovvero se sono assolutamente o relativamente nuovi) la
diversificazione può essere di tipo correlata o conglomerale. Il grado di correlazione si
determina dalla presenza di alcuni fattori come: l’utilizzazione e la condivisione
delle stesse risorse, capacità e competenze; la condivisione dell’approccio strategico;
la condivisione di attività e di procedure operative.
La diversificazione è correlata se i nuovi prodotti aggiunti nel portafoglio hanno
un qualcosa in comune che, per quanto distinti, sono connessi. Un esempio sono i
rasoi e i gel da barba della Gillete che, per quanto diversi, sono complementari.
La diversificazione è invece conglomerale se descrive l’espansione dell’impresa
in settori sostanzialmente privi di alcun collegamento in cui essa è già insediata. Un
esempio può essere la Virgin che possiede nel suo portafoglio bevande, cioccolatini,
aerei, palestre, radio, ecc (in questo casa si tratterrebbe, in termini di strategie di
copertura di mercato, della strategia di copertura totale).
Segmentazione. La segmentazione del mercato riguarda la diversità dei bisogni dei
clienti potenziali che formano il mercato39. Il riconoscimento dell’esistenza di tale
diversità spinge l’impresa ad adattare la propria offerta di prodotti/servizi a ciascun
Ansoff H.I., Strategia aziendale, Etas Kompass, Milano, 1968, pag. 142 (Corporate Strategy, Penguin
Books, Harmondsworth, 1965); Ansoff H.I., Strategia d’impresa, Franco Angeli, Milano, 1974, pag. 7
(Business Strategy, Penguin Books, Harmondsworth, 1969)
37 La differenza tra tipo e variante richiede una logica di matematica elementare. Il tipo rappresenta la
classe o l’insieme, mentre la variante rappresenta un elemento della classe. Per esempio nella classe
(insieme) dei libri di management possiamo trovare diverse varianti: management della produzione,
marketing management, management delle operazioni, health management, ecc.
38 Panati G., Golinelli G, Tecnica economica industriale e commerciale, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1989, pag. 429
39 Smith W.R., Product differentiation and market segmentation as alternative strategies, Journal of
Marketing, Vol. 21, luglio, 1956, pag. 3-8
36
pag. 22
segmento d’interesse. Un segmento non è altro che un gruppo di clienti con
preferenze omogenee all’interno del segmento ed eterogenee all’esterno di esso; di
conseguenza ad un segmento corrisponde un unico prodotto/servizio. In altre
parole “... la segmentazione richiede una dose di creatività, e la base scelta per segmentare il
mercato è altrettanto importante quanto il maggiore o minore grado di omogeneità che si
ritiene di accettare all’interno dei segmenti”40.
Generalmente, la segmentazione si definisce come un processo di
disaggregazione del mercato, ma può essere utile interpretarla come un processo di
aggregazione dei clienti41.
Differenziazione. Ora, per quanto riguarda la differenziazione dei prodotti
riprendiamo le parole del Maestro Giovanni Panati: “Qualora la novità non investa il
tipo o la variante (riguardanti la diversificazione, come in precedenza chiarito), ma la
marca... è d’obbligo parlare di differenziazione. La differenziazione del prodotto è quindi il
l’atto dell’abilità dei produttori di far apparire tra loro differenti (fisicamente o
psicologicamente) e quindi non perfettamente sostituibili prodotti appartenenti ad uno stesso
mercato o ad un insieme grosso modo omogeneo, al punto che il mercato stesso ne risulta
frammentato”.42 Nella stessa linea di condotta, un altro eminente studioso di nome
Pasquale Saraceno si esprime come di seguito: “La differenziazione del prodotto dà luogo
ad una segmentazione del mercato e non alla formazione di mercati diversi; e ciò perché la
differenziazione lascia sussistere una interdipendenza rilevante fra la domanda dei diversi tipi
di prodotti offerti”.43
Si rivela che la differenziazione è logicamente fondata sui caratteri distintivi della
qualità. Le differenze possono essere realizzate sulle componenti del prodotto (core
components, packaging components, service components) e non possono (e non devono)
essere fine a se stesse. La differenza la percepisce solo il cliente perciò è necessario
che venga comunicata nel modo giusto, secondo la prospettiva del cliente. Un
venditore può pretendere di offrire un prodotto, secondo lui, differenziato rispetto
alla concorrenza, ma se il cliente lo percepisce come analogo, allora la
differenziazione non ha avuto successo.
Pertanto un prodotto è realmente differenziato rispetto ad un altro soltanto se
presenta degli elementi che lo riconoscono distinguibile nel metro del giudizio del
consumatore, indipendentemente dal fatto che le differenze di qualità siano reali o
illusorie.44
Ne consegue che la differenziazione è un concetto saldamente legato, più che con
il prodotto, con la marca dello stesso, o meglio ancora, con l’immagine della marca
(brand image). Ciò che viene percepito all’esterno non è mai l’identità del prodotto, ma
la sua immagine. Sono gli sforzi del marketing mix, in particolare del comunication
mix, che determinano il grado di differenzazione del prodotto e del posizionamento
dello stesso. Sul posizionamento si rinvia al paragrafo successivo.
In sintesi, un prodotto è differente se si percepisce come tale dal target dei soggetti
osservatori (i clienti) rispetto ai prodotti concorrenti dello stesso genere, mentre è
Abell D.F., Hammond J.S, Marketing Strategico, Ipsoa, Milano, 1986, pag. 459.
Lambin J.J., Marketing Strategico e Operativo, McGraw-Hill, Milano, 2004, pag. 115, 116
42 Panati G., Franch M., 1987, op. cit., pag. 130-131.
43 Saraceno P., La produzione industriale, Libreria Universitaria, Venezia, 1970, pag. 152.
44Hay D.A., Morris D.j., Economia industriale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 119.
40
41
pag. 23
diverso se presenta oggettivamente peculiarità diverse (individuate nelle componenti
di base, di packaging e di servizio) rispetto ai prodotti presenti nel portafoglio
dell’impresa. Il primo aspetto (la differenziazione) è un fatto soggettivo, di
percezione, è qualcosa che succede all’esterno nella mente di qualcuno e che deriva
dagli sforzi promozionali dell’impresa; il secondo aspetto (la diversificazione) è un
fatto oggettivo che succede all’interno del sistema impresa, frutto di investimenti in
ricerca e sviluppo (R&S) e/o di varie forme di acquisizione interna di business
complementari, o meno, con quelli già esistenti nell’impresa.
Ritornando a noi, le figure seguenti aiuteranno la comprensione di ciò che è stato
detto in tema di segmentazione e diversificazione. La prima figura tratta le strategie
di copertura del mercato; la seconda si focalizza sulle variabili necessarie per la
segmentazione in dettaglio.
Nella figura – 6 sono esposte le strategia di copertura di mercato mediante le
quali i concetti di segmentazione, diversificazione e differenziazione risultano più
comprensibili.
Strategia di nicchia. In questo caso l’impresa scegli di concentrare le risorse e le
sue forze in un unico segmento ristretto (nicchia). Per esempio la Lexus (marca di
lusso della Toyota) è una macchina che viene acquistata da quelle persone che
godono di un certo reddito e che vogliono distinguersi dalla massa; loro comprano la
macchina non solo per la sua funzionalità, ma anche e sopratutto per il suo prestigio.
L’identificazione di questo bisogno (appartenenza del consumatore della Lexus ad un
gruppo sociale “di prestigio”) da parte della Toyota, dà luogo ad un segmento
ristretto. In questo caso la Toyota sfrutta la brand image della Lexus, e il fatto che le
macchine giapponesi sono di alta qualità45, per far percepire il prodotto come
differente rispetto alla concorrenza. La politica di marketing mix, in questo caso, è
unica e riferita ad un unico segmento (approccio di marketing concentrato).
Strategia di specializzazione del prodotto. Il fatto che si specializza il prodotto
significa che un unico prodotto debba trovare sbocco in diversi mercati. Nei suoi
inizi la Fruit of the Loom (www.fruit.com) commercializzava T-shirt e altra
biancheria intima soltanto per gli uomini.
Figura 6 – Strategia di copertura del mercato
Le prime iniziative verso la qualità totale e il controllo della qualità sono nate proprio in Giappone e
questo comporta un affidabilità verso il mercato giapponese, ovvero un country of origin effect (in
questo caso positivo). Questo non succede soltanto nel mercato degli automobili ma anche in altri
settori; quando parliamo dei computer Toshiba lo facciamo a tutto rispetto, oppure dei prodotti della
Sony e cosi via.
45
pag. 24
Poi ha individuato una varietà di bisogni (di domanda) più ampia e ha
cominciato a servire anche il mercato femminile e quello dei bambini (utilizzando
per la segmentazione, prevalentemente, le variabili demografiche). Da un segmento
sono diventati tre. Si ricordi che con questa strategia, siccome il prodotto è uguale
(anche se spesso non del tutto), si applica ai diversi segmenti, più o meno, la stessa
politica di marketing mix (approccio di marketing indifferenziato).
Strategia di specializzazione di mercato. Lo schema di questa strategia è lo
stesso della strategia precedente, soltanto che si cambia il prodotto con il mercato.
Specializzare il mercato vuol dire che nello stesso mercato l’impresa debba vendere
una certa varietà di prodotti. Per esempio, la Decathlon offre un’ampia gamma di
prodotti al mercato dello sport (comprendendo varie tipologie di sport).
Strategia di specializzazione selettiva. Nel caso di questa strategia il sistema
impresa offre diversi prodotti per diversi mercati e la politica di marketing mix è
specifica per ogni tipologia di segmento (approccio di marketing differenziato).
Nella figura – 6 si nota che le automobili offerte dal Gruppo Fiat variano in base al
lusso ricercato, che a sua volta dipende (nella sua percentuale maggiore) dalla
disponibilità del reddito.
Strategia di copertura totale. Nel caso in cui un’impresa copre totalmente il
mercato significa che la sua offerta comprende una miriade di prodotti, nel tipo e
nella variante. Naturalmente che il mercato non si può coprire totalmente senza
ricorrere all’outsourcing. Un’impresa come la Virgin – che possiede bevande,
cioccolatini, aerei, palestre, radio, ecc. – non può essere specializzata in tutti questi
prodotti. Di conseguenza queste imprese non sono produttori diretti delle merce, ma
alla fine le merci ottengono il loro nome. Anche i supermercati che distribuiscono
prodotti owen brand o private label (di marca propria o di marca commerciale)
seguono la stessa strategia, anche se in un livello più contenuto rispetto all’esempio
della Virgin.
La figura – 7 contiene le variabili necessarie per la segmentazione di mercato.
Queste variabili devono essere considerate in un ottica sistemica per risultare utili
durante il processo di segmentazione. Considerare ciascuna in modo isolato fà
perdere di vista delle opportunità che il mercato offre.
Figura 7 – Variabili di micro-segmentazione
VARIABILI DEMOGRAFICHE
VARIABILI GEOGRAFICHE
Età; sesso; gruppo etnico; reddito;
livello di istruzione; occupazione;
dimensione del nucleo familiare;
religione; classe sociale.
Regione; area urbana, suburbana e rurale; dimensione
dello stato, della contea, della
città; clima; infrastruttura.
VARIABILI PSICOGRAFICHE
VARIABILI COMPORTAMENTALI
Caratteri della personalità;
motivazioni; stili di vita.
Consumo in volume; utilizzo
finale; benefici ricercati; fedeltà
alla marca; sensibilità al prezzo;
atteggiamento; consapevolezza
pag. 25
del consumatore.
Fonte: ns. elaborazione
Un esempio può chiarire meglio le idee. La Ferrari, prima di produrre le sue
macchine, naturalmente fa un analisi dettagliata delle variabili di segmentazione
(una vota analizzati i bisogni). Considerando le variabili demografiche, quale
individuo compra probabilmente una Ferrari? Sono in generale quei individui che
hanno un età non avanzata, di reddito alto e di una certa classe sociale. Sarebbe
sufficiente l’analisi senza considerare le altre variabili? La risposta si deduce
facilmente.
Riguardo alle variabili geografiche, probabilmente il marketing manager della
Ferrari considera, l’area urbana, il clima, l’infrastruttura (ricordiamo che una
macchina di questa specie non può camminare ovunque). In merito alle variabili
psicografiche bisogna capire il carattere della persona acquirente (ad esempio un
tipo sportivo), le sue motivazioni (per esempio avere il desiderio di essere veloce e
dominare gli spazi) e lo stile di vita che può essere di tipo dinamico. Nelle variabili
comportamentali non si possono non considerare la fedeltà alla marca e i benefici
ricercati dal consumatore di una Ferrari.
Il Posizionamento
Per ogni sistema vitale, che opera nel contesto ambientale attuale caratterizzato
da un eccesso di offerta, le politiche di posizionamento dovrebbero diventare un
fondamentale driver per la ricerca del vantaggio competitivo. In queste condizioni
l’Organo di Governo di qualsiasi organizzazione, se vuole aumentare la vendita dei
propri output, dovrà, non solo agire sulle politiche di pricing, ma considerare altri
fattori che influenzano il comportamento d’acquisto del consumatore. Al fine di
ridurre la complessità del contesto di riferimento “vanno affermandosi ambiti di
predominio della componente immateriale di offerta che tendono ad indirizzare la
concorrenza di interi comparti di business verso schemi di concorrenza nuovi,
instabili e basati su fattori intangibili”46.
Il posizionamento, fase solitamente successiva a quella di segmentazione in
quanto prescinde da un accurata selezione del target al quale ci si vuole rivolgere,
rappresenta l’inizio del processo che porta alla costruzione del ed all’affermazione di
uno dei fattori intangibili: il brand aziendale.47
Dal punto di vista storico è opportuno precisare che il termine posizionamento
venne introdotto nel 1973 nella terminologia corrente di marketing, quando Al Ries e
Jack Trout scrivendo sulla rivista Advertising Age ne diedero una prima definizione:
“...positioning is not what you do with the product but what you do with the customer’s
mind... and marketing is not a war of production, but a battle of perception” 48
I due autori sostengono che: «l’approccio di base del posizionamento non è di
creare qualcosa di nuovo e differente, ma di manipolare ciò che è già presente nella
mente, di riallacciarsi alle connessioni che già esistono. […] Il miglio approccio per
CORNIANI M., GNECCHI F., Bolle di domanda, comunità virtuali e potenziale di domanda, Symphonya.
Emerging Issues in Management, Issue 2, 2003.
47 Cfr. BRONDONI S.M., La comunicazione integrata in eccesso di offerta, Il Sole 24 Ore, 1° ottobre 2002.
48RIES A., TROUT J., Positioning, New York, McGraw-hill, citato in PELLICELLI, Il marketing dei servizi,
UTET, 1997, pag. 196.
46
pag. 26
emergere dalla nostra società “sovracomunicata” è il messaggio iper-semplificato.
Nella comunicazione meno è di più. Per far breccia nella testa è necessario affilare il
messaggio. Bisogna abbandonare le ambiguità, semplificare il messaggio, e poi
semplificarlo ancora un po’ se si vuole lasciare un’impressione duratura»49.
Questo spiega perché molte aziende si facciano ricordare non ricorrendo a
dichiarazioni spesso enfatiche sulla qualità o esclusività dei loro prodotti, bensì
attraverso un logo, di cui la gente ricorderà il motivo grafico e il colore, collegando
subito l’immagine visiva all’azienda e ai suoi prodotti.
Kotler, a sua volta, definisce il posizionamento come: «l’atto di definizione
dell’offerta e dell’immagine dell’impresa, in modo che essa occupi una posizione
precisa e di riconosciuto valore nella mente del cliente target»50
Kotler parla di una componente specifica del marketing: l’immagine di
un’azienda. Quest’ultima può essere intesa come «la manifestazione percepibile di
un complesso di elementi interni ed esterni dell’azienda, che nel loro insieme
concorrono alla formazione dell’idea che si ha di tale azienda»51.
In altre parole l’immagine rappresenta la sintesi, attraverso gli schemi e le
categorie, delle interazioni sistemiche percepite dal consumatore e da tutti gli altri
sistemi vitali che a vario titolo entrano in contatto con l’azienda.
Figura 8 – La percezione dell’immagine
Fonte: ns. elaborazione
RIES A., TROUT J., Positioning: The battle for Your Mind, (trad. It. La conquista della posizione
vincente, McGraw-Hill, Milano), 1988.
50 KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall.
51 CHERUBINI S., Marketing dei servizi, Franco Angeli, 1996, pag 276.
49
pag. 27
Attraverso il posizionamento l’azienda mira a definire una precisa e distinta
immagine nella mente del cliente, differenziandosi rispetto ai concorrenti utilizzando
come strumento la leva comunicazionale. La differenza sostanziale tra personalità
identità ed immagine consiste nel fatto che la personalità è ciò che in realtà siamo,
l’identità è come vogliamo essere percepiti, l’immagine è come veniamo
effettivamente percepiti. Quindi, in un determinato momento e spazio, la nostra
personalità (struttura) comunica un’identità (sistema) che varia al variare del
contesto. L’identità comunicata dall’interno viene trasformata in un’immagine percepita
dall’esterno. Può capitare che personalità – identità – immagine possano coincidere
totalmente, ma questa è una distribuzione di Poisson o una probabilità di eventi
rari.
Possiamo, pertanto, considerare il posizionamento come una strategia logica ed
organizzata che mira ad individuare uno spazio vuoto nella mente dei consumatori
attuali e potenziali. Dal punto di vista teorico è possibili distinguere due livelli di
posizionamento:
 posizionamento oggettivo: percezione che i clienti hanno del prodotto e dello
stesso rispetto ai prodotti dei competitors;
 posizionamento soggettivo: posizione strategica definita dall’Organo di
Governo del sistema vitale in relazione alle peculiarità strutturali.
Esistono diverse strategie di posizionamento e tutte sono collegate al concetto di
differenziazione (del prodotto) e di percezione (positiva) a livello cognitivo da parte del
consumatore. Nello specifico nel 2005 Youngme Moon, in un articolo di HBR52, ha
introdotto tre diverse strategie di posizionamento:
 posizionamento reverse. Questa strategia, da un lato, tende ad eliminare
alcune delle peculiarità classiche (consegna, consulenza post vendita),
dall’altro, aggiunge nuove peculiarità di livello alto. Un esempio di
posizionamento reverse è rappresentato da IKEA che, ad esempio, non si
occupa della consegna dei prodotti, ma ha aggiunto altri elementi, quali baby
parking, caffè, giocattoli, ecc.. Il posizionamento reverse è consigliato alle
imprese che operano nel settore dei servizi.
 posizionamento breakaway. In questo caso, la strategia dell’OdG è quella di
creare confusione nella mente del consumatore, associando il prodotto ad
una categoria radicalmente differente. In sostanza questa tipologia di
posizionamento si basa sull’asimmetria informativa la quale influisce la
percezione e la categorizzazione dei prodotti da parte dei consumatori. Per
esempio, la Swatch non è più nella categoria degli Orologi Svizzeri, ma in
quella degli Accessori Fashion. Tale posizionamento è adatto per i sistemi
aziendali che vendono beni confezionati.
 posizionamento stealth. Quest’ultima strategia fa perno sull’alterazione della
reale natura dell’output del sistema vitale, cioè si nasconde la vera natura del
prodotto. Il prodotto, nella fase introduttiva del suo ciclo di vita, viene
posizionato enfatizzando funzioni diverse da quelle per cui era stato
progettato. Per esempio, il robot AIBO della SONY è stato posizionato come
un amabile animale domestico. Ciò ha spostato l’attenzione del consumatore
via da limitazioni importanti come l’aiutante della famiglia. Apparentemente
52
Moon Y., “Break free from the product life cycle”, in Harvard Business Review, maggio, 2005.
pag. 28
ha persino trasformato gli anziani in pionieri della tecnologia. Suggerito alle
aziende tecnologiche.
In generale, il posizionamento prevede le seguenti fasi:
1. individuazione consumatori, target. È indispensabile aver segmentato il
mercato bersaglio, insieme alle necessità del mercato potenziale.
2. Identificazione della posizione as-is nella mente dei consumatori. Occorre
determinare il posto che il sistema vitale occupa dell’attuale mappa di
preferenza della clientela.
3. Diagnosi della situazione attuale ed eventuale riposizionamento aziendale per
raggiungere la posizione to-be.
4. Pianificazione del cambiamento da attuare al fine di raggiungere il
posizionamento desiderato.
5. Elaborazione della strategia di ri-posizionamento da parte del soggetto
decisore. Possono essere adottate due tipologie di strategie:
a. strategie conservative, nel caso in cui si voglia mantenere e rinforzare
la posizione esistente;
b. strategie di riposizionamento, nel caso in cui si voglia modificare la
percezione che il cliente ha dei prodotti aziendali.
In ultima analisi, occorre soffermarsi sui metodi statistici di posizionamento. Al
fine di mostrare, graficamente, come il mercato percepisce le singole aziende è
necessario fare ricorso alle mappe di posizionamento. Queste consentono di
rappresentare il posizionamento utilizzando la prospettiva del mercato bersaglio e
non quella dell’OdG aziendale. Le tecniche maggiormente utilizzate sono tre:
o analisi discriminante. Con questa analisi, attraverso l’attribuzione di punteggi
da parte dei consumatori, vengono individuati i principali attributi del
prodotto. Quest’analisi è utile per la classificazione dei consumatori in gruppi
o classi in base alle loro considerazioni espresse. In questo modo posizionarsi
risulta più facile, date le “coordinate” dei consumatori.
o analisi delle corrispondenze. Consente di costruire mappe di percezione a
partire da semplici giudizi di presenza/assenza sulle peculiarità dei prodotti.
Questa è una modalità dell’analisi fattoriale utilizzata solo per dati qualitativi
(analisi delle corrispondenze semplice) o per dati qualitativi e quantitativi
insieme (analisi delle corrispondenze multiple). In effetti è una tecnica
statistica che permette di ottenere una riduzione della complessità del numero
di fattori che spiegano un fenomeno. Si propone quindi di determinare un
certo numero di variabili “latenti” più ristretto e riassuntivo rispetto al
numero di variabili di partenza. In altre parole si tratta di una sorta di ricerca
della parte comune delle rilevazioni fatte.
o multidimensional scaling. È una tecnica di analisi statistica usata spesso per
mostrare graficamente le differenze o somiglianze tra elementi di un insieme,
nel nostro caso di prodotti o brand appartenenti nella stessa classe (tipologia).
In questo caso la costruzione della mappe percettive è realizzata attraverso
stime di affinità biunivoca assegnate agli output o brand da posizionare.
pag. 29
Il Marketing Plan
I sistemi d’imprese isolati sono astrazioni, poiché le loro proprietà sono definibili
ed osservabili solo mediante le loro interazioni con gli altri sistemi presenti nel
contesto di riferimento.
A tal fine l’impresa ha la necessità e l’intenzione di interagire con i principali
stakeholders. È necessario, quindi, formalizzare le decisioni che consentono al
management di raggiungere gli obiettivi prefissati. Lo strumento che consente la
traduzione delle strategie di marketing in azioni operative è il marketing plan. Nello
specifico, quest’ultimo segue sempre la progettazione, la promozione e la gestione di
una nuova idea (nuovo sistema aziendale, nuovo prodotto/servizio, nuovo mercato,
ecc.). La forma scritta del piano di marketing è essenziale in quanto consente,
favorendo l’allocazione delle risorse e l’attribuzione delle responsabilità per il
raggiungimento degli obiettivi prefissati, una sua agevole condivisione.
Un piano di marketing, indipendentemente dalle dimensioni aziendali, dal
settore in cui opera l’impresa e del prodotto/servizio offerto, è strutturato nelle
seguenti fasi:
1. indice dei contenuti. Per facilitare i valutatori nella consultazione dei punti
salienti del piano di marketing è necessario redigere l’indice dei contenuti.
2. Excutive summary. In questa sezione viene riportata un descrizione sinottica del
progetto finalizzata ad enfatizzare i punti fondamentali del piano.
3. Descrizione della situazione as-is. Questa sezione dovrà contenere sia la
descrizione dello status quo delle strategie di marketing del sistema aziendale, sia
una descrizione dettagliata del contesto di marketing.
4. Analisi SWOT53. Con l’analisi SWOT, tenendo ben presente quanto riportato
nella sezione precedente, saranno esplicitati i punti di forza (Strengths), debolezza
(Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats).
In base a queste conoscenze individuate attraverso questa analisi si delineano
due tipi di strategie:
- Strategia Dedotta: in questa ottica l’impresa si propone di adattare nel miglior
modo possibile le risorse e competenze con le opportunità dell’ambiente. Si
tratta perciò di una strategia adattiva di un marketing strategico di risposta.
- Strategia Costruita: questa strategia cerca di sfruttare al massimo dalle risorse e
competenze dell’impresa cercando di costruirsi delle opportunità che
permettano di generare profitti. E’ questo il caso della logica del marketing
strategico della creazione dell’offerta.
L’analisi SWOT è una tecnica sviluppata da più di 50 anni come supporto alla definizione di
strategie aziendali in contesti caratterizzati da incertezza e forte competitività. Lo scopo dell’analisi è
quello di definire le opportunità di sviluppo di un sistema aziendale, che derivano da una
valorizzazione dei punti di forza e da un contenimento dei punti di debolezza alla luce del quadro di
opportunità e rischi che deriva, di norma, dalla congiuntura esterna.
53
pag. 30
Figura 9 - Matrice analisi SWOT
Fonte: ns. elaborazione.
5. Obiettivi del piano. Si enumerano in modo chiaro e sistematico gli obiettivi che il
sistema aziendale intende perseguire per assicurarsi lo sviluppo a medio e lungo
termine.
6. Strategie di marketing. La capacità del sistema aziendale di perseguire vantaggi
strategici con elevati volumi di vendita e significative quote di mercato, come più
volte ricordato, può essere realizzata attraverso adeguate scelte comportamentali.
Tra le più significative si ricorda:
 la posizione di leader del mercato caratterizzata da una elevata quota di
mercato;
 la posizione di nicchia, cioè la scelta di un particolare segmento di mercato
basato generalmente su prodotti innovativi;
 la posizione di sfidante per conseguire una posizione preminente.
In quel che segue analizzeremo le strategie ritenute idonee nelle diverse fasi di
vita del prodotto.
I. Le strategie nella fase di introduzione54. Vengono riepilogate, di seguito, le quatto
maggiori strategie, ottenute incrociando le politiche di price e di promotion.
a. Scrematura rapida. Con questa strategia, che prevede elevati livelli nelle
politiche di prezzo e di promozione, l’OdG (Organo di Governo) decide di
immettere sul mercato un prodotto/servizio. I vantaggi che il sistema
aziendale potrebbe perseguire attraverso questa strategie sono essenzialmente
di natura finanziaria. Infatti, la scrematura rapida consente di recuperare
velocemente i capitali investiti e di destinarli in altre attività.
La fase di introduzione ha inizio quando il prodotto/servizio viene immesso sul mercato per essere
acquistato dalla clientela potenziale. Nel lanciare un nuovo prodotto/servizio si possono stabilire livelli
più o meno alti in riferimento alle variabili del marketing mix (prodotto, prezzo, distribuzione,
promozione.).
54
pag. 31
b. Penetrazione rapida. Questa strategie si estrinseca nell’adottare, da un lato, un
prezzo basso e, dall’altro, elevati livelli nelle politiche di promozione al fine di
lanciare un prodotto/servizio. La penetrazione rapida richiede ingenti
investimenti iniziali che verranno recuperati nel medio/lungo periodo.
c. Scrematura lenta. Tale strategia prevede elevati prezzi e un livello di
promozione basso. La scrematura lenta può essere adottata quando la
clientela potenziale, conoscendo le peculiarità dell’output aziendale, è
disposta a pagare un premium price e nel caso non vi sia ancora un elevata
pressione da parte dei competitors.
d. Penetrazione lenta. In quest’ultimo caso il prodotto/servizio offerto viene
immesso sul mercato ad un prezzo e con un livello promozionale basso.
Questa strategia consente al sistema aziendale di contenere i costi e risulta
fattibile solo se i consumatori sono sensibili alle variazione del prezzo.
Figura 10 - Matrice price – promotion
Fonte: ns. elaborazione.
II.
III.
IV.
Le strategie nella fase di sviluppo. Il sistema aziendale in questa fase,
caratterizzata dalla forte attività di vendita, dovrà adottare strategie tese a
favorire, nel più lungo tempo possibile, lo sviluppo dell’output (strategie che
mirano ad un miglioramento qualitativo del prodotto/servizio, strategie che
consentano di migliorare la rete distributiva, strategie che consentano di
rivedere il prezzo al ribasso, ecc.).
Le strategie nella fase di maturità. Le strategie che l’Organo di Governo potrà
perseguire in questa fase sono:
a. modifiche del prodotto (miglioramento della qualità dell’output aziendale);
b. modifiche tese allo sviluppo del mercato (intervenire sul processo che
determina le quantità di prodotto consumato, intervenire sulle variabili che
influenzano il numero degli utilizzatori).
Le strategie nella fase del declino. In questa fase il soggetto decisore, prima di
eliminare il prodotto/servizio offerto, può perseguire le seguenti strategie:
pag. 32
c. identificazione dei prodotti deboli ed analisi degli stessi al fine di decidere le
variazioni strategiche da adottare;
d. elaborazione di idonee strategie di declino.
7. Piano d’azione. In questa sezione viene spiegato come le strategie di
marketing devono essere trasformate in specifici piani d’azione che
rispondono alle seguenti domande:
a. Che cosa fare?
b. Quando?
c. Chi è responsabile?
8. Budget. Viene presentato, analiticamente, il budget di marketing,
enfatizzando i ricavi ed i costi attesi. A tal fine può essere utile utilizzare la
break even analysis per individuare il punto in cui viene raggiunto
l’equilibrio economico (ricavo di equilibrio).
9. Controllo. Una volta elaborato il marketing plan è opportuno avviare i
controlli finalizzati al monitoraggio delle attività che consentiranno al sistema
aziendale di raggiungere gli obiettivi stabiliti nel piano.
Concludendo è utile ricordare che l’OdG può elaborare diverse tipologie di piani
di marketing:
 piano di marketing per marca;
 piano di marketing per categoria di prodotto;
 piano di marketing per aree geografiche;
 piano di marketing per segmento;
 piano di marketing per cliente;
 ecc.
In un’organizzazione orientata al mercato, il marketing strategico consiste
nell’orientare l’attività imprenditoriale verso mercati e/o settori che apportano
crescita e redditività.
L’adozione di un marketing plan deve portare, quindi, il sistema aziendale ad
una migliore interazione con i principali stakeholders presenti nel contesto di
riferimento, al fine di raggiungere gli obiettivi identificati e aumentare le probabilità
di sopravvivenza dell’azienda.
pag. 33
La Customer Satisfaction
Le organizzazioni, oggi, si propongono, tra i tanti obiettivi, quello di migliorare le
proprie capacità di ascolto ed intercettazione dei bisogni e di valutazione della
qualità percepita da parte dei clienti e dei sovra sistemi di riferimento. Alla base di
quest’idea c’è la consapevolezza che curare il cliente genera molto più valore che
interessarsi all’attività di vendita corrente.55
Uno degli strumenti più utilizzati a questo scopo – diretto a conoscere, nella
maniera più oggettiva e rappresentativa possibile, la valutazione e, quindi, il grado
di soddisfazione della propria clientela riguardo ai prodotti/servizi offerti, al fine di
poter individuare eventuali punti critici, pianificare le azioni di miglioramento e
stabilire i futuri obiettivi in maniera più mirata alle esigenze del cliente – è la
misurazione della soddisfazione dell’utenza, più comunemente definita come
indagine di customer satisfaction.
In effetti, il vantaggio competitivo non deriva tanto dalla gestione delle risorse
fisiche e finanziarie, quanto dalla capacità dell’azienda di allineare beni immateriali,
come le conoscenze, la R&S e l’informatica, alle richieste dei clienti.56
Quali sono i clienti dell’impresa?
1.1. – Tipologie di clienti tra prospettiva interna ed esterna
Dobbiamo distinguere tra i clienti interni (il personale) e quelli esterni, in quanto
la soddisfazione dei clienti esterni dipende direttamente dalla soddisfazione dei
clienti interni.
Il cliente interno è la persona che riceve, utilizza per il proprio lavoro, il risultato
del lavoro di un altro dipendente dell’azienda che ne risulta perciò un “fornitore”.
Qualunque sia il risultato di un lavoro (un pezzo, un documento, un’informazione,
un oggetto) quello è un servizio, e chi riceve quel servizio è un cliente.
Un’impresa (ed ogni altra istituzione) ha una sola vera risorsa: il personale.
Svolge con successo il suo compito se rende produttive le risorse umane. Quello di
organizzare il lavoro secondo la sua logica interna è soltanto il primo passo. Il
secondo e più difficile è rendere il lavoro appropriato agli esseri umani, la cui logica
è radicalmente differente dalla logica del lavoro. Per rendere produttivo il lavoratore
è necessario considerare l’essere umano come un organismo che ha peculiari qualità,
Cfr. BERENSCHOT, Modelli di management. Idee e strumenti, Pearson Education Italia S.r.l., 2005,
pag. 62: “Se si riesce ad identificare correttamente i clienti più preziosi, acquisirli, mantenerli e far
crescere i loro acquisti, si potrà generare più valore rispetto ad un approccio one- size-fits-all (una
taglia per tutti)”. Ed ancora, si veda F. BARBARINO, Sistemi avanzati di gestione aziendale, IPSOA, 2006,
pag. 94: “È da tempo risaputo che acquisire un cliente è molto più costoso che mantenerne uno già
attivo: una constatazione valida per qualsiasi tipo di azienda e in qualunque settore di attività. La
relazione con il cliente va seguita con cura, cementata in tutti i modi possibili: per le imprese che
utilizzano internet per fare marketing, commercio elettronico, assistenza, è una regola ancora più
importante.”
56 Cfr. KAPLAN R.S.,NORTON D.P. (2006), «Come attuare una nuova strategia senza danneggiare la
propria azienda», Harvard Business Review, novembre, p.66.
55
pag. 34
abilità, limiti fisiologici e psicologici, e un modo di agire specifico. 57 Queste
caratteristiche ci insegnano che l’essere umano è l’essere dei bisogni, e i bisogni
devono essere soddisfati.
Un personale (l’unica vera risorsa dell’impresa) con bisogni insoddisfatti è meno
produttivo in termini di efficacia ed efficienza. Ma questa insoddisfazione si
rispecchia al di là dei confini d’impresa colpendo direttamente i clienti esterni; dopo
rientra nei confini iniziali per colpire, non più i clienti (in quanto “non esistono”
più), ma l’impresa stessa. Riassumiamo il ciclo con lo schema del Triple Satisfaction
(figura 11).
Dallo schema del triple satisfaction vediamo che la soddisfazione dell’impresa
dipende dalla soddisfazione dei clienti interni (i lavoratori) ed esterni. La
soddisfazione dell’impresa non è altro che la creazione di valore, che si basa sui
risultati del lungo periodo.
Figura 11 – La soddisfazione tripla
Fonte: ns. elaborazione.
I risultati non si trovano dentro i confini dell’organizzazione aziendale, ma fuori
di essa, laddove sono i clienti. La creazione di valore dell’impresa è frutto della
creazione di valore per i clienti. La creazione di valore di quest’ ultimi dipende da
un’offerta di valore da parte dell’impresa, che consiste nella soddisfazione delle
esigenze dei clienti. Loro non comprano ciò che l’azienda vende, ma comprano ciò
che è utile, ciò che è un valore, in altri termini ciò che il prodotto/servizio fa per loro.
Il valore offerto, come si nota dalla figura 11, dipende fortemente
dall’organizzazione interna del capitale umano da parte del sistema impresa (dal
momento che il servizio ai clienti esterni viene offerto dai clienti interni).
L’organizzazione interna del capitale umano è una parte importante della
gestione. Qual è la struttura organizzativa giusta ? Non esiste. Esiste solo la struttura
57
Drucker P.F., 2002, op. cit.
pag. 35
organizzativa più adatta al compito. Qual è il modo corretto per dirigere il personale
? Le persone si guidano, non si dirigono. L’obiettivo è rendere produttivi i punti di
forza e le conoscenze, ossia il know-how di ciascun individuo, cioè orientare le
risorse umane su quello che sanno fare e non su quello che vogliono fare. In altri
termini il personale interno deve fare le cose giuste; questo vuol dire essere efficace.
Ma le cose giuste devono essere fatte anche in modo giusto; questo vuol dire essere
efficiente. Per diventare efficace ed efficiente bisogna applicare le conoscenze in
pratica. Ciò che serve è la competenza, sono gli esercizi. La formula è “training,
training e ancora training”. Per esercitarsi bisogna assumere dei compiti e delle
responsabilità. Bisogna avere un margine di discrezionalità. Questo modo di agire se
lo può consentire soltanto un leader e non un capo. La differenza tra i due è che il
capo applica la direzione autoritaria, invece il leader applica la direzione
partecipativa. Una definizione valida di leadership emerge dalle parole di Indira
Gandhi che, a tale proposito, si esprime in questo modo: “Penso che una volta
leadership significasse imporsi, oggi è possedere le qualità necessarie per meritare la
stima delle persone58”
Una volta chiarito chi è il cliente interno e qual è la sua importanza, non ci
rimane altro che rivolgere il focus verso il mercato, i clienti esterni.
L’impresa, in quanto sistema aperto ed orientato alla sopravvivenza, si prefigge
l’obiettivo del mantenimento di un equilibrio dinamico con l’ambiente, nell’ambito
di questo, con il mercato di vendita finale od intermedio che sia. Questo significa che
siamo in presenza di una clientela a catena che comprende clienti diretti ed indiretti.
All’interno della catena di fornitura (supply chain), la quale comincia con il primo
fornitore e finisce con il cliente finale, si collocano clienti distributori, clienti
prescrittori e clienti finali (consumatori).
I.
Il cliente finale
L’attività non è definita dal nome, dallo statuto, dall’atto costitutivo o dall’
aspetto sociale dell’impresa, ma piuttosto dal desiderio del consumatore soddisfatto
nel momento (e dopo) dell’acquisto di un bene o un servizio. Nel cliente si rispecchia
la missione dell’impresa. La missione riflette tanto i valori quanto gli obiettivi che
guidano l’attività del management nella ricerca della soddisfazione del cliente e del
massimo profitto impresale. All’interrogativo - Qual è l’attività dell’impresa? - ,
quindi, è possibile dare una risposta solo guardando l’attività stessa dall’esterno, dal
punto di vista del cliente e del mercato.
Ciò che il consumatore vede, pensa, crede e desidera in qualsiasi momento deve
essere accettato dal management come un fatto obiettivo. Il consumatore non
attribuisce molta importanza ad un determinato prodotto o servizio e sicuramente
nemmeno ad una determinata impresa, il consumatore vuole soltanto sapere che
cosa sarà per lui domani il prodotto o il sevizio. Ogni serio tentativo di stabilire
l’attività deve iniziare dal consumatore, dalle sue realtà, il suo comportamento, le
sue aspettative ed i suoi valori.
58
Cosi citato in: RE R., Leader di te stesso, MONDADORI, Milano, 2006, pag.22
pag. 36
II.
Il cliente distributore
Il rapporto tra produttori e distributori è stato per lungo tempo quello di partner
con interessi comuni. In seguito alla crescita di potere della grande distribuzione nel
settore dei beni di largo consumo, questi rapporti sono diventati ambigui: si tratta di
concorrenti, di partner o di clienti intermediari? Oggigiorno il potere di mercato59 è
passato dai produttori ai distributori. In altri termini è il produttore, per quanto sia
potente, ad avere bisogno della grande distribuzione, e non viceversa, anche se lo
sviluppo del marketing diretto e del commercio elettronico rappresentano una
valida alternativa in particolare per il produttore, che può cosi scavalcare il
distributore. Il trade marketing consiste nell’applicare l’approccio di marketing ai
distributori, considerati non come intermediari, bensì come clienti a tutti gli effetti.
III.
I clienti prescrittori
In molti mercati, oltre agli attori tradizionali (clienti, distributori e concorrenti), vi
sono altri soggetti e organizzazioni che possono esercitare un ruolo importante
consigliando, raccomandando oppure prescrivendo marche di società, prodotti o
servizi ai clienti e/o ai distributori. L’esempio più evidente è quello del mercato dei
prodotti farmaceutici, nel quale i medici hanno un influenza determinante sul
successo di un farmaco. Essi sono d’altronde considerati dalle aziende farmaceutiche
come gli attori più importanti nel mercato, anche se non sono né acquirenti, né
utenti, né paganti. Un’impresa orientata al prescrittore identifica gli opinion leader e i
prescrittori chiave, valuta la natura e l’importanza del ruolo che esercitano nel
processo di formazione della decisione d’acquisto e mette a punto una strategia di
comunicazione per informarli, motivarli e per ottenere il loro appoggio. Perciò i
clienti prescrittori sono una fonte determinante dell’offerta di valore ai clienti finali.
1.2. – La customer satisfaction attraverso la Customer Relationship
Management (CRM)
L’impresa vede sempre il suo successo attraverso gli occhi del cliente. Per questo
fondamentale motivo deve soddisfarlo, ma prima ancora, deve trovare gli strumenti
necessari per la soddisfazione del cliente.
All’interno delle imprese, il concetto d’attenzione per il cliente si perde quasi nel
tempo; capire a quale target di clientela ci si deve rivolgere, studiare le tecniche
migliori per attirare potenziali acquirenti e, elemento ancora più importante,
conservare la loro fedeltà nel tempo, sono i temi centrali della CRM60.
L’obiettivo dei progetti di CRM è proprio quello di creare un rapporto
profittevole a lungo termine con la clientela per mezzo di tre attività congiunte:
creare, costruire e curare la relazione con il cliente61.
Il mercato di cui si parla è quello business to business, ed è soltanto in questo mercato che il potere
si è trasferito al distributore, perchè in realtà il “re” indiscutibile del mercato è il cliente finale, ma in
tal caso si tratta del mercato business to consumer dove il potere è centralizzato nelle mani del
consumatore, in quanto libero di scegliere.
60 Cfr. il sito www.crmassociation.org
61 Cfr. il sito www.fedexemea.skillport.com
59
pag. 37
Un ottimo sistema CRM comprende una serie d’infrastrutture sia a livello di frontoffice (nella relazione con l'esterno vera e propria), sia a livello di back-office, per
analizzare e misurare i dati e i risultati raggiunti.
Per quanto riguarda gli strumenti a disposizione delle singole imprese al fine di
instaurare con il cliente un rapporto individuale ci sono una serie di modalità
diverse:
 Chat on-line;
 Forum di discussione;
 Una banca dati contenente le risposte alle domande più frequentemente poste
dagli utenti (F AQ);
 Un indirizzo e-mail a cui rivolgersi;
 Servizi informativi forniti anche su altri strumenti (come SMS da inviare al
proprio cellulare, o l'utilizzo della tecnologia WAP);
 Call Center.
In sintesi, l’approccio CRM prevede l’identificazione dei clienti dell’impresa; la
classificazione dei clienti in gruppi omogenei; lo sviluppo di sistemi interattivi con i
clienti; la personalizzazione della relazione e dell’offerta di prodotti e servizi.
Lo scopo è di comprendere il comportamento dei clienti e ad intervenire su di
esso. Questo permette di costruire relazioni individuali con i singoli clienti, elevando
in tal modo il più possibile il loro livello di soddisfazione e conseguentemente la loro
lealtà all'azienda. A tale scopo, le aziende tendono ad attuare sempre con maggiore
insistenza strategie di marketing one to one incentrate sul rapporto individuale e
personalizzato tra azienda e cliente.
Un ottimo sistema CRM comprende una serie d’infrastrutture sia a livello di frontoffice (nella relazione con l'esterno vera e propria), sia a livello di back-office, per
analizzare e misurare i dati e i risultati raggiunti. Prima dell’analisi dei dati si ha
l’acquisizione degli stessi e il reparto più importante è quello di customer service.
La customer service è il reparto che funge da interfaccia verso il cliente
nell’erogazione dei servizi. Il cliente bada sia alle caratteristiche del
prodotto/servizio che alle modalità d'erogazione dell'offerta.
Un customer-service efficace/efficiente deve disporre di un data-base integrato
ove confluiscono le informazioni provenienti dagli altri reparti. La qualità del
customer service offerto dall'azienda è importante per soddisfare i clienti, per
acquisirne di nuovi, ed è un ottimo strumento promozionale.
Il servizio alla clientela, quindi, non può essere trascurato: avere le risposte giuste
alle domande dei clienti e le soluzioni più adatte ai loro problemi diventa
fondamentale per poter offrire un servizio di qualità.
Oggi, la customer-service on-line offre un’opportunità unica ed interessante per
rispondere prontamente a tale esigenza. Il vantaggio economico di un buon
programma di customer-service via internet non proviene solo dai risparmi nelle
attività di comunicazione e distribuzione nei servizi, ma anche, e soprattutto,
dall'incremento della fedeltà dei clienti. Attraverso la customer-service on line si
ottengono contemporaneamente due vantaggi: l’incremento del servizio e della
soddisfazione del cliente e, la diminuzione dei costi d'assistenza.
Da un lato il cliente considera l’interattività come una possibilità in più per
pag. 38
ottenere un servizio personalizzato, dall’altro l'impresa ottiene un risparmio in
quanto riduce le attività d’assistenza e supporto svolte direttamente (via telefono o
fax) dal proprio personale interno.
La customer-service, inoltre si occupa anche di62:
 Servizio pre-vendita
Tra i servizi pre-vendita, i più noti sono il servizio di preventivo, dove l’azienda
deve essere in grado d'illustrare la quantità di risorse finanziarie richieste ogni
qualvolta sia necessario, e il servizio di informazione, dove la base della decisione è
l’informazione. Non è detto però che avere tante informazioni aiuti a migliorare il
processo decisionale. L’azienda deve essere in grado di fornire e rendere disponibile
le informazioni utili al cliente.
 Servizio post-vendita
Questi servizi erogati dopo il processo d’acquisto servono per aumentare e
sondare la soddisfazione dei clienti. La realizzazione di questi servizi si basa su linee
telefoniche dedicate, “numeri verdi”, sistemi di risposta via fax e l’utilizzo d'Internet.
Il servizio post-vendita può essere estremamente utile consentendo
contemporaneamente una notevole riduzione dei costi di promozione dei nuovi
prodotti in quanto l’azienda può contattare periodicamente tutta la clientela attiva,
differenziando i contenuti in funzione degli interessi e delle priorità dei singoli
gruppi di clienti attraverso la realizzazione di newsletter informative, realizzando
ciò a costi ridotti.
 Gestione dei reclami
Nonostante tutti gli sforzi realizzati dall'azienda per prevenire i problemi, questi
sono inevitabili. Ma considerare una manifestazione di insoddisfazione da parte di
uno o più clienti, ovvero uno o più reclami, come un’esperienza negativa potrebbe
essere dannoso per l'impresa, in quanto se gestito bene può diventare un utile asset.
“Gestire correttamente l'insoddisfazione o il reclamo di un consumatore può
decisamente aumentare la soddisfazione di quest’ultimo”63.
Molto spesso l’insoddisfazione non è espressa in forma spontanea dal cliente.
Infatti, solamente il quattro per cento dei clienti insoddisfatti alla fine reclamano.
Quindi, l’assenza dei reclami non significa assolutamente che la clientela sia
soddisfatta; questi la riversano nella scelta successiva di acquisto decidendo per
un’altra offerta, ed inoltre raccontano la loro insoddisfazione ad altre persone, fatto
estremamente negativo per l’immagine aziendale. Per questo, l’azienda deve
riconoscere sempre di più l'importanza dei feedback e saperli gestire in modo
proficuo, variando l’offerta in base alle esigenze della clientela.
1.3. – Misurare la soddisfazione
Ogni anno le imprese perdono dal 10% al 30% della propria clientela senza
sapere quali, quando e, soprattutto, perché ciò è avvenuto. Per avere una visione del
62
63
Cfr. il sito www.managementhelp.org/customersatisfy
Cfr. The TQM Magazine (2000), MCB UP Ltd,vol.12, n.6, pag.389-394
pag. 39
fenomeno si considerano le seguenti statistiche64:
 il 30% delle vendite presenta dei problemi;

solamente 4% dei consumatori reclamano;

in media un cliente insoddisfatto comunica la propria esperienza a 7-8
persone (passaparola negativo);

all’inverso, il 97% dei clienti insoddisfatti tende a non reclamare;

Quando il cliente presenta reclamo e ottiene una risposta soddisfacente, il suo
tasso di riacquisto sale al 91% (da minaccia a opportunità);

Il costo per acquisire nuovi clienti è cinque/sette volte superiori a quello per
trattenere i clienti attuali.
Risulta, quindi, evidente l’importanza della rilevazione della customer
satisfaction.
In primo luogo le aziende hanno la necessità di capire su quali elementi della loro
offerta, prodotto e servizi, devono intervenire per sviluppare e mantenere un
vantaggio competitivo sostenibile sui propri concorrenti; ciò è possibile soltanto
attraverso un ascolto sempre più attento della “voce del cliente”, che è la fonte più
diretta di suggerimenti e indicazioni.
In secondo luogo, esiste una ragione di tipo economico che suggerisce di
salvaguardare la risorsa rappresentata dalla clientela aziendale. Si tratta del danno
derivante dalla perdita di un cliente acquisito, che è assai più rilevante della
semplice perdita di fatturato (si calcola che i costi di ricerca e acquisizione di un
nuovo cliente siano in media cinque/sette volte rispetto al costo di mantenimento di
un cliente acquisito e fedele). Sostituire un cliente perso con uno nuovo comporta,
infatti, investimenti promozionali che spesso non offrono alcuna garanzia di
successo.
Per le aziende risulta molto più vantaggioso investire in fedeltà, creando perciò le
condizioni per un rapporto duraturo con il cliente. Le aziende possono trarre utili
indicazioni dai risultati delle indagini e circa l’opportunità di apportare
miglioramenti dei propri prodotti, servizi o processi. Dalle indagini possono
emergere indizi su:
 Soddisfazione, si ha quando le aspettative sono state raggiunte;
 Insoddisfazione, si ha, quando le attese sono state disattese e si evidenziano
dei gap da eliminare;
 Delizia, si ha, quando le attese sono state superate e si evidenziano “delta”
positivi da massimizzare.
In questo contesto sarebbe utile sapere i gradi della soddisfazione del cliente.
Quando le aspettative sono state raggiunte si ha soddisfazione. Ma la soddisfazione
è un sentimento istantaneo riferito ad un particolare momento (t0). Per l’impresa è
Cfr. Lash M.L., The complete guide to customer service, John Wiley and Sons, New York, 1990;
www.customer-satisfaction.co.uk/cs_measurement
64
pag. 40
necessario che la soddisfazione perduri nel tempo, in modo tale che si abbia una
sequenza di soddisfazioni (t0+t1+t2+t3+...+tn). Questa sequenza di soddisfazioni porta
al massimo grado della customer satisfaction, la fedeltà (customer loyalty). Per
arrivare alla fedeltà bisogna creare fiducia sul cliente e suscitare la ritenzione
d’acquisto.
Come l’impresa anche il cliente calcola un suo profitto che è radicalmente diverso
dalla logica imprenditoriale (figura 12).
Figura 12 – La bi-direzionalità del profitto
∏=R–C
VR = VP – VS
Profitto dell’impresa
Profitto del cliente
VR: Valore Reso al cliente (è il profitto ∏ del cliente, la sua
soddisfazione)
VP: Valore Percepito ( è il ricavo R del cliente in termini di valori
funzionali e simbolici del prodotto)
VS: Valore di Scambio (è il costo diretto e indiretto sostenuto dal
cliente per l’acquisto del prodotto, es: prezzo, tempo, ricerche
informative, costi psicologici ecc).
Fonte: ns. elaborazione.
Si evince che la misura più importante è il valore reso al cliente (il suo profitto).
Per creare soddisfazione bisogna creare valore per il cliente, ma questo obiettivo non
si può raggiungere se la generazione del valore non va vista secondo la prospettiva
del cliente. Di conseguenza, non si ha profitto d’impresa senza profitto della
clientela. Per misurare tale valore (valore reso o profitto), espressione della
soddisfazione, ci sono diversi strumenti a disposizione, tra i quali: il questionario
postale, il questionario on-line, l’intervista diretta, l’intervista telefonica, ecc.
pag. 41
Il Prodotto
1.1 – Il prodotto come paniere di attributi: componenti e servizi
Per il cliente, un bene apporta non solo un valore funzionale (il servizio di base),
ma anche altri valori, servizi supplementari o utilità secondarie di varia natura. Per
esempio, il servizio di base di un dentifricio è quello di pulire i denti, invece servizi
supplementari possono essere considerati l’alito fresco, la capacità di sbiancare i
denti, protezione di gengive ecc. L’insieme di questi valori costituisce un paniere di
attributi. In altre parole, vedendo il prodotto in un’ottica riduzionistica, possiamo
scomporlo ed analizzarlo individuando delle componenti. Quest’ultime si
distinguono in core components, packaging components, support service components.
Nella letteratura dell’economia d’impresa l’abitudine vuole che si parli di
componenti del prodotto, ma a nostro avviso il termine servizio (di base o
supplementare) è più innovativo e più profondo; non si tratta di terminologia
sostitutiva, ma complementare, bisogna soltanto chiarire su quale piano stanno le
componenti e su quale altro stanno i servizi; non è neanche una novità, poiché
Lambin nel suo libro “Marketing Strategico e Operativo”(2004), ne parla già anche se
non di tale consistenza.
Quando compriamo un prodotto lo facciamo perché ci offre un servizio, ma non
lo compriamo mai per il prodotto in sé. Noi non siamo interessati alle componenti
del prodotto, ma ai ruoli che a queste componenti sono state attribuite. Pensate ad
esempio quando avete comprato un lap-top. Le prime domande che fatte agli
assistenti di vendita sono del tipo: “che marca è ?”, “quanti giga byte contiene ?”;
“qual è la memoria RAM ?”; “che processore ha il computer ?”; “che tipo di carta
grafica ?”; “quanti anni di garanzia ?”; “che colore ha ?”; “e il tipo di schermo ?”,
ecc. Tutte queste domande non interessano alle caratteristiche (componenti) del
computer in sé, ma a ciò che queste caratteristiche (componenti) possono fare per
l’utilizzatore, i benefici che possono generare. Dal momento che il computer che
voglio comprare è dotato di una memoria interna di 500 giga byte, io comprendo da
questa caratteristica il servizio che il computer mi può rendere; in questo caso,
ipotizzando, potrei utilizzare il computer non solo per lavorare con i diversi
programmi, ma anche per tenere tantissimi documenti e file di varia natura, senza
aver bisogno di comprare una memoria esterna (hard disk esterno). In conseguenza
di ciò, noi siamo interessati ai ruoli delle componenti piuttosto che alle stesse
componenti. Le componenti (parti del prodotto) vengono costruite da servizi, ad
esempio, tramite il lavoro del personale che gli ha prodotti e degli ingegneri che gli
hanno disegnati e ingegnerizzati con l’intento di generare altri servizi, motivo per il
quale viene comprato un prodotto.
Il prodotto, perciò, è una ponte tra i servizi che lo hanno generato e i servizi che
esso stesso genera. Per esempio, un automobile è il risultato di un lavoro a catena
(ingegnerizzazione, produzione delle parti, assemblaggio, ecc). Una volta comprato
e utilizzato in un particolare contesto, l’automobile genera i servizi per cui è stato
pag. 42
progettato (ad esempio, velocità, comfort, sicurezza, ecc). Questa logica di servizi si
chiama Service Dominant Logic (S-DLogic)65.
Il servizio di base offerto da un prodotto corrisponde al valore funzionale della
categoria del prodotto. Ciò che il consumatore cerca non è il prodotto in quanto tale,
ma il servizio di base che il bene è in grado di offrire. Prodotti molto diversi dal
punto di vista tecnologico possono offrire al cliente lo stesso servizio di base. Ad
esempio, cellulari molto diversi tecnologicamente (con foto/videocamera, con
musica, Wi-fi ecc) offrono lo stesso servizio di base : quello di parlare al telefono. Ma
il cliente oggi è molto attento e coerente riguardo alla dinamicità ambientale, in
particolare all’innovazione tecnologica, perciò non si limita al servizio di base ma
cerca di più. Questo “di più” sono i servizi supplementari.
Figura 13 – Servizi e componenti del prodotto
prodotto
Fonte: ns. elaborazione.
È in base a questi servizi che si differenziano le imprese. Attraverso i servizi
supplementari, un’impresa crea valore per il cliente offrendogli qualcosa di più
rispetto ad un’altra impresa che si limita al servizio di base. Quest’ultimo
rappresenta una “zona di comfort” (comfort zone)66, perché negli occhi dei
consumatori è qualcosa di normale, non nuovo e di cui loro sono abituati ormai. Il
servizio supplementare, invece rappresenta una “nuova zona” (new zone), qualcosa
di più speciale e attrattivo, suscitando la curiosità e il sistema motivazionale dei
consumatori indirizzandoli così verso l’acquisto del prodotto. A causa
dell’innovazione, i servizi supplementari non sono resistenti ai cambiamenti e non
Per ulteriori approfondimenti si consiglia il seguente sito web: http://www.sdlogic.net/
Con zona di comfort si intende uno stato inerto nel quale ci si sta già; diciamo che è una zona
abituale fatta da prodotti che si trovano nella fase della maturità del loro ciclo.
65
66
pag. 43
sopravvivono nel medio/lungo termine. Ciò vuole dire che una “new zone” di oggi
può trasformarsi in una “comfort zone” di domani. Ad esempio, il display a colori
dei cellulari, oggi può considerarsi un servizio di base, ma al periodo in cui è stato
inventato era considerato un servizio supplementare perché era qualcosa di nuovo;
era un innovazione che oggi è diventata obsoleta, perché quella “new zone” di
allora è diventata una “comfort zone” di oggi.
I servizi supplementari possono essere di due tipi: servizi necessari e servizi
aggiunti. Per servizi necessari si intendono le modalità di produzione del servizio di
base (comfort, economico e altro). I servizi aggiunti sono utilità non legate al servizio
di base, offerti in più dalla marca e che, perciò, rappresentano un importante
elemento di distinzione (installazione, servizio post vendita, garanzia ecc).
Ricordiamo che l’elemento di distinzione non è rappresentato dall’identità del
prodotto ma dall’immagine dello stesso. E soltanto l’immagine che viene percepita
all’ esterno e cimentata nella mente del consumatore.
1.2 – Il ciclo di vita del prodotto (CVP) integrato con SWOT e BCG
In analogia con i cicli biologici dei sistemi vitali naturali, anche i prodotti
percorrono un ciclo simile che va dalla nascita fino al declino (figura 14). A
differenza dei cicli biologici dei primi (uomini, animali, piante ecc), i prodotti si
possono rivitalizzare con interventi di riequilibrio. Per esempio, se un fiore muore,
può nascere un altro ma non lo stesso. Il prodotto, invece, misura la sua vitalità con
le vendite; se un prodotto non si vende più perché è arrivato nella fase del declino, o
muore, o si rivitalizza. La rivitalizzazione può essere il risultato di un’innovazione di
prodotto riguardante il servizio di base o i servizi supplementari. Un’altra possibilità
è l’innovazione di processo in modo tale da ridurre i costi di produzione e, di
conseguenza, il prezzo di vendita del prodotto. Ancora, lo stesso prodotto, senza
fare nessun tipo d’innovazione, si può vendere in un mercato in cui si percepisce
come nuovo; ciò vuol dire che la sua fase di declino nel mercato 1 si trasforma in una
fase di introduzione nel mercato 2.
Figura 14 – Ciclo di vita
del prodotto
Fonte: ns. elaborazione
pag. 44
La fase di introduzione: Questa e’ la fase più delicata del ciclo e la più costosa. I
profitti sono negativi perché le entrate iniziali sono basse e l’impresa deve coprire
ingenti spese per lo sviluppo, la promozione e la distribuzione del prodotto. Pensate
a tutti i campioni gratuiti (product sampling) che vengono distribuiti per promuovere
nuovi prodotti. Un esempio è il caso della Red Bull Cola che distribuiva campioni
gratuiti presso le varie università di Roma.
La maggior parte dei nuovi prodotti decolla lentamente e, considerando le
difficoltà iniziali del ciclo, non sorprende che molti prodotti non vadano oltre la fase
di introduzione.
Tuttavia, quando la curva di vendita sale, viene raggiunto il punto di pareggio
(breakeven point), nel mercato entrano concorrenti e comincia la fase di crescita.
La fase di crescita: In seguito a questa fase le vendite aumentano rapidamente
crescendo, prima a tasso crescente e poi a tasso decrescente. La crescita iniziale è
dovuta alla posizione monopolistica di brevissimo periodo per l’impresa. L’impresa
che ha introdotto il suo nuovo prodotto in un mercato attrattivo, agisce come first
mover. Le vendite e gli extraprofitti cominciano a diminuire quando in gioco entrano
i concorrenti. Dopo un po’ si passa nella fase di maturità.
La fase di maturità: Durante la fase di maturità la curva di vendite sale fino a un
picco e poi comincia a scendere. Questa fase è caratterizzata da intensa concorrenza
perché nel mercato sono presenti molte marche e i consumatori sono molto informati
su tutto. L’obiettivo principale è quello di mantenere la quota di mercato attraverso
pubblicità diretta ai consumatori e promozioni dirette ai distributori. Per
distinguersi dai concorrenti bisogna differenziare il prodotto nella mente del cliente.
La fase di declino: Il detergente Oxydol della Procter & Gamble era sul mercato
da 86 anni ma l’azienda l’ha eliminato gradualmente e ha venduto il nome di marca
alla Redox Brands per 7 milioni di dollari. Quando il prodotto è stato eliminato le
vendite del detergente erano diminuite da 64 milioni di dollari nel 1950 a 5,5 milioni
di dollari.67 Nella fase di declino, i marketing manager devono determinare se
eliminare il prodotto o riposizionarlo per allungare ancora la vita. L’aspra
competizione presente in questa fase del ciclo provoca un aumento della sostituzione
e del passaggio dei consumatori da una marca all’altra (brand switching). In sintesi, se
si decide di rivitalizzare il ciclo, è consigliabile applicare una delle possibilità
sopramenzionate (innovazione di prodotto/processo, internazionalizzazione); al
contrario, se è più opportuno eliminare il prodotto, sarebbe necessario aumentare le
offerte speciali per ridurre i tempi di declino. La riduzione dei tempi significa minori
costi per la detenzione delle scorte di magazzino. Per esempio, il ciclo di vita dei
cellulari e dei PC (dei prodotti hi-tech in generale) è molto breve; dopo qualche mese
dalla loro comparsa al mercato, avete avuto modo di vedere come i prezzi di questi
prodotti subiscono una forte diminuzione a causa delle innovazioni tecnologiche
continue.
Analizzate le fasi del ciclo, ci sembra opportuno di considerare il ciclo di vita del
prodotto da un’altra prospettiva.
Che cos’hanno in comune le matrici della SWOT analysis e della Boston
Consulting Group (BCG)? Come si relazionano queste due matrici con il CVP?
67
Swibel M., “Spin Cycle”, Forbes, Apr.2, 2001, pag. 118.
pag. 45
Dell’analisi SWOT abbiamo già parlato nel marketing plan. Ricordiamo che
questa matrice analizza le forze/debolezze di un sistema vitale e le
opportunità/minacce derivanti dal conteso in cui il sistema si è inserito68.
Figura 15 – La SWOT
analysis
Fonte: ns. elaborazione.
Per quanto riguarda la matrice BCG, questa serve per analizzare il portafoglio
prodotti in modo tale da classificare i vari prodotti d’impresa secondo la redditività
che possono generare.
Figura 16 – La matrice
BCG
Fonte: ns. elaborazione.
Come si nota dalla figura 16, le dimensioni della matrice sono il tasso di crescita del
mercato (l’attrattività del mercato) e la quota di mercato relativa dell’impresa.
Il tasso di crescita della domanda di ciascun prodotto (tasso di crescita del
mercato) o, come suggerisce Porter69 il tasso di crescita dell’intero settore,
rappresenta, oggettivamente, l’attrattività del mercato (settore di riferimento). Un
mercato è attrattivo se manifesta delle opportunità di entrata in esso, opportunità
espresse attraverso la domanda dei clienti, dai costi bassi di produzione, dal regime
fiscale favorevole, dalla struttura del mercato stesso, ecc.
Si ricordi che il contesto è un estrazione dall’ambiente fatta da parte di un soggetto osservatore. Ne
consegue che le opportunità e le minacce del contesto sono un fatto soggettivo. Una minaccia per
un’impresa può risultare opportunità per un’altra. Un esempio è la crisi attuale. Per alcune imprese la
crisi è stata un problema (in genere per le banche e per l’industria), per altri un’occasione (in genere
per le imprese di servizio come quelle di consulenza).
69 Porter M. E., La strategia competitiva, ed. Tipografica Compositori, Bologna, 1982, pag. 332.
68
pag. 46
La quota di mercato applicata nel caso della matrice BCG è quella relativa, ma
per essere più esaurienti con il concetto di quota di mercato definiremo, sia la quota
semplice di mercato sia la quota di mercato relativa.
La quota semplice di mercato è pari alla percentuale delle vendite del prodotto di
un’impresa sul totale delle vendite in quel particolare mercato (o settore) nel quale
l’azienda si colloca (market share on total market value). Si fa riferimento alle quantità
fisiche (quote “pure”) di prodotti venduti, ma quando non sia possibile trovare
un’unità di misura esauriente (come nel caso dei servizi) il calcolo della quota è
riferito a grandezze monetarie (quote “spurie”).
La quota relativa di mercato è relativa perché referente al concorrente principale.
Non basta sapere che in un dato mercato la nostra impresa detiene una quota,
poniamo, del 25% se contemporaneamente non si conosce o non si tiene conto della
distribuzione del restante 75% di quote. Ne consegue che la compiutezza
informativa e la significatività della quota semplice di mercato è data soltanto dalla
relazione con altri concorrenti e in particolare con il grado di concentrazione
dell’offerta in quel dato mercato. Così, un’informazione più corretta si ottiene
calcolando la quota relativa, pari alla frazione della quota di mercato del concorrente
primario (leader), cioè del concorrente che detiene la più alta quota semplice di
mercato.
Le tipologie dei prodotti, invece, sono i “punti interrogativi” o “dilemmi”, le
“stelle”, le “vacche da cassa”, i “cani”.
Prodotti question mark: hanno una piccola quota di un mercato in crescita e
richiedono generalmente una grande quantità di cash per costruire la quota di
mercato. Per esempio, la “mountain bike” della Mercedes è un prodotto question
mark rispetto ai prodotti automobilistici della stessa casa produttrice.
Prodotti star: sono prodotti con una quota dominante del mercato e buone
prospettive di crescita. Un esempio di questa categoria di prodotti potrebbe essere la
famiglia di computer Internet-friendly iMac della Apple.
Prodotti cash cow: hanno una quota dominante di mercato, ma basse prospettive
di crescita. I rotoli di carta asciuga tutto Bounty, i più venduti negli Stati Uniti,
rappresentano un prodotto cash cow per la Procter & Gamble.
Prodotti dog: hanno bassa quota di mercato e basse prospettiva di crescita. La
marca Oldsmobile può esser considerata un prodotto dog nella General Motors; i
suoi profitti e la sua quota di mercato in calo hanno contribuito alla decisione della
GM di eliminare la marca.
Che cosa hanno in comune le matrici SWOT e BCG?
La risposta è che entrambe utilizzano lo stesso schema interpretativo generale, la
prospettiva interno/esterno (figura 17).
Consideriamo l’esterno. Il tasso di crescita del mercato nella matrice BCG
rappresenta il grado di attrattività del mercato. D’altronde, se il mercato è attrattivo
(tasso di crescita del mercato è alto) abbiamo un’opportunità. Al contrario, se il
mercato non è attrattivo abbiamo una minaccia. Ma opportunità e minacce sono
elementi della matrice SWOT.
Ora consideriamo l’interno: La quota di mercato relativa, espressione delle
vendite dell’impresa, può essere considerata una forza, dal momento che è alta, o
una debolezza se, al contrario, è bassa.
pag. 47
Figura 17 – La relazione
SWOT – BCG
Fonte: ns. elaborazione.
Infine, consideriamo il ciclo di vita del prodotto ampliato con l’integrazione delle
matrici SWOT e BCG. L’analisi congiunta di queste tre matrici richiede la
considerazione di tre direttrici:
a) la tipologia dei prodotti (question mark, star, cash cow, dog) che si determina
dalla matrice BCG;
b) la tipologia di mercato (in crescita, attrattivo o opportuno/non crescente, non
attrattivo o minaccioso) che si individua tramite la SWOT analysis;
c) la fase del ciclo di vita in cui si trova il prodotto (introduzione, crescita,
maturità, declino) determinata dal modello CVP.
Come si nota dalla figura 18, i prodotti question mark si trovano nella fase
introduttiva del CVP. Il mercato è attrattivo (opportunità) ma i profitti sono negativi
(debolezza) perché le entrate iniziali sono basse e l’impresa deve coprire ingenti
spese per lo sviluppo, la promozione e la distribuzione del prodotto. Non a caso
questi prodotti si chiamano anche “problem chlidren”.
I prodotti star si posizionano nella fase di crescita perché le vendite e, di
conseguenza, la quota di mercato aumentano rapidamente (forza) in un mercato in
crescita (opportunità).
pag. 48
I prodotti cash cow si collocano nella fase di maturità. Ricordiamo che questi
prodotti hanno una quota dominante di mercato (forza) ma basse prospettive di
crescita (minaccia).
All’ultimo, i prodotti dog sono quelli appartenenti alla fase di declino. Siccome il
prodotto, relativamente non si vende più (debolezza), allora può generare
un’emorragia finanziaria dovuta ai costi di produzione e magazzinaggio. Il mercato
non lo vuole più tale quale (minaccia) perciò bisogna eliminarlo o rivitalizzarlo.
pag. 49
Il Prezzo
Affinché un’organizzazione definisca un marketing mix soddisfacente, il prezzo
deve essere accettabile per i consumatori del mercato target. Le decisioni di prezzo
possono avere numerosi effetti sulle componenti del marketing mix. Per esempio, il
prezzo può influenzare anche le percezioni dei clienti sul prodotto, le scelte dei
canali di marketing di distribuzione e la promozione del prodotto.
Il prezzo è una espressione del valore monetario, ma «secondo l’ottica di
marketing, il valore del prodotto non corrisponde al valore monetario cui avviene lo
scambio, ma al valore percepito dall’acquirente70». Il valore monetario è una misura
oggettiva necessaria per lo scambio. Il valore percepito si riferisce ai benefici
funzionali e simbolici del prodotto. La valutazione finale del consumatore si basa sul
valore reso, cioè il valore percepito al netto dei costi sostenuti per l’acquisto del
prodotto. I costi fanno riferimento ad una accezione più ampia rispetto al valore
monetario; si riferiscono al valore di scambio (prezzo o valore monetario + costi di
ricerca informativa + costi del tempo + costi psicologici + altri).
Per trattare questa variabile a 360 gradi, bisogna partire dalle considerazioni
dell’economia classica – l’analisi della domanda e dell’elasticità, concorrenza basata
sul prezzo e non, l’analisi marginale, ecc – fino ad oggi, però in questa sede prevale
la sintesi sull’analisi. Il criterio selettivo ci spinge più verso considerazioni
strategiche di pricing che emergono dopo che il prezzo sia determinato secondo le
diverse prospettive.
1.1. – Sulla determinazione del prezzo: verso una concezione olistica
Nella determinazione del prezzo di vendita ci sono intorno all’OdG del sistema
impresa molti sovrasistemi e subsistemi che influenzano la sua decisione sul prezzo.
Le influenze sono di origine esterna e di origine interna e il grado della criticità varia
nello spazio, nel tempo e a seconda del tipo di sovrasistema, di subsistema, o delle
componenti (di qualche sistema più ampio) che si tengono in considerazione. La
visione olistica nella determinazione del prezzo è anche giustificata dalla proprietà
ricorsiva71 dei sistemi vitali. In effetti non possiamo considerare in modo separato le
influenze che ogni determinante (interna o esterna) ha sulla determinazione del
prezzo da parte dell’impresa sistema vitale.
Rispoli M., L’impresa industriale: Economia, Tecnologia, Management, Il Mulino, Bologna, 1989,
pag. 277
71 La proprietà ricorsiva dei sistemi dice che ogni sistema vitale include e allo stesso tempo è incluso
da qualche altro sistema. Per esempio, la famiglia è un sistema che include altri sistemi (genitori, figli
e nonni) e contemporaneamente è inclusa dal sistema società. Per approfondimenti si consiglia: Beer
S., Designing Freedom, in: Vickers G., Freedom in a Rocking Boat, Allen Lane, The Penguin Press,
London, 1970; Hilder T., Stafford Beer’s Viable System Model, © Cavendish Software Ltd. 1995,
portions © Stafford Beer 1985; Espejo R., Gill A., The Viable System Model as a Framework for
Understanding Organizations, © Phrontis Limited & © Syncho Limited, 1997.
70
pag. 50
1.1.1. – Determinanti esterne di influenza
Definiamo come determinanti o fattori di influenza esterna tutti quei fattori che
interagiscono direttamente o indirettamente con il sistema impresa e che delimitano
il margine di discrezionalità dell’impresa nella fissazione del prezzo. Le
determinanti esterne possono essere riassunte in:
a) struttura del mercato e la concorrenza
b) domanda e il suo grado di elasticità rispetto al prezzo
c) influenze delle politiche governative
a. La struttura del mercato e la concorrenza
La struttura che caratterizza il mercato di riferimento ne influenza il
comportamento dei sistemi presenti in esso. La struttura del mercato è il risultato del
prodotto (non della sommatoria) delle diverse organizzazioni che si relazionano,
interagiscono e competono per il fine della sopravvivenza (permanenza duratura nel
relativo contesto). Classicamente la struttura del mercato ha determinato le forme
del mercato, le quali puntano le lenti sul grado della concorrenza. La concorrenza
non può avere lo stesso grado e la stessa intensità al variare delle forme di mercato.
Le sue condizioni cambiano se siamo in presenza di concorrenza perfetta (polipolio
non differenziato), se siamo in presenza di monopolio, oppure di oligopolio, o di
qualche altra forma che qui non andiamo ad elencare ed analizzare in quanto
contenuti più consoni con la microeconomia. Ciò che ci interessa in questa sede è il
fatto che la struttura del mercato determina la manifestazione delle sue forme;
queste determinano le condizioni di concorrenza che, a sua volta, determina
l’equilibrio tra domanda e offerta e di conseguenza il prezzo di mercato.
Nel pricing basato sulla concorrenza un’organizzazione considera i costi
secondari rispetto ai prezzi della concorrenza. L’importanza di questo metodo di
determinazione del prezzo aumenta quando i prodotti in concorrenza sono
relativamente omogenei e l’organizzazione serve mercati in cui il prezzo è un fattore
essenziale nella decisione d’acquisto. Determinare il prezzo avendo gli occhi dai
prezzi dei concorrenti può aiutare l’impresa a determinare un prezzo più realistico
(vicino al prezzo di mercato) e di giocare di qualche margine. Conoscendo le
decisioni di prezzo dei concorrenti aiuta l’impresa ad adeguare i prezzi propri in
modo più flessibile. Per esempio, molte compagnie aeree adeguano frequentemente
le tariffe.
b. La domanda e il suo grado di elasticità rispetto al prezzo
Quando si usa il pricing basato sulla domanda, i clienti pagano un prezzo più
alto quando e dove la domanda del prodotto è forte e un prezzo più basso quando e
dove la domanda è debole. Il quando (dimensione temporale) e il dove (dimensione
spaziale) sono i fattori principali nella determinazione del prezzo orientato alla
domanda. Per esempio, gli alberghi offrono spesso tariffe ridotte nei periodi di
domanda debole. Anche alcune compagnie di telefonia fissa interurbana, quali la
Sprint e la AT&T, usano il pricing basato sulla domanda praticando tariffe diverse
per le ore di punta e quelle ordinarie. L’efficacia di questo modello dipende dalle
pag. 51
capacità che il professionista di marketing ha di stimare accuratamente la quantità
che i consumatori domanderanno in corrispondenza di differenti prezzi.
Naturalmente che si sceglie il prezzo che genera il ricavo totale più alto.
Ora cerchiamo di spiegare brevemente il concetto dell’elasticità della domanda
rispetto al prezzo e la sua influenza sulla determinazione del prezzo.
L’elasticità della domanda rispetto al prezzo è formalmente definita come la
variazione percentuale della quantità domandata, rapportata a una data variazione
percentuale del prezzo. La domanda è invece anelastica se la quantità domandata di
un certo bene non varia o varia poco al variare del prezzo di quel bene. La domanda
può essere perfettamente elastica o perfettamente rigida, ma all’interno di questi due
stati estremi esistono varie possibilità. Metaforicamente l’elasticità della domanda è
simile al funzionamento di un reostato.
Come l’elasticità della domanda influenza le decisioni di prezzo? Una risposta
basata su un esempio forse sarà più pratica e comprensibile.
Un’impresa decide di introdurre sul mercato un prodotto di alta qualità al quale
corrisponde un prezzo alto (premium price). Ovviamente il target al cui si è rivolta è
composto da clienti disponibili a pagare per l’elevata qualità che ricercano. Se dopo
un po’ di tempo il prezzo del prodotto aumenta, le quantità domandate dei cliente
non diminuiranno (oppure diminuiranno poco) perché questa tipologia di clienti
non è sensibile al prezzo ma alla qualità. In queste condizioni la strategia di prezzo
può essere quella del prezzo di scrematura (skimming price).
Si ricorda che il prezzo, come le altre variabili del marketing mix viene
determinato sempre in base al target (il gruppo dei clienti o il bersaglio da colpire
con il prodotto/servizio).
c. L’influenza delle politiche governative
Il governo è vestito da un potere legale basato su leggi, norme e regole, con il
quale esercita influenza su organizzazioni di varia natura.
Indipendentemente dall’obiettivo per il quale sono utilizzati, i metodi più
generali di intervento da parte della pubblica autorità sui prezzi sono due e
prevedono un intervento diretto o un intervento indiretto.
Il controllo diretto si riferisce a espliciti tentativi di limitare il movimento dei
prezzi senza alterare le quantità domandate o offerte. Il sistema indiretto si riferisce
invece a tentativi di influire sulle forze causali, (cioè l’offerta e la domanda), che
determinano il livello dei prezzi. I metodi di controllo indiretto possono essere
rivolti alla produzione o al mercato.
Nel primo caso rientrano forme di controllo sull’attività produttiva e/o i mezzi di
produzione, come ad esempio, la restrizione delle semine e il controllo sull’area
coltivabile per quanto riguarda la produzione agricola; la limitazione nell’utilizzare
tecnologia molto vecchia ed inquinante (vale nei paesi sviluppati e non nei paesi in
via di sviluppo) per quanto riguarda la produzione industriale.
Nel secondo caso rientrano invece vari tipi di controllo sulle quantità prodotte;
sulle esportazioni, le tariffe e i prestiti; tutti metodi indirizzati in generale
all’eliminazione del surplus del mercato.
pag. 52
Negli stati uniti il governo federale, per ridurre l’inflazione, può ricorrere a
controllo dei prezzi, congelare i prezzi a certi livelli o determinare i tassi a cui i
prezzi possono essere aumentati. Un altro esempio classico in molti paesi del mondo
sul controllo dei prezzi è la fissazione del prezzo degli alcolici da parte degli enti di
regolamentazione.
Il controllo governativo dei prezzi influenza fortemente le strategie di prezzo. Per
esempio, un’impresa che utilizza il pricing di penetrazione deve valutare bene le
possibilità di rialzare il prezzo in futuro; deve capire qual è il tetto massimo stabilito
dal governo oltre al quale il prezzo non si può rialzare.
1.1.2. – Determinanti interne di influenza
Tra le determinanti interne influenti possiamo ricordare – a) – la scelta dei segmenti
cui indirizzare i propri prodotti, scelta che implica: a monte, l’individuazione del
potenziale mercato attraverso un processo conoscitivo relativo ai bisogni dei
consumatori, agli stili di vita, alle variabili socio-economiche che interferiscono
sull’acquisto, eccetera; a valle, una verifica dei confini del segmento stesso attraverso
un aggiustamento continuo del prodotto e del prezzo; b) – il grado di utilizzo della
capacità produttiva e il tipo di rischio (d’esercizio e di mercato)72 nel senso che il
firmamento del prezzo presenterà peculiarità diverse a seconda che l’azienda
produca su commessa o per il magazzino; c) – la fase del ciclo di vita del prodotto,
diversa sarà infatti la strategia di prezzo se il prodotto è in fase di lancio piuttosto
che di maturità; la scelta del portafoglio prodotti (product-mix) e la natura del prodotto,
in quanto diverso sarà il prezzo di un prodotto star e diverso sarà il prezzo per un
prodotto qualificato come cash-cow; d) – i costi aziendali, i quali hanno un’alta
incidenza sulla determinazione del prezzo e degli obiettivi generali dell’impresa.
1.1.3. – Approccio analitico alla determinazione del prezzo
Un po’ di formule e di calcoli elementari sono necessari per formalizzare il
problema della determinazione del prezzo; alla fine, lo stesso prezzo è un numero,
misura oggettiva necessaria per lo scambio.
L’azienda, nella produzione di beni e servizi sostiene dei costi di varia natura che
vanno a incidere sul prezzo finale. La struttura del sistema impresa, l’azienda, non è
altro che un centro di costi. Il calcolo del prezzo viene effettuato considerando, al di
lá delle altre determinanti interne/esterne, anche i costi sostenuti. L’approccio basato
sul costo comprende: il cost-plus pricing (pricing secondo il metodo del costo
maggiorato); il markup pricing (pricing secondo il metodo del ricarico); il prezzo del
profitto massimizzato; il prezzo nella prospettiva del punto di pareggio.
i.
cost-plus pricing e markup pricing
Nel pricing secondo il metodo del costo maggiorato (cost-plus) si determina il
costo unitario del prodotto (da parte del produttore, il manufacturer) e poi, per
Borghesi A., Il risk manager nella struttura organizzativa aziendale, in Sinergie, 4/1984, pag. 3637.
72
pag. 53
stabilire il prezzo, si aggiunge al costo unitario del prodotto un’ammontare
monetario o una percentuale desiderata sulle vendite (detto anche ritorno deisderato
sulle vendite).
Il pricing secondo il metodo del ricarico (markup) è un metodo di impiego
comune nel commercio al dettaglio in cui si determina il prezzo di un prodotto
aggiungendo al prezzo caricato dal produttore una percentuale desiderata detta
markup (o ricarico o rialzo). Per esempio, se il produttore di un certo prodotto carica
un prezzo di 10 euro nei confronti del distributore, quest’ultimo non venderà il
prodotto con lo stesso prezzo (salvo qualche politica temporanea di marketing mix),
ma ricaricherà il prezzo secondo la propria percentuale desiderata, poniamo 30
percento; ne consegue un prezzo ricaricato dal distributore pari a 13 euro.
La differenza tra i due metodi è sottile ma molto significativa. Il primo metodo, il
cost-plus pricing, si riferisce soltanto al produttore (manufacturer), dove al costo di
produzione si aggiunge una certa percentuale.
Nel markup pricing, per determinare il prezzo, si aggiunge al prezzo d’acquisto
una percentuale detto markup o ricarico. Questo metodo si riferisce al produttore e/o
al distributore commerciale. Nel caso del produttore industriale si tratta del prezzo
d’acquisto di materie prime e componenti acquistate dal fornitore, invece nel caso
del distributore commerciale si tratta del prezzo d’acquisto dei prodotti finiti
acquistati dal produttore. Si ricordi che il distributore commerciale può essere un
grossista o un dettagliante; maggiore è il numero degli operatori commerciali fino
all’operatore finale, maggiore sarà il numero dei ricarichi o dei markup consecutivi e,
di conseguenza, maggiore sarà il prezzo per l’acquirente finale, il consumatore.
L’esempio seguente, ripreso da Kotler73, può essere più illuminante a capire l’analisi
sopradescritta.
Supponiamo che un produttore di tostiere ha i seguenti costi e le seguenti aspettative
di vendita:
Costi variabli unitari
Costi fissi
Unità di vendite attese
10 €
300.000 €
50.000 unità
Il costo del produttore per tostiera è dato da:
Costo unitario = costo variabile + costi fissi / unità di vendita = 10€ + 300.000€ /
50.000 = 16€
Se il produttore vuole guadagnare un 20 percento sulle vendite (ritorno desiderato
sulle vendite), il prezzo caricato verrà espresso nel modo seguente:
Prezzo caricato = costo unitario / 1 – ritorno desiderato sulle vendite = 16€ / 1 – 0.2
= 20€
In questo caso, il produttore industriale carica il prezzo per il distributore
commerciale di 20€ per tostiera realizzando un profitto di 4€ per unità.
Ora il distributore deve ricaricare il prezzo per ottenre un suo guadagno, in quanto il
prezzo di vendita del produttore diventa il suo costo (prezzo) unitario d’acquisto. Se
Kotler P., Armstrong G., Saunders J., Wong V., Principles of Marketing, Prentice Hall Europe, 1999,
pag. 699 e 700.
73
pag. 54
lui vorrà guadagnare 50 percento sul suo prezzo di vendita, dovrà ricaricare la
tostiera di 40€, equivalente ad un costo caricato di 100 percento. In altri termini:
Prezzo ricaricato = prezzo caricato / 1 – 0.5 = 20€ / 0.5 = 40€
Il prezzo caricato rappresenta il prezzo del produttore, mentre il prezzo ricaricato è
quello del distributore.
Ricordiamo che questi metodi non possono funzionare con un focus isolato senza
considerare la domanda di mercato, il target da servire e i competitors.
ii.
Il prezzo del profitto massimizzato
Secondo questo metodo si presuppone che l’impresa voglia massimizzare il
proprio profitto e che conosca le funzioni di domanda e di costo di un determinato
prodotto.
La funzione di domanda descrive la quantità di prodotto (Q) richiesta nel
mercato per un dato periodo e in un dato mercato, ai vari livelli di prezzo (P).
Secondo “la legge della domanda”, all’aumentare del prezzo la quantità domandata
di un prodotto diminuisce, perciò si ha una relazione inversa tra (P) e (Q) che può
essere espressa con l’equazione lineare:
Q = 1000 – 4P
(i numeri sono stati scelti casualmente per rendere l’idea allo studente)
Per quanto concerne la funzione di costo, essa descrive il previsto livello dei costi
totali (CT) per le varie quantità che si potrebbero produrre in ciascun periodo.
I (CT) comprendono due categorie di costi: i costi fissi totali (CF) e i costi variabili
totali (CV). I (CF) non variano con il livello di produzione, a differenza di quelli
variabili che appunto variano al suo mutare; per questo motivo i CV si esprimono
diversamente come C(Q), nel senso che variano al variare della quantità, cioè sono
una variabile dipendente (dalla quantità prodotta). La funzione del costo totale si
esprime con l’equazione:
CT = CF + C(Q)
Supponiamo che l’impresa abbia calcolato la seguente equazione dei costi per il
proprio prodotto:
CT = 6.000 + 50Q
Per determinare ora il prezzo migliore, il professionista di marketing ha bisogno
di due ulteriori equazioni: quella del ricavo totale (RT) e quella dei profitti totali ().
L’equazione del ricavo totale è per definizione uguale al prezzo per le quantità
vendute:
R = PQ
L’equazione dei profitti totali è per definizione uguale alla differenza tra ricavi e
costi:
 = RT – CT
Come si determina il prezzo che massimizza il profitto? Le equazioni seguenti,
frutto di ciò che è stato detto, lo spiegano in modo semplice:
 = RT – CT
pag. 55
RT = PQ = P (1.000 - 4P)
CT = CF + C(Q) = 6.000 + 50 (1.000 - 4P)
 = P (1.000 - 4P) - 6.000 – 50 (1.000 – 4P)
 = - 4P² + 1.200P – 56.000
L’ultima equazione ( = - 4P² + 1.200P – 56.000) descrive una parabola74 con la
concavità verso il basso. Poiché il massimo profitto corrisponde al vertice della
parabola stessa, conoscendo il valore delle costanti si può ottenere il prezzo che
massimizza il profitto totale.
Infatti dato a = 4 e b = 1.200 si ha:
P = - b/2a = - 1.200/- 8 = 150
Una volta trovato il prezzo, l’unica variabile mancante nell’equazione del
profitto, il massimo profitto (max) risulterà pari a 34.000.
iii.
Il prezzo nella prospettiva del punto di pareggio
Il problema del modello precedente sta nel fatto che l’impresa non riesce a
conseguire sempre il massimo profitto, perciò deve essere consapevole anche degli
altri livelli in cui essa risulta profittevole. Deve stabilire, in altri termini, qual è il
punto che determina il confine tra l’area della perdita e l’area del profitto. Questo
punto si chiama break even point (BEP) o punto di pareggio. L’utilità dell’analisi che
individua questo punto (break even analysis o BEP) consiste nell’individuare il grado
di elasticità del profitto, cioè l’impresa, attraverso quest’analisi, avrà un orizzonte
più ampio dei livelli di profitto; variando il prezzo può stabilire un livello di profitto
massimo come uno minimo, medio e altri livelli scelti in base alle esigenze del
contesto che l’impresa vive nel tempo e nello spazio. Più che di massimo profitto si
tratterebbe di profitto ricercato. Ma in che cosa consiste realmente la break even
analysis?
L’analisi del punto del punto di pareggio (break even analysis o BEA) è un valido
strumento di supporto alle decisioni aziendali. L’impresa effettua una previsione
sulle vendite future e stima il profitto ricercato. La BEA costituisce uno strumento
decisionale che pone in relazione prezzi, costi, ricavi e volumi di produzione. In tal
modo l’impresa tenta di individuare il prezzo che le permette di conseguire un
determinato profitto obiettivo. È possibile naturalmente costruire diversi punti di
equilibrio in relazione a differenti politiche di prezzo.
Come accennato, il punto di pareggio è la quantità che bisogna produrre (una
volta analizzata la domanda di mercato) per pareggiare costi e ricavi. In linea teorica,
il punto di pareggio sarebbe formulato come di seguito:
La funzione della parabola è rappresentata da:
- ax² + bx - c
che risolta per x è uguale con a - b/2a
74
pag. 56
CT = RT
CF + cv = p * q
CF + cv * q = p * q
CF = p * q - cv * q
CF = q (p- cv)
Q = CF/ (p - cv)
CT e RT (costi e ricavi totali)
CF (costi fissi)
cv (costo variabile unitario, cioè per ogni
unità prodotta)
p e q (prezzo unitario e unità prodotta)
(p - cv) (margine di contribuzione)
Variando il prezzo unitario (il prezzo per ogni quantità prodotta) cambia anche il
punto di pareggio. È soltanto oltre al punto di equilibrio che l’impresa consegue dei
profitti; al di sotto di esso siamo nella zona rossa, quella delle perdite (si veda la
figura seguente). Dalla figura si nota che nell’area di utile il massimo profitto
corrisponde alla zona più larga dell’area, ovvero laddove si ha la maggiore distanza
tra ricavi e costi (con ricavi sopra i costi, altrimenti ci troveremmo nella zona di
perdita massima).
Figura 19 – Il punto di
pareggio tra costi e
ricavi (BEP)
Fonte: ns. elaborazione.
Un esempio pratico semplifica la comprensione dell’analisi.
Prendiamo l’esempio di un impianto usato dalla società Zeta Spa per produrre il
prodotto “a”. Il costo dell’impianto è di 100.000,00 €. Supponete che ogni singolo
prodotto “a” si venda a 75,00 €, e che il costo variabile unitario sia di 22,00 €.
Dunque i nostri dati sono: p=75; cv= 22; CF=100.000 q=?
Svolgimento:
RT = CT
p * q = CF + cv * q
75 q = 100.000 + 22 q
75 q – 22 q = 100.000
q (75 – 22) = 100.000
q = 100.000/53 = 1886,79 circa 1887 unità
pag. 57
Dall’esempio precedente si deduce che l’equilibrio tra costi e ricavi viene
determinato dalle quantità prodotte, ma queste possono variare al variare della
scelta del prezzo unitario. Un prezzo più alto/basso comporta minori/maggiori
unità prodotte che a loro volta determinano un nuovo punto di pareggio (BEP). Ma
la scelta del prezzo unitario si fonda sulle politiche di prezzo che vanno considerate
in sistema con le atre politiche del marketing mix. Naturalmente che le politiche di
prezzo non tengono (per lo meno non devono tenere) conto soltanto dei centri di
costo. In primis devono considerare la domanda mercato, capire il trend e fare le
stime, per poi trovare un’armonia con le altre variabili del marketing mix e con le
strategie complessive d’impresa.
1.2. – Decisioni e scelte strategiche di pricing
Una strategia di prezzo è un approccio o una condotta avente lo scopo di
raggiungere obiettivi di pricing e di marketing nella sua totalità (visto che il prezzo
non può scindere dagli altri aspetti del marketing strategico e operativo).
I.
Differenzazione dei prezzi
Un problema importante nelle decisioni di pricing è stabilire se usare un unico
prezzo o differenti prezzi per lo stesso prodotto.
Avere un unico prezzo vuol dire applicare lo stesso prezzo per la stessa qualità e
quantità di prodotto a diversi acquirenti. Questo, da una parte crea facilità nella
relazione con la clientela, dall’altra rende l’impresa poco elastica.
La facilità riguarda il fatto di non dover negoziare il prezzo, in quanto è unico per
diversi acquirenti. La bassa elasticità ha due facce: se il prezzo è troppo alto (ed
unico), solo alcuni clienti possono permettersi il prodotto; se invece è troppo basso
l’organizzazione perde le entrate che riceverebbe da quei clienti che avrebbero
pagato di più se il prezzo fosse stato più alto.
Considerando le problematiche sopradescritte si rende necessario un approccio
di Differenziazione del prezzo. Differenziare il prezzo significa praticare prezzi
diversi ad acquirenti diversi per la stessa qualità e quantità di prodotto. La messa in
uso di questo approccio richiede diverse strategie.
a. Negoziazione del prezzo. Ha luogo quando il prezzo finale è stabilito tra
venditore e acquirente. Questa modalità è impiegata in numerosi settori
industriali e a tutti livelli di distribuzione.
b. Prezzo sul mercato secondario. Il secondary-market pricng significa che è
stabilito un prezzo per il mercato target primario e ne è stabilito uno
diverso per un altro mercato. Il prezzo praticato sul mercato secondario è
spesso più basso. Sono esempi di mercato secondario un mercato in un
paese estero, un segmento di mercato disposto ad acquistare un prodotto
nei periodi non di punta. Per esempio, nelle ore di prima serata alcuni
ristoranti offrono prezzi speciali, i cinematografi offrono sconti per
studenti e anziani. I mercati secondari offrono a un impresa l’opportunità
di utilizzare la capacità in eccesso e di stabilizzare l’allocazione delle
risorse.
pag. 58
c. Sconti periodici e sconti casuali. Tutti noi aspettiamo dai dettaglianti i
saldi di fine stagione e spesso ritardiamo gli acquisti proprio per questo
motivo. Questa riduzione temporanea dei prezzi su base regolare o
sistematica si chiama sconto periodico. In questo caso il consumatore
diventa un calculus e ritarda gli acquisti per approfittare dai prezzi più
bassi. Come contromossa, i marketing manager applicano gli sconti casuali
che consistono in una riduzione temporanea dei prezzi su base casuale e
non sistematica. Questa strategia viene attuata non solo per aggirare la
prevedibilità, ma anche per attrarre nuovi clienti.
II.
Pricing di un nuovo prodotto
Quando un marketing manager stabilisce il prezzo base di un nuovo prodotto
considera una serie di reazioni. Tra le reazioni più importanti sono quelli statali sul
controllo pubblico dei prezzi e, poi, le reazioni della concorrenza.
Le strategie più rilevanti sono la skimming strategy e la penetration strategy.
a. Scrematura del mercato. È una strategia che consiste nell’applicare il
prezzo più alto possibile ai clienti che ricercano qualità nel prodotto e sono
poco elastici al variare del prezzo. Questa strategia fornisce parecchi
benefici, specialmente nella fase di introduzione del ciclo di vita del
prodotto, in quanto genera enormi cash flow iniziali che sono necessari
per coprire i costi d’investimento. Per esempio, la Polaroid, quando
introduce un nuovo modello di macchina fotografica, usa inizialmente un
prezzo di scrematura per coprire i notevoli costi di ricerca e sviluppo.
b. Penetrazione del mercato. In questo caso l’impresa agisce come se fosse
una talpa, dal basso all’alto. Per strappare quota di mercato ai concorrenti,
si utilizza inizialmente un prezzo più basso con l’intento che, quando la
quota di mercato aumenterà, il prezzo verrà rialzato di una certa
percentuale. Naturalmente il prezzo non può aumentare più di tanto
perché i controlli pubblici lo impediscono.
III.
Pricing di una linea di prodotti
Il pricing di una linea di prodotti consiste nello stabilire e nell’adeguare i prezzi
di più prodotti all’interno di una medesima linea. La visione di linea è una visione
olistica perché il marketing manager non si focalizza sulla redditività di un singolo
prodotto, ma sulla massimizzazione dei profitti dell’intera linea. Le strategie più
comuni sono le segiuenti.
a. Pricing di beni complementari. Perché le stampanti di Hewlett Packard (e
non solo) costano poco? La risposta è perche i tonner e gli atri accessori
(della stessa marca) hanno un prezzo abbastanza alto. Necessariamente il
cliente per far funzionare la stampante deve comprare anche gli accessori
utili al suo funzionamento. In generale, secondo questa strategia, al
pag. 59
IV.
prodotto principale di una linea è imposto un prezzo basso, mentre ai
prodotti complementari, necessari per il suo funzionamento o
potenziamento, sono imposti prezzi più alti.
b. Premium pricing. Il pricing mediante premio di prezzo è usato spesso
quando una linea di prodotti contiene parecchie versioni dello stesso
prodotto; ai prodotti con la qualità più alta sono imposti i prezzi più alti.
Esempi di questa categoria si scontrano nei piccoli elettrodomestici, le
birre, i gelati ecc.
c. Pricing mediante prezzi civetta. In primis, i prodotti civetta sono quelli
che attirano i consumatori con “l’inganno”; il prezzo civetta è il valore
monetario di questi prodotti. Per esempio, nei volantini dei negozi “Acqua
e Sapone” vengono pubblicizzati tanti prodotti di qualità a prezzi molto
competitivi. Il cliente, una volta entrato al negozio, non si limita a
comprare soltanto i prodotti scontati, ma ne compra anche altri. Di
conseguenza i prodotti civetta fanno da trampolino per gli altri acquisti
(anche di beni complementari se vogliamo). Perciò, quando notate
volantini con prodotti sotto costo, non pensate che il dettagliante vada in
perdita; lui guadagna non da ciò che pubblicizza, ma dai prodotti che non
trovate in volantino (e che forse vi servono).
d. Allineamento dei prezzi. Quando un’organizzazione stabilisce un numero
limitato di prezzi per gruppi scelti o linee di prodotti, usa l’allineamento
dei prezzi. Un dettagliante può avere camice della stessa qualità e cono
vari stili e marche che vende a 20 euro; può poi praticare un prezzo di 30
euro per camice di qualità migliore, anch’esse di vari stili e marche. Un
esempio è il negozio di Romana S.I.R. Altri esempi sono i vari outlet
(factory outlet e village outlet). Questa strategia semplifica il processo
decisionale d’acquisto dei clienti, che possono scegliere una data fascia di
prezzo all’interno della quale selezionare poi lo stile e la marca preferiti,
mantenendo costante il prezzo.
Pricing psicologico
Questa modalità di determinare i prezzi si basa sui processi di percezione e di
apprendimento dei clienti con l’obiettivo di influenzarli. L’influenza non è casuale
ma fondata scientificamente sugli studi e le ricerche psicologiche. Alcune delle teorie
prevalenti sono state quelle dei riflessi condizionati, behaviorismo o
comportamentismo, cognitivismo e altre.
a. Reference pricing. Il pricing di riferimento consiste nell’imporre a un
prodotto un livello di prezzo moderato e nel posizionarlo accanto a un
modello o a una marca più costosi, nella speranza che il cliente impieghi il
prezzo più alto come riferimento esterno (cioè come elemento di
confronto). Ci si attende che il cliente, in virtù del confronto, consideri
favorevolmente il prezzo moderato. Naturalmente il prodotto a prezzo
moderato deve avere caratteristiche simili (almeno in numero) rispetto al
prodotto di “marca”. Non è quindi infrequente che un’impresa posizioni
le proprie marche di prezzo moderato accanto a quelle più costose di
produttori conosciuti.
pag. 60
b. Bundle pricing. Il prezzo per pacchetti consiste nell’aggregare due o piu
prodotti, tipicamente complementari, per venderli come pacchetto
indivisibile (bundle) a prezzo unico. Per attrarre i clienti il prezzo unico è
notevolmente inferiore alla somma dei singoli prezzi corrispondenti ai
singoli prodotti che compongono il pacchetto. Un esempio sono le
confezioni dei profumi. Se un certo profumo costa 50 euro e la doccia
schiuma della stessa marca costa 20 euro, in periodi particolari si possono
acquistare entrambe (in bundle), poniamo, a 55 euro. Oppure, spesso si
trovano delle occasioni in cui viene offerto un paccetto comprendente un
computer, il relativo software e un mese di connessione gratuita
all’Internet, al prezzo del computer stesso.
c. Pricing per unità multiple. È usato il pricing per unità multiple quando
due o più prodotti identici vengono aggregati e venduti a un prezzo unico.
Ne consegue, secondo la legge economica generale di domanda – offerta
(aumenta la quantità e diminuisce il prezzo), un prezzo unitario inferiore a
quello praticato normalmente. Esempi sono i pacchetti dei dentifrici, le
confezioni di bibite in lattina, le scatolette di tonno, ecc.
d. Everyday low prices (EDLP). Nel caso dell’ EDLP un marketing manager
stabilisce prezzi bassi su base continua invece di stabilire prezzi più alti e
scontarli frequentemente. Un’impresa che usi tale strategia trae beneficio
dalla riduzione delle perdite che si avrebbero se si fosse costretti a
frequenti riduzioni, dalla maggiore stabilità delle vendite e dalla riduzione
dei costi promozionali. Un esempio di tale impresa è il retailer Wal-Mart,
leader mondiale nel commercio al dettaglio.
e. Pricing dispari-pari. Tale strategia consiste nel dare a un prodotto un
prezzo che termina tipicamente con un numero dispari, quale 9 o 5, ed è
molto vicino a un numero pari, arrotondato, quale 100. Il pricing disparipari si basa su una percezione illusoria (ottimistica se vogliamo essere più
cauti) da parte del cliente. Per un prodotto che costa, poniamo, 99,95 euro,
si presuppone che i clienti riterranno che il prodotto è un buon affare:
costa non 100 euro, bensì 99 euro e spiccioli. Questa strategia si utilizza
anche per ragioni fiscali ( per esempio, le tasse di un prodotto che costa
100 euro possono essere più alte rispetto alle tasse di uno che costi 99,99
euro, in quanto appartenente in un’altra fascia di imposizione fiscale).
I prezzi pari o arrotondati, invece sono usati spesso per conferire a un
prodotto un immagine esclusiva. Questi inducono il cliente a pensare che
il prodotto sia una marca premium e di alta qualità.
f. Pricing tradizionale. A volte i consumatori sono talmente affezionati dal
prezzo di un determinato prodotto che non possono accettare variazioni
dello stesso. In effetti, i produttori, in questi casi, sono disposti a variare la
quantità del prodotto pur di mantenere invariato il prezzo. Nel pricing
tradizionale il prezzo costante diventa un abitudine, una tradizione (dove
la tradizione, ricordiamo, è una categoria valoriale) che crea resistenza al
cambiamento. Alcuni anni fa, quando in Albania il prezzo/kg del pane è
salito da 50 centesimi a 60 centesimi ha suscitato una reazione forte ai
consumatori (in quanto il pane in questo paese aveva un consumo alto,
pag. 61
dovuto alla scarista delle risorse del referente periodo e al basso potere
d’acquisto).
g. Pricing di prestigio. In questo modello strategico i prezzi sono stabiliti a
un livello artificialmente elevato per comunicare un’immagine di prestigio
o di qualità. In un’indagine fatta da Report (trasmissione di Rai 3) circa 3
anni fa, si è scoperto che il costo medio di produzione delle borse
femminili di marca Ferré era di 25 euro; il prezzo di vendita ha raggiunto
un livello di 770 euro, mentre Alviero Martini vendeva, dall’atra parte,
borse a 130 euro con un costo di produzione il doppio di quello di Ferré.
Questa speculazione riferita al valore di scambio non può essere
equilibrata con riduzioni drastiche di prezzo perché il nuovo prezzo
sarebbe incompatibile con la percezione dell’immagine di alta qualità dei
prodotti prezzati secondo il pricing di prestigio.
pag. 62
La promozione o il comunication mix
«La politica promozionale si concreta, in senso lato, nello stabilire gli obiettivi, le
modalità ed i mezzi di comunicazione con l’ambiente, in quanto sopratutto ad essa è
confidato il compito d’inviare informazioni ai pubblici con cui l’impresa è in
contatto. Il concetto di attività di comunicazione estende i contenuti promozionali
sotto due profili: la finalità da conseguire e i destinatari da raggiungere. Esso, infatti,
svincola tale politica da immediati effetti di sviluppo delle vendite e coinvolge nel
processo anche gruppi sociali (stakeholder) diversi dagli acquirenti delle produzioni
(pubblici poteri, fornitori, finanziatori, ecc.).»75
Il mondo delle attività di promotion è un mondo molto affascinante caratterizzato
da un’ampia varietà di strumenti e tecniche. È un mondo di segnali, simboli,
significanti e significati. Non a caso il promotional mix, diversamente, si chiama anche
comunication mix. Ne consegue che la comunicazione è la base della promozione,
tanto che, nelle nostre università ci sono discipline di studio ad hoc sulla
comunicazione d’impresa.
La comunicazione è la linfa vitale dei sistemi vitali. Parole, gesti e persino i
silenzi fanno parte della comunicazione. Il primo assioma della comunicazione
umana è che “non si può non comunicare”76. Questo rappresenta uno degli assiomi
della Pragmatica della Comunicazione, ovvero quella branca di studi che si occupa
degli effetti che il nostro modo di comunicare ha sugli atteggiamenti e
comportamenti delle persone con le quali noi interagiamo. La scuola di Palo Alto di
cui Paul Watzlawick rappresenta una delle figure di maggior spicco, ha dopo oltre
2500 anni riportato l’attenzione della scienza sullo studio della comunicazione come
veicolo di cambiamento.
La comunicazione, nella sua versione di base, è composta dalla pubblicità,
promozione vendite, forza vendita, vendita personale. Recenti studi e applicazioni
della comunicazione d’impresa77 hanno ampliato la gamma del mix promozionale
coinvolgendo alcuni aspetti innovativi, quali il direct marketing, il packaging, l’e-mail
marketing, il viral marketing, il body rent, le fiere, il punto vendita, la guerrilla marketing,
il product placement, il temporary shop, ecc.
I.
Pubblicità
L’advertising permea la nostra vita quotidiana. Talvolta la valutiamo
positivamente, altre volte la evitiamo. Alcuni tipi di pubblicità ci informano, ci
persuadono o ci divertono, altri ci annoiano o possono perfino offenderci.
La pubblicità (advertising) è una comunicazione impersonale a pagamento
riguardante un’organizzazione e i suoi prodotti trasmessa a un’audience obiettivo
Sciarelli S., Economia e Gestione dell’Impresa, CEDAM, Padova, 1997, pag. 404.
Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D., La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio,
1971.
77 Per maggiori approfondimenti sulla comunicazione d’impresa in generale e sulla comunicazione di
marketing in particolare, si veda: Pastore A., Vernuccio M., Impresa e Comunicazione: Principi e
strumenti per il management, Apogeo, 2008.
75
76
pag. 63
attraverso i mass media: televisione, radio, Internet, quotidiani, periodici, posta
diretta, display esterni e cartellonistica sui mezzi di trasporto pubblico. Gli individui
e le organizzazioni impiegano la pubblicità per promuovere beni, servizi, idee,
problemi e persone. Essendo altamente flessibile, la pubblicità è in grado di
raggiungere un’audience obiettivo estremamente grande o di focalizzarsi su un
piccolo segmento esattamente definito.78
Questo modo di comunicare offre parecchi vantaggi. Quando raggiunge un
grande numero di persone a un basso costo pro capite, si rivela estremamente
efficiente in termini di spesa. Per esempio, una pubblicità di un’intera pagina a
quattro colori sul periodico «Time» costa 192.000 dollari. Poiche il periodico
raggiunge più di 4 milioni di abbonati, il costo che si deve sostenere per raggiungere
1000 abbonati è pari soltanto 47 dollari circa.79 Inoltre, la pubblicità permette alla
fonte di ripetere il messaggio numerose volte. Per esempio, la Levi’s Strauss
(www.levistrauss.com) fa pubblicità in televisione, sui periodici e su manifesti. Altro
vantaggio è che la pubblicità di un prodotto è in grado di aumentare il valore e la
visibilità. Talvolta un’impresa tenta di valorizzare l’immagine di se stessa o del
proprio prodotto includendo negli annunci pubblicitari celebrità del mondo dello
spettacolo. Uliveto e Rocchetta sono acque promosse attraverso le pubblicità che
includono testimonials quali Alex Del Piero e Cristina Chiabotto. La Gillette, per il
suo nuovo rasoi Gillette Fusion Power, ha utilizzato come testimonials pubblicitari
figure importanti del mondo dello sport come Thierry Henry, Roger Federer e Tiger
Woods.
Ma la pubblicità ha anche degli svantaggi. Sebbene il costo pro capite raggiunto
possa essere basso, l’esborso assoluto può essere estremamente alto, specialmente
per i commercial (annunci pubblicitari) durante gli spettacoli televisivi popolari. I
costi elevati possono limitare e talvolta impedire l’impiego della pubblicità in un mix
promozionale. Raramente la pubblicità fornisce un feedback rapido. Misurare il suo
effetto sulle vendite è difficile, anche se in generale le spese pubblicitarie
comportano uno spostamento in alto a destra della curva della domanda. Nella
maggior parte dei casi, il tempo a disposizione per comunicare un messaggio ai
clienti è limitato a qualche secondo, poiché le persone dedicano soltanto qualche
istante a un annuncio pubblicitario stampato e la maggior parte dei commercial
radiofonici e/o televisivi dura 30 secondi o meno. Infine, la pubblicità è meno
persuasiva rispetto alla vendita personale.
II.
Vendita personale
La vendita personale (personal selling) è una comunicazione personale a
pagamento che cerca di informare i clienti e di persuaderli ad acquistare prodotti in
una situazione di scambio. Per esempio, un venditore che illustra a un cliente i
vantaggi di un laptop Sony VAIO in un determinato punto vendita è impegnato in
un’attività di vendita personale. Il telemarketing, ossia la vendita diretta via telefono,
fa forte affidamento sulla vendita personale; però gli atteggiamenti negativi dei
Pride W. M., Ferrell O. C., Marketing (Vol. 1 della collana di Management, Il sole 24 ore, Edizione
italiana a cura di Stefano Podestà), Egea, Milano, 2005.
79 Time, www.time-planner.com/planner2001/home.html, 19 luglio 2001.
78
pag. 64
consumatori e le regolamentazioni che limitano il telemarketing ne hanno diminuito
l’efficacia come tecnica di vendita personale.
La vendita personale conferisce agli operatori di marketing la massima libertà di
adattare un messaggio in modo da soddisfare il bisogno di informazioni dei clienti.
Rispetto ad altri metodi di comunicazione, la vendita personale è il più preciso,
perché permette agli operatori di marketing di focalizzarsi sulle prospettive di
vendita più promettenti. Altri elementi del mix promozionale sono diretti a gruppi
di persone tra le quali possono non esserci clienti potenziali; si tratta in questo caso
di persone fuori target. Con il personal selling, invece, il target è ben focalizzato e
preciso.
Paragonata alla pubblicità, la vendita personale presenta sia vantaggi che
svantaggi. La pubblicità è una comunicazione generale diretta a un’audience
obiettivo relativamente grande, mentre la vendita personale implica una
comunicazione più specifica diretta a una o alcune persone. Raggiungere una
persona attraverso la vendita personale costa molto di più che raggiungerla
attraverso la pubblicità, ma le attività di vendita personale hanno spesso sui clienti
un impatto maggiore. La vendita personale fornisce anche feedback immediato:
consente agli operatori di marketing di adattare i loro messaggi per migliorare la
comunicazione e li aiuta a determinare i bisogni di informazione dei clienti per
rispondervi.
Quando un venditore e un cliente si incontrano faccia a faccia, usano vari tipi di
comunicazione interpersonale. La forma predominante di comunicazione è la lingua,
sia parlata sia scritta. Oltre la lingua gli interlocutori impiegano frequentemente la
comunicazione cinesica, prossemica e tattile. Queste forme di comunicazione sono
basate nei movimento della testa, degli occhi, delle braccia, delle mani, delle gambe o
del torso, nella distanza fisica che separa gli interlocutori e nella sua variabilità
durante il discorso e, infine, nel contatto fisico. Queste forme di comunicazione per
risultare efficaci necessitano che il venditore capisca abbastanza i linguaggi del
corpo80, cioè capisca di psicologia gestuale.
III.
Promozione delle vendite
La promozione delle vendite (sales promotion) è un’attività o un materiale che
agisce da induzione diretta all’acquisto, offrendo del valore aggiunto o un incentivo
per il prodotto ai rivenditori, ai venditori o ai consumatori.81 Si tratta di un insieme
di attività che incentivano le vendite. Gli esempi comprendono campioni gratuiti,
giochi, ribassi di prezzo, display, lotterie, gare, premi e buoni sconto (coupon).
Pensate ai campioni gratuiti (product sample) della Red Bull che vengono distribuiti
presso centri universitari, non a caso, con una Volkswagen Beetle.
La promozione delle vendite non dovrebbe essere confusa con la promozione: la
promozione delle vendite (sales promotion) è soltanto una delle componenti logiche
del sistema promozionale (promotion); le altre componenti sono la pubblicità, la
vendita personale, le pubbliche relazioni.
Per maggiori approfondimenti sul tema si consiglia Molcho S., I Linguaggi del Corpo: Come il corpo
comunica senza parole, Red Edizioni, 2007.
81 Burnett J. J., Promotion Management, Houghton Mifflin, Boston, 1993, pag. 7.
80
pag. 65
Quando le imprese impiegano la pubblicità o la vendita personale, generalmente
vi ricorrono su base continua o ciclica. L’uso della promozione delle vendite da parte
di un’impresa tende invece a essere irregolare perché molti prodotti sono stagionali.
Pensate alle promozioni delle uova di Pasqua dopo le feste, o ai biglietti d’aereo
durante la bassa stagione.
Le imprese ricorrono spesso alla tecnica di promozione delle vendite per
migliorare l’efficacia degli altri componenti del promotional mix. Per esempio, la
Clorox (www.clorox.com) decise di ridurre il budget promozionale per i prodotti di
marca Glad per due anni di fila, anche per compensare il prezzo crescente delle
materie plastiche. Poiché i concorrenti non diminuirono i loro budget promozionali,
la marca Glad perse una rilevante quota del mercato dei sacchetti per le immondizie
(-10,3 %), dei sacchetti per alimenti (-10,6 %) e dei sacchetti per giardino (-23,2 %).82
Per quanto riguarda il decidere quali metodi di promozione delle vendite
adottare (campioni gratuiti, giochi, ribassi di prezzo, display, lotterie, gare, premi e
buoni sconto), gli operatori di marketing considerano numerosi fattori, in particolare
le caratteristiche del prodotto (dimensioni, peso, costi, durata, usi, rischi) e le
caratteristiche del mercato target (età, sesso, reddito, ubicazione, densità, tasso di
utilizzazione e comportamento d’acquisto). Il modo in cui i prodotti vengono
distribuiti e il numero e i tipi di rivenditori possono determinare il tipo di metodo
impiegato. La scelta può essere influenzata anche dall’ambiente competitivo e legale.
L’uso della sales promotion è aumentato drasticamente negli ultimi 20 anni,
principalmente a spese della pubblicità. Questo cambio di rotta negli investimenti
promozionali è avvenuto per vari motivi. L’aumento dell’interesse per il valore ha
reso i clienti più sensibili alle offerte promozionali, specialmente agli sconti sui
prezzi e ai POP (point of purchase) display (espositori sul punto d’acquisto). Grazie
alla loro dimensione e all’accesso ai dati acquisiti dagli scanner delle casse, i
dettaglianti sono riusciti a ottenere un notevole potere all’interno della catena di
fornitura (supply chain) e ora chiedono maggiori impegni promozionali ai produttori
in modo tale da aumentare il loro margine commerciale.
IV.
Pubbliche relazioni
Sebbene molte attività promozionali siano incentrate sui clienti di un’impresa,
per un’organizzazione risultano importanti anche altri stakeholder: fornitori,
dipendenti, azionisti, media, ricercatori, investitori potenziali, funzionari pubblici e
la società in generale. Per comunicare con i clienti e gli stakeholder il sistema
impresa ricorre alle public relations (pubbliche relazioni, PR). Le PR possono essere
definite come un ampio insieme di attività di comunicazione impiegate per creare e
mantenere relazioni favorevoli (consonanza) tra sistema impresa e sovrasistemi di
contesto. Il mantenimento di una relazione positiva, attraverso il meccanismo
dell’interazione (risonanza), può influenzare le vendite e i profitti attuali di
un’impresa, oltre che la sua sopravvivenza nel lungo periodo.
Le PR fanno ricorso a vari strumenti, inclusi rapporti annuali, brochure,
sponsorizzazioni di eventi e di programmi socialmente responsabili diretti a
salvaguardare l’ambiente o ad aiutare soggetti svantaggiati. Altri strumenti
Neff J., “Clorox gives in on Glade, Hikes trade Promotion”, Advertising Age, www-adage.com, 19
luglio, 2001.
82
pag. 66
scaturiscono dall’impiego della publicity, una componente delle public relations. La
publicity è comunicazione impersonale sotto forma di notizia su un’organizzazione
e/o sui suoi prodotti trasmessa gratuitamente attraverso un mass media. Sono
esempi di pubbliche relazioni basate sulla publicity i comunicati stampa, le
conferenze stampa e gli articoli speciali. Le attività ordinarie di PR sono pianificate e
implementate in modo da essere coerenti con gli atri componenti del comunication
mix. Delle attività di PR possono essere responsabili un individuo o un dipartimento
all’interno dell’organizzazione, oppure di esse può essere incaricata un’agenzia di
PR indipendente. Situazioni sgradevoli ed eventi negativi, quali la contaminazione o
manomissione dolosa dei prodotti o un disastro ambientale, possono determinare
public relations sfavorevoli per un’organizzazione. Per ridurre al minimo gli effetti
nocivi di una copertura avversa, gli operatori di marketing dispongono di politiche e
procedure finalizzate a risolvere gli eventuali problemi di public relations. Per
esempio, dopo aver subito una notevole publicity negativa a causa di incidenti
automobilistici associati ad una difettosità al pedale dell’acceleratore, la casa
automobilistica della Toyota ha preparato comunicati stampa in cui ha messo in
rilievo il suo impegno per il ritiro dal mercato (product recall) dei prodotti sotto
accusa, nonché il suo impegno verso la qualità degli stessi e la disponibilità a
risolvere i problemi dei consumatori.
Le PR non dovrebbero essere considerate come un insieme di strumenti da
utilizzare soltanto nei momenti di crisi aziendale. Per ottenere il massimo da esse,
un’organizzazione dovrebbe avere un responsabile delle public relations al suo
interno oppure esterno all’organizzazione stessa e dovrebbe sempre avere in atto un
programma di PR.
pag. 67
La distribuzione fisica e la distribuzione commerciale
Finora abbiamo trattato tutti gli argomenti principali della funzione di marketing,
dall’analisi dei bisogni della clientela, fino all’incentivazione all’acquisto dei
prodotti/servizi dell’impresa. L’ultima variabile del marketing mix (detto anche
marketing operativo) è la distribuzione (placement). Non si può immaginare
l’ideazione del prodotto, le sue politiche di prezzo e di promozione senza
“accompagnare” poi il prodotto nei luoghi e nei tempi che vuole la clientela. La
centralità della distribuzione viene significativamente colta in un’affermazione di
James L. Heskett: “Quando un frigorifero non è un frigorifero? Quando si trova a
Pittsburgh, mentre chi ne ha bisogno si trova a Houston”. Perciò, l’accompagnamento
dei prodotti necessita l’individuazione e lo sfruttamento dei canali di distribuzione.
Un canale di distribuzione (chiamato anche canale di marketing, canale
commerciale o sistema distributivo) è un gruppo di individui e di organizzazioni che
dirige il flusso dei beni dai produttori ai clienti (intermedi e finali). Il compito
principale dei canali è quello di rendere disponibili i prodotti al momento giusto, nel
luogo giusto, nelle quantità e nelle qualità richieste. Alla base delle decisioni di
canale di distribuzione dovrebbe esserci la forza propulsiva di un orientamento alla
customer satisfaction; per i membri del canale i bisogni e il comportamento degli
acquirenti sono cruciali. Attraverso il concetto di canale di distribuzione si può
richiamare la distinzione concettuale tra distribuzione commerciale e distribuzione
fisica.
Nella distribuzione commerciale rientra l’insieme delle decisioni sul canale da
scegliere, sul tipo e sul numero degli intermediari, sul tipo di rapporto commerciale,
di comunicazione e di controllo che lega l’azienda all’intermediario. Appartengono,
invece, alla distribuzione fisica le scelte che riguardano la dislocazione degli impianti,
dei magazzini e dei punti vendita, la quantità di scorte da tenere in magazzino, la
quantità e il tempo delle ordinazioni e tutte le decisioni che riguardano il movimento
fisico di materie prime e beni che si misurano in termini di tempo e di spazio: tempo
e spazio sono dunque gli elementi caratterizzanti la distribuzione fisica83.
Nella letteratura dell’economia d’impresa gli schemi interpretativi dei diversi
autori in merito ai temi di marketing e distribuzione sono stati divergenti. Tanti
dubbi e dibattiti hanno abbracciato il tema della distribuzione fisica e del marketing,
tanto che negli indici dei manuali di gestione d’impresa marketing e distribuzione
(fisica) venivano (e vengono) classificati e trattati separatamente. In sostanza, con il
quarto “P” del marketing mix, il placement, ci si intende, tra i tanti manuali, la
distribuzione commerciale lasciando a parte la distribuzione fisica (detta anche
logistica di distribuzione). Tale dicotomia tra marketing e distribuzione, e tra
distribuzione commerciale e distribuzione fisica (a tutto detrimento di quest’ultima),
poteva anche non suscitare perplessità in un’epoca diversa dall’attuale, in cui
l’attenzione veniva ancora posta alla produzione e non già alla razionalizzazione
della distribuzione e alla conservazione della ricchezza.
83
Panati G., Franch M.,1987, op. cit., pag. 597.
pag. 68
Attualmente non ci si pone più come unico obiettivo l’incremento continuo delle
vendite: l’accento va spostandosi al “quando” (quando è più razionale comprare,
vendere, consumare, ordinare) e al “dove” (qual è la dislocazione più razionale,
dove la ricchezza è più produttiva e sicura); ecco che allora la distribuzione fisica
non può non assurgere ad un ruolo di primo piano, visto che i benefici di tempo
(dati dallo stoccaggio) e di luogo (dati dal trasporto) sono i naturali elementi della
logistica. Considerare la distribuzione fisica come separata dal marketing, e ad esso
asservita, significa svuotare il marketing stesso di gran parte dei suoi più odierni
contenuti, relegandoli inevitabilmente ad un ruolo, quello logistico, cui, seguendo le
premesse concettuali ora esposte, non andrebbe nemmeno assegnato un responsabile
nell’organigramma dell’impresa. Al di là di tutte le distinzioni teoriche è bene
dunque ricordare che, soprattutto al giorno d’oggi, la distribuzione nel suo
complesso non può essere separata dal marketing e nel marketing d’impresa essa
deve avere un ruolo di pari importanza a quello dello studio del prodotto, del
prezzo e della promozione. Solo con una visione olistica del marketing l’uomo
d’impresa può vincere la battaglia che l’oggi (e il domani) gli presenta: la
“redistribuzione” degli impianti nelle moderne aree metropolitane, la
reintroduzione di prodotti apparentemente superati, la differenziazione e il
decentramento degli stocks.
In sintesi, il sistema della distribuzione commerciale non può emergere senza una
o più strutture logico-fisiche appropriate. Il fatto che facciamo la spesa nei vari
supermercati non si sarebbe giustificato se non esistesse un’infrastruttura (complesso
di strutture logico-fisiche) che accompagnasse i prodotti in queste configurazioni
commerciali (grossisti e dettaglianti). Per esempio, il vino si commercializza in
diversi punti vendita, ma non viene prodotto negli stessi. L’offerta di una bottiglietta
di vino non comincia nei supermercati, ma ha la sua origine nella coltivazione
dell’uva da parte dei produttori agricoli. Una volta coltivata dai produttori agricoli,
l’uva viene trasformata in vino secondo i rispettivi processi da parte dei produttori
industriali. Si ha poi il bisogno di trasferire il prodotto finito dal produttore al
consumatore. Questo processo viene eseguito attraverso vari operatori logistici
(componenti della struttura) che fanno da infrastruttura per gli operatori
commerciali. Da questo esempio ne deriva un punto d’arrivo importante:
distribuzione fisica e distribuzione commerciale sono un continuum e la loro
separazione darebbe l’immagine di un edificio con le fondamenta altrove.
1.1 – La distribuzione fisica
La distribuzione fisica, nota anche come logistica di distribuzione84, è l’insieme
delle attività necessarie per trasferire i prodotti dai produttori ai consumatori. Tali
attività comprendono la gestione degli ordini (order processing), la gestione delle
Si ricorda che il processo logistico comprende tre unità logiche, come da qualche autore classificato
così: logistica di approvvigionamento (inbound logistics), logistica di produzione (operations), logistica
di distribuzione (outbound logistics). Per ulteriori informazioni sulla logistica di distribuzione si
consiglia: Massaroni E., Il sistema logistico: Progettazione, governo, e gestione della logistica e della
supplì chain, Cedam, Padova, 2008.
84
pag. 69
scorte (inventory management), lo stoccaggio (warehousing) la movimentazione dei
materiali (materials handling) e il trasporto.
All’interno del canale distributivo le attività di distribuzione fisica possono essere
svolte da un produttore, un grossista o un dettagliante, oppure possono esser
affidate in outsourcing. Nel contesto della distribuzione, l’outsourcing è
l’assegnazione in appalto di compiti di distribuzione fisica a terzi, chiamati
diversamente operatori logistici. Gli operatori logistici (logistics service providers,
LSP)85 sono imprese che hanno competenze specifiche in determinati ambiti, quali lo
stoccaggio, il trasporto, il supporto con tecnologie informatiche (IT), la consulenza
logistica, ecc. I benefici dell’outsourcing a operatori logistici derivano dal fatto che
essi sono specializzati nelle attività che svolgono. La specializzazione, le economie di
scala, le economie di scopo e di apprendimento, comportano minori costi e maggiore
qualità di servizio. Costi più bassi e qualità alta vengono tradotti in un rapporto
qualità/prezzo migliore e, di conseguenza, in un maggior customer satisfaction.
Dal momento che può diminuire i costi e aumentare la customer satisfaction, la
pianificazione di un efficiente sistema di distribuzione fisica (pianificazione logistica)
ha importanza cruciale per lo sviluppo di un’efficace strategia di marketing. La
velocità di consegna, il servizio eccellente e l’affidabilità sono spesso tanti importanti
quanto i costi per i clienti. Le imprese che dispongono beni/servizi giusti, nel posto
giusto, al momento giusto, nella quantità giusta e con i servizi di supporto giusti
sono in grado di vendere più dei concorrenti che ne sono sprovvisti. Perciò, tempo,
spazio, quantità e qualità sono le variabili basilari della customer satisfaction. Per
esempio la FedEx (Federal Express), leader mondiale nel trasporto delle cose, offre
parecchi vantaggi in termini di servizio di consegna, quali tempi di consegna
predefiniti e garanzia di rimborso, possibilità di contattare gratuitamente il Servizio
Clienti FedEx in tutta Europa, documentazione di facile compilazione, imballaggi
gratuiti, sistemi di sdoganamento rapidi ed efficienti, monitoraggio avanzato in
tempo reale, pacchetti software gratuiti per le spedizioni, prova di consegna su tutte
le fatture86.
Oggi, le tecnologie dell’informazione sono la componente più importante degli
operatori logistici. Per esempio, lo stesso FedeEx offre il servizio FedEx Insight:
inserendo semplicemente una login ID creata appositamente per utilizzare il
programma, oppure il numero di lettera di vettura della spedizione, i clienti hanno
la possibilità di visualizzare lo status e il contenuto dei pacchi che verranno ricevuti
e che sono stati inviati, mentre questi sono ancora in viaggio.
L’offerta dei servizi logistici comporta fisiologicamente dei costi. Anche se i
responsabili della distribuzione fisica tentano di minimizzare i costi associati alla
gestione degli ordini, alla gestione delle scorte, alla movimentazione dei materiali,
allo stoccaggio e al trasporto, l’abbassamento di tali costi in un’area provoca spesso
un aumento degli stessi in un’altra. Alcuni autori definiscono il costo proporzionale
di ciascuna funzione della logistica come percentuale del costo di distribuzione
totale: trasporto 48%, stoccaggio 19%, tenuta delle scorte 23%, gestione degli ordini
6%, amministrazione 4 %.87 Un approccio alla distribuzione fisica basato sul costo
Per maggiori approfondimenti sul tema si consiglia: Cozzolino A, Operatori logistici, Cedam, Padova,
2009.
86 www.fedex.com, www.fedexemea.skillport.com.
87 Herbert W. Davis & Co, Logistics Cost and Service, Fort Lee, NJ, 2000.
85
pag. 70
totale permette ai manager di considerare la distribuzione fisica come un sistema
anziché come un insieme di attività non correlate. Questo approccio sposta
l’attenzione dalla riduzione dei costi separati delle singole attività alla
minimizzazione dei costi complessivi di distribuzione. I responsabili di logistica
devono essere attenti alla questione dei trade-off tra costi: ci può essere bisogno di
costi più alti in un’area funzionale in un sistema distributivo per ottenere costi più
bassi in un’altra. I trade-off comportano decisioni strategiche per aggregare (e
riaggregare) risorse allo scopo del miglior impiego delle stesse.
Un altro importante scopo della distribuzione fisica attiene alla riduzione del
tempo di ciclo, l’intervallo di tempo necessario per portare a termine un processo, in
questo caso quello logistico. Il tempo, in effetti, non deve essere considerato soltanto
nella fase della logistica di distribuzione, ma deve essere ottimizzato in tutte le fasi
della supply chain. Se esiste un ritardo ( un non just in time) nella distribuzione del
prodotto finito, probabilmente questo ritardo dipende anche dai tempi di
produzione (logistica di produzione o operations) e quelli di approvvigionamento
(logistica di approvvigionamento o inbound logistics) dell’impresa industriale. Ne
consegue che il focus sulla supply chain deve essere sistemico e deve abbracciare sia il
primo fornitore che l’ultimo distributore della catena di fornitura.
La riduzione dei tempi è una fonte di vantaggio competitivo. Moli corrieri
espressi che assicurano la consegna entro 24 ore, i principali news media e gli editori
di instant book, usano la riduzione del tempo di ciclo per acquisire un vantaggio
competitivo. Attraverso applicazioni di logistics management sul Web, le imprese sono
in gradi di ridurre fino al 33 per cento i tempi di ciclo e fino al 30 per cento le proprie
scorte. Per esempio, nel settore dei giocattoli il successo si incentra spesso sulle
capacità dei dettaglianti di prevedere quale sarà la prossima moda nel campo dei
giocattoli 6-12 mesi prima che il prodotto sia commercializzato. Questo fa si che il
dettagliante, una volta analizzati i bisogni, i desideri, e il trend del mercato, manda
un ordine al produttore, il quale, a sua volta al fornitore; così i tempi di ciclo si
riducono e il dettagliante ne uscirà con la merce pronta al mercato più velocemente
rispetto ai suoi concorrenti. Dal esempio precedente si deduce che il tempo deve
essere calcolato lungo tutta la catena di fornitura, altrimenti emerge il rischio dei
cosiddetti colli di bottiglia che rallentano il flusso dei prodotti indirizzati verso i
consumatori. I tempi rallentati aumentano la sensibilità dei consumatori e la loro
churn rate (il tasso di spostamento della domanda da un concorrente a un altro,
ovvero l’abbandono di un concorrente per un altro).
1.2 – La distribuzione commerciale come sistema
1.2.1 – Le componenti del sistema
Come tutti i sistemi anche la distribuzione, vista in quest’ottica, è dotata da una
struttura che, a sua volta, include delle componenti logico–fisiche. Le componenti
basilari della del sistema distribuzione commerciale sono il commercio, la
distribuzione, il sistema distributivo, le strutture commerciali, gli operatori
commerciali e i canali commerciali.
pag. 71
Da un punto di vista teorico è opportuno indicare secondo quali accezione si
usano i termini distribuzione e commercio al fine di disporre di alcuni strumenti
definitori sufficientemente circoscritti.
Il commercio rappresenta una categoria logica mediante la quale si esprime lo
scambio di merci e/o servizi. Si tratta di un evento ripetuto che contraddistingue le
relazioni tra imprese, evento configurato come scambio di qualche cosa.
La distribuzione, invece, è espressione delle modalità secondo le quali si effettua
lo scambio, ovvero il modo con il quale prodotti e servizi vengono ripartiti o
disposti.
Da un punto di vista economico–funzionale, possiamo dire che il commercio
consiste nella realizzazione di un efficiente collegamento tra produzione e consumo,
nel rendere cioè disponibili i beni di consumo nei luoghi, nei tempi e con le modalità
preferite dai consumatori88.
Tale funzione è presente in tutte le aziende industriali nella misura in cui esse
debbano approvvigionarsi della materia prima o del semilavorato e trasferire il
prodotto (finito o semilavorato) al mercato finale o intermedio.
La distribuzione riassume invece le scelte e le strategie che guidano “l’ideale
sentiero” che il prodotto deve percorrere per giungere sul mercato di consumo o di
utilizzo.
La funzione distributiva, fatta eccezione per le imprese caratterizzate da
integrazione verticale (riunificazione sotto un’unica proprietà di due o più anelli
della catena produttiva e/o distributiva che in genere si presentano separati) è
normalmente svolta da agenti esterni all’organizzazione produttiva, per cui essa non
è presente in tutte le aziende.
All’interno della distribuzione commerciale è possibile compiere un ulteriore
distinguo parlando di sistema distributivo, designandolo come “il trasferimento
fisico– economico–giuridico dei beni dalla produzione al consumo finale”89.
L’insieme delle unità decisionali e delle unità produttive di servizi che svolgono
in modo specialistico o generale una o più funzioni commerciali costituisce la
struttura commerciale.90
Ad ogni struttura commerciale corrisponde un certo mix di servizi, prezzi e merci
offerte ai consumatori. I soggetti che utilizzano le strutture distributive e regolano le
operazioni commerciali vengono indicati come operatori commerciali o
intermediari. Gli operatori commerciali sono soggetti che, all’interno del sistema
distributivo, svolgono le operazioni di scambio e governano le strutture
commerciali.
Le diverse combinazioni di intermediari commerciali che sezionano la via del
prodotto verso il compratore, rappresentano i canali commerciali. Il canale
commerciale fa riferimento ai diversi trasferimenti di proprietà che il prodotto
subisce prima di giungere al mercato finale.
Lugli G., Il commercio nell’economia italiana, Il Mulino, Bologna, 1978, pag.102.
Scott G. W., Santagostino M., Impresa e mercato: dispense del corso di tecnica delle ricerche di
mercato e della distribuzione generale, I.S.U., Università Cattolica, Milano 1984.
90 Cfr. Panati G., Lezioni A.A. 1983784, Università di Verona.
88
89
pag. 72
1.2.2 – Le strutture operative
Precedentemente abbiamo affermato che le strutture commerciali sono costituite
dall’insieme delle unità decisionali e delle unità produttive di servizi che svolgono in
modo specialistico o generale una o più funzioni commerciali. Potremmo aggiungere
ora che tali unità prendono anche il nome di imprese commerciali e che possono
essere ripartite in due grandi categorie.
Nella prima possiamo raggruppare le imprese che acquistano (da produttori o da
altri intermediari commerciali) per rivendere al consumatore o utilizzatore finale,
cioè le imprese di commercio al dettaglio.
Nella seconda categoria possiamo comprendere invece quelle imprese che
acquistano (sempre da produttori o da altri intermediari commerciali) per rivendere
a imprese al dettaglio, ad altre imprese intermediarie commerciali, a imprese di
produzione, a imprese di servizi, ad enti ed istituti. Sono tali le imprese di
commercio all’ingrosso.
I.Commercio e operatori al dettaglio
Come abbiamo delineato in precedenza il commercio al dettaglio è l’ultimo
anello della catena distributiva commerciale, quello direttamente legato al
consumatore o utilizzatore finale (famiglie, individui, imprese).
Secondo i criteri gestionali ed organizzativi possiamo distinguere tra piccolo
dettaglio o dettaglio tradizionale, e grande dettaglio o grande distribuzione
organizzata (GDO).
Nel dettaglio tradizionale la dimensione del business è assai contenuta e
l’organizzazione gestionale è quasi sempre in mano dello stesso imprenditoreproprietario, che si avvale spesso di strumenti estremamente semplici. In questa
categoria possiamo distinguere tra il dettaglio indipendente e la superette (minimarket).
Dettaglio indipendente. Nel dettaglio indipendente il criterio gestionale è quello
familiare (tipico del mercato italiano) con funzioni accentrate. Il business che viene
configurato è di dimensioni piccole e in prossimità al cliente. Il punto di vendita
generalmente è unico e le modalità di vendita sono quelle tradizionali.
Superette. La superette può essere definita come un esercizio prevalentemente
alimentare, con una superficie di vendita compresa fra i 200 e i 400 mq., fino a 1000
mq., avente caratteristiche analoghe al supermercato, ma con un assortimento e una
gamma di prodotti quantitativamente e numericamente inferiori, in rapporto alla
minore superficie di vendita.91
La superette è quindi una specie di supermercato alimentare caratterizzato da
dimensioni economiche, finanziarie, organizzative e fisiche, minori. Rispetto al
dettaglio indipendente la superficie di vendita della superette è maggiore, le
modalità di vendita sono quelle tradizionali ma con qualche elemento di libero
servizio, la gestione va da quella familiare a quella imprenditoriale e, infine, la
localizzazione prende sfumature che variano da quelle del negozio tradizionale
(prossimità al cliente) a quelle del supermercato. In sintesi, la superette è una via di
Ravazzi G., Le strutture commerciali in Italia: situazione e prospettive, F. Angeli, Milano, 1967, pag.
149.
91
pag. 73
mezzo tra il dettaglio indipendente e il supermercato. Un esempio al riguardo sono i
negozi Margherita Conad.
Ora passiamo al grande dettaglio o alla grande distribuzione organizzata. La
grande distribuzione organizzata (GDO), è l’evoluzione del commercio dal
dettaglio all’ingrosso. È composta da grandi strutture o grandi gruppi (in alcuni casi
multinazionali) con molte strutture distribuite su tutto il territorio nazionale,
internazionale o addirittura mondiale. Nel gergo tecnico si distingue tra strutture
della Grande Distribuzione (GD) e strutture della Distribuzione Organizzata (DO). Le
prime vedono grosse strutture centrali gestite da un unico soggetto proprietario, che
gestiscono punti di vendita quasi sempre diretti. Gli attori più importanti sul
mercato italiano sono sicuramente Carrefour, Auchan, Coop, Conad e Esselunga. Le
seconde vedono invece piccoli soggetti aggregarsi secondo la logica de l’unione fa la
forza: attraverso infatti l’adesione ai gruppi d’acquisto i piccoli e medi dettaglianti
possono ottenere agevolazioni economiche in termini di approvvigionamento,
derivanti dal maggior potere contrattuale nei confronti dell’industria da parte delle
centrali. Inoltre vi sono anche vantaggi conseguibili dallo sfruttamento del marchio e
dall’ottenimento di supporto in termini di know-how e coordinamento strategico. In
Italia i gruppi più importanti sono sicuramente Interdis, Selex, Sisa e Despar.
Ad integrare le due tipologie distributive vi sono, inoltre, le cooperative di
consumatori e le cooperative di dettaglianti. Le prime vedono nel principale attore
Coop Italia, mentre le secondo Conad, entrambe con sede a Bologna. Di norma i
sistemi cooperativi vengono comunque inseriti all’interno dei gruppi della Grande
Distribuzione.
In generale, in Italia la GDO soffre una notevole debolezza delle catene nazionali
che si trovano soverchiate dalla potenza dei colossi esteri, in particolar modo nei
settori discount e ipermercati, rispettivamente dominati da gruppi tedeschi e
francesi. Ne consegue anche una totale assenza di gruppi italiani nei mercati esteri,
mentre in Germania e Francia dominano le proprie catene nazionali. Nessun gruppo
italiano ha una diffusione capillare in tutto il Paese, ad eccezione delle cooperative di
consumatori Coop e di dettaglianti Conad. Oltre a Esselunga, attiva solo nel settore
supermercati, tra i gruppi nazionali si fanno notare anche Iper, Bennet e Panorama:
da notare che questi ultimi due si riforniscono dalla stessa centrale di acquisto
intermedia e si presentano in maniera estremamente simile, ma sono finora diffusi
capillarmente solo in aree limitate e diverse del Paese, senza mai farsi concorrenza;
un’eventuale loro fusione, similmente a quanto accaduto nello sviluppo delle catene
d’oltralpe, farebbe di questo gruppo il maggiore in Italia, anche davanti a Coop, ma
è una realtà abbastanza lontana dal concretizzarsi.
Le configurazioni commerciali, ossia i canali di vendita della GDO sono ampie,
perciò pare esigente elencare e analizzare brevemente le diverse forme espressive
della GDO.
Grandi magazzini. I grandi magazzini sono strutture commerciali operanti
prevalentemente nel campo non alimentare, di dimensioni grandi, che possono
oltrepassare una superficie di 30.000 mq, eventualmente ripartita su vari piani (si
pensi che un campo di calcio misura da 8.000 a 8.500 mq).
pag. 74
In Italia il primo grande magazzino sorse nel 1899 a Milano, col nome “Alle città
d’Italia”; dopo un incendio risorse col nuovo nome “La Rinascente”, assegnatoli da
Gabriele D’Annunzio.
La caratteristica principale di queste strutture è la combinazione logistica di
parecchie decine (talvolta centinaia) di reparti che pongono in vendita merci e servizi
diversi. I servizi collaterali all’acquisto hanno assunto un ruolo determinante
nell’attività dei grandi magazzini: al loro interno si sono infatti inseriti ristoranti,
agenzie viaggi, sportelli bancari, sale per la custodia dei bambini, ecc. Si potrebbe
dire che i grandi magazzini hanno non sono semplici punti di vendita (point of sale),
ma anche punti di intrattenimento (point of entertainment).
Ipermercato. Un ipermercato è un’area attrezzata per la vendita al dettaglio con
superficie di vendita superiore ai 2.500 metri quadrati. Con l’aumento esponenziale
delle superfici degli ipermercati, questi sono oggi stati suddivisi in sotto-categorie:
dai 2.500 ai 4.000 mq si parla di “mini-iper”, tra i 4.000 e i 10.000 mq si parla di
ipermercati propriamente detti, oltre i 10.000 mq si parla di grandi ipermercati (o
megastore). Il format mini-iper si sovrappone parzialmente per metratura al format
superstore (1.500-3.000/3.500 mq): a differenziare i due formati è il differente peso e
articolazione del settore non food.
L’ipermercato si contraddistingue per l’ampio assortimento di scelta ed è
composto di generi alimentari e non. Italia ne sono esempi Auchan, Carrefour,
Cityper Sma, Ipersidis, ecc. Se l’ipermercato vende solamente prodotti alimentari e
detersivi viene definito “iperalimentare”. Nella tendenza attuale si vanno
sviluppando assortimenti con beni di consumo semidurevoli (non food), quali
prodotti di elettronica come impianti stereo, televisioni, radio, elettrodomestici,
computer, oggetti legati alla telefonia, ecc. Spesso nella struttura è compreso anche
un rilevante numero di altri negozi (galleria) che offrono assortimenti differenziati
per qualità o prezzo. In tale caso si parla di centro commerciale o outlet.
Supermercato. Un supermercato è un punto vendita al dettaglio a libero servizio di
prodotti di largo consumo con una superficie compresa tra 400 mq e i 2.500 mq.
Oggigiorno nei supermercati si vendono non soltanto prodotti alimentari, ma anche
alcuni altri generi, quali cosmetici e farmaci non soggetti a prescrizione medica
(farmaci da banco).
Il fatturato è il principale indicatore della dimensione di un supermercato e della
sua capacità di “fare massa” (massa critica), per avere un forte potere contrattuale
(rilevanza in termini di influenza sistemica) verso i fornitori e ottenere prezzi più
bassi.
Per l’elevato afflusso di liquidità, si è pensato di abbinare l’attività dei
supermercati a quella bancaria. Gli incassi divengono in parte depositi della banca,
che servono ad espandere il credito con riserva frazionaria92. Un solido esempio è la
Unipol e la Lega delle Cooperative.
All’interno di un gruppo di società, il supermercato fornisce la liquidità
necessaria a pagare i salari, fornitori e gli altri costi, riducendo il ricorso a
La riserva frazionaria è la percentuale dei depositi bancari che per legge la banca è tenuta a
detenere sotto forma di contanti o di attività facilmente liquidabili. Tale riserva è l’insieme delle poste
contabili che, in percentuale rispetto ai depositi, un istituto di credito non può erogare.
92
pag. 75
temporanei indebitamenti con le banche per il pagamento delle spese correnti (indice
di una gestione negativa dell’impresa). In questo senso aumenta l’autonomia
finanziaria di una società.
Ne sono esempi di supermercati che operano in Italia insegne quali Sidis, Pam,
SISA, Conad, Despar, ecc.
Discount store. Il discount è un punto vendita al dettaglio a libero servizio di
prodotti di largo consumo con una superficie quasi sempre inferiore ai 1.000 mq, ad
assortimento ristretto.
Il sistema distributivo del discount è nato in Germania subito dopo la seconda
guerra mondiale. Oggi, alcuni leader tedeschi sono Lidl (operativo anche in Italia sin
dal 1992) e ALDI.
Come indicato dal nome stesso, il discount è un punto vendita all’interno del
quale è possibile trovare merce a prezzi più bassi rispetto ad analoghi prodotti
venduti in altre tipologie di negozi. Rispetto ai dettaglianti tradizionali i discounter
accettano margini commerciali più contenuti in cambio di un grande volume di
vendita. Tale caratteristica viene perseguita dal punto vendita attraverso precise
scelte commerciali, che possono essere: minor assortimento, vendita di marchi
commerciali meno conosciuti, abbattimento dei costi per il personale e per
l’allestimento, abbattimento delle quote di guadagno percentuale (con l’obiettivo di
aumentare il guadagno complessivo puntando al volume di vendita), ottimizzazione
dei sistemi di distribuzione e di approvvigionamento.
Sebbene in massima parte il discount punti alla vendita di prodotti alimentari,
esistono discount specializzati anche in altri settori (elettrodomestici, casalinghi,
attrezzature sportive, ecc.).
Le principali strutture operative discount in Italia sono Eurospin, Lidl Italia, In’s
Mercato (azienda del Gruppo PAM), ecc.
Superstore. I superstore, nati in Europa, sono punti di vendita al dettaglio giganti
che offrono prodotti alimentari e non. Questi centri combinano caratteristiche dei
discount store, dei supermercati e degli ipermercati. Ne sono esempi i Wal-Mart
Supercenters. Nella realtà italiana, invece le prime imprese ad usare il nome
“superstore” sono state Sma e Standa, ma la catena che ha sviluppato questo format,
in maniera precisa, è stata Esselunga. In Italia la quota di mercato complessiva, nella
GDO, dei supersotre è pari al 6,8%.
Nei superstore, il contenuto dei prodotti è simile a quello dei supermercati ma,
quantitativamente, con un numero di articoli pari al quadruplo.
La superficie può coprire un’area fino a 20.000 mq.
Magazzino showroom. Un magazzino showroom è un punto vendita al dettaglio
con cinque caratteristiche fondamentali: edifici grandi di basso costo; tecnologia di
movimentazione dei materiali di magazzino; display verticali delle merci; grandi
scorte nei locali del punto vendita e servizi minimi. L’IKEA, azienda svedese, è un
esempio mondiale di questa categoria.
I prezzi offerti alla clientela sono bassi e sono dovuti ai bassi costi. La riduzione
dei costi si deve al fatto che alcune funzioni, quali il trasporto e a volte persino
l’immagazzinamento della merce, sono state trasferite ai consumatori; la maggior
pag. 76
parte di loro portano via la merce acquistata nell’imballaggio del produttore, anche
se i punti vendita eseguono consegne a pagamento.
II.Commercio e operatori all’ingrosso
La legge del 11 giugno 1971 n.426, abrogata poi dal Decreto legislativo del 31
marzo 1998 n.114, definisce grossista “chiunque professionalmente acquista merci a
nome e per conto proprio e le rivende o ad altri commercianti grossisti o dettaglianti,
o ad utilizzatori professionali, o ad altri utilizzatori in genere”.
Le caratteristiche di una transazione grossista non attengono solo alla quantità
acquistata, ma alla finalità di chi effettua l’acquisto, ai diversi metodi di vendita
applicati, all’ampiezza del territorio servito, all’assortimento dei prodotti trattati, al
prezzo per unità di prodotto. “Pertanto la diversa destinazione dei beni, in quanto
diverse le motivazioni di chi effettua l’acquisto, può assumersi senza dubbio come il
più qualificante carattere distintivo tra commercio al dettaglio e commercio
all’ingrosso”. 93
Nella categoria delle imprese all’ingrosso si comprendono, per la sostanziale
identità funzionale-commerciale, le imprese di import-export e i concessionari
contraenti in proprio, poiché entrambe queste categorie si assumono le funzioni di
compravendita dei beni svolgendo tutte o gran parte delle funzioni di
commercializzazione connesse.
In quanto non attuano il trasferimento fisico e/o della proprietà dei beni
commercializzati non si considerano grossisti i concessionari che operano in nome
proprio ma per conto di un terzo committente, i broker, i mediatori, gli agenti
rappresentanti, le agenzie di vendita o di acquisto, i commissionari, le imprese di
trasporto e quelle di puro deposito. Tutte queste figure sono infatti dei puri e
semplici sussidiari delle attività commerciali, che svolgono anche alcune delle
funzioni di commercializzazione , ma mai quelle fondamentali di compravendita.
Per lo stesso motivo, non si considerano nemmeno le imprese di produzione e
quelle di commercio al dettaglio che integrano le proprie funzioni con quelle tipiche
dell’intermediazione grossista; l’integrazione fa si che si violi il principio di
autonomia giuridica ed economica di ogni singola impresa intermediaria.
Esposte le linee definitori del commercio all’ingrosso, nasce l’esigenza di
conoscere e classificare gli operatori principali grossisti. I grossisti sono classificati
secondo vari criteri. Il fatto che un grossista sta sia di proprietà di un operatore
indipendente oppure di un produttore ne influenza la classificazione. Perciò i
grossisti possono essere raggruppati a seconda che acquistano o no il titolo di
proprietà dei prodotti che trattano. Un altro criterio usato per la classificazione è la
gamma di servizi forniti. Infine, i grossisti possono essere classificati secondo
l’ampiezza e la profondità delle loro linee dei prodotti. Usando questi criteri ne
Cfr. Sicca L., Ricerche di marketing e distribuzione commerciale, Cedam, Padova, 1967, pag. 228;
Garrone N., La scienza del commercio, Vallardi, Milano, 1922, pag. 364-369; Amaduzzi A., Ragioneria
applicata alle aziende mercantili operanti all’ingrosso, Cacucci, Bari, 1950, pag.16; Caprara C.,
Economia delle imprese commerciali. I principi, Giuffré, Milano, 1975, pag. 121; Fabrizi C., Aziende e
strutture della distribuzione commerciale, Cedam, Padova, 1966, pag. 120; Stiassi P., Il grossita, Il
Mulino, Bologna, 1972, pag. 8 e segg.
93
pag. 77
escono fuori tre tipologie di grossisti: grossisti indipendenti, agenti e broker, filiali e
uffici vendite dei produttori.
Grossiti indipendenti. I grossisti indipendenti sono imprese autonome che
acquisicono il titolo di proprietà dei beni che trattano, assumendo i rischi associati
alla proprietà, e che generalmente acquistano e rivendono quei beni ad altri grossisti,
a clienti business o a dettaglianti. Questa categoria di grossisti contiene due
sottocategorie: grossisti a servizio completo e grossisti a servizio limitato.
I grossisti a servizio completo coprono la gamma più ampia possibile di funzioni
d’ingrosso. I clienti si rivolgono a loro per la disponibilità dei prodotti, gli
assortimenti appropriati, l’assistenza finanziaria, consulenza, suddivisioni di grandi
quantità in quantità più piccole. In questa sottocategoria di grossisti abbiamo:




grossisti generalisti (despecializzati) i quali trattano un ampio mix di articoli
ma offrono una profondità limitata all’interno delle linee di prodotti;
grossisti a linee limitate che trattano soltanto alcune linee di prodotti, ma
offrono un ampio assortimento di articoli all’interno di ciascuna linea;
grossisti specializzati che offrono la gamma di prodotti più ristretta, di solito
un’unica linea di prodotti o un numero limitato di articoli all’interno di una
linea di prodotti;
rack jobber i quali sono grossisti a servizio completo specializzati che
possiedono e mantengono espositori e scaffali (display rack) in supermercati,
farmacie, discount store e variety store (punti di vendita di merci diverse a basso
prezzo). I rack jobber allestiscono display, marchiano le merci, riforniscono gli
scaffali e mantengono la documentazione sulle fatture e sulle scorte; i
dettaglianti devono fornire soltanto lo spazio.
I grossisti a servizio limitato invece sono specializzati soltanto in alcune
funzioni. Le funzioni restanti sono svolte dai produttori. I grossiti a servizio limitato
acquisiscono il diritto di proprietà delle merci ma spesso non si occupano della loro
consegna, non concedono crediti, non forniscono informazioni di marketing, non
stoccano scorte e non pianificano riguardo le esigenze future dei clienti. Anche
questa sottocategoria di grossista indipendente comprende una propria
classificazione:



grossisti cash & carry i quali sono intermediari i cui clienti – quasi sempre
piccole imprese – pagano in contanti e provvedono autonomamente al
trasporto delle merci acquistate. Loro trattano di solito una linea limitata di
articoli con un elevato tasso di avvicendamento: prodotti grocery, materiali
edilizi, materiali elettrici e forniture per uffici.
grossisti con consegna al punto vendita i quali trasportano una linea ristretta di
prodotti direttamente ai punti vendita dei clienti. Si tratta spesso di piccoli
operatori che guidano personalmente i propri autocarri, percorrono tragitti
fissi, visitando dettaglianti e altri clienti per determinare i bisogni e riceverne
gli ordinativi.
grossisti per corrispondenza che impiegano cataloghi anziché rappresentanti per
vendere prodotti a dettaglianti e acquirenti business. L’ingrosso per
corrispondenza consente agli acquirenti di scegliere e ordinare particolari
articoli su catalogo e di riceverli attraverso vari corrieri (FedEx, UPS, ecc.).
pag. 78
Agenti e broker. Gli operatori di questa categoria negoziano gli acquisti e facilitano
le vendite ma non acquistano il titolo di proprietà dei prodotti. Questi operatori, noti
anche come intermediari funzionali, svolgono un numero limitato di servizi in
cambio di una provvigione, basata generalmente sul prezzo di vendita del prodotto.
La differenza sostanziale tra agente e broker consiste nel fatto che gli agenti
rappresentano gli acquirenti o i venditori su base permanente, mentre i broker sono
intermediari che gli acquirenti o i venditori impiegano temporaneamente.
Filiali e uffici di vendita dei produttori. Questa è l’ultima categoria dei grossisti
derivata dai nostri criteri di classificazione. Le filiali e gli uffici di vendita dei
produttori, detti anche grossisti dei produttori, svolgono attività simili a quelle dei
grossisti indipendenti.
Le filiali di vendita sono intermediari di proprietà del produttore che vendono
prodotti e forniscono servizi di supporto alla forza vendita del produttore stesso. Le
filiali di vendita. Queste filiali, ubicate lontano dall’impianto produttivo e
generalmente presso i clienti più importanti, o laddove la domando è più alta,
offrono servizio di credito alla clientela, forniscono assistenza promozionale alla
forza vendita del produttore, forniscono il servizio di consegna dei beni, ecc.
Gli uffici di vendita, di proprietà del produttore, forniscono servizi normalmente
associati agli agenti. Sono localizzati lontano dagli impianti produttivi, come le filiali
vendite, ma, a differenza di queste, non sono dotati di scorte.
1.3 – Il nuovo contesto della distribuzione: l’Internet
Per designare le attività di marketing e le transazioni commerciali su Internet
sono stati coniati numerosi termini. Uno di quelli usati più frequentemente è
commercio elettronico (e-commerce), che è stato definito come «la condivisione di
informazioni commerciali, il mantenimento di relazioni commerciali e la conduzione
di transazioni commerciali mediante reti di telecomunicazioni»94.
Concentrando l’attenzione sulle attività della distribuzione, l’Internet può essere
considerato come un nuovo canale di distribuzione. Da strumento, nella sua fase
embrionale per il commercio, oggi, l’Internet è una vera e propria tecnica (sistema in
via di compimento) e a breve si qualificherà come metodo commerciale a tutti gli
effetti (sistema compiuto).
Nei nostri giorni va aumentando il numero delle imprese che sfruttano i
progressi della tecnologia dell’informazione (IT) per sincronizzare le relazioni tra i
propri impianti di produzioni o di assemblaggio dei prodotti e le operazioni di
contatto con la clientela. Questo aumento della condivisione di informazioni
(information sharing) tra varie operazioni dell’impresa facilita la personalizzazione
(customization) dei prodotti. Le imprese sono in grado di utilizzare i propri siti Web
per interrogare i clienti sui loro bisogni e poi creare i prodotti/servizi che soddisfano
esattamente quei bisogni. Per esempio, la Gateway (www.gateway.com) e la Dell
Computer (www.dell.com) aiutano i propri clienti a costruire i loro computer
Zwass V., “Electronic Commerce: Structures and Issues”, International Journal of Electronic
Commerce, Fall 1996, pag. 3-23.
94
pag. 79
chiedendo loro di specificare quali componenti includere; poi queste imprese
assemblano il prodotto secondo le esigenze del cliente e dopo qualche giorno
spediscono direttamente al clinete il prodotto personalizzato.
Datto che la distribuzione fisica diverge per come svolge i suoi processi dalla
distribuzione commerciale, è facilmente intuibile che le modalità di usufruire
dell’Internet cambiano per i due tipi di distribuzione.
Trattando ora della distribuzione fisica o logistica di distribuzione, ricordiamo che
appartengono alla distribuzione fisica le scelte riguardanti la dislocazione degli
impianti, dei magazzini e dei punti vendita, la quantità di scorte da tenere in
magazzino, la quantità e il tempo delle ordinazioni e tutte le decisioni che
riguardano il movimento fisico di materie prime e beni che si misurano in termini di
tempo e di spazio: tempo e spazio sono dunque gli elementi caratterizzanti la
distribuzione fisica. Considerando che tempo e spazio sono gli elementi essenziali
della distribuzione fisica, allora optare per una logica customer satisfaction bisogna
trovare il modo di aumentare l’efficienza spaziale-temporale. Il miglior mezzo
conosciuto sino ad ora è Internet. L’Internet è una rete globale che attraversa i confini
geografici (efficienza spaziale), è disponibile 24 ore su 24 ed offre una comunicazione
e un’interazione real-time (efficienza temporale). D’altronde i costi di contatto tra i
vari operatori sono bassi (efficienza economica).
Nel caso in cui la logistica di distribuzione avviene tramite Internet si tratta di
logistica elettronica di distribuzione (e-logistics di distribuzione). Una possibile
definizione di E-logistics95 potrebbe essere l’insieme dei processi necessari per il
trasferimento delle merci vendute su Internet verso i consumatori96.
Un altro aspetto importante di E-logistics (per il produttore) è l’eliminazione o la
riduzione del numero degli intermediari, quali grossisti e dettaglianti e di alcuni
operatori logistici (logistics service providers). Comunque l’eliminazione o la riduzione
di alcuni players tradizionali per chi sfrutta Internet si è bilanciato con l’emergere dei
players innovativi. Questa è una deriva fisiologica dal momento che un contesto
viene sostituito con un altro, perciò più che di eliminizaione di intermediari si
tratterebbe, in una certa misura, di sostituzione degli stessi. Questi nuovi
intermediari sono importanti per le imprese perché offrono un’ampia gama di
servizi specializzati basata sulla tecnologia dell’informazione.
Alro aspetto rilevante è quello del miglioramento della gestione della
distribuzione utilizzando intermediari on-line.
Prendiamo
l’esempio
della
Descartes
Global
Logistics
Network
(www.descartes.com). La figura seguente rappresenta una sintesi della Descartes
network.
In questa sede, per semplicità, intendiamo per E-logistics soltanto la logistica elettronica di
distribuzione, poiché il termine di logistica ha un significato più ampio e comprende anche
l’approvvigionamento e le operazioni di produzione.
96
Auramo J., Aminoff A., Punakivi M., Research agenda for e-business logistics on professional
opinions: International Journal of Physical Distribution & Logistics Management, 2002; 32, 7;
ANI/INFORM Global.
95
pag. 80
Figura 20 – Descartes Global Logistics Network
Fonte: descartes.com
I produttori (manufacturers) possono utilizzare la Descartes network per
relazionare insieme i sistemi di ordinazione della produzione con quelli di controllo
delle vendite in modo tale di avere in un panorama unico produzione e
distribuzione. Questo sistema informativo basato sul Web aiuta i responsabili
logistici di prendere decisioni logistiche proattive. I vantaggi principali sono le
informazioni logistiche real-time e la riduzione dei costi logistici. A tal riguardo così
si esprime Tim Hossack (Executive Director of Supply Chain, Coca-Cola Korea
Bottling Company): “With Descartes, we reduced out-of-stocks while increasing delivery
capacity by 13%. We now have better customer service and our costs are down.”97
Ora spostiamo il focus sulla distribuzione commerciale via Internet, in particolare
sul commercio al dettaglio online.
Se nella distribuzione fisica tramite Internet abbiamo utilizzato il termine elogistics di distribuzione, nel caso della distribuzione commerciale su Internet
utilizzeremo il termine e-commerce o commercio elettronico. La guida pubblicata
dal Forum Italiano sul Commercio Elettronico, con il Patrocinio del Ministero
dell’Industria, definisce l’e-commerce come: «ogni iniziativa a supporto dell’attività
commerciale di un’azienda che venga svolta sulla rete Internet»; il commercio
elettronico non si limita pertanto alla sola fase di vendita di beni e servizi. Le
imprese che operano con l’e-commerce si rivolgono ad un’utenza dislocata in ogni
parte del mondo.
97 Per un approfondimento del caso di studio si faccia riferimento al link seguente:
http://www.descartes.com/resources/case_studies/coke_korea.pdf
pag. 81
I modelli di e-commerce variano ma sono sostanzialmente tre:
 B2B (Business to Business) in cui sia il venditore che l’acquirente sono
imprese. I risparmi di tempo nel processo degli ordini vanno dal 50 al 90%. Il
B2B produce circa l’80% del volume d’affari dell‘e-commerce;
 B2C (Business to Consumer) in cui il venditore è un’impresa e l’acquirente un
privato. Il B2C è la forma più pubblicizzata del commercio elettronico. Può
essere considerato come un’evoluzione della tradizionale vendita per
corrispondenza con la differenza che il catalogo da consultare è elettronico,
più o meno ricco a seconda del sito o dei beni/servizi che l’azienda propone.
Il compratore, entrando nel negozio virtuale, può visionare i prodotti e
ricevere informazioni più o meno dettagliate: alcuni siti presentano dei filmati
descrittivi della merce, indicano la disponibilità del prodotto e i tempi di consegna. Una volta fatta la scelta, il compratore deve compilare un modulo con i
suoi dati e gli estremi della carta di credito. Se tutto procede secondo il
percorso standard, l’operazione si conclude con l’arrivo a casa del
compratore, nei tempi previsti, della merce ordinata;
 C2C (Consumer to Consumer) in cui sia il venditore che l’acquirente sono
consumatori. L’esempio più tipico è dato dalle aste on-line (esempio classico è
quello di eBay), nelle quali un sito Internet offre lo spazio che permette la
compravendita, senza intervenire nella transazione vera e propria.
Uno dei membri più visibili di ogni canale di marketing è il dettagliante e
Internet sta diventando sempre più un punto di vendita al dettaglio. Questo
strumento potente offre ai produttori di qualsiasi prodotto, dai computer alle
prenotazioni dei viaggi, l’opportunità di promuovore gli scambi. Per esempio,
Amazon.com ha venduto nel 2001 libri, CD, DVD, VHS, giocattoli, giocchi ed
elettronica per più di 3 miliardi di dollari. Un’altra attività di vendita al dettaglio è
rappresentata dalle case d’asta online, quali eBay (www.ebay.com) e
BargainAndHaggle.com (www.bargainandhaggle.com), che vendono all’asta ogni
cosa, dai prodotti di arte e antiquariato ai prodotti di elevato contenuto tecnologico.
La vendita al dettaglio tramite Internet sta manifestando nuove sfumatture di
intermediazione che Strauss e Frost ragruppano in tre grandi categori98:
o la disintermediazione. La disintermediazione è quel fenomeno che si osserva
quando i tradizionali canali di distribuzione e vendita di un
prodotto/servizio vengono scavalcati, principalmente grazie all’uso delle reti
informatiche (Internet). Il concetto di disintermediazione acquisisce
particolare rilevanza nell'ambito del lavoro sociale in ambito di web 2.0. Non
esendo più indispensabili gli intermediari, si fa ricorso alla vendita diretta via
Internet.
o la re-intermediazione. La re-intermediazione può essere definita come la
reintroduzione di un intermediario tra consumatore e produttore. Questa è
una modalità di intermediazione nata per risanare le inefficenze derivanti
dalla disintermediazione. Vendere direttamente online ha il suo costo: creare
e sviluppare siti web di qualità, mantenere informazioni disponibili e
aggiornate sui prodotti/servizi, effettuare spese di marketing. Per i
98
Strauss J., Frost R., E-marketing, Upper Saddle River, Prentice Hall, 2001.
pag. 82
produttori, i limiti risiedono nel ciclo risorse-capacità-competenze riferito alla
creazione e alla gestione dei rapporti virtuali diretti con i consumatori. Il
superamento di tali limiti è avvenuto con i nuovi intermediari che popolano il
contesto virtuale, quello online. Esempi di successo di questi intermediari
sono Amazon e eBay.
o l’infomediazione. La perdita del contatto fisico che comporta la
disintermediazione contribuisce all’emergere di un nuovo bisogno, quello di
informazione. Da qui la comparsa di una nuova figura di intermediari intorno
alla gestione dell’informazione, gli infomediari. Un infomediario lavora come
agente personale di uno o più consumatori in modo da aiutarli di avere
controllo sull’informazione posseduto (tramite diverse tecniche online, come i
cookie per esempio) su di loro da commercianti e pubblicitari. Il concetto di
infomediario è stato coniato per la prima volta dai consulenti di McKinsey e
professori John Hagel e Marc Singer, nel loro libro NetWorth99. Diversamente
dagli intermediari classici che ritrasmettono il messaggio dei fabbricanti al
fine di condividere i margini generati, gli infomediari cpovolgono il processo,
mettendosi al servizio del cliente e risolvendo problemi di asimetria
informativa (garanzia di qualità sui produttori, informazione pertinente e non
tendenziosa, ecc.).
Per quanto riguarda il commercio all’ingrosso via Internet questo è meno visibile
ma di forte sostanza. Navigando su Internet si possono trovare diversi siti Web
riferenti al commercio all’ingrosso. Per esempio, il sito Web www.grossista.info offre
una vasta informazione sui grossisti mettendo a disposizione anche un elenco da
consultare per chi è interessato a commercializzare. Oltre a ciò il sito offre vari
servizi per grossisti e la possibilità di comprare direttamente on-line dai grossisti
presenti nell’elenco; nel caso mancasse il grossista desiderato si può aggiungere
dagli stessi utilizzatori del sito, lasciando sottintendere che questo sito si comporta
anche come un open source software offrendo un margine di interattività elevata.
99
Hagel J., Singer M., NetWorth, Harvard Business School Press, 1999.
pag. 83
pag. 84
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