NFD n. 4 - Nuove Frontiere del Diritto

NUOVE FRONTIERE DEL DIRITTO
SPECIALE CIVILE
L'apparentia iuris: principi e ricadute pratiche
SPECIALE PENALE
La violenza intrafamiliare ed i maltrattamenti subdoli
Il caso Scientology per la giurisprudenza italiana e comunitaria
SPECIALE AMMINISTRATIVO
Liberalizzazioni, semplificazioni e privatizzazioni
ALL’INTERNO INTERVISTA A
Prof. Silvano Fuso in merito al C.I.C.A.P.
- Centro Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul
Paranormale-
Rivista telematica giuridico-scientifica
Anno 2012
Aprile
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 1
La rivista telematica "Nuove frontiere del diritto" nasce dalla intuizione di alcuni studenti (ora
divenuti magistrati, alti funzionari, professionisti ed avvocati) di dar vita ad una piattaforma
culturale globale e senza fini di lucro, in cui far confluire contenuti non solo strettamente
giuridici, ma anche di attualità.
La cronaca giudiziaria infatti ha assunto ormai un ruolo predominante nella informazione
quotidiana e troppo spesso si assiste al fenomeno per cui i processi si volgono prima in
televisione che in tribunale.
Ciò rappresenta un evidente corto circuito logico, cui ci si deve opporre prima come
cittadini che come giuristi.
Per tale ragione la rivista ha inserito nel suo comitato scientifico non solo giuristi di
eccellenza, ma anche importanti firme giornalistiche di operatori del settore, con la
precipua finalità di fornire contributi obiettivi e giuridicamente comprensibili non solo
all'operatore del diritto, ma anche a qualsiasi lettore che per la prima volta si approcci al
mondo del diritto.
La parte più strettamente giuridica della rivista si compone di numerose sezioni didattiche di
alto profilo (pubblicazione di temi, pareri, saggi giuridici, note a sentenze) scritte sempre con
un occhio attento al lettore: prima che spiegare, si vuole insegnare. Insegnare al lettore a
ragionare in primo luogo sulle disposizioni, per poi valutare il risultato ermeneutico con la
giurisprudenza e la dottrina. Per tale ragione i contributi, quindi, non rappresentano sterili e
sterminati resoconti dottrinali e giurisprudenziali (tanto di moda oggigiorno), ma analisi
condotte sul piano logico-normativo.
Si e' inoltre scelto di includere tra i collaboratori anche studenti e ricercatori, non ancora
arrivati al culmine della loro carriera, ma che hanno dimostrato di essere validi giuristi sulla
base di una attenta selezione. Non bisogna infatti dimenticare che il superamento di un
concorso, per quanto importante, non conferisce da solo il crisma delle bravura e,
soprattutto, che l'errore peggiore che può commettere un giurista e' quello di ritenere di non
aver più nulla da imparare.
"Nuove frontiere del diritto" e' dunque una rivista che, pur affiancata ed integrata da un
comitato scientifico di eccellenza, nasce dalla base, perché tutti sono partiti dalla base.
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 2
In occasione del trasferimento della rivista dalla piattaforma forum free alla piu' ambiziosa
piattaforma http://www.nuovefrontierediritto.it non ci si può esimere dal fornire ai lettori le
motivazioni di tale scelta.
La spiegazione di tale decisione risiede nel noto brocardo "memento audere semper". Nella
vita, infatti, non ci si deve mai scordare di osare, di credere nei propri ideali e di non
rinunciare mai ad essi.
Per tali ragioni si e' deciso, terminata la fase sperimentale, di ingrandire il progetto al fine di
conferirgli una maggior diffusione negli ambienti scientifici e, soprattutto, di dotarlo di una
piattaforma multimediale in grado di soddisfare le esigenze del lettore, senza perdere le due
caratteristiche principali della rivista: l'indipendenza e la gratuità.
Il progetto e' stato possibile grazie a numerosi collaboratori, giuristi e non giuristi, i quali,
gratuitamente, hanno contribuito, mattone dopo mattone, a costruire questo immenso
edificio. Ci auguriamo che i lettori continuino a seguirci, contribuendo in tal modo a far
crescere l'ambizioso progetto.
Un sentito ringraziamento va al dott. Riccardo Scannapieco, il quale ha instancabilmente e
con grande professionalità lavorato per rendere possibile il passaggio alla nuova
piattaforma.
Federica Federici
Samantha Mendicino
Davide Nalin
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 3
Fondatore: Federica Federici
Direzione: Federica Federici e Davide Nalin
Coordinamento e redazione: D.ssa Federica Federici – Davide Nalin (magistrato) – Avv.
Samantha Mendicino
Comitato scientifico: Davide Nalin (magistrato) - Massimo Marasca (magistrato) - D.ssa
Federica Federici - Fabiana Rapino (magistrato) – Prof. Avv. Carlo Pilia - Avv. Samantha
Mendicino - Avv. Domenico Salvatore Alastra - Barbara Carfagna (giornalista) - Avv. Luigi
Caffaro - Avv. Alessia Canaccini - Luca Marzullo (magistrato)
Hanno collaborato alla rivista del mese: - Avv. Tommaso Migliaccio - Avv. Angela Quatela
Avv. Barbara Carrara - Avv. Lucia Marra – Avv. Danila D’Alessandro – D.ssa Maria Luisa
Pignatelli - Paola Lena (scrittrice) - Dott. Michele Molinari (funzionario Direzione Regionale
Toscana dell'Agenzia Entrate - Settore controlli, contenzioso e riscossione) - Pietro Algieri Donatella Rocco - D. ssa Rosalia Manuela Longobardi - Donatella Rocco - Avv. Martino
Modica – Paola Lena
Nuove frontiere del diritto è on line
www.nuovefrontierediritto.it
Nuove frontiere del diritto ha un Gruppo Facebook, una pagina Facebook ed una
pagina Twitter (@RedazioneNfd)
L'e-mail è [email protected]
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Pag. 4
NUOVE FRONTIERE DEL DIRITTO
SOMMARIO
La posta – Lettere alla redazione
A lezione di… D. Civile
A lezione di... D. Penale
A lezione di... D. Amministrativo
A lezione di... D. Tributario
La scheda
Concorsi - Abilitazioni (1)
Eserciziario (2)
Massimario Diritto Civile - Penale ed Amministrativo (3)
Focus
Normativa
Il Caso
Criminologia del Nuovo Millennio
Oltre il mio nome
Le frontiere della mediazione
Convivenza uomo-animale
Il brocardo del mese
Spigolature
Recensioni e novità editoriali (4)
Rassegna stampa
Eventi e Convegni (5)
LICEO A LUCI ROSSE - Il feilleuton di Paola Lena – IV Capitolo
1
da questo mese
le
relative Rubriche
si troveranno sul sito ufficiale
www.nuovefrontierediritto.it
2
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Pag. 5
INDICE
La posta - Lettere alla redazione
pag. 4
A lezione di...
DIRITTO CIVILE

Quando, per la tutela della giustizia sostanziale, "ciò che non è" vale per "ciò
che è". Il sommario

pag. 11
L'apparenza del diritto: nozione e funzione (Angela Quatela)
pag. 12

Apparenza pura ed apparenza colposa. Specifica di alcune ipotesi
applicative:
rappresentante
apparente,
apparente, erede apparente (Lucia Marra)

creditore
pag. 16
pag. 33
Il ruolo dell'apparentia iuris nell'istituto del mandato e della simulazione
(Samantha Mendicino)

procurator,
Il principio dell'apparenza del diritto nei rapporti condominiali (Alessia
Canaccini)

falsus
pag. 38
La società apparente (Danila D'Alessandro)
pag. 41

L’apparenza nel diritto processuale: errore del Giudice e rimedi impugnatori
(Maria Luisa Pignatelli)
pag. 49
DIRITTO PENALE

Il nemico in casa: la violenza intrafamiliare ed i maltrattamenti subdoli
(Barbara Carrara)

pag. 53
Il fenomeno della "magia" nel diritto penale: i termini dell'odierna analisi
(Federica Federici)
Nuove frontiere del diritto
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pag. 75
Pag. 6
Il caso Scientology per la giurisprudenza italiana e comunitaria (Federica

Federici)
pag. 77
DIRITTO AMMINISTRATIVO

Semplificazione, liberalizzazione e privatizzazione "nomina sunt consequentia
rerum". Il sommario6
pag. 91
Semplificazione, liberalizzazione e privatizzazione: inquadramento generale

(Davide Nalin)
pag. 92

Il fenomeno delle privatizzazioni (Donatella Rocco)
pag. 94

Il fenomeno delle liberalizzazioni (Davide Nalin)
pag. 100

Il fenomeno della semplificazione (Davide Nalin)
pag. 111
Diritto tributario
L’Accertamento con adesione: quest’oggetto (quasi) misterioso

(Michele Molinari)
pag. 117
La scheda

Combinazione di beni. Il regime delle aree parcheggio (Massimo Marasca)
pag. 127
6
N.B.: la trattazione in materia di liberalizzazioni, semplificazioni e privatizzazioni sarà
suddivisa in due parti: la Ia parte, generale, fornisce al lettore le competenze tecniche atte
ad orientarsi nelle complesse questioni che hanno sollevato le più recenti riforme. La IIa
parte, in uscita con il numero di mese di maggio, rappresenta invece una applicazione dei
più rilevanti interventi normativi nella materia di riferimento
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Pag. 7
Focus

"Prospettive di un possibile processo al patrimonio: norme, orientamenti,
finalità7" - Le confische viste dall’alto: breve viaggio nel diritto sovranazionale
(Fabiana Rapino)
pag. 135
Normativa

Il protesto dei titoli di credito (Massimo Marasca)
pag. 143
Il Caso

Il sistema "Vanna Marchi" (Martino Modica)
pag. 148
Criminologia del Nuovo Millennio

L'influenza di maghi imbonitori e stregoni nell'era del web (Rosalia Manuela
Longobardi)
7
pag. 152
Il primo appuntamento de ""Prospettive di un possibile processo al patrimonio: norme,
orientamenti, finalità" lo trovate sul numero 3 Marzo 2012 di Nuove frontiere del diritto
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Pag. 8
Oltre il mio nome

Intervista al Prof. Silvano Fuso in merito al CICAP (Tommaso Migliaccio)
Prof. Silvano Fuso è docente di chimica e divulgatore scientifico, socio effettivo e
responsabile per la scuola del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle
Affermazioni sul Paranormale)
pag. 155
Le frontiere della mediazione

La tutela della riservatezza nella mediazione (Carlo Pilia)
pag. 159
Convivenza uomo-animale

Il trasporto dell'animale su mezzi pubblici, navi ed aerei (Samantha
Mendicino)
pag. 178
Il brocardo del mese

Iuris et de iure e iuris tantum (Pietro Algieri)
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
pag. 184
Pag. 9
Spigolature

Buona fede (Samantha Mendicino)
Rassegna stampa
pag. 189
pag. 194
LICEO A LUCI ROSSE - Il feilleuton di Paola Lena
IV° Capitolo
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
pag. 198
Pag. 10
A lezione di… diritto civile
L'apparentia iuris
Quando, per la tutela della giustizia
sostanziale, "ciò che non è" vale per "ciò che è"!
Sommario: I) L'apparenza del diritto: nozione e funzione; II) Apparenza
pura ed apparenza colposa. Specifica di alcune ipotesi applicative:
rappresentante apparente, falsus procurator, creditore apparente,
erede apparente; III) Il principio dell'apparenza del diritto nei rapporti
condominiali; IV) Il ruolo dell'apparentia iuris nell'istituto del mandato e
della simulazione; V) La società apparente; VI) L’apparenza nel diritto
processuale: errore del Giudice e rimedi impugnatori.
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Pag. 11
I) L'apparenza del diritto: nozione e funzione
di Angela Quatela
L’intensificarsi dei traffici commerciali e dei rapporti economici e la necessità di velocizzare
la circolazione giuridica dei beni, liberando gli operatori dal dover effettuare complessi
accertamenti circa la legittimazione in capo alle singole fattispecie, ha necessitato la
ricerca di strumenti idonei al fine di offrire, in presenza di condizioni di incertezza, una
maggiore tutela agli interessi dei terzi.
L’apparentia juris, o apparenza del diritto, è un principio generale del nostro ordinamento
che tutela la buona fede e l’affidamento incolpevole dei terzi in quelle situazioni in cui ci sia
una significativa divergenza tra situazione di fatto e quella di diritto.
L’elaborazione dottrinaria individua l’apparenza giuridica come una relazione tra due
fenomeni, per cui una situazione di fatto, manifestatasi concretamente, fa apparire come
reale una situazione giuridica che, in realtà, non esiste o esiste con modalità diverse rispetto
a come si è manifestata.
Con l’applicazione del suddetto principio, il nostro ordinamento tende ad equiparare gli
effetti di ciò che si è manifestato nel fatto ma non è sorto nel diritto a ciò che è giustificato
dal diritto.
A tanto, si è giunti attraverso un percorso relativamente recente che è nato dai dati
normativi sparsi nei codici civili del 1865 e 1942 per poi essere studiato e teorizzato da alterna
dottrina e dalle pronunce giurisprudenziali.
Il diritto romano privilegiava la tutela della volontà e della titolarità effettiva del dominus,
rispetto alle esigenze di tutelare il traffico giuridico, riconoscendo solo la particolare
fattispecie dell’alienazione dell’eredità effettuata dall’erede apparente.
Detti principi furono successivamente confermati dal giusnaturalismo europeo ma con la
scuola del diritto naturale accanto al dogma della tutela assoluta della volontà dei
contraenti, si aggiunse il principio del nemo dat quod non habet, per cui nessuna protezione
veniva riconosciuta al destinatario della dichiarazione.
Il diritto germanico, nonostante la forte impronta romanista, ha da sempre attribuito
notevole importanza ai problemi di affidamento creati dalle dichiarazioni negoziali, per cui si
può sostenere che la teoria dell’apparenza giuridica sia nata storicamente in Germania nel
XIX secolo per la tutela dei terzi nel traffico giuridico, per poi essere trapiantata
nell’ordinamento italiano non senza censure da una parte della dottrina.
Fu M.D’Amelio, Presidente della Corte di Cassazione del tempo, che sulla base delle
disposizioni del codice del 1865 in materia di erede apparente e creditore apparente,
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elaborò nel 1934 una nozione generale di apparenza, non senza incontrare critiche circa
l’inutilità di tale principio, considerato privo di autonomo rilievo e quindi inidoneo ad
assurgere a principio generale dell’ordinamento.
ll successivo codice civile del 1942 oltre a recepire e riproporre le due predette fattispecie
dal precedente codice, aggiunse altre disposizioni a tutela dell’affidamento e dei terzi di
buona fede, in materia di interpretazione del contratto (art.1366 c.c.) e di riconoscibilità
dell’errore (art.1431 c.c.) aprendo così il sistema sempre più in senso dichiarazionistico.
In assenza di una disciplina legislativa dell’istituto, è stato compito dell’interprete individuare
gli elementi costitutivi della figura giuridica.
Il primo fondamentale elemento di carattere oggettivo è la divergenza tra la situazione di
fatto e quella di diritto non riconoscibile come errore secondo un criterio di normalità, sulla
base, quindi, del senso di comune esperienza.
Ne consegue che affinché l’errore possa qualificarsi come scusabile e quindi meritevole di
tutela, deve essere valutato applicando i criteri di ordinaria diligenza dell’uomo medio o
dell’uomo di media diligenza in rapporto alla conduzione di uno specifico affare, con ciò
escludendo ogni ipotesi di errore, quale falsa rappresentazione della realtà che si forma in
un soggetto in assenza di elementi esterni fuorvianti.
Se l’apparenza è legata all’errore, non può confondersi con esso, poiché l’errore
giuridicamente rilevante, tale da potenzialmente condurre all’annullabilità del contratto, è
un fenomeno individuale e soggettivo, mentre l’apparenza è un fenomeno sociale ed
oggettivo.
Secondo, A. Falzea uno dei giuristi più insigni in materia, l’apparenza, dunque, è una falsa
segnalazione della realtà esteriore, idonea a cagionare un possibile errore.
Si parla di possibilità, poiché in effetti, nonostante l’errore sia collettivo non è certo che tutti
ne vengano necessariamente attratti e ingannati.
Il carattere oggettivo dell’apparenza si desumerebbe anche dalle norme positive, in
particolare
dalle
circostanze
univoche
di
cui
all’art.1189
c.c.
ma
necessita
dell’apprezzamento in concreto dal giudice.
L’ulteriore imprescindibile elemento costitutivo della apparenza è di carattere soggettivo ed
è la buona fede del terzo che pure va accertata in concreto, al fine di verificare se lo stesso
abbia effettivamente ignorato la situazione giuridica reale e non abbia compreso la
divergenza tra realtà di fatto e realtà di diritto.
La dottrina prevalente suole distinguere l’apparenza giuridica in pura o oggettiva e colposa.
La prima tipologia è disciplinata espressamente dalla legge ed è configurabile in presenza
di circostanze univoche non imputabili al comportamento di nessun soggetto.
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La seconda, si configura quando lo stato di apparenza è dovuto ad un comportamento
colposo di un soggetto che ha causato tale stato e pertanto ne subirà gli effetti sfavorevoli.
Detta ultima tipologia non si rinviene nella struttura codicistica del nostro ordinamento,
poiché trattasi di creazione di tipo giurisprudenziale, in particolare in tema di rappresentanza
apparente e società apparente.
L’apparenza non va distinta con altri istituti a cui talvolta è stata assimilata, come il possesso
o l’acquisto a non domino, ciò poiché come teorizza il Falzea, “ l’apparenza è una realtà
che segnala qualcosa d’altro e non può identificarsi in fatti caratterizzati da una struttura
opaca che non sono in grado di segnalare alcunché, al di fuori della propria esistenza”.
Il possesso, infatti, è tutelato nel nostro ordinamento di per sé e non come manifestazione
esterna del corrispondente diritto reale e la tutela dell’acquisto a non domino pur
prevedendo la tutela dell’acquirente in buona fede, richiede una fattispecie complessa che
non contempla l’errore collettivo-oggettivo e che quindi va al di là dell’apparenza.
Per quanto riguarda l’applicazione del principio de quo al formalismo in genere, ed in
particolare ai titoli formali di legittimazione, agli atti muniti di pubblica fede e ai fatti di
pubblicità, nei casi di non conformità tra la situazione giuridica in essi rappresentati e la
situazione giuridica reale, si è ampiamente discusso in dottrina.
Parte minoritaria ha considerato assimilabile l’apparenza a queste fattispecie al fine di
tutelare la buona fede dei terzi ,altra (Falzea, Pugliatti) l’ha esclusa, considerando la tutela
che viene riconosciuta in questi casi di diversa natura.
Infatti la legge protegge i terzi, nell’ipotesi di divergenza tra dichiarazioni formali e
corrispondenza con la realtà giuridica dalle stesse enunciata, col solo scopo di esonerare il
soggetto-terzo dall’accertamento della realtà giuridica dichiarata ma non per conferire a
quelle dichiarazioni l’esistenza di quella realtà, tipica dell’applicazione del principio
dell’apparenza.
L’apparenza è un elemento elastico, che il giudice è chiamato ad accertare e ricostruire
sulla base di tutti gli elementi di fatto percepiti dalla generalità dei consociati, diversamente
le fattispecie predette sono fatti rigidi che solo in casi isolati possono essere suscettibili di
protezione dell’affidamento.
In realtà, la pubblicità come l’apparenza rispondono all’esigenza concreta che vuole la
tutela della sicurezza dei traffici, con l’effetto pratico che solo nell’ipotesi in cui il sistema di
pubblicità sia imperfetto si ricorra alla tutela dell’apparenza.
Circa l’utilità pratica del concetto di apparenza giuridica c’è da rilevare che nulla aggiunge
agli istituti che già applicano il principio presenti nel codice civile vigente in materia di
petizione di eredità (art.534c.c.), di obbligazioni (art.1189c.c.), di rappresentanza senza
potere (art.1398 c.c.), di simulazione (art.1415 c.c.), di annullamento del contratto (art.1445
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c.c.),di mandato (art.1729 c.c.) la cui analisi critica sarà di seguito trattata da altri Autori in
questo numero della rivista.
Se la prevalenza della dottrina riconosce nel nostro ordinamento, ormai indiscutibilmente, il
principio dell’apparentia juris, si argomenta, se a parte le ipotesi codificate, la stessa possa
applicarsi per sua interpretazione analogica a fattispecie diverse.
La giurisprudenza a parte la creazione delle figure della rappresentanza e della società
apparente, si è espressa in modo diversificato, partendo dalla negazione dell’esistenza del
principio al di fuori delle ipotesi normativamente previste (Cass.Civ.n.2311/95) al riconoscerlo
anche in materia processuale (Cass.Civ.SS.UU.n.390/11).
Concludendo, il Legislatore ha mostrato di voler proteggere il soggetto dell’affidamento con
numerosi accorgimenti, innanzitutto prestando la tutela all’individuo caduto in errore o
ignaro della effettiva situazione di fatto, senza pretendere altri requisiti e proteggendolo con
il riconoscimento della semplice buona fede.
Inoltre, a completamento della tutela, oltre a fondare la protezione sul fatto psicologico
individuale della buona fede, con l’applicazione del principio dell’apparenza, il Legislatore
ha inteso riconoscere l’apprezzamento che la generalità dei consociati tende a dare ad
una determinata situazione.
Per mera completezza, si segnala che tale importante esigenza di protezione non è solo
peculiarità dei paesi di civil law, come è il nostro ordinamento, ma anche in quelli di
common law di origine anglosassone.
Anche in queste realtà, esiste un istituto del tutto speculare all’apparenza, l’estoppel che è
un rimedio di equità di generale applicazione, in forza del quale se qualcuno ingenera in altri
una falsa rappresentazione della realtà, non può in un momento successivo far valere
l’effettiva realtà delle cose.
Strettamente connesso ai problemi di tutela dell’affidamento è vigente anche l’istituto del
promissory estoppel, principio in base al quale se qualcuno mediante promessa induce altri
ad effettuare spese o ad assumere obbligazioni, è tenuto a tener fede al suo impegno,
creando quindi anche una forma di affidamento oneroso.
Bibliografia
D’Amelio M. “Apparenza del Diritto” in Nuovo Digesto It.,Utet
Falzea A. “L’apparenza” in Encicl.del Diritto, Giuffrè
Gallo P. “L’apparenza” in Trattato del contratto, Tomo 3, Utet 2010
Morchella “Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica”, Milano
Pugliatti S.“La trascrizione”, Giuffrè
Roppo V. “Il contratto”, Giuffrè
Sacco R. “L’apparenza del diritto” in Digesto delle Discipline Privatistiche, Utet 1987
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II) Apparenza pura ed apparenza colposa.
Specifica di alcune ipotesi applicative: rappresentante apparente, falsus procurator,
creditore apparente, erede apparente
di Lucia Marra
PRINCIPIO DI APPARENZA DEL DIRITTO
L’apparenza del diritto possiamo definirla una regola di fenomenologia giuridica: cioè una
regola che disciplina, a livello giuridico, dei fenomeni.
Il concetto giuridico di apparenza del diritto è una situazione di fatto, contrapposta alla
situazione di diritto, eppure conforme apparentemente a quella situazione; la situazione di
fatto è contrastante alla situazione di diritto, non è conforme ad essa, eppure all’esterno, ai
soggetti che entrano in contatto con quella situazione di fatto, tale situazione appare
conforme alla situazione di diritto. Chi entra in relazione con quella situazione di fatto non
conforme alla situazione di diritto, ha l’apparenza che quella situazione sia in realtà
conforme alla situazione di diritto. Quando ciò si verifica il problema è: quale situazione
prevale? Prevale la situazione di fatto, apparentemente conforme alla situazione di diritto, o
prevale la situazione di diritto?
Per risolvere questo problema la dottrina tedesca e la nostra giurisprudenza, hanno
elaborato il principio di apparenza del diritto; che quindi serve per risolvere i conflitti tra
situazione di fatto, apparentemente conforme alla situazione di diritto, e situazione di diritto.
Il principio di apparenza del diritto è definito da Sacco come « la più importante regola
civilistica di creazione giurisprudenziale preterlegale ».
Da questa definizione di Sacco si ricava innanzitutto che il principio di apparenza del diritto è
una regola, una norma, creata dalla giurisprudenza in modo preterlegale, perché non
espressamente contenuta in alcuna norma del codice civile. Tuttavia, l’apparenza è un
principio che si fonda su talune norme del codice civile, che la giurisprudenza ha elaborato.
Innanzitutto la norma sull’erede apparente ex art. 534 co. 2 c.c., secondo cui chi acquista un
diritto in buona fede a titolo oneroso, dall’erede apparente, cioè da colui che non è erede,
non è effettivo titolare del diritto di successione, eppure appare esserlo, fa salvo il proprio
acquisto, purché l’acquisto sia appunto in buona fede e a titolo oneroso.
In questo caso, il legislatore attribuisce prevalenza alla situazione di fatto, che appare
conforme a quella di diritto ma non lo è, attribuisce alla situazione di fatto prevalenza
rispetto alla situazione di diritto: chi vende non è erede, non è titolare del diritto successorio e
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quindi non potrebbe trasferire il bene oggetto dell’eredità; eppure, pur non essendo
realmente titolare del diritto successorio, appare esserlo e l’apparenza prevale sul diritto
effettivo, la situazione apparente prevale sulla situazione di diritto.
L’altra norma è l’art. 1189 c.c., il pagamento al creditore apparente, altra norma che
contiene in nuce il principio di apparenza del diritto: il debitore che paga a chi appare
essere creditore, ma creditore non è, paga bene ed è liberato dalla propria obbligazione.
Anche in questo caso, chi riceve il pagamento non è titolare effettivo del diritto di credito,
appare solo essere titolare, la situazione di fatto non è conforme alla situazione di diritto, ma
appare essere conforme. Anche in questo caso, l’ordinamento attribuisce prevalenza alla
situazione di fatto che appare essere conforme alla situazione di diritto ma non lo è.
Terza norma: l’acquisto a non domino ex artt. 1153 e 1159 c.c., secondo cui chi acquista da
chi non è proprietario, ma appare esserlo, perché l’acquisto è effettuato in buona fede,
acquista bene; chi vende non è titolare del diritto di proprietà, non è dominus, ma appare
esserlo; l’acquisto a non domino, a determinate circostanze è un acquisto come se fosse a
domino.
Quarta norma: l’annotazione su libretto di risparmio effettuata dal funzionario apparente. Chi
appare legittimato ad annotare sul libretto di risparmio presentato allo sportello, ma non è in
realtà legittimato, è solo un apparente legittimato, nonostante ciò la annotazione sul libretto
è valida, efficace e vincolante per la banca; di nuovo, si tratta di una situazione di fatto,
contrastante con una situazione di diritto, che prevale sulla situazione di diritto.
Dal complesso di queste norme, la giurisprudenza ha ricavato il principio di apparenza del
diritto, principio che quindi consente di attribuire prevalenza
alla situazione di fatto,
apparentemente conforme, sulla situazione di diritto; in presenza di questa discrasia, tra
situazione di fatto e situazione di diritto, in presenza di una apparente conformità della
situazione di fatto alla situazione di diritto, opera il principio di apparenza del diritto, che
attribuisce prevalenza alla situazione di fatto sulla situazione di diritto. Il principio di
apparenza, che si fonda a livello normativo sulle norme poc’anzi citate, ha due perni, due
cardini: il principio di auto-responsabilità e il principio di tutela del legittimo affidamento.
Cosa vuol dire principio di auto-responsabilità? Il soggetto realmente titolare del diritto, se
assume un comportamento colposo, tale da ingenerare nel terzo il legittimo affidamento
che una situazione di fatto, pur non realmente conforme alla situazione di diritto, appare
esserlo, poiché versa in stato di colpa, è chiamato a rispondere della situazione di fatto cui
ha dato causa col suo comportamento colposo, quindi auto-responsabilità.
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L’altro principio cardine del principio dell’apparenza è il principio di tutela del legittimo
affidamento: il soggetto, che a causa del comportamento del titolare del diritto, ha fatto
affidamento legittimo, senza sua colpa nella conformità della situazione di fatto alla
situazione di diritto, deve essere tutelato rispetto alla situazione di fatto, perché è sulla
situazione di fatto che egli ha posto affidamento.
-
Condizioni di operatività del principio di apparenza. Apparenza pura ed apparenza
colposa
I problemi sono due: quando opera il principio di apparenza e quali sono le conseguenze
dell’operatività del principio di apparenza.
Partendo dal primo problema, l’apparenza del diritto opera in presenza, simultaneamente,
di quattro presupposti, due di tipo oggettivo e due di tipo soggettivo.
Primo presupposto oggettivo: deve sussistere uno iato tra fatto e diritto, deve sussistere una
situazione di fatto non conforme alla situazione di diritto.
Secondo presupposto oggettivo: la situazione di fatto, ancorchè non conforme alla
situazione di diritto, deve essere assistita da elementi oggettivi e univoci, tali che qualsiasi
uomo di media diligenza possa fare legittimo affidamento sulla conformità della situazione di
fatto alla situazione di diritto.
Terzo presupposto, soggettivo: è quello dal lato del soggetto che entra in contatto con la
situazione di fatto. Il terzo, che entra in contatto con questa situazione di fatto, deve essere
in buona fede, cioè deve avere un legittimo affidamento, circa la conformità della
situazione di fatto alla situazione di diritto.
Quarto presupposto soggettivo: questa volta dal lato del titolare del diritto. Il soggetto che è
titolare del diritto deve porre in essere un comportamento colposo tale da ingenerare nel
terzo il legittimo affidamento che la situazione di fatto è conforme alla situazione di diritto.
La giurisprudenza distingue tra apparenza pura e apparenza colposa: l’apparenza pura è
anche detta apparenza oggettiva, perché opera a prescindere dalla sussistenza dal quarto
presupposto, dell’elemento soggettivo del comportamento colposo del titolare del diritto, al
contrario dell’apparenza colposa, che opera solo al sussistere di tutti e quattro i presupposti.
Quindi la prima postula uno stato di fatto non corrispondente ad uno stato di diritto e il
ragionevole convincimento del terzo, derivante da errore scusabile, che la realtà di fatto
rispecchi la realtà giuridica; la giurisprudenza riconduce a tale nozione la fattispecie del
creditore apparente.
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La seconda implica, come in precedenza chiarito, un comportamento colposo, positivo o
negativo, del soggetto nei cui confronti è invocata l’apparenza. Si pensi al caso del
rappresentante apparente del creditore e, più in generale, alle situazioni non esplicitamente
disciplinate dal legislatore.
Questa distinzione è importante perché per l’operatività dell’apparenza pura non occorre il
comportamento colposo del titolare del diritto, quindi si può fare ricorso a questo principio
anche in mancanza di colpa del titolare del diritto. La giurisprudenza precisa al riguardo,
che l’apparenza pura, oggettiva, opera solo in due fattispecie tipiche: l’erede apparente e
il pagamento al creditore apparente; in tutti gli altri casi e quindi in tutte le ipotesi non
disciplinate dal legislatore, in tutte le fattispecie atipiche, di apparenza del diritto,
l’apparenza opera solo se sussistono tutti e quattro i presupposti esaminati.
- Conseguenze applicative del principio di apparenza del diritto
a) rappresentanza apparente
Il rappresentante apparente si presenta al terzo contraente come legittimato alla
rappresentanza, ma non lo è, perché il rappresentante non è munito del potere
rappresentativo, non ha una valida ed efficace procura, non è legittimato ad agire in nome
e per conto del rappresentante. Quindi la situazione di fatto non è conforme alla situazione
di diritto perché il rappresentante sedicente non è munito di potere rappresentativo eppure
agisce come se lo fosse.
Il secondo presupposto è la spendita del nome altrui appare essere legittima, perché
assistita da elementi oggettivi e univoci tali per cui qualunque terzo contraente di media
diligenza, farebbe affidamento circa la titolarità del potere rappresentativo in capo al
soggetto agente. Questo presupposto è speculare al secondo presupposto della apparenza
del diritto: la rappresentanza apparente è un’ipotesi, una fattispecie di apparenza del diritto
e quindi si configura quando sussistono tutti e quattro i presupposti dell’apparenza del diritto.
Il terzo presupposto è quello soggettivo: la rappresentanza apparente si configura quando il
terzo contraente è in buona fede, versando in stato di legittimo affidamento, fa affidamento
legittimo sulla titolarità del potere rappresentativo, in capo al soggetto sedicente
rappresentante.
Quarto presupposto, lo pseudo-rappresentato, titolare del diritto, pone in essere un
comportamento colposo, tale da ingenerare nel terzo contraente il legittimo affidamento
circa la titolarità, in capo al sedicente rappresentante, del potere rappresentativo. Lo
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pseudo-rappresentato, con il suo comportamento ingenera o contribuisce a ingenerare nel
terzo contraente il legittimo affidamento che il rappresentante apparente sia un effettivo
rappresentante. In presenza di questi quattro presupposti, il sedicente rappresentante, cioè il
rappresentante privo del potere rappresentativo, diviene un rappresentante apparente.
Su tali presupposto e sul problema della buona fede del terzo contraente, è intervenuta
recentemente la Cass. sez. II, 22 luglio 2010, n. 17243, la quale ha risposto al quesito se la
buona fede del terzo contraente è esclusa nell’ipotesi in cui il terzo contraente non richiede
al sedicente rappresentante la giustificazione del potere rappresentativo.
Questo problema si è posto perché l’art. 1393 c.c. prevede che il terzo contraente possa
richiedere la giustificazione del potere rappresentativo, quindi si è affermato che se c’è la
norma che prevede la richiesta del potere giustificativo, il terzo contraente che non richiede
la giustificazione del potere rappresentativo, viola una norma di legge, violando una norma
di legge pone in essere un comportamento colposo; quindi la mancata richiesta di
giustificazione del potere rappresentativo, integra l’elemento costitutivo della colpa del
terzo contraente, colpa che esclude il suo legittimo affidamento, che impedisce il
configurarsi del terzo presupposto della rappresentanza apparente e quindi impedisce
l’applicazione del principio di apparenza del diritto.
La Cassazione, sul punto, ha precisato che l’art. 1393 c.c. non stabilisce un obbligo, un
dovere di richiedere la giustificazione del potere rappresentativo, ma la norma prevede una
facoltà: il terzo contraente, può, se ritiene, chiedere la giustificazione del potere
rappresentativo; se non lo fa, non esercita una facoltà, ma non viola una norma di legge,
quindi non versa in uno stato di colpa specifica. Quindi, la sola mancata richiesta di
giustificazione del potere rappresentativo, non vale a escludere la buona fede del terzo
contraente e dunque non vale da sola ad escludere l’applicazione del principio di
apparenza del diritto. Occorre qualcosa di più, occorre la violazione, la colpa specifica, di
un precetto espresso, ovvero una colpa generica, ma non la mancata, secca, richiesta di
giustificazione del potere rappresentativo.
Un’ipotesi in cui il terzo contraente versa in stato di colpa, quindi è esclusa l’operatività del
principio di apparenza del diritto, è quando la rappresentanza risulta dai pubblici registri; se il
potere rappresentativo risulta da un pubblico registro, il terzo contraente è sempre in stato di
mala fede, perché deve conoscere e se non conosce, male fa a non conoscere, che il
soggetto che agisce, sulla base del pubblico registro, non è titolare del potere
rappresentativo.
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Altro intervento giursiprudenziale vi è stato sul quarto presupposto, ovvero il comportamento
colposo del titolare del diritto. Il problema è: basta una mera condotta omissiva, l’inerzia,
ovvero, tecnicamente detta, la tolleranza da parte dello pseudo-rappresentato, per
configurare il quarto presupposto di operatività, cioè il comportamento colposo del titolare
del diritto?
Il problema si è posto in giurisprudenza, sempre nella stessa sentenza del 22 luglio 2010, in
relazione alla seguente fattispecie. L’associazione Hare Krsna, tramite il suo presidente, sulla
base di una delibera falsa, attributiva al presidente di un potere rappresentativo, effettua
una donazione a favore di un’altra associazione; la donazione, è nota all’associazione
donante, perché risulta dai bilanci del’associazione; ciononostante, l’associazione solo a
distanza di due anni dall’effettuazione della donazione, impugna la donazione facendo
valere il difetto di rappresentanza da parte del presidente, sulla base della falsità della
delibera attributiva del potere rappresentativo. L’assemblea non ha deliberato e non ha
conferito il potere rappresentativo, la delibera è falsa, quindi l’associazione donante, a
distanza di due anni, chiede la nullità della donazione, per ottenere la restituzione di quanto
donato. La Cassazione, nella fattispecie, ha rigettato la domanda, affermando che sussiste
una situazione di fatto non conforme a situazione di diritto; sussistono presupposti oggettivi e
univoci, perché il soggetto che ha effettuato la donazione è il presidente dell’associazione,
è un soggetto qualificato, astrattamente legittimato. L’associazione che ha ricevuto la
donazione da parte del presidente, la riceve sulla base di una delibera, quindi c’è buona
fede dell’associazione che ha ricevuto la donazione e quindi sussiste anche il terzo
presupposto.
Quanto al quarto presupposto, l’associazione donante, che sapeva che era stata effettuata
una donazione da parte del suo presidente e sapeva che il potere rappresentativo non era
stato conferito su base di procura valida ed efficace, e ciononostante è rimasta inerte per
oltre due anni, questo comportamento dell’associazione donante è sufficiente a configurare
il quarto presupposto, il comportamento colposo del titolare del diritto? La risposta è
affermativa.
Si configura in questa ipotesi la cosiddetta rappresentanza tollerata; lo pseudorappresentato non conferisce il potere rappresentativo, ma sa che c’è un soggetto che sta
spendendo il proprio nome e ciononostante non fa nulla per impedire la spendita del nome,
tollerando il comportamento del rappresentante non munito di potere; tollerando quel
comportamento è come se contribuisse a ingenerare nel terzo il legittimo affidamento che il
rappresentante sia munito di poteri. L’inerzia dello pseudo-rappresentato, ove assistita, ove
preceduta dalla conoscenza, è un comportamento colposo, sub specie di rappresentanza
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tollerata, che si configura quando, in primo luogo, lo pseudo-rappresentato è a conoscenza
della spendita del proprio nome, da parte di un soggetto non munito del potere
rappresentativo; il secondo presupposto è che lo pseudo-rappresentato tollera la spendita
del proprio nome da parte del soggetto non legittimato. Sussistono questi due presupposti, si
configura quindi la cosiddetta rappresentanza tollerata, che è ipotesi di rappresentanza
apparente.
Quali conseguenze, derivano dall’operatività del principio di apparenza del diritto,
nell’ipotesi specifica della rappresentanza? Cosa succede quando il rappresentante, non
munito di poteri, il sedicente rappresentante, diviene un rappresentante apparente, perché
sussistono tutti e quattro i presupposti, le condizioni di operatività del principio di apparenza?
La conseguenza è che il contratto, stipulato dal rappresentante apparente, col terzo
contraente di buona fede, è un contratto valido ed efficace nei confronti dello pseudorappresentato, il quale pur non avendo attribuito il potere rappresentativo e quindi pur non
avendo voluto il contratto stipulato, dal rappresentante apparente, è vincolato a quel
contratto; pur non essendo parte del contratto, stipulato tra rappresentante apparente e
terzo contraente, lo pseudo-rappresentato diviene parte di quel contratto, è obbligato, è
vincolato a quel contratto, sulla base dei principi generali del nostro ordinamento, quel
contratto non potrebbe vincolare, lo pseudo-rappresentato è terzo e non parte del
contratto. L’ordinamento giuridico, la giurisprudenza, allora, mediante il principio di
apparenza, trasforma lo pseudo-rappresentato in parte sostanziale del contratto, pur non
essendo parte del contratto, perchè non ha conferito il potere rappresentativo, il contratto
stipulato tra soggetti terzi, in deroga al principio di relatività degli effetti del contratto, vincola
lo pseudo-rappresentato, terzo astrattamente, rispetto al contratto, che diviene parte sulla
base del principio di apparenza del diritto.
Il che vuol dire che l’apparenza del diritto è fonte del diritto, è attraverso l’apparenza del
diritto che il terzo pseudo-rappresentato diviene parte sostanziale del contratto, quindi
l’apparenza del diritto diventa fonte del diritto, rientra tra gli altri fatti o atti idonei a produrre
obbligazioni secondo l’ordinamento giuridico ex art. 1173, quindi l’apparenza del diritto è
una fonte atipica del diritto, atipica nel senso che si applica ad una pluralità indeterminata
di fattispecie e tipica quanto ai suoi presupposti, perché l’apparenza del diritto opera solo in
presenza dei presupposti di cui abbiamo detto; ecco perché Sacco definisce l’apparenza
del diritto la più importante regola civilistica.
E nell’ipotesi in cui il sedicente rappresentante conclude, con il terzo contraente, un negozio
per il quale la legge prevede la forma scritta ad substantiam? Se il sedicente rappresentante
stipula un contratto a forma vincolata col terzo contraente, valgono le considerazioni fatte
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poc’anzi? Il contratto stipulato dal sedicente rappresentante è valido ed efficace, è
vincolante nei confronti dello pseudo-rappresentato?
La risposta della Cassazione è negativa: Cass. sez. III, 12 febbraio 2010, n 3364: quando il
contratto tra rappresentante non munito di poteri e il terzo contraente è un contratto con
forma scritta ad substantiam, il terzo contraente non ha la facoltà di richiedere la
giustificazione, ma ha, dice la Cassazione, un onere legale, il terzo contraente, in presenza di
un contratto vincolato nella forma, ha l’onere di richiedere al rappresentante la
giustificazione del potere rappresentativo, non la mera facoltà ex art. 1393, ma l’onere, con
la conseguenza, che se il terzo contraente non richiede la giustificazione, del potere
rappresentativo, il contratto stipulato col rappresentante sedicente non è un contratto
stipulato col rappresentante apparente, perché il terzo contraente, violando l’onere legale,
versa in stato di colpa, manca il terzo presupposto, soggettivo, della buona fede del terzo
contraente. dunque mancherà il terzo presupposto di operatività del principio di apparenza
del diritto, dunque il rappresentante sedicente non è un rappresentante apparente, quindi il
contratto stipulato dal sedicente rappresentante, col terzo in stato di colpa per non aver
richiesto la giustificazione dei poteri, non vincola lo pseudo-rappresentato.
Quindi si nota la differenza tra quando opera e quando non opera l’apparenza del diritto: se
l’apparenza opera, il contratto è valido ed efficace anche nei confronti dello pseudorappresentato; se non opera, il contratto non vincola lo pseudo-rappresentato. Ma vincola il
sedicente rappresentante? Il contratto, stipulato tra sedicente rappresentante e il terzo
contraente, che fine fa?
Non vincola lo pseudo-rappresentato perché è terzo rispetto a quel contratto, secondo il
principio generale di relatività degli effetti del contratto; non essendoci la procura, il
contratto resta res inter alios acta, non opera l’apparenza del diritto che deroga alla
relatività degli effetti del contratto, dunque lo pseudo-rappresentato non è vincolato dal
contratto; ma è vincolato forse il rappresentante sedicente? No, perché il sedicente
rappresentante non esprime la propria volontà; il contratto è l’accordo, quindi deve
sussistere un incontro di volontà; il sedicente rappresentante non esprime la propria volontà,
il proprio consenso al contratto, ma esprime la volontà di un altro, quindi il sedicente
rappresentante non può essere vincolato al contratto, perché non ha manifestato il proprio
consenso al contratto, non è parte sostanziale del contratto; il contratto, dunque, non
vincola lo pseudo-rappresentato, non vincola il rappresentante sedicente; quindi il contratto
è inefficace, non vincola nessuno. La Cassazione parla di nullità del contratto; lo fa in
relazione alla forma ad substantiam. Ma il contratto, anche se non fosse nullo, sarebbe
inefficace, perché non vincolerebbe nessuna delle parti, perché manca una parte in senso
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sostanziale del contratto. E il terzo contraente, che ha stipulato un contratto inefficace, è
tutelato?
Il contratto non vincola il sedicente rappresentante, non vincola lo pseudo-rappresentato, il
terzo contraente con chi può rivalersi?
Il terzo contraente è in stato di colpa, male ha fatto a stipulare il contratto, non versa in stato
di buona fede, quindi non può far valere neppure la responsabilità precontrattuale; il
presupposto dell’art. 1338 è il legittimo affidamento del terzo contraente; se l’affidamento
non è legittimo perché c’è colpa, il terzo contraente non ha un affidamento legittimo,
dunque manca il presupposto della responsabilità precontrattuale, quindi non ha nessuna
tutela.
b) falsus procurator
Che differenza c’è, tra il rappresentante apparente e il falsus procurator ex art. 1398 c.c.?
Le due figure sembrano apparentemente sovrapporsi; l’art. 1398 c.c., già rubricato
rappresentanza senza potere, fa riferimento all’ipotesi in cui il rappresentante non è munito
di potere, quindi è un sedicente rappresentante; sussistono dei presupposti oggettivi e
univoci, tali per cui il sedicente rappresentante pare essere un rappresentante, tanto che
(terzo presupposto) sussiste la buona fede del terzo contraente, lo dice l’art. 1398, il terzo
contraente fa affidamento sulla validità di quel contratto. Quindi sussistono i primi tre
presupposti,; la differenza tra falsus procurator ex art. 1398 e rappresentante apparente è nel
quarto presupposto: se oltre a sussistere lo iato, oltre a sussistere i presupposti oggettivi e oltre
a sussistere la buona fede del terzo contraente, sussiste il comportamento colposo del
titolare del diritto rappresentato, allora si configura l’apparenza del diritto.
Il falsus procurator e la relativa disciplina, di cui vedremo i precipitati applicativi, si configura
solo quando sussistono i primi tre presupposti, ma non sussiste il quarto presupposto: il titolare
del diritto rappresentato non sa che c’è un soggetto che sta spendendo il proprio nome e
non sapendolo, non può far nulla per impedire la spendita del proprio nome e quindi non gli
può essere addebitato il comportamento del sedicente rappresentante, dunque non opera
il principio di auto-responsabilità.
Il precipitato applicativo lo specifica l’art. 1398: se il rappresentante senza potere, non è un
rappresentante apparente, perché manca il quarto presupposto e quindi il sedicente
rappresentante è un falsus procurator, il falsus procurator risponde del danno che il terzo in
buona fede ha sofferto per aver fatto affidamento senza colpa sulla validità del contratto.
Ciò vuol dire che il contratto stipulato dal falsus procurator è un contratto non vincolante per
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lo pseudo-rappresentato: a differenza del contratto stipulato dal rappresentante apparente,
che in virtù del comportamento colposo, del titolare del diritto, vincola quest’ultimo.
Vincola il falsus procurator? No perché il falsus procurator non è una parte sostanziale del
contrattoe non esprime la propria volontà: è un sedicente rappresentante che agisce senza
potere, falsamente in nome e per conto di un altro, non è parte sostanziale del contratto.
Qual è allora la sorte del contratto stipulato dal falsus procurator? Lo dice la legge, all’art.
1398: “…ha confidato nella validità…”, il contratto è invalido, secondo l’orientamento
prevalente della dottrina. Se il contratto è invalido, ex art. 1399, interviene la ratifica dello
pseudo-rappresentato, il quale non ha conferito il potere rappresentativo e non ha posto in
essere un comportamento colposo, quindi non è parte del contratto, non lo vincola, tuttavia
lo pseudo-rappresentato può aderire, ratificando il contratto stipulato dal falsus procurator;
in questo caso, la ratifica che natura giuridica assume? È un negozio di convalida di un
contratto invalido; la giurisprudenza invece ritiene che il contratto stipulato dal falsus
procurator, non sia un contratto invalido, ma sia un contratto inefficace. Il contratto stipulato
dal falsus procurator non vincola nessuno, quindi ha la caratteristica di essere inefficace;
questa la posizione netta e chiara della giurisprudenza: il contratto stipulato dal
rappresentante apparente, vincola ed è efficace nei confronti dello lo pseudorappresentato, il contratto stipulato dal falsus procurator è un contratto inefficace, che non
vincola nessuno.
Se interviene la ratifica, in questa prospettiva della giurisprudenza, dello pseudorappresentato, che natura giuridica ha questa ratifica? È una condizione sopravvenuta di
efficacia del contratto. Il contratto è inefficace, la ratifica costituisce condizione
sopravvenuta di efficacia del contratto; diamo conto, al fine di completezza, di una terza
posizione, della dottrina minoritaria, secondo cui il contratto stipulato dal falsus procurator è
un contratto perfetto, che però non vincola il lo pseudo-rappresentato; è efficace per il
terzo contraente ed è inefficace per lo pseudo-rappresentato, è un contratto che ha due
diverse operatività. Si tratta di una sorta di contratto claudicante, operativo per un verso,
non operativo per un altro verso, opinione difficilmente condivisibile. In questa prospettiva, la
ratifica dello pseudo-rappresentato è qualificata come elemento costitutivo sopravvenuto,
di un contratto già concluso. Lo pseudo-rappresentato, ratificando il contratto, sta
esprimendo il proprio consenso al contratto; il consenso è elemento costitutivo di un
contratto già concluso; ma se il consenso è elemento costitutivo, come fa il contratto ad
essere già perfetto? Si tratta di una posizione difficilmente condivisibile.
Quindi, il contratto stipulato dal falsus procurator, orientamento della giurisprudenza, cui
rimaniamo ancorati, è un contratto inefficace; non vincola lo pseudo-rappresentato, non
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vincola il falsus procurator, è un contratto inefficace che non vincola nessuno; il terzo
contraente non è tutelato? Qual è, se c’è, una tutela che l’ordinamento può apprestare a
favore del terzo contraente? Abbiamo detto che il falsus procurator, pur non essendo
rappresentante apparente, in che animus versa? In buona fede; è un soggetto che versa in
buona fede, che fa legittimo affidamento sulla validità ed efficacia del contratto; se il
contratto è inefficace e il terzo contraente versa in buona fede, il rimedio è quello della
responsabilità precontrattuale ex art. 1338 c.c.: il terzo contraente ha fatto affidamento,
senza colpa, nell’efficacia del contratto; se il contratto è inefficace, risponderà il soggetto
che ha fatto credere che il contratto era efficace, cioè il falsus procurator, il quale
risponderà a titolo di responsabilità precontrattuale, che abbiamo visto essere una
responsabilità di tipo extracontrattuale, con tutti gli oneri che ne derivano in termini di prova.
Il danno risarcibile sarà l’interesse negativo, ex art. 1338, cioè il danno sofferto da stipulazione
inutile, il tempo perso, le spese sostenute, le occasioni alternative mancate.
c)- Il pagamento al creditore apparente.
Ai sensi dell’art. 1189 c.c. il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a
riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede.
Presupposti
affinché
possa
verificarsi
l’effetto
liberatorio
sono
l’apparenza
della
legittimazione in capo al ricevente e la buona fede del debitore.
L’art. 1242 del codice del 1865 considerava valido il pagamento eseguito in favore “di chi si
trova in possesso del credito”, restringendo notevolmente l’ambito di applicazione della
norma e conferendole principalmente carattere possessorio. Secondo l’interpretazione
dell’epoca, si faceva riferimento alla situazione di colui che si trovava in possesso dei
documenti giustificativi del credito ricevuti a titolo di successione mortis causa .
Per quanto concerne l’apparenza, si è rilevato il contrasto tra l’art. 1189 c.c. e l’art. 1188 c.c.,
dai quali emerge la contrapposizione tra “creditore apparente” e “chi appare legittimato a
ricevere”. La dottrina dominante ha chiarito che il legittimato apparente non è un
legittimato a ricevere: la liberazione del debitore non dipende dalla posizione giuridica del
ricevente, ma dall’errore dell’adempiente che confida in una posizione esistente.
L’apparenza della legittimazione rileva solo in quanto idonea a suscitare il ragionevole
affidamento del debitore di pagare al vero destinatario dell’adempimento.
La questione è stata sollevata in ordine alla particolare ipotesi del pagamento effettuato al
rappresentante apparente del creditore, il c.d. falsus procurator.
La soluzione della questione dipende dall’interpretazione della locuzione “chi appare
legittimato a ricevere”. Nel caso in cui si propenda per un’interpretazione estensiva, anche
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la regolamentazione del pagamento nei confronti del falsus procurator sarà riconducibile
all’art. 1189 c.c.; ove si accolga l’interpretazione restrittiva, troverà applicazione l’art. 1188
c.c..
L’orientamento
prevalente,
sia
in dottrina
che
in
giurisprudenza,
è
favorevole
all’applicazione dell’art. 1189 c.c., facendo leva sull’esistenza di un rapporto di occasionalità
necessaria tra le incombenze dell’accipiens e il comportamento del solvens, che abbia fatto
ragionevole affidamento sull’apparenza del potere rappresentativo. In tale evenienza ed
anche ove vi siano stati precedenti di pagamenti fatti al falsus procurator andati a buon
fine, l’apparenza deve essere causata da circostanze univoche e concordanti, obiettive,
certe e incontroverse.
Di opposto avviso è la giurisprudenza che ravvisa nei precedenti pagamenti andati a buon
fine elementi idonei ad ingenerare l’affidamento: una recente pronuncia di un tribunale di
merito ha sancito che “elementi idonei ad ingenerare l’affidamento del debitore di buona
fede possono essere desunti in via presuntiva anche dal fatto che precedenti, ripetuti
pagamenti, tutti andati a buon fine, siano stati eseguiti per il tramite della stessa persona
senza che il creditore abbia mai mosso rilievi circa la loro regolarità” .
Secondo la giurisprudenza, il concetto di apparenza si riferisce ad una non corrispondenza
tra stato di fatto e stato di diritto, accompagnata dal ragionevole convincimento
del solvens che il primo rispecchi il secondo, per causa a lui non imputabile (errore
scusabile).
L’ordinamento tutela l’affidamento incolpevole del terzo, che tenga un comportamento
rispondente ad una situazione giuridica che appaia tale, ma non sia corrispondente alla
realtà di fatto, rendendo irrilevante l’errore (incolpevole) in cui sia incorso.
Elementi essenziali sono pertanto la buona fede del terzo e la ragionevolezza
dell’affidamento.
Quanto alla buona fede, rileva il c.d. status soggettivo del solvens che inerisce il
procedimento di identificazione del creditore.
Un primo orientamento considera sufficiente il solo errore scusabile del solvens, che abbia
ragionevolmente ipotizzato di entrare in rapporto con il vero creditore. Un secondo, più
risalente nel tempo, si fonda sulla necessaria presenza del comportamento colposo del
creditore quale causa generatrice dell’errore scusabile delsolvens.
Nel caso in cui il debitore abbia pagato a mezzo di persona da lui incaricata, deve
escludersi che il debitore possa giovarsi della buona fede di costui, quando egli non sarebbe
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caduto in errore se avesse eseguito personalmente il pagamento, in quanto il debitore non
può riversare sul creditore i rischi di un esito negativo dell’utilizzazione del terzo per il proprio
interesse.
I più recenti arresti giurisprudenziali hanno tentato di offrire soluzione ai numerosi dubbi sorti in
relazione al pagamento effettuato al creditore apparente. In particolare, si è ritenuto che
l’art. 1189 c.c. non si riferisca esclusivamente al pagamento effettuato direttamente al
creditore apparente, ma a tutte quelle persone che appaiono autorizzate a ricevere la
prestazione; tale tesi fa leva sul collegamento sistematico con l’art. 1188 c.c..
Pur se l’art. 1189 c.c. è rubricato “pagamento al creditore apparente”, la lettera del testo
(“a chi appare legittimato a riceverlo”) e la ratio della norma (volta a tutelare la buona
fede, che viene richiesta in chi esegue il pagamento) rendono palese che il legislatore ha
inteso far riferimento ad un concetto più ampio di quello indicato nella rubrica, tanto da
ricomprendere chiunque appaia legittimato a ricevere il pagamento ex art. 1188, comma 1,
c.c.(il pagamento deve essere fatto al creditore o al suo rappresentante, ovvero alla
persona indicata dal creditore o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverlo).
In conclusione, effetto del pagamento al creditore apparente è la liberazione del debitore
che conserva il diritto alla controprestazione (art. 1189 c.c.).
Il principio dell’apparenza del diritto, che mira alla tutela della buona fede dei terzi, trova
applicazione quando concorrono le due condizioni costituite dallo stato di fatto non
corrispondente alla situazione di diritto e dal convincimento del terzo, derivante da errore
scusabile, che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica.
Partendo da tale principio i giudici di piazza Cavour hanno specificato che “occorre
procedere all’indagine, da compiersi caso per caso, non solo sulla buona fede del terzo, ma
anche sulla ragionevolezza dell’affidamento il quale, perciò, non può essere invocato da chi
ad esempio, versi in una situazione di colpa, riconducibile alla negligenza, per aver
trascurato l’obbligo di accertarsi della realtà delle cose, facilmente controllabile e per essersi
affidato alla mera apparenza. Tale indagine coinvolge perciò una mera quaestio facti, le
cui conclusioni non sono censurabili nel giudizio di legittimità, ove si fondino su
argomentazioni logiche e prive di contraddizioni” .
L’onere di provare la ricorrenza delle condizioni appena descritte incombe sul debitore.
Tuttavia, la buona fede di quest’ultimo si presume ai sensi dell’art. 1147 c.c., poiché incombe
sul creditore, che contesti l’efficacia del pagamento, provare che il debitore ha agito con
colpa.
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In dottrina, al contrario, si è osservato che graverebbe sul solvens, che invochi l’apparenza,
la prova della propria buona fede, che potrebbe in concreto presumersi in base alla
scusabilità dell’errore, consistente nell’oggettiva idoneità delle circostanze a trarre in
inganno circa l’identità del soggetto legittimato a ricevere il pagamento .
Da quanto detto si può rilevare la differenza con il caso di pagamento al rappresentante
apparente del creditore, c.d. falsus procurator, in cui l’effetto liberatorio per il debitore è,
secondo
la
prevalente
giurisprudenza,
legato
all’accertamento
di
un quid
pluris:
l’apparenza deve essere giustificata da circostanze univoche e concordanti imputabili al
comportamento del creditore, il quale con la sua condotta ha determinato o concorso a
determinare l’errore del solvens in buona fede circa la effettività dei poteri dell’accipiens.
Secondo tale orientamento, il debitore che invochi il principio dell’apparenza giuridica
dovrebbe fornire la prova non solo di aver confidato senza sua colpa nella situazione
apparente, ma anche che il proprio erroneo convincimento è stato indotto da un
comportamento colposo del creditore.
A norma dell’art. 1189, comma 3 c.c., il creditore c.d. “vero” può agire per la restituzione di
quanto pagato nei confronti dell’apparente legittimato, facendo ricorso alla disciplina in
materia di indebito.
d) L’erede apparente
L'erede apparente è colui il quale sia apparso ai terzi come erede in base a qualche indizio
oggettivo attendibile sulla base del quale il terzo è stato determinato ad avere rapporti
giuridici con lui. La nozione di erede apparente non (sempre) coincide con quella di
convenuto nell'azione di petizione ereditaria perché la nozione di erede apparente non
sempre presuppone che il soggetto sia in possesso dei beni ereditari, quanto piuttosto la
presenza di una situazione o di manifestazioni esteriori tali da indurre i terzi a ritenere che ad
un dato soggetto è attribuibile la qualifica di erede di quei beni. In sostanza la nozione di
erede apparente è collegata all'esistenza di una situazione esteriore che sia obiettivamente
idonea a generare nei terzi la convinzione (l’errore) di trovarsi di fronte all'”erede vero”.
L'articolo 534 al 1° comma prevede la tutela dell'erede nei confronti degli aventi causa dal
possessore. L'azione di petizione intentata dall'erede effettivo può essere esercitata anche
nei confronti degli aventi causa dell'erede apparente che sia stato anche possessore e sia
figurato come erede apparente. L’avente avente causa dal possessore, in caso di
condanna, ha l'obbligo di restituire all’erede effettivo il bene che si considererà a come mai
uscito dal patrimonio ereditario. Il 2° comma dell'articolo 534 invece introduce una deroga a
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Pag. 29
quanto stabilito al primo comma, affermando la salvezza degli acquisti onerosi dall’erede
apparente fatti a titolo oneroso e in buona fede dal terzo. Si tratta di acquisti che si
sottraggono all'azione di petizione e al conseguente obbligo di restituzione quando
sussistono alcune condizioni:
- acquisto da chi per particolari circostanze obiettive pareva essere erede vero;
- l'esistenza di una convenzione a titolo oneroso sulla considerazione che il testo
subacquirente cerchi di evitare un danno;
- La buona fede del terzo che abbia creduto per errore scusabile di contrarre con l'erede
effettivo. In questo caso la buona fede però non è presunta (non si applica la regola di cui
all'art. 1147 ccc. secondo cui la buona fede si presume), ma deve essere provata dal terzo
perché costituisce un elemento costitutivo del valido acquisto. Non ha importanza che
l'erede apparente abbia o non abbia un titolo, non ha rilevanza nemmeno la sua buona o
mala fede. È decisiva solo la buona fede dell'acquirente [Trib. Bologna Sez. IV, 30/08/2004,
Cass. civ., Sez. III, 24/06/2003, n.10014].
- nelle ipotesi in cui l'acquisto del terzo riguardi beni immobili o mobili registrati (art. 534, 3°
comma) si applicano i principi della pubblicità immobiliare (è richiesta la doppia
trascrizione). Si vuole che il terzo sia diligente e verifichi, consultando i pubblici registri, la
legittimazione dell'alienante: perciò l'acquisto dell’avente causa dall'erede apparente è
fatto salvo soltanto se l'acquisto a titolo di erede (da parte dell'erede apparente) e il
successivo trasferimento dall'erede apparente al terzo sono stati trascritti anteriormente alla
trascrizione dell'acquisto da parte del vero erede o del vero legatario, oppure anteriormente
alla trascrizione della domanda giudiziale di petizione dell'eredità contro l'erede apparente.
In ogni caso la buona o mala fede dell’erede apparente potrebbe avere una qualche
rilevanza. Infatti qualora l’erede apparente sia in buona fede troverà applicazione il 2°
comma dell’art. 535 c.c. e l’erede apparente dovrà restituire all’erede vero il corrispettivo
ricevuto o, se questo deve essere ancora corrisposto, l’erede vero subentrerà nel diritto di
conseguirlo. Nel caso in cui, invece l’erede apparente sia in mala fede si ritiene in dottrina
che debba essere analogicamente applicato l’art. 2039 c.c. 2° comma, e pertanto l’erede
apparente sarà obbligato a restituire la cosa in natura o a corrispondere il valore, oltre
naturalmente a risarcire il danno. Non è configurabile un legatario apparente, ma non
perché la vicenda, in tal caso, si esaurisce nel rapporto con un singolo bene o complesso di
beni, potendo anche tale rapporto, in teoria, rilevare, quanto perché l'articolo 534 c.c. è
norma eccezionale e non speciale, insuscettibile di estensione (Gazzoni). In tali casi l'erede
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Pag. 30
vero ha diritto soltanto ad ottenere il prezzo o il corrispettivo ricevuto dal possessore
medesimo.
Le ragioni di questa disciplina particolare, che sacrifica i diritti dell’erede in favore di quelli
dei terzi e della certezza dei rapporti giuridici, costituisce un'eccezione rispetto alla tutela
dell'erede nei confronti dei terzi ed in particolare nei confronti dell'avente causa dal
possessore o dall'erede apparente si giustificano considerando che nella pratica sussistono
difficoltà di verificare con certezza la qualità di erede, poiché per es. può essere erede
apparente anche l'erede legittimo quando si scopre successivamente un testamento che
istituisca erede un altro soggetto. In tali casi si dovrebbe poter escludere che il de cuius
abbia fatto testamento o abbia fatto ulteriori testamenti (dato che il testatore può sempre
modificare o revocare il testamento precedente), oppure che abbia altri parenti legittimi o
figli naturali, eccetera. Se il legislatore non avesse ritenuto opportuno anche per facilitare la
circolazione dei beni, tutelare gli aventi causa dall'erede apparente, nessuno acquisterebbe
mai beni provenienti eredità per non correre il rischio di se doverli restituire.
L'art. 534 cod.civ. al II comma prevede che sono salvi i diritti acquistati, per effetto di
convenzione a titolo oneroso con l'erede apparente, dai terzi i quali provino di avere
contrattato in buona fede. Deve esser svolta una precisazione relativamente all'espressione
dell'art. 534 cod.civ. che fa menzione delle "convenzioni" poste in essere dall'erede
apparente. Si reputa infatti che possano valere anche semplici atti unilaterali, sempreché si
tratti di atti a titolo oneroso. Si pensi all'atto di concessione di ipoteca volontaria su un bene
del de cuius. Proprio in relazione a detta specie di atto, è stata decisa la prevalenza del
diritto del creditore ipotecario in buona fede avente causa dall'erede (apparente rispetto
alla proprietà piena) rispetto al coniuge del defunto, legatario ex lege ai sensi del II comma
dell'art. 540 cod.civ., anche se quest'ultimo soggetto non tanto si può reputare avente
causa dall'erede, quanto dal de cuius (Cass. Civ. Sez. III, 10014/03 ; molto più scontata
invece è la ritenuta prevalenza del creditore ipotecario sul legatario del diritto di abitazione
quando il primo abbia conseguito il proprio diritto di garanzia dal de cuius cfr. Cass. Civ. Sez.
III, 463/09 ). Giova anzitutto rilevare che l'apparenza dell'erede non postula il possesso dei
beni ereditari, bensì una situazione esteriore idonea ad ingenerare nei terzi la ragionevole
opinione di esser di fronte all'erede effettivo. Volendo operare una similitudine che si riferisca
ad altre discipline giuridiche, si potrebbe fare riferimento alla figura del funzionario di fatto
nel diritto amministrativo. Nel caso che ci occupa, colui che acquista dal terzo deve non
soltanto provare l'elemento soggettivo della buona fede, bensì anche dar conto
dell'elemento oggettivo costituito dalla struttura della fattispecie idonea a far sorgere nella
collettività l'opinione che il proprio dante causa possedesse le caratteristiche di cui al 534
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cod.civ. : che cioè, in base all'oggettività della situazione fattuale, chiunque avrebbe potuto
esser tratto in inganno dall'apparenza. La fattispecie è del tutto peculiare: si tratta dell'unica
figura di acquisto a non domino fondata su una situazione di apparenza in senso tecnico. La
qualità di terzo di chi acquista dall'erede apparente non è qualificata(come invece accade
nelle altre ipotesi di acquisto non fondate sul possesso) da un rapporto dell'alienante (il non
dominus ) con il titolare vero del diritto, ma è piuttosto qualificata in forza di una apparente
successione dell'alienante rispetto al de cuius. Qui si tratta di apparenza vera: fonte cioè di
un possibile errore collettivo che si materializza nell'errore individuale dell'avente causa
dall'erede apparente Questo significa propriamente la buona fede di chi acquista: che
costui è caduto in un errore scusabile in quanto la situazione era oggettivamente
ingannevole. Il requisito è duplice: decettività oggettiva e errore soggettivo. L'onere della
prova di entrambi i componenti della fattispecie acquisitiva incombe ex art. 534 cod.civ. su
colui che pretende di far valere l'acquisto. In base a tale ultima disposizione viene prevista
una tutela aggiuntiva per colui che avesse acquistato un diritto dall'apparente erede,
anche a titolo gratuito, qualora la domanda giudiziale volta a contestarne il fondamento
fosse stata proposta successivamente al decorso di cinque anni a far tempo dalla data
dell'acquisto. Questa ulteriore ipotesi acquisitiva sarà oggetto di specifica analisi in tema di
acquisto dal legatario apparente, fattispecie qualificata da presupposti del tutto analoghi.
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Pag. 32
III) Il principio dell'apparenza del diritto nei rapporti condominiali
di Alessia Canaccini
Si è discusso dell'applicabilità del principio di apparenza anche in relazione ai rapporti
obbligatori tra il condominio e i condomini.
Per comprende appieno i termini del problema e come il problema stesso si possa risolvere,
è opportuno partire dal dato normativo. Sulla ripartizione delle spese l'art.1123, comma 1,
c.c. dispone che :" Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti
comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni
deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al
valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione".
Tuttavia in caso di compravendita di un immobile in condominio, l'art. 63 disp.di att. al c.c.
prescrive che "chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo,
al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente". Qualora il
nuovo condomino e il vecchio restino inadempienti sulle spese, si tratta di stabilire se
l’amministratore possa agire solo nei confronti del reale condomino oppure possa farlo
anche nei confronti del condomino apparente. Sulla questione si sono formati in
Giurisprudenza
due orientamenti, rispettivamente l'uno favorevole e l'altro contrario.
L'orientamento favorevole di cui è emblematica la pronuncia Cass. 20 marzo 1999, n. 2617,
sostiene che il principio di apparenza, ammesso espressamente in alcuni casi- ad es. art.
1189, co1, cc. secondo cui “ il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a
ricevere in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede”- e
solo implicitamente in altri- obbligazioni assunte da soci di società apparente- sia stato poi
esteso a tutti quei casi in cui il terzo, senza sua colpa sia stato indotto a confidare nella
perfetta corrispondenza tra ciò che appare e ciò che è. Del resto il principio in esame non è
estraneo alla materia dei diritti reali, se si considera la struttura del possesso. In merito al
rapporto tra la pubblicità e l’apparenza, questo orientamento sostiene che non vi sia
inconciliabilità, perché è ammesso che sulla pubblicità << possa venire a innestarsi una
situazione derivata che, nel complesso dei suoi elementi costitutivi, consenta di ravvisare
l’esistenza di circostanze idonee a generare legittimo convincimento del terzo di essere
entrato in rapporto con l’avente diritto>> ( Cass.S.U. 5035/2002). Da una parte la fattispecie
dell’apparenza richiede l’elemento oggettivo di una situazione di fatto con contenuto
corrispondente alla situazione di diritto, oltre alla buona fede del terzo, dall’altra parte
quando la pubblicità è imposta, impedisce che vi sia la buona fede del terzo. Tuttavia è
opportuno distinguere l’ipotesi in cui vi sia un rapporto diretto, da quella in cui vi sia un
rapporto mediato tra pubblicità e situazione giuridica per la quale si invoca l’applicazione
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del principio di apparenza. Se il legame è diretto, la pubblicità ha ad oggetto proprio la
situazione giuridica rispetto alla quale si invoca l’applicazione dell’apparenza. In questo
caso il principio non potrà essere applicato, perché la pubblicità rende nota la posizione
giuridica cui si riferisce. Invece nel caso di rapporto mediato, è chiaro che oggetto di
pubblicità non è proprio il diritto rispetto al quale si invoca l’apparenza, bensì una situazione
giuridica legata ad esso. Per questo tipo di rapporto la verifica delle risultanze dei pubblici
registri non ha lo scopo di accertamento. Dunque tale verifica può essere realizzata per
prudenza, ma non può essere imposta.
La dottrina favorevole all’applicabilità dell’apparenza al condominio ritiene che si tratti di un
canone generale applicabile per analogia. Quanto al sistema di pubblicità, data la sua
eccessiva rigidità, l’apparenza è considerata necessaria per ridurre i formalismi del regime
di pubblicità, per la tutela della certezza del diritto. In questo senso, a fronte del mancato
controllo nei pubblici registri da parte dell’amministratore, l’apparenza può essere fatta
valere se non vi è corrispondenza tra la situazione di fatto e le risultanze, ove la situazione
apparente sia solo il presupposto di una fattispecie complessa, diretta a giustificare l’errore
del terzo di buona fede. Quindi gli oneri condominiali sono connessi col diritto di proprietà,
ma è evidente che su di essi non si troverà attestazione sui registri immobiliari.
Altra giurisprudenza, di segno opposto, tra cui si ricorda Cass.8 luglio 1998, n. 6653, affermava
che solo il proprietario vero della porzione dell’immobile potesse essere legittimato passivo,
perché non sussistevano le condizioni richieste per l’operare del principio di apparenza. Tale
principio è diretto a tutelare l’affidamento incolpevole del terzo: il terzo ha fatto affidamento
su una situazione non esistente nella realtà, ma solo in apparenza, alla quale l’ordinamento
non potrebbe ricollegare alcun effetto giuridico - proprio perché non si tratta di una
situazione giuridica reale – se non operasse il principio di apparenza, con conseguente
grave pregiudizio per le ragioni del terzo incolpevole. Nel rapporto tra condominio e
condomino non si ha esigenza di tutelare un incolpevole affidamento del condominio, non
solo perché il condominio non è terzo, ma anche perché a differenza dei casi classici di
applicazione del principio di apparenza- si pensi ad esempio al rappresentante apparentenon occorre collegare alcun effetto giuridico ad una situazione apparente, laddove sussiste
un vero e proprio rapporto giuridico tra condominio e vero condomino, non influenzabile dal
comportamento di nessuno, neppure di chi appare come condomino. Sul punto è giusto
evidenziare che mentre nelle ipotesi classiche di apparenza (rappresentante apparente e
società apparente) non esiste un rapporto giuridico e l’unico modo per dare tutela
all’affidamento e alla buona fede del terzo è attribuire rilevanza giuridica alla situazione
apparente, nella fattispecie di condomino apparente esiste un rapporto giuridico effettivo.
Dunque applicare il principio di apparenza in questo caso significherebbe disconoscere il
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Pag. 34
rapporto reale sussistente per riconoscere un rapporto apparente, del medesimo contenuto,
senza una effettiva esigenza di tutela di un terzo, solo perché l’amministratore ha agito nei
confronti di chi non era condomino. Un’ipotesi particolare nella quale potrebbe verificarsi
una confusione tra il dato reale e quello apparente è contemplata dall’art. 10, co.1 e 2,
L.392/78, secondo cui : “il conduttore ha diritto di voto, in luogo del proprietario
dell’appartamento locato, nelle delibere relative alle spese e alle modalità di gestione dei
servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria. Egli ha inoltre diritto di intervenire, senza
diritto di voto, sulle delibere relative alla modificazione degli altri servizi comuni.” Invero nel
prevedere il diritto di voto e di partecipazione del conduttore il legislatore non ha
assolutamente previsto la legittimazione passiva dello stesso rispetto al pagamento delle
spese condominiali, ammissibile solo in caso di accollo esterno del conduttore con accordo
dell’amministratore.
Contro l’applicazione del principio di apparenza nei rapporti condominiali si è espressa
anche parte della dottrina. In primo luogo si è esclusa l’operatività del suddetto principio nei
casi in cui sia previsto un regime di pubblicità costitutiva, ad probationem oppure di
semplice notizia. Se esiste un sistema di pubblicità è chiaro che il terzo può verificare quale
sia la situazione giuridica reale su cui fare affidamento. Pubblicità e apparenza risultano
dunque complementari, perché dirette alla tutela del terzo di buona fede, eppure
incompatibili, nel senso che ove sia previsto un regime di pubblicità, l’operatività
dell’apparenza non sarebbe giustificata da esigenze meritevoli di tutela. Più precisamente la
pubblicità può essere considerata come un limite all’apparenza: se la situazione di fatto
risulta in contrasto con quanto attestato dai pubblici registri, non è possibile invocare il
principio dell’apparenza e prevale la pubblicità.
Con la pronuncia a Sezioni Unite n. 5035 del 8 aprile 2002 il Supremo Collegio ha statuito che
legittimato passivo rispetto al ricorso per il recupero delle spese condominiali non corrisposte
non sia chi appare, ma chi è proprietario della porzione di immobile, in virtù di idoneo titolo
di acquisto. Le ragioni a fondamento di tale ricostruzione sono essenzialmente due: il
proprium del principio di apparenza e l’interpretazione degli artt. 1123 cc e 63 disp.di att.
cc., in caso di iniziativa processuale dell’amministratore.
Quanto al principio di apparenza è stato precisato che è diretto alla tutela dell’affidamento
incolpevole del terzo, purchè in buona fede in ordine alla corrispondenza tra situazione
apparente e situazione reale. Sennonchè il condominio non è terzo rispetto al condomino
ed anzi si crea un rapporto obbligatorio in cui il condominio si pone come ente di gestione.
Quindi non nasce alcuna esigenza di tutela di affidamento incolpevole del condominio
rispetto ad una situazione apparente. Più precisamente proprio perché tra il condominio e il
condomino esiste un rapporto, non è necessario che l’ordinamento ricolleghi sulla base del
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Pag. 35
principio di apparenza effetti giuridici ad una situazione apparente con l’intento di tutelare il
terzo che, senza sua colpa, aveva confidato sull’esistenza e sulla validità del rapporto tra
condomino e condominio.
L’interpretazione dell’art. 63 disp.di att.cc., fatta propria dalla Suprema Corte, evidenzia che
il pagamento dei contributi da parte del condomino apparente in ipotesi non contenziosa
risponde ad esigenze di celerità prevalenti sui doveri di informazione e di correttezza da
parte del condomino apparente nei confronti del condominio, oltrechè sul dovere di
consultazione dei registri immobiliari da parte dell’amministratore. A questo proposito si
ribadisce che non è previsto alcun dovere dell’amministratore di consultare i pubblici registri
immobiliari, evitando così aggravi economici per la sua gestione. In ogni caso il pagamento
del condomino apparente può essere spiegato come adempimento del terzo, ai sensi
dell’art. 1180 cc. Se invece occorre un’azione giudiziale per il recupero delle spese
condominiali, è esclusa l’applicazione del principio di apparenza, che è solo sostanziale, ma
sarà necessario agire sulla base di presupposti processuali, come appunto la legittimazione
passiva, strettamente ancorati alla realtà. In questo senso qualora l’amministratore di
condominio agisca in giudizio sia per ragioni di prudenza sia per il rispetto delle disposizioni
sulla tutela del credito, è necessario che l’amministratore stesso verifichi preliminarmente chi
sia il vero condomino obbligato, anche consultando i registri immobiliari. Tale dovere prevale
su quello di correttezza ed informazione proprio del condomino. Del resto anche su un piano
pratico è più conveniente per l’amministratore aggredire il patrimonio del condomino reale
giacchè, se egli agisse nei confronti del condomino apparente, correrebbe il rischio di non
potere soddisfare il proprio credito, nel caso in cui quest’ultimo non abbia ulteriori beni nel
proprio patrimonio. Peraltro la disciplina di cui agli artt. 1123 cc. e 63 disp.att.cc. a come
scopo non solo garantire celerità nel pagamento delle spese comuni, ma anche rafforzare
la garanzia di soddisfacimento del credito nell’interesse della gestione condominiale.
A seguito della pronuncia delle S.U. n.5035 del 2002 la giurisprudenza
di legittimità si è
assestata sulla tesi dell’inammissibilità dell’apparenza nei rapporti tra condominio e
condomini. Anche di recente questo orientamento è stato confermato, ex multis Cass. 9
febbraio 2005 n. 2616, che ribadisce la completa irrilevanza di tutte quelle circostanze
fattuali che vengono comunemente invocate a sostegno della fondatezza della pretesa
creditoria fatta valere nei confronti del condomino c.d. «apparente», in quanto non
proprietario di un'unità immobiliare sita nell'edificio. Come comportamento concludente
della qualità di condomino, insussistente però in diritto, ma comportante l'incolpevole
affidamento del condominio vengono invocate ad esempio le seguenti circostanze:
partecipazione alla formazione delle deliberazioni assembleari, direttamente o a mezzo
delega, pagamento continuativo delle bollette condominiali afferenti una determinata
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Pag. 36
unità
immobiliare,
mancata
comunicazione all'amministratore
del
condominio
del
trasferimento di proprietà della singola unità immobiliare, eventualmente imposta dal
regolamento condominiale, inesistenza di un obbligo specifico di consultazione dei registri
immobiliari ovvero di un accertamento delle «autoqualificazioni» dei partecipanti alle
assemblee condominiali e per le quali dovrebbe riconoscersi una sorta di autoresponsabilità.
La pronuncia precisa, molto opportunamente, che la inconfigurabilità del principio
dell'apparenza del diritto nel condominio, in ragione della insussistenza di una relazione di
terzietà tra il condomino e il condominio, comporta la necessità dell'esatta individuazione
del condomino effettivo, non solo nella fase di recupero delle quote condominiali, ma
anche nella precedente fase di convocazione dell'assemblea condominiale.
L’applicazione del principio di apparenza si è ipotizzata anche in caso di omessa
convocazione del condomino effettivo.
In materia, la Suprema Corte a S.U., con sentenza del 7 marzo 2005, n. 4806, ha statuito che:
nonostante
la
maggiore
stabilità
assicurata
alle
deliberazioni
condominiali
dalla
configurazione del vizio di annullabilità, invece di nullità, per l'omessa convocazione del
condomino effettivo, il condomino effettivo che non riceva l'avviso di convocazione, potrà
sempre impugnare le deliberazioni entro il termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c.,
dalla data della comunicazione della delibera, in quanto da ritenersi «assente». L'indirizzo
giurisprudenziale dell'inapplicabilità del principio dell'apparenza del diritto nei rapporti
condominiali ha, comunque, sottolineato, in relazione alla palese ingiustizia di tale rigoroso
orientamento ermeneutico, che «il fatto che il condominio, per errore determinato da un
comportamento altrui, possa avere intrapreso una iniziativa giudiziaria, può rilevare ad altri
effetti e determinare semmai altre responsabilità ed in altre direzioni» (Cass. 27 giugno 1994
n. 6187, Tale osservazione, scarsamente considerata dagli interpreti, risulta densa di significati
e può rivelarsi compensativa dell'ingiusto pregiudizio causato alla gestione condominiale da
un
comportamento
quantomeno
non
corretto
se
non
dolosamente
preordinato
congiuntamente al condomino effettivo per la sua liberazione dall'obbligazione alla quale
non può sottrarsi.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 37
IV) Il ruolo dell'apparentia iuris nell'istituto del mandato e della simulazione
di Samantha Mendicino
Si è già avuto ampiamente modo di precisare come l'apparenza del diritto rappresenti l'esito
di un intervento, quasi necessitato, dell'ordinamento giuridico il quale, in determinate e
particolari situazioni di incertezza8, agisce valutando il fatto apparente al pari di un evento
reale a tutela del principio della buona fede (in generale), di quello dell'affidamento
incolpevole dei terzi (in particolare) ed anche, per come meglio si vedrà nel prosieguo, del
principio della certezza nelle transazioni commerciali e/o nei contratti a titolo oneroso.
Si è potuto rilevare, inoltre, che l'errore è e rimane un fenomeno individuale-soggettivo
mentre, all'opposto, l'apparenza è un fenomeno sociale-oggettivo. L'applicazione di questi
concetti nella fenomenologia giuridica comporta che l'apparenza è l'origine di "un errore
collettivo possibile9".
In particolar modo ciò si rileva nell'applicazione dell'apparentia iuris nell'istituto del mandato
(art. 1729 c.c.), in tema di atti compiuti dal mandatario ancor prima di conoscere la causa
di estinzione del mandato.
Iniziamo col richiamare, seppur brevemente, le caratteristiche del mandato, quale contratto
cd. di collaborazione nell'altrui sfera giuridica o di gestione: "il mandato è il contratto col
quale una parte (cd. mandatario) si obbliga a compiere uno o piu' atti giuridici per conto
dell'altra (cd. mandante" (art. 1703 c.c.) e ciò può accadere in due modalità differenti
normativamente previste e, cioè, con o senza rappresentanza (rispettivamente, artt. 1704 e
1705 c.c.). La conseguenza -dell'essere di una o dell'altra opzione- è la differente operatività
degli effetti del contratto concluso in capo al mandante: nel primo caso, difatti, gli effetti si
esplicheranno ipso iure ed in modo diretto nei suoi riguardi; mentre nella seconda ipotesi,
affinchè gli effetti del contratto concluso possano essere "trasmessi" nella titolarità del
mandante sarà necessaria un'ulteriore attività da parte del mandatario.
Detto ciò, si può passare al summenzionato art. 1729 c.c., secondo cui: "Gli atti che il
mandatario ha compiuto prima di conoscere l'estinzione del mandato sono validi nei
confronti del mandante o dei suoi eredi". Detto altrimenti: il mandatario, nelle ipotesi di
8
necessitano sempre i requisiti di: 1) errore sulla corrispondenza tra apparenza e realtà del terzo in
buona fede; 2) presenza di elementi oggettivi idonei a trarre in inganno un qualsiasi soggetto dotato di
media diligenza; 3) mancanza di colpevolezza nell'errore; 4) secondo parte della dottrina esiserebbe
un quarto requisito consistente nella necessaria presenza della colpa in capo al titolare della situazione
reale (cd. apparenza colposa, già spiegata nel suesteso II° capitolo)
9
FALZEA A., Apparenza in Enciclopedia del Diritto, Vol. II - Milano, Giuffrè 1958, pag. 694 e ss.
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Pag. 38
estinzione10 del mandato, non subisce gli effetti del contratto concluso in virtù del mandato
sebbene ciò sia avvenuto in medio tempore tra l'estinzione del mandato stesso ed il
momento in cui questi viene a conoscenza della causa estintiva.
Dunque, da un lato, rimane salvo (e qui non c'era il minimo dubbio) l'eventuale diritto
acquisito dal terzo in virtù della stipula di un contratto col mandatario (anche perchè, ad
esempio, in ipotesi di revoca del mandato, rimangono obbligatori gli oneri del mandante di
portare a conoscenza dei terzi tale revoca con i mezzi idonei) e, dall'altro, lo stesso
mandatario non sarà responsabile in maniera diretta degli effetti del detto contratto, proprio
in virtù dell'apparenza relativa alla persistenza del proprio incarico.
E' evidente nel caso del mandato, più che in ogni altra ipotesi, come il legislatore si sia
preoccupato di applicare il principio dell'apparentia iuris soprattutto a tutela della certezza
dei traffici commerciali oltre che, ovviamente, a garanzia dei già summenzionati principi.
Altro discorso è, poi, il rapporto tra il principio dell'apparentia iuris e la simulazione.
L'art. 1415 c.c. così dispone: "La simulazione non può essere opposta né dalle parti
contraenti, né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona
fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della
domanda di simulazione".
Dunque, poichè lo scopo principale della simulazione è proprio quella di creare "una
apparenza" che mascheri la realtà dei fatti, sarebbe una contraddizione logica -prima
ancora che una ingiustizia sostanziale- il riconoscere al simulato alienante (rectius il soggetto
che "appare" come alienante ma che, in virtù del negozio dissimulato, rimane l'effettivo
titolare del bene e/o diritto) e/o a suoi eredi e creditori il poter profittare (per la seconda
volta) degli effetti di tale apparenza. Ed è a questo punto che occorre sottolineare una
importate differenza tra le tipiche ipotesi di apparenza in senso stretto e le dissimili situazioni
di apparenza determinate dalla simulazione. Ebbene, in entrambi i casi si ha un acquisto a
10
Tra le cause di estinzione del mandato si ricordano: A) la già menzionata revoca del mandato da
parte del mandante (art. 1723 c.c.) che rappresenta un recesso unilaterale con effetto ex nunc e che il
maandante può esercitare fin tanto che non gli viene comunicata l'esecuzione del mandato "Il
mandante puo' revocare il mandato; ma, se era stata pattuita l'irrevocabilita', risponde dei danni,
salvo che ricorra una giusta causa..."; B) la cd. revoca tacita (art. 1724 c.c.) "La nomina di un nuovo
mandatario per uno stesso affare o il compimento di questo da parte del mandante importano revoca
del mandato, e producono effetto dal giorno in cui sono stati comunicati al mandatario"; C) in caso di
morte o incapacità del mandante in cui l'estinzione ha effetto ex nunc (art. 1728/1 co, c.c.) "Quando il
mandato si estingue per morte o per incapacita' sopravvenuta del mandante, il mandatario che ha
iniziato l'esecuzione deve continuarla, se vi e' pericolo nel ritardo".
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non domino: si pensi all'esempio della vendita di bene da parte dell'erede apparente11 -per
la I a ipotesi- ed a quello della vendita di bene da parte del simulato acquirente12 in favore di
terzi -per la IIa ipotesi-.
Però, mentre nel caso dell'erede apparente esiste un soggetto che "sembra", "appare", "si
presenta" avente causa dal de cuius, in base proprio ad un giustificabile e possibile errore
collettivo, ma che, nella realtà, non ha il potere di compiere gli atti in discorso perchè non è
concretamente un erede; nel secondo caso, il soggetto che agisce e che vende (rectius il
simulato acquirente che, nel compiere gli atti di compravendita, sarà l'alienante nei
confronti dei terzi) ha il potere per far ciò perchè esiste nella realtà dei fatti un atto (il
contratto simulato) che lo legittima. Il discorso secondo cui, poi, in base ad un altro atto,
anch'esso esistente in concreto (il contratto dissimulato), egli non risultava tale, è un diverso
argomento che rileva nei rapporti tra simulato alienante e simulato acquirente ma che non
può nuocere ai terzi (tranne i casi in cui si riesce a dimostrare che, con qualunque
mezzo/modo, anche questi fossero a conoscenza dell'esistenza di tale contratto dissimulato).
Dunque, nell'ipotesi dell'erede apparente non esiste un atto che possa giustificare e
legittimare gli atti di disposizione di questi (ed è perciò che interviene l'ordinamento con il
principio del'apparenza, salvaguardando la buona fede e l'incolpevolezza nell'errore dei
terzi). Nella simulazione, invece, esiste concretamente il documento che legittimerebbe, agli
occhi dei terzi ed in maniera del tutto valida, gli atti di disposizione da parte del simulato
acquirente e, pertanto, non c'è alcuna apparenza nel senso suddetto: come "errore
collettivo possibile". Non ci sarebbe, insomma, alcuna apparenza in senso tecnico. Tutto
quanto scritto sino ad ora vale a giustificare i limiti di tutela offerti all'avente causa dell'erede
apparente, rispetto all'avente causa del simulato acquirente ex art. 534 c.c.
11
Art. 534 c.c.: "L'erede può agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo di erede o
senza titolo. Sono salvi i diritti acquistati, per effetto di convenzioni a titolo oneroso con l'erede
apparente, dai terzi i quali provino di avere contrattato in buona fede"
12
Art. 1415 c.c.: "La simulazione non può essere opposta né dalle parti contraenti, né dagli aventi
causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal
titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione".
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V) La società apparente
di Danila D’Alessandro
1) Il principio dell’apparentia iuris
Il principio di apparenza del diritto è riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico, per
assicurare delle forme di tutela e di garanzia dei rapporti giuridici complementari al sistema
legale di pubblicità.
La ratio sottesa al riconoscimento del principio risiede nella necessità di agevolare la
circolazione dei beni, tutelando l’affidamento riposto dal terzo nella rispondenza della
situazione di fatto apparente alla situazione di diritto.
Il principio dell’apparenza consente, dunque, di colmare il vuoto esistente tra il fatto e la
qualificazione giuridica di esso, superando l’eventuale distacco tra la realtà fattuale e la
realtà giuridica, cosi garantendo il terzo, che abbia legittimamente risposto fiducia
nell’effettività giuridica dell’effettività fenomenica, circa la corrispondenza della seconda
alla prima. Attraverso una fictio iuris, la situazione di fatto percepita dal terzo, pur non
corrispondendo a quella di diritto, è qualificata dall’ordinamento come se fosse
corrispondente a quest’ultima. Pertanto, tale situazione diviene produttiva degli stessi effetti
che si sarebbero prodotti in ragione della sussunzione sub iure del fatto medesimo.
Il principio di apparenza del diritto opera, soprattutto, nell’ambito di situazioni giuridiche
soggettive non disciplinate dall’ordinamento mediante la previsione di un meccanismo di
pubblicità, che permetta di verificare la rispondenza della realtà fattuale al piano del diritto.
Tale principio si affianca alle forme di pubblicità, disciplinate dal nostro legislatore, e
produce un effetto integrativo e di chiusura del sistema di garanzia. Perciò con
l’applicazione del principio d’apparenza vi è, la certezza delle situazioni giuridiche
soggettive nei rapporti di scambio.
L’ordinamento
giuridico
italiano,
al
contempo,
limita
l’operatività`
del
principio
dell’apparentia iuris, condizionandone l’efficacia alla sussistenza di tre presupposti
fondamentali:
a. l’apparenza c.d. semplice;
b. l’affidamento;
c. la buona fede.
L’apparenza semplice rappresenta il requisito oggettivo del principio, consistente in una
situazione di fatto, conseguente ad un comportamento o ad una dichiarazione di un
soggetto, che si vincola per effetto della propria condotta o della propria dichiarazione alla
situazione falsamente prodotta e alle conseguenze che ne derivano secondo l’ordinamento
giuridico.
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L’apparenza semplice si verifica quando la situazione di fatto abbia ingenerato nel terzo un
legittimo affidamento, realizzando la conformità della stessa alla realtà giuridica.
La ‘‘legittimità’’ dell’affidamento viene a mancare, oltre che in ipotesi di dolo del terzo,
anche laddove il terzo avrebbe potuto conoscere, usando l’ordinaria diligenza, la difformità
della situazione apparente da quella reale-giuridica. Sul punto, è costante l’orientamento
giurisprudenziale bel richiedere che il giudizio del terzo, che si forma in ordine alla
corrispondenza tra le due realtà ‘‘debba essere ragionevole, cioe` non determinato da un
atteggiamento colposo, il quale va ravvisato ogni qual volta il terzo, non attenendosi ai
dettami della legge o a quelli della normale diligenza, trascuri di accertarsi della realtà,
facilmente controllabile e si fidi, invece, della mera apparenza, incorrendo in un errore
inescusabile’’ (Cass. 6 novembre 1998, n. 11186).
Costituisce, infine, limite esterno dell’efficacia del principio di apparentia iuris la pubblicità,
dove la realtà giuridica risulta con certezza ed immediatezza, secondo le modalità di forma
prescritte per il regime proprio delle diverse tipologie di pubblicità.
2) L’applicabilità del principio dell’apparentia iuris in materia societaria. Società occulta,
irregolare e apparente.
Una volta delineati gli elementi distintivi del principio dell’apparenza, resta da verificare la
sua applicabilità nei rapporti tra i soci e i terzi, in relazione alla figura della cd. società
apparente.
Nelle società di persone l’atto costitutivo, a differenza di quanto previsto per le società di
capitali, non è soggetto a forme particolari. Pertanto, il contratto tra le parti può
perfezionarsi anche per fatti concludenti, cioè con comportamenti tenuti dai soci
corrispondenti al contenuto dell’atto costitutivo, indipendentemente dalla manifestazione di
volontà espressa.
In effetti, s’individua la particolare figura della società di fatto, quando due o più persone
lavorano insieme utilizzando beni e risorse economiche comuni al fine di realizzare e di
dividere gli utili. Perciò, tale fenomeno è una società esistente fra i soci e non iscritta nel
Registro delle Imprese, ed è una società collettiva irregolare che esiste come società e che
appare all’esterno come società.
Tale tipologia di società non è disciplinata dal codice civile, quindi, è necessario verificare di
volta in volta la sussistenza dei presupposti per dichiarare l’esistenza della società di fatto.
Perciò, la società di fatto è regolata dalla normativa vigente in materia di società semplice,
quando l’attività esercitata non si possa ritenere a carattere commerciale.
Di conseguenza tutti i soci saranno chiamati a rispondere personalmente e illimitatamente
delle obbligazioni sociali.
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Con l’espressione irregolare, invece, s’intende una società commerciale di persone non
iscritta nel Registro delle Imprese, poiché l’iscrizione non costituisce uno dei requisiti
fondamentali per la validità di tali forme societarie, ma è sufficiente la sussistenza di un atto
costitutivo valido.
Pertanto, la società irregolare si distingue dalla società di fatto, poiché in quest’ultima è
assente un accordo, anche solo verbale, tra i soci, pur sussistendo la volontà di esercitare
l’attività economica in forma societaria allo scopo di dividerne gli utili. Invece, nella società
irregolare deve esistere un accordo tra i contraenti, il cui contenuto minimo deve riguardare
l’oggetto sociale e i conferimenti.
In effetti, recentemente la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia con la sentenza
del 15 marzo 2010 n. 6175, con la quale ha stabilito che “ la concreta mancanza della prova
scritta di un contratto societario relativo ad una società di fatto o irregolare non impedisce
al giudice di merito l’accertamento aliunde dell’esistenza di una struttura societaria. Inoltre
la Suprema Corte ha ribadito che è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci
ai sensi dell’art. 2297 del c.c. l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della
condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento
circa l’esistenza della società.
Un altro fenomeno è, invece, la società occulta, che è costituita con la concorde e
manifesta volontà dei soci di svolgere l’attività d’impresa per conto della società, senza
spenderne il nome ed esteriorizzarne l’esistenza. Perciò i soggetti che decidono di dar vita
ad una società occulta, si accordano (cd. patto di occultamento) affinché non risulti il loro
vincolo societario all’esterno nei rapporti con i terzi. Il fine dell’accordo di non
esteriorizzazione della società è quello di limitare la responsabilità verso terzi al patrocinio del
solo gestore, evitando, in altri termini, che la società e gli altri soci rispondano delle
obbligazioni dell’impresa. Infatti, solitamente i soci occulti dispongono che nei confronti di
terzi appaia uno solo dei soci (o addirittura un terzo) il quale, pur agendo per conto della
società, tuttavia spende unicamente il suo nome, di modo che, all’esterno la società appaia
come un’impresa individuale.
In effetti, la società occulta è composta usualmente da un imprenditore individuale, che
appare all’esterno, e da un socio che resta nascosto, pur avendo tutte le caratteristiche del
ruolo. Perciò, la società occulta è una società esistente realmente in tutti i suoi elementi
costitutivi. Inoltre, le società occulte evidenziano delle problematiche in materia di
fallimento. Infatti, già prima che il D.Lgs. 156/2006 (riforma delle procedure concorsuali)
intervenisse a modificare l’art. 147 della L.F., alcuni studiosi (Ferri, Bigiavi) e la giurisprudenza
prevalente sostenevano che la mancata esteriorizzazione della società non impedisse
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l’estensione del fallimento dell’imprenditore individuale anche ai soci occulti, a tal fine
veniva interpretato estensivamente il 2°co. dell’art. 147 della L.F..
Però, con l’intervento della riforma delle procedure concorsuali, il legislatore ha consacrato
normativamente l’orientamento espresso sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza,
stabilendo nel 5°co. , l’estensione del fallimento dell’imprenditore individuale alla società
occulta, anche quando
si
scopra l’esistenza
della
società
successivamente alla
dichiarazione di fallimento, coinvolgendo l’imprenditore fallito come socio illimitatamente
responsabile (art. 147 L.F.).
In entrambi i casi, difatti, per provare l’esistenza della società viene richiesta, quindi, la prova
di un contratto sociale, costituito per regolare i rapporti tra i soci, in modo da poter tutelare e
garantire i terzi. Pertanto, la mancata esteriorizzazione del rapporto tra i soci non impedirà
l’estensione di eventuali responsabilità alla società stessa e a tutti gli associati.
Da queste tipologie di società dobbiamo distinguere la società apparente. La figura della
“società apparente” è di esclusivo conio giurisprudenziale ed è coerente con la ricostruzione
del principio di apparenza che la Suprema Corte ha costantemente sancito, affermando la
prevalenza della situazione apparente e di fatto, su quella di diritto, con la conseguente
responsabilità verso l’esterno di chi abbia attuato comportamenti o circostanze atte a
ingenerare nei terzi il convincimento dell’esistenza di un contratto societario tra chi ha agito
come socio e l’imprenditore.
In effetti, la dottrina prevalente afferma che la società apparente si realizza quando due o
più soggetti, non legati da alcun rapporto societario, si comportano in modo da ingenerare
nei terzi la convinzione che essi agiscono in qualità di soci, inducendoli a fare affidamento
sull’esistenza della società e sulla sua responsabilità solidale per le obbligazioni assunte (F.
Galgano).
La società apparente, è, quindi, tecnicamente una società simulata, retta dagli specifici
principi della simulazione dei contratti. Pertanto, la giurisprudenza precisa che per la società
apparente occorre una manifestazione di volontà anche dall’altro socio, sia pure di
carattere omissivo, come il reiterato silenzio, purché questo sia tale da denotare
l’approvazione di fronte agli altri del conosciuto comportamento (Cass. 8 ottobre 1973,
n.2534).
Perciò, alla luce dell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale consolidato, tale istituto è
recepito ed applicabile su scala generale nel nostro ordinamento, che ammette l’esistenza
di un imprenditore o di una società anche quando non sussistano nella realtà, ma di essi sia
stato creato il riflesso esterno, così da creare negli incolpevoli soci la convinzione che
l’imprenditore o la società siano effettivamente esistenti ( Cass. 19 febbraio 1993 n.2020, in
Giur. It, 1993,I,1,2008 in Corriere giur. 1993, 826, in Foro It.,1994,I,159, in Riv. Dir. Comm.,
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1993,II,432). A tale apparenza, quindi, consegue la responsabilità nei confronti di terzi di
coloro che appaiono come soci purché il rapporto sociale di fatto, sebbene, non
corrispondente ad una situazione di diritto, possa considerarsi esistente nei confronti di terzi in
guisa da far ritenere che le obbligazioni sociali siano garantite dal patrimonio sociale e
quello individuale dei singoli soci, è necessario che da parte di quest’ultimi vi siano
manifestazioni tali da ingenerare nei terzi, che con loro trattano, il convincimento
dell’effettiva esistenza e della responsabilità dell’apparente società (Cass. 22/04/1966 n.
1040).
Per la giurisprudenza, insomma, l’esteriorizzazione di un rapporto sociale, benché non
sussistente nei rapporti interni tra i soci apparenti, basta per tutelare i terzi che su quel
comportamento abbiano fatto affidamento (Cass. 10 agosto 1990, n. 8154, in Giur. it. 1991, I,
1, 591; Cass. 4 agosto 1988, n. 4827, ivi, 1989, I, 1, 463. In dottrina, isolatamente, Marziale,
Società di fatto, società apparente e affidamento dei terzi, in Giur. comm. 1975, II, 606).
In applicazione del principio generale di tutela dell’affidamento, quindi, la giurisprudenza
dominante considera responsabili illimitatamente e solidalmente, per le obbligazioni assunte,
i soci apparenti, che, colposamente, hanno realizzato una situazione difforme dalla realtà
generando nei terzi un legittimo affidamento.
Nella società apparente, la condotta dei soggetti agenti assume una funzione preminente
ai fini della tutela dei terzi, senza che sia necessario indagare se la società esista o meno in
concreto. Perciò, si ritiene che la prova contraria non deve consistere nella dimostrazione
dell’inesistenza della società, ma deve essere rivolta a fare escludere il comportamento
mediante il quale i soci apparenti hanno generato nei terzi in buona fede il convincimento
incolpevole dell’esistenza della società. Ai fini dell’assoggettabilità al fallimento di una
società apparente è la condotta idonea a ingenerare il convincimento incolpevole, nei terzi
della sussistenza di un vincolo sociale, è da sola sufficiente ad affermare l’esistenza di una
società di persone, senza aver necessità di accertare, se in concreto, ricorrano i presupposti
della comunione dei conferimenti e della condivisione dell’alea (Cass. 14.02.2001 n. 2095).
Pertanto, un orientamento consolidato della Suprema Corte sostiene che per limitare la
portata di tali principi è necessario il ricorrere di elementi come i seguenti:

l’affidamento dei terzi non discenda da loro colpa, per aver trascurato l’onere di
accertarsi della realtà delle cose;

l’apparenza oggettiva della situazione giuridica e la buona fede del terzo si
accompagni ad una condotta dolosa o colposa da parte del titolare della
situazione apparente che ha causato l’errore del terzo.
In presenza di tali condizioni è ammissibile il fallimento della società apparente. Pertanto, in
concreto si perviene al fallimento della società in virtù del fatto che la prova dell'esistenza
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della stessa si è ritenuta raggiunta attraverso la mera apparenza del rapporto.
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato opportunamente che la verifica del presupposto
soggettivo ai fini dell'apertura del procedimento concorsuale di fallimento va condotta
muovendo da due differenti angoli visuali: la prova, diretta o presuntiva, degli elementi
costitutivi del contratto sociale (società di fatto), oppure l'apparenza di un'entità
imprenditoriale collettiva in realtà insussistente (società apparente). Nello stesso senso, in
verità, si è espressa la dottrina largamente prevalente (Cottino, Diritto commerciale, I, 2,
Padova, 1994, 103-104; Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1995, 73; Di Chio, Rapporti
interni e comportamenti con i terzi come prove dirette... Cassazione civile Sentenza, Sez. I,
12/09/1997, n. 9030 - Pres. Borruso - Est. Bibolini - P.M. Maccarone (conf.)).
Naturalmente, in tale contesto la qualificazione in termini di socio apparente assume
rilevanza ai fini pratici del suo assoggettamento a responsabilità e per l’eventuale
dichiarazione di fallimento dello stesso.
Parte della dottrina ritiene che il consolidato orientamento giurisprudenziale sulla società
apparente vada contro i principi generali del sistema civilistico, in quanto, più
coerentemente con gli stessi principi, un socio apparente dovrebbe rispondere solamente
per illecito extracontrattuale ex art.2043 c.c. o, più in particolare, a titolo di rappresentante
senza potere.
Molto spesso, per giustificare l’applicazione in materia societaria del principio in esame, si fa
ricorso anche al concetto di rappresentanza apparente, ma parte della dottrina ha
sollevato eccezioni su tale ricostruzione ritenendo controversa l’applicabilità della disciplina
nella rappresentanza in diritto commerciale anche perché qui la stessa nozione di
rappresentanza assume connotati differenti.
Resta, però, il dato di fatto di un principio di diritto effettivo che dichiara il socio apparente
responsabile per i debiti societari e assoggettabile a dichiarazione di fallimento.
Il socio apparente va inquadrato insieme al socio occulto nella più generica figura del socio
di fatto, ma le due species sono profondamente differenti.
Il socio apparente, pur non essendo socio reale, si comporta come tale nei rapporti con i
terzi, mentre il socio occulto, pur essendo realmente socio, tuttavia cerca di celare ai terzi la
sua qualità.
La profonda differenza di presupposti delle due figure induce la giurisprudenza a ritenere
che nella declaratoria di fallimento di un socio di fatto non può essere giustificata sulla base
del contemporaneo accertamento in capo ad un soggetto della qualità di socio apparente
e di socio occulto perché le due figure sono alternative.
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Nella prassi l’individuazione e l’accertamento di una società apparente diventa più
complessa quando viene realizzato il coinvolgimento nei rapporti imprenditoriali o societari
dei consanguinei dell’imprenditore o del socio.
Il problema deriva dalla difficoltà di individuare il discrimen tra atti neutri spiegabili in termini
di affectio familiaris e effettivo sodalizio sociale.
Così la giurisprudenza, se, da un lato, afferma che in caso di società di fatto ritenuta tra
consanguinei la prova dell’esteriorizzazione del vincolo debba essere particolarmente
rigorosa, dall’altro, giunge a dichiarare il fallimento della moglie e del figlio dell’imprenditore,
ravvisando l’esteriorizzazione del vincolo sociale nelle fideiussioni continuative e sistematiche
prestate dai primi a favore del secondo.
3) Conclusioni
In conclusione, il principio dell’apparentia iuris è applicato in materia di diritto societario ed
in particolar modo nell’identificazione della società apparente, con la finalità di tutelare e
garantire i terzi.
La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria ha stabilito che per la sussistenza di una società
apparente è necessario l’operare due o più persone nel mondo esterno, in modo da
ingenerare l’opinione che siano legate da un vincolo sociale e la conseguente induzione dei
soggetti con i quali esse entrano in rapporto a fare affidamento in buona fede sulla
effettività e sulla responsabilità dell’apparante sodalizio.
Pertanto il ragionevole convincimento dell’esistenza di una società apparente, comporta la
responsabilità
dei
soci
verso
e
l’assoggettabilità
alle
procedure
fallimentari,
indipendentemente dall’obiettivo riscontro della stipulazione ed operatività del patto
sociale.
Bibliografia
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
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Cass. civ., 24 Marzo 1981 n. 1708
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
Galgano F., Trattato di diritto civile. Le società in genere, 2010
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Jaeger P., Appunti di diritto commerciale. Impresa e Società, Giuffrè Ed., 2010

Di Marzio F., La crisi d’impresa, Cedam, 2010
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VI) L’apparenza nel diritto processuale: errore del Giudice e rimedi impugnatori
di Maria Luisa Pignatelli
Un neofita del diritto che muove i primi passi nello studio del processo civile è facile preda
del tecnicismo delle forme che pervade la procedimentalizzazione del processo. Il codice di
rito è un catalogatore di procedure e procedimenti; ogni istanza di tutela del diritto è
inglobata in una forma ed introitata in uno specifico rito che si dinoccola in distinte fasi, frutto
di altrettante forme e procedure. I soggetti di diritto sono liberi nel potere di agire in giudizio
ma vincolati nelle forme di esercizio alla lettera del codice. Il formalismo della procedura,
seppur sovrabbondante nell’ordinamento italiano13, lungi dal rappresentare una spamodica
superfetazione compilativa, sottende la garanzia di certezza del diritto nella dinamica
dell’azione giudiziaria. La forma del diritto è un presupposto della effettività del principio
fondamentale garantito dalla Carta costituzionale ex art. 24: la predeterminazione di tutti gli
aspetti formali dell’esercizio dell’azione, diversificando la veste esteriore degli atti processuali
e i riti che incardinano in ragione del petitum e della causa petendi, consente alle parti di
orientarsi in modo consapevole nelle controversie da dirimere attraverso le vie legali.
La funzionalizzazione della forma alla effettività della tutela giudiziaria è comprovata dalle
soluzioni giurisprudenziali rassegnate in occasione di disfunzioni patologiche del formalismo
processuale. Più volte la Suprema Corte è stata investita del giudizio su questioni di
scollamento tra la sostanza e la forma degli atti giuridici, e più volte il giudice monofilattico
ha fatto sapiente ricorso al principio dell’affidamento incolpevole in chiave processualistica,
derivata del principio di apparenza del diritto.
Più noto nel ramo del diritto civile sostanziale14, l’apparentia iuris trova espressione anche
nella dimensione processualistica, quale modalità di espressione ed attuazione della tutela
del diritto alla difesa riconsociuto dall’art, 24 della Costituzione. La norma riconosce al
contempo il diritto di azione in giudizio e il diritto di difesa in giudizio, qualificandoli come ius
omnium, riconosciuti a tutti i consociati, a prescindere dallo status di cittadino. In particolare
il secondo comma, nel precisare che “la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado
del processo” fornisce l’appiglio giuridico su cui arroccare la soluzione giurisprudenziale della
prevalenza della forma sulla sostanza quando si ha riguardo alla necessità di individuare il
13
L’esigenza di semplificazione del processo civile attraverso la riduzione dei tretantrè riti esistenti, si è
tradotta nella ratio legis del d.lgs. n. 150/2011.
14
Nell’ambito del diritto civile sostanziale il principio di apparenza si riscontra in materia di petizione di
eredità (ex art. 534 cc.), di obbligazioni (ex art. 1189 cc. ), di rappresentanza (ex art. 1398), di
annullamento del contratto (ex art. 1445 cc.), di simulazione (ex art. 1415 cc.) e di mandato (ex art.
1729 cc.)
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corretto rimedio impugnatorio. Diversamente opinando il “diritto di difesa in ogni grado del
processo” sarebbe ostacolato nel suo concreto esercizio dall’incertezza delle modalità di
impugnazione; il tutto si traddurrebbero in una denegata giustizia per il soccombente.
La giurisprudenza di legittimità, sensibile alle esigenze di giustizia, ha preferito avvallare la
tutela della buona fede. Di fatti il principio di tutela della buona fede espressamente
declinato in diversi istituti del diritto sostanziale, (si pensi ad esempio alla materia contrattuale
alla buona fede nelle trattattive ex art. 1337 c.c., nell’interpretazione
ex 1366 c.c.;
nell’esecuzione ex art. 1375 c.p.c.), corre di pari passo con il principio della apparenza del
diritto e trova espressione anche nella dimensione processualistica, in ragione del suo
fondamento costituzionale, da rinvenire nell’art. 2 comma 2 della Costituzione (dovere di
solidarietà sociale). Dalle esposte coordinate normative si ricava che il principio
dell’apparentia iuris nella sua dimensione processuale garantisce la tutela dell’affidamento
incolpevole del soggetto che, nell’individuazione del rimedio impugnatorio, abbia confidato
nella correttezza della forma prescelta dal giudice di prime cure, giusta o sbagliata che sia.
Se è vero che in linea generale l’ordinamento giuridico garantisce la prevalenza della
sostanza sulla forma, imponendo di qualificare gli atti giuridici in base al loro contenuto,
anche se ciò importa una divergenza dal nomen iuris, una deroga si pone per gli atti del
giudice (sentenza, ordinanza o decreto) in ragione della massima garanzia dell’espribilità
del rimedio impugnatorio.
La Suprema Corte ha ritenuto che attraverso una limitazione si possa paradossalmente
assicurare una maggior garanzia di certezza del diritto e di tutela giurisdizionale. La
limitazione, per l’appunto, opera in relazione alla scelta del rimedio impugnatorio da parte
del soccombente, che non potrà arbitrariamente optare per il mezzo di impugnazione a sua
scienza più consono, ma dovrà osservare la forma prescritta dal giudice di prime cure,
anche laddove quest’ultimo abbia ritenuto di dover adottare un provvedimento decisorio
diverso da quello specificamente prescritto dalla legge in ragione del rito.
L’ipotesi non è così peregrina: si pensi al caso in cui il giudice neghi la sua giurisdizione ex art.
37 c.p.c. e 41 c.p.c. con un’ (apparente) ordinanza in luogo di sentenza, oppure con una
sentenza (apparente) decida nel merito di un’opposizione a decreto ingiuntivo relativo al
pagamento di prestazioni giudiziali forensi ex. art 30 l. n. 794/1942. Ed altre se ne potrebbero
aggiungere in tema di opposizione all’esecuzione ex art 615 cpc o agli atti esecutivi ex art
617 c.p.c., fino alla completa rassegna di tutti i riti attualmente vigenti o comunque ancora
applicabili ratione temporis per procedimenti in corso di causa. Non vi è chi non veda in
questa conclusione una improvida menomazione del principio di strumentalità delle forme,
ricavabile dal terzo comma dell’art. 156 c.p.c., tuonando contro la prescrizione della scelta
di un mezzo impugnatorio conforme alla veste esteriore del provvedimento giudiziale
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Pag. 50
evidentemente distonica rispetto al contenuto sostanziale, così avallando l’errore giudiziale.
All’obiezione si può
facile resistere osservando
che la regola
enunciata in via
giurisprudenziale offre maggiori garanzie di riduzione del pregresso errore giudiziale15; ed
infatti, se il giudice ha erroneamente deciso con sentenza una controversia da dover
definire secondo rito con ordinanza non impugnabile, il soccombente, legittimato alla
proposizione dell’appello ex art. 339 c.p.c. in ragione della forma del provvedimento
giudiziale, avrebbe la possibilità di godere di un ulteriore grado di giudizio nel merito. Di fatti
l’art. 339 cpc espressamente definisce l’oggetto dell’impugnazione con riferimento alla sua
veste esteriore di sentenza, così come definita dagli artt. 132 e 133 c.p.c.
All’opposto, se il Giudice ha erroneamente deciso con ordinanza non impugnabile un
giudizio destinato a concludersi con sentenza, il soccombente potrebbe trovar rimedio
all’errore giudiziale attraverso il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., ipotesi limitare di
garanzia giurisdizonale avverso provvedimenti giurisdizionali non altrimenti ricorribili, e per
tale via, essere rimesso in termini per la propozione dell’appello.
La compromissione del principio di libertà di forma è evidentemente giustificato da una
primaria esigenza di ampliare la base della tutela giuridica dinanzi all’errore giudiziale. Tutto
ciò senza neppure considerare come la libertà di individuazione del rimedio impugnatorio in
caso di sentenza nella veste di ordinanza o di ordinanza nella veste di sentenze potrebbe
risultare un ostacolo alla proposizione dell’impugnazione, gravando la parte del non facile
compito di interprete della volontà del giudicante espressa nel corpo del provvedimento16,
e, se estremizzata, potrebbe indurre la parte, nel dubbio, ad esperire contemporaneamente
più rimedi impugnatori.
Il principio di affidamento nella sua dimensione processualcivilistica, applicato alla natura
del rimedio impugnatorio, va a braccetto con la regola giurisprudenziale dell’ultrattività del
rito17.
15
La obiezione e la controdeduzione sono rassegnate nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni
Unite, n. 390/2011, cui liberamente si ispira il contenuto dell’articolo redatto.
16
Quanto finora esposto non trova applicazione nel caso in cui la forma del provvedimento giudiziale
sia frutto di un mero errore materiale, risultando evidentemente l’epilogo non coerente con il rito nel
concreto adottato dal giudice in corso di causa. In tal caso il principio di affidamento pur opera, ma
nella diversa prospettazione della correttezza dell’affidamento nella forma del procedimento (e non
del provvedimento decisorio) del soccombente intenzionato ad esperire un’impugnazione.
17
In una recentissima pronuncia (cfr. sent. ord. Cass. civ. del 19.1.2012, n. 774), la Corte di Cassazione
ha qualificato il principio di ultrattività del rito come “specificazione del più generale principio per cui
l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio
dell’apparenza”.
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Pag. 51
Ed invero per costante giurisprudenza si ritiene che il rito concretamente attuato dal Giudice
nel primo grado di giudizio, anche se erroneo, deve essere osservato nelle fasi successive del
giudizio; ciò in quanto unico titolare del potere di disporre un mutamento del rito è l’autorità
giudiziaria. Consentire alle parti di scegliere un rimedio impugnatorio diverso da quello
consono al rito seguito dal giudice nella precedente fase del giudizio, varrebbe a violare la
prerogativa esclusivamente giudiziale della facoltà di mutamento del rito18.
Una regola che ammette un temperamento in ragione del principio di strumentalità delle
forme19, già sopra richiamato ed ora ricorsivamente sottolineato, con la finalità di far salvi gli
effetti della domanda introduttiva del giudizio di impugnazione, seppur viziata nella forma.
Così l’appellante che erroneamente abbia introdotto con atto di citazione un appello
relativo ad un procedimento definito in primo grado con rito del lavoro potrà avvalersi
dell’automatica conversione della citazione in appello se il deposito dell’atto introduttivo
ritualmente notificato sia avvenuto nei termini di legge per il gravame; parimenti un appello
introdotto con ricorso anziché con la prescritta citazione sarà comunque procedibile se la
notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione sia
avvenuto nei termini di legge.
Le esposte conclusioni testimoniano che gli orientamenti giurisprudenziali tendono sempre
più a modulare il rigore delle formalismo procedurale fino agli estremi limiti consentiti dalla
necessità di garantire certezza del diritto e difesa giurisdizionale di tutte le parti in causa.
18
Le pronunce di legittimità in materia di ultrattività del rito sono numerose; tra le tante si segnalano:
Cass. civ. n. 682/2005, Cass. civ. s.u. n. 20749/2008, Cass. civ. n. 12990/2010, Cass. civ. n. 14406/2011.
19
Tale principio viene anche denominato “principio della congruità delle forme allo scopo”, cfr. C.
MANDRIOLI , Diritto processuale civile, vol. I., Giappichelli, Milano, XVI ed., p 407.
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A lezione di… diritto penale
Il nemico in casa: la violenza intrafamiliare ed i maltrattamenti subdoli
di Barbara Carrara
Sommario: 1) Maltrattamenti in famiglia; un fenomeno in aumento?;
2) La violenza
domestica; 3) Le violenze psicologiche 4)Un diritto penale della famiglia; 5) I maltrattamenti
subdoli; 6) Conclusioni
1. Maltrattamenti in famiglia: un fenomeno in aumento ?
In occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2012, il Procuratore Aggiunto della
Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma Maria Monteleone ha riportato alcuni dati
statistici in merito ai reati contro la libertà sessuale e la famiglia che sicuramente meritano
qualche riflessione.
Si tratta di dati rilevati dalla Procura di Roma sulla base delle denunce pervenute ed
iscritte dal 1 luglio 2010 al 30 giugno del 2011: da queste rilevazioni emerge che - nell'ambito
del purtroppo generale aumento di reati contro le donne -
anche i maltrattamenti in
famiglia hanno riportato un innalzamento pari all'8,44%.
Ancora, secondo le risultanze della Procura di Roma, gli indagati per il reato di
maltrattamenti risultano infine essere quasi sempre uomini, a differenza invece delle
condotte di stalking che vedono invece coinvolta una massiccia presenza femminile.20
Come sempre, tuttavia, il punto cruciale è la rilevazione statistica: l'analisi del
fenomeno attraverso atti formali - ossia registrati da istituzioni pubbliche - quali sono le
denunce delle parti offese non può non tener conto che le cifre fanno riferimento a persone
indagate per il reato di maltrattamenti e non condannate in base a sentenza definitiva; non
è neppure poi possibile ignorare il fatto che vengono talvolta portate avanti anche accuse
completamente strumentali, dirette precipuamente a creare pressioni e tensione in vista
dei giudizi civili per la separazione dei coniugi o l'affidamento dei minori.
20
Intervista rilasciata alla Agenzia DIRE dal Procuratore Aggiunto Maria Monteleone, pubblicata il 6
marzo 2012 ( www.dire.it)
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Per converso, dall'esperienza giudiziaria emerge come coloro che effettivamente
hanno subito abusi in ambito familiare sono poi i più restii a denunciarne gli autori alle
autorità competenti, per paura, vergogna o per un certo malinteso senso del decoro: gli
operatori non possono poi fare a meno di constatare con una certa frequenza come, tra la
vittima ed il soggetto abusante, operino molteplici legami emotivi, anche di estrema
intensità, per cui non è raro che si possa arrivare a percepire l'auto - colpevolizzazione del
medesimo soggetto passivo dell'abuso, il quale – in determinate condizioni – può persino
giungere a considerare se stesso come indirettamente responsabile dell'accaduto.
E' una semplice ed amara constatazione il fatto che la violenza endofamiliare sia
sempre esistita in ogni realtà socio - culturale che si ricordi21 ; i rilevamenti statistici non sono
poi in grado di riferirci con esattezza se si tratti di un fenomeno in aumento, però è un dato
certo che ne sia sicuramente mutata la percezione: in questo senso si consideri che l’opera
costante svolta in questi ultimi anni dai centri antiviolenza e dai servizi territoriale pubblici e
privati - anche attraverso l’utilizzo di gruppi di lavoro composti da operatori specializzati - ha
sicuramente permesso di superare alcune fra le moltissime resistenze che spesso frenano le
vittime, legate appunto a doppio nodo agli autori di reati da rapporti sentimentali, familiari,
di amicizia e purtroppo di mal riposta fiducia.
Nel corso del tempo l’ordinamento giuridico italiano ha recepito questa cruda realtà
in maniera molto diversa a seconda del susseguirsi dei diversi contesti storici e socio culturali: la stessa giurisprudenza delle corti di merito e di legittimità ha maturato – nel corso
gli ultimi venti anni - una sensibilità del tutto peculiare verso le tematiche attinenti i reati
intrafamiliari, puntualizzando ed al tempo stesso tuttavia ampliando gli elementi basilari
quali concetto stesso di ambito familiare, di abuso e di violenza.
2. La violenza domestica
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (WHO), la violenza domestica può
essere definita come “ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale che riguarda
tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di
coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno
relazioni di carattere parentale o affettivo”.
21
“La sua esistenza è un fatto noto, persino ovvio; al contrario, la sua visibilità “coram populo” è legata
alla evoluzione dei popoli ed alle sue contingenze” in Violenza domestica, un ossimoro da svelare e
comprendere, Quaderni per la salute e la sicurezza ISPESL, pag. 8
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Nel 2006 è stato istituito l’Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica (ONVD),
seguito dell’Accordo di Collaborazione stipulato tra l’ISPESL (Osservatorio Epidemiologico
Nazionale sugli ambienti di vita) e l’Università di Verona, alla presenza del Ministro della
Salute22. La struttura si avvale del Patrocinio del Ministero dell’Interno, ed il lavoro svolto sul
campo fornisce un valido punti di riferimento per un quadro rappresentativo della situazione
in tema di violenza intrafamiliare.
Prendendo come riferimento la nozione di “violenza domestica” elaborata dall’WHO
e già riferita, le forze di Polizia e dei Carabinieri presenti nella regione Veneto che hanno
monitorato il territorio nei primi sei mesi del 2011 hanno poi proceduto a segnalare ogni
episodio qualificabile come “violenza domestica”.
In sei mesi di segnalazioni, sono stati individuati 1.224 casi di violenza: il dato fa
riferimento alle denunce ed interventi diretti delle forze dell’ordine, e non comprende quindi
le richieste alle Centrali delle Forze di Polizia.
L'esito finale di questa attività monitorata è che – nel periodo e nella zona presa in
esame - le forze dell’ordine si sono trovate a dover fronteggiare circa quattro chiamate al
giorno per violenza intrafamiliare.23 In questo ambito, sono state rilevate non solo 1.169
vittime dirette, ossia persone che hanno materialmente subito la violenza, ma anche 328
persone che hanno dovuto in qualche modo assistere – perché concretamente presenti - al
momento consumativo del fatto violento, come nel caso di parenti e familiari.
Il punto veramente sconfortante riportato nel rapporto è che che una vittima su tre
segnala come si tratti solo del singolo episodio di una serie di soprusi: quindi, che almeno nel
30% dei casi la vittima della violenza non riesce ad uscire dalla sua difficile situazione.
Un dato di sicuro interesse riportato dall’ ONVD è dato dall’aumento delle vittime di
violenze domestiche appartenenti al genere maschile: ovviamente si tratta di percentuali
22
L’attività dell’ONVD è precipuamente di osservazione, rilevazione e monitoraggio del fenomeno,
attraverso gli “atti formali” registrati da Istituzioni pubbliche: il passo successivo, grazie all’apporto di
professionalità diverse quali criminologi, ricercatori universitari, medici, personale delle Unità di Pronto
Soccorso nonché operatori delle Forze dell’Ordine, è stato l’analisi, le interpretazioni e le indicazioni e
proposte per gli operatori e proposte.
E’ comunque di estrema validità la scelta metodologica per la indagine “a tappeto” piuttosto
che le selezioni per campione, che rende il dato sicuramente interessante. In tale senso, si veda
http://www.onvd.org/it/presentazione/metodologia-e-finalita.
23
I dati completi sono rilevabili su “Appunti per un lungo viaggio”, ONVD 2011 pag 7-9
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assolutamente inferiori rispetto alle sopraffazioni subite dalle donne, però si tratta di un nuovo
dato significativo.
3.Le violenze psicologiche
Non si ritiene sia concretamente possibile riportare in questa sede un elenco
esaustivo delle diverse tipologie di violenza che possono essere perpetrate in ambito
familiare;
questo per ragioni di completezza, poiché sia che si parli di violenze fisiche,
psicologiche o sessuali in ogni caso la gamma di ipotesi che si presentano è veramente
elevata,
sia perché la stessa definizione di violenza può essere diversamente intesa a
seconda del contesto di riferimento24.
Si procederà invece ad un approfondimento in tema dell’abuso psicologico, verso il
quale negli ultimi anni le corti di merito e di legittimità hanno mostrato una certa sensibilità.
Per abuso psicologico si intende generalmente quel tipo di comportamento che si
manifesta attraverso una serie di minacce ed intimidazioni, come pure attraverso vessazioni
e denigrazioni, volte a porre la vittima in una condizione di prostrazione e sottomissione tale
da lederne i fondamentali diritti di personalità e dignità.
Si parla in tal senso di violenza emotiva, poiché viene realizzata attraverso una serie di
condotte finalizzate ad umiliare la vittima, quali ad esempio i ricatti e le colpevolizzazioni, le
svalutazioni e le squalificazioni che - ripetute in modo continuativo - possono portare la
vittima all’annientamento morale.
Una tecnica di violenza psicologica ora valutata con molta attenzione è data
dall’isolamento, ovvero quella serie di condotte volte a rendere la vittima particolarmente
fragile ed insicura grazie ad una progressivo allontanamento della stessa da ogni tipo di
rapporto sociale extra familiare, spesso accompagnato anche dalla distanza emotiva con
l’autore stesso della condotta violenta, che tende così ad isolare la vittima da ogni altro
possibile confronto costruttivo.
E' bene notare come anche la violenza fisica porti con se’ - in realtà - una importante
componente di abuso psicologico: in un rapporto continuativamente connotato da forme
di violenza, la tensione e l’aggressività non possono che essere altissime e così pure anche lo
24
Una analisi veramente ampia, lucida ed esaustiva sulla gamma e sulle modalità della violenza
intrafamiliare è riportata in Giordano - De Masellis “ Violenza in Famiglia – percorsi giurisprudenziali,
Giuffrè 2011, pag. 4-122.
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Pag. 56
stress ininterrotto della parte lesa che vive, per così dire, ogni sua giornata sul filo del rasoio
nel terrore di porre in essere, volontariamente od involontariamente, un pretesto che possa
far scattare la violenza come causa scatenante.25
4. Un diritto penale della famiglia.
La migliore dottrina ha in passato sottolineato la volontà del legislatore del 1930 di
riconoscere alla famiglia la dignità di un soggetto che - pur privo di personalità giuridica sicuramente meritava un ruolo centrale nell’ordinamento, quale, appunto, ente distinto ed
autonomo dai membri stessi che lo compongono.
Ed è in questa prospettiva che dovrebbe quindi essere compreso lo sforzo del
legislatore ove questi, nel delineare il titolo XI del Libro II, lo abbia ampliato tramite
l'inserimento di nuove fattispecie, quali appunto il reato di cui all'art. 570 c.p nonché tramite
lo spostamento di ipotesi di reato già precedentemente sanzionate nell’ambito dei reati
contro la persona, come appunto è accaduto per il reato di maltrattamenti in famiglia
previsto dall'art. 572 c.p.26
Ad avviso di questa importante corrente dottrinale, l’obiettivo dunque sarebbe stato
il dovuto riconoscimento della tutela alla famiglia, realizzato attraverso un sostanzioso
allargamento delle ipotesi di reato poste a sua tutela, organizzate così in un apposito titolo
del codice penale.
E' interessante notare come nel codice, nonostante lo sforzo compiuto per
potenziare il diritto penale per la tutela della
famiglia
non sia poi stata inserita una
definizione formale di famiglia: com'è noto, i riferimenti diretti alla famiglia sono riportati
nell'art. 307 c.p. 4 comma 27, nelle circostanze aggravanti previste appositamente per il
25
Alcuni autori segnalano anche l’interessante categoria della violenza economica: si tratta di una
ipotesi di controllo indiretto, per cui l’autore della condotta impedisce alla vittima di divenire
economicamente indipendente, mantenendone così il totale controllo. La testi è sicuramente
suggestiva, tuttavia la violenza economica appare piuttosto come una species del più ampio genus
della violenza psicologica.
26
In tal senso, si veda la fondamentale monografia di F. Coppi, “Maltrattamenti in famiglia”, pag 204 -
207, Perugia, 1979. E’ opinione dell’Autore che quella stessa dottrina che negli anni trenta riproponeva
la famiglia quale soggetto dotato di “un suo onore, un suo ordine, una sua morale”, altro non avrebbe
fatto che ripresentare la medesima posizione assunta dai compilatori medesimi del codice Rocco.
27
Art 307 c.p. IV comma "Agli effetti della legge penale, si intendono per “prossimi congiunti” gli
ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti:
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Pag. 57
reato di omicidio di cui all'art. 577 c.p. 28, nell'art. 649 c.p in tema di causa di esclusione di
punibilità per i reati in danno dei prossimi congiunti 29 ed infine nell'art. 540 c.p. che
equipara la filiazione illegittima a quella legittima nel caso in cui il rapporto di parentela sia
elemento costitutivo del reato, circostanza aggravante o attenuante o causa di non
punibilità 30; in merito, è stata avanzata anche l'ipotesi che si sia trattato di una scelta
prudente, orientata ad estendere la tutela posta dalla famiglia tradizionale anche ad altre
forme di relazione differenti, nella illuminata prospettiva di una possibile evoluzione
dell'istituto.
Ben diverso, ovviamente, è lo spirito con cui è stata intesa la società naturale
fondata sul matrimonio riconosciuta e garantita dagli art 29 e 20 della Costituzione e grazie
nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia
morto il coniuge e non vi sia prole.”
28
Art. 577 c.p “Altre circostanze aggravanti. Ergastolo. Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto
preveduto dall’articolo 575 è commesso:
1) contro l’ascendente o il discendente;2) col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un
altro mezzo insidioso;3) con premeditazione;4) con concorso di talune delle circostanze indicate nei
numeri 1 e 4 dell’articolo 61.
La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il
coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo o contro un affine in linea
retta.”
29
Art. 649 c.p. “Non punibilità a querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti.
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dallo stesso titolo in danno:
1) del coniuge non legalmente separato;2) di un ascendente o discendente o di un affine in
linea retta, ovvero dell’adottante, o dell’adottato;3) di un fratello o di una sorella che con lui
convivano.
I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a
danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano
coll’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli articoli 628, 629 e 630
e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone.”
30
Art 540 c.p “ Rapporto di parentela. Agli effetti della legge penale, quando il rapporto di parentela è
considerato come elemento costitutivo o come circostanza aggravante o attenuante o come causa
di non punibilità, la filiazione illegittima è equiparata alla filiazione legittima.
Il rapporto di filiazione illegittima è stabilito osservando i limiti di prova indicati dalla legge civile,
anche se per effetti diversi dall’accertamento dello stato delle persone.”
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Pag. 58
alla quale sono state introdotte nel nostro ordinamento riforme epocali quali l'istituto del
divorzio del 1970 e la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Il diritto penale ha visto, grazie alla rinnovata concezione di famiglia, una sensibile
evoluzione che ha inciso in maniera considerevole sulla struttura codicistica: solo per citare
alcune profonde innovazioni si ricorda la legge 5.08.1981 (abrogazione della rilevanza della
causa d'onore), grazie alla quale sono stati abrogati gli articoli del codice concernenti
l'omicidio e la lesione personale per causa d'onore 31, l'infanticidio per causa di onore32 e
l'abbandono di neonato per causa di onore. In sintesi, possiamo sicuramente affermare che
l'originaria articolazione del titolo Xi in 14 articoli è stata senz'altro rivista dall'intervento della
Corte Costituzionale in esito alla mutata concezione del rapporto familiare.
Di pari importanza è sicuramente poi la disciplina - introdotta con la legge 4.04.2011
n.154 - in tema di misure contro la violenza nelle relazioni familiari, grazie alla quale nello
stesso codice di procedura penale è stata inserita la misura cautelare personale
dell'allontanamento della casa familiare di cui all'art. 282 bis c.p.p.: si tratta di una misura
volta alla concreta difesa della famiglia nei confronti di comportamenti abusanti, poiché il
giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico Ministero, con il medesimo
provvedimento che dispone l'allontanamento del soggetto violento può ingiungere al
medesimo lasciare la casa familiare e di non farvi rientro senza l'autorizzazione del giudice
che procede.
Per garantire l'incolumità della persona lesa e dei suoi congiunti, al soggetto
sottoposto alla misura può anche essere vietato l'accesso nei luoghi solitamente frequentati
31
Art 587 c.p. (abrogato) : “"Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella,
nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa
recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena
soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione
carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella".
32
Art. 578. c.p. : “Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale. La madre che cagiona la
morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è
determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la
reclusione da quattro a dodici anni.
A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore
ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere
diminuita da un terzo a due terzi.
Non si applicano le aggravanti stabilite dall’articolo 61 del codice penale (1)Articolo così
sostituito dalla L. 5 agosto 1981, n. 442.
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dalla persona offesa, quali il posto di lavoro, il domicilio della famiglia di origine e dei prossimi
congiunti ( art 282 ter c.p.p.).33
Dopo le importanti modifiche introdotte dalla Corte Costituzionale, i quattro capi del
Titolo XI risultano decisamente snelliti rispetto alla prospettazione originaria: il primo capo,
concernente i delitti contro il matrimonio (556 - 563 c.p., ma gli articoli dal 559 al 563 sono
stati resi costituzionalmente illegittimi dalla Corte Costituzionale con le decisioni n. 126 del
19.12.1968 e 147 del 3.12.1969 ); il secondo, relativo ai delitti contro la morale familiare (art.
564-565 c.p.); il terzo capo, attinente ai delitti contro lo stato di famiglia (566 - 569 c.p.) ed
infine, il quarto capo, dedicato ai delitti contro l’assistenza familiare, ove trovano luogo l'art.
570 c.p. in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare nonché le due fattispecie
di cui agli art. 571 c.p., concernente l’abuso dei mezzi di correzione e 572 .c.p. in tema di
maltrattamenti in famiglia.
Chiudono il capo i tre articoli in materia di sottrazione consensuale di minorenni (art.
573 c.p.), di sottrazione di persone incapaci (art. 574 c.p.) nonché l'art. 574 bis relativo alla
sottrazione e trattenimento di minore all’estero introdotto dalla L. 15.09.2009 n. 94, art 3,
comma 29, lett. b, cd “Pacchetto sicurezza”.
Sicuramente nelle aule di giustizia trovano ben più ampia applicazione le ipotesi di
reato previste nel quarto capo rispetto alle altre fattispecie configurate nel titolo XI benché,
come già rilevato in precedenza, i casi di maltrattamenti in famiglia che giungono in aula
non siano che la minima parte di un impressionante dato sommerso.
5. Maltrattamenti in famiglia: la fattispecie in breve
In
un certo senso, la condotta di reato tipizzata nel
reato di maltrattamenti in
famiglia, così come configurato nell'art. 572 c.p., individua per eccellenza - sia pure in
maniera non esaustiva - il fenomeno della violenza intrafamiliare34: non può rappresentarlo in
33
Come si ha già avuto modo di vedere, l'allontanamento del familiare che sia anche autore dei
comportamenti lesivi se – per un verso – garantisce l'incolumità dei familiari, presenterebbe tuttavia
anche il risvolto di togliere alla famiglia anche il portatore di reddito. Per questo motivo il testo dell'art
282 bis prevede, nel suo ultimo comma, la previsione di un assegno familiare in favore dei conviventi,
che può essere versato – ove così disponga il giudice – anche direttamente dal datore di lavoro del
familiare sottoposto alla misura. L'ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
34
Art. 572. Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo
precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o
custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.
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Pag. 60
maniera completa perché – come detto – sono molte le modalità in cui può sfociare la
violenza endofamiliare; a mero titolo di esempio, tramite le ingiurie, le percosse, le lesioni per
giungere sino alla violenza sessuale ed all’omicidio.
Ed è singolare che - sin dai suoi esordi - proprio sulla fattispecie di cui all'art. 572 c.p. si
siano concentrate le più dibattute discussioni sulla famiglia quale oggetto di tutela sia nella
ipotesi di reato di cui all'art. 572 c.p. come pure di tutte le fattispecie previste dal Titolo XI del
codice Rocco 35.
Il punto dibattuto, quindi , si sostanzia nella scelta operata nel 1930 di collocare la
fattispecie in esame nel titolo dedicato appunto ai reati contro la famiglia, ritenendosi
invece - da alcune voci dottrinali - che fosse in realtà diverso l'oggetto di salvaguardia
delineato dal testo codicistico.
Il codice Zanardelli già sanzionava i maltrattamenti attraverso la previsione di cui
all'art. 391 c.p., sistematicamente collocata nell'ambito dei reati contro la persona, ove la
condotta criminosa veniva sanzionata con una pena edittale pari nel massimo a trenta mesi:
rispetto alla normativa preunitaria - con riferimento sia al codice sardo del 1839 che rispetto
a quello sardo – piemontese del 1959 – venne comunque sensibilmente ampliato il novero
dei soggetti passivi di questa ipotesi di reato, che nei codici preunitari prevedeva
esclusivamente i cattivi trattamenti che fossero intercorsi tra coniugi36: nel codice Zanardelli
la formulazione dell'art. 391 c.p. ricomprendeva invece condotte delittuose
- sempre
procedibili ad iniziativa della parte privata - anche in danno di ascendenti, discendenti od
affini in linea retta.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni;
se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la
reclusione da dodici a venti anni.
35
“ Il problema che per primo ci sembra opportuno affrontare è quello, del resto fondamentale e
tuttora al centro di vivaci discussioni, dell’individuazione dell’oggetto giuridico del delitto previsto
dall'art. 572 c.p. Collegato tradizionalmente a questo è poi il problema (..) se la “famiglia” possa essere
considerata il soggetto passivo del reato di maltrattamenti o, più in generale, di tutti i delitti previsti nel
titolo XI del secondo libro del codice” in F. Coppi, Maltrattamenti in Famiglia, pag. 203, Università di
Perugia, 1979.
36
Nei codici preunitari, infatti, l'art. 515 del codice sardo piemontese – inserito fra i Delitti contro l'ordine
delle famiglie” sanzionava “i cattivi trattamenti di un coniuge verso l'altro, quando siano gravi e
frequenti “; anche il precedente codice sardo del 1839 aveva già stabilito con l'analoga norma di cui
all'art. 561 un reato di maltrattamenti nell'ambito dei reati contro l'ordine delle famiglie. In entrambe le
fattispecie, le sanzioni erano lievi e l'ambito di applicazione delle norme infine risultò molto relativo.
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Pag. 61
Nella formulazione del codice Rocco, la collocazione di una fattispecie ove si
prevedono condotte lesive anche nei confronti di persone non comprese nel nucleo
familiare poteva lasciar supporre che il bene giuridico tutelato dalla norma non fosse poi la
famiglia in quanto tale.37
Sul punto sono in realtà state delineate diverse linee di pensiero: un primo indirizzo
ritiene che l'oggetto della tutela debba essere appunto essere individuato nella difesa della
famiglia, che nel senso delineato dalla norma in esame indicherebbe un aggregato
familiare in senso ampio, inteso come comunanza di vita e non come legame propriamente
di sangue. 38
Secondo una diversa corrente dottrinale, non favorevole alla scelta operata dal
Codice Rocco, la norma in esame sarebbe esclusivamente finalizzata alla difesa della
integrità psico – fisica della vittima;39 un'altra linea interpretativa suggerisce poi che alla
tutela della integrità fisica e morale della persona si aggiunga la ulteriore difesa della
famiglia 40.
Di grande suggestione è infine la tesi che individua l'oggetto di tutela nel peculiare
rapporto di affidamento che unisce la vittima, sia esso familiare, minore o persona affidata
alla cura od autorità, all'autore del reato; detto legame presuppone una correttezza sulla
quale la parte offesa deve poter fare, per l'appunto, completo affidamento.
In questa prospettiva assume fondamentale rilievo la differenza tra l'offesa recata al
bene giuridico tramite un singolo comportamento lesivo e la lesione portata da una serie
continua di maltrattamenti, realizzati nell'ambito di un determinato contesto familiare o para
37
Sul punto, si veda Pisapia, voce Maltrattamenti in famiglia, in Novissimo Digesto Italiano, pag. 73:
l'Autore specifica che la norma in esame rappresenta il caso tipico in cui il contenuto plurioffensivo
della norma è dato dalla diversità dei rapporti che la norma stessa disciplina, vertendosi, in questa
ipotesi, di un contenuto alternativamente plurioffensivo e non contemporaneamente plurioffensivo. Ad
avviso quindi dell'Autore, nel testo dell'art. 572 vengono accomunate ipotesi che hanno un diverso
oggetto giuridico ed è il legislatore a decidere quale sia il bene giuridico la cui tutela sia prevalente e
quindi, la classificazione.
38
E' la posizione sostenuta da Delogu , Diritto Penale, 644. L'Autore specifica che il danno alla persona
sarebbe in realtà un danno indiretto, perché in via principale il maltrattamento colpirebbe l'ambiente
in cui l'individuo stesso organizza e sviluppa la sua personalità.
39
Così, Blaiotta, Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e dovere di solidarietà, CP 1996, 516.
40
In tal senso, Colacci, Maltrattamenti in famiglia e verso i fanciulli, Napoli 1963 pag. 17 ss.
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Pag. 62
- familiare. Ne consegue quindi che l'offesa viene propriamente perpetrata nei confronti
della “personalità”, intesa come la completa dimensione e dignità dell'individuo. 41
Il nucleo caratteristico della fattispecie criminosa è dato dalla abitualità delle
condotte di reato, come si rileva dalla stessa intitolazione della norma che parla, appunto, di
maltrattamenti intesi al plurale: un singolo episodio lesivo non può integrare la fattispecie
perché la azione criminosa deve essere reiterata nel tempo, in modo da far sì che il rapporto
relazionale venga reso abitualmente doloroso.42
D'altro canto, sia che si intenda il bene giuridico oggetto di tutela come il rapporto di
affidamento sia che lo si individui nella intera personalità e dignità dell'affidato, si tratta in
ciascuna di queste definizioni di beni suscettibili di subire una lesione continua nel tempo:
poiché si verte in tema di di reato abituale e non permanente, non si richiede che la
condotta vessatoria sia ininterrotta, ritenendosi pertanto assolutamente compatibile la sua
integrazione con periodi di (relativa) tranquillità .43
L'abitualità della condotta comporta, necessariamente, che non sia configurabile
l'ipotesi del tentativo.44
41
E' questa la tesi di Coppi, Maltrattamenti in famiglia, pag. 232.
42
Si parla pertanto di reato abituale a condotta plurima: la dottrina maggioritaria ritiene che si tratti di
un reato abituale proprio, nonostante la norma letteralmente indichi come soggetto attivo del reato
“chiunque”.
43
Cass. VI sez., penale 12.04.2006 n.26235 “pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che
durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità
e di accordo con il soggetto passivo (Sez. VI, 26 giugno 1996, Lombardo; Sez. VI, 1 febbraio 1999,
Valente).“ Si consideri poi che – trattandosi di reato a condotta plurima - nulla esclude che si
verifichino addirittura serie di episodi, distinte a loro volta da periodi di quiete, per cui potrebbe infine
concretamente realizzarsi l'ipotesi di reato continuato ex art 81 cpv. c.p. La giurisprudenza di legittimità
ha inoltre affermato che si può configurare il reato continuato anche nell'ipotesi di maltrattamenti posti
in essere nei confronti di più familiari (Cass.Pen. VI sez. 31.01.2003 n.7781): “poiché l'interesse protetto
dal reato di cui all'art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al
soggetto attivo, è configurabile il reato continuato nel caso di maltrattamenti posti in essere nei
confronti di più familiari” in Riv. Pen. 2004, 122 rv 224048.
44
Ritengono tuttavia che il tentativo si astrattamente configurabile Coppi, Maltrattamenti in famiglia,
pag. 285 e Colacci, Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, pag. 127: poiché si tratta di un reato
necessariamente abituale, sarebbe possibile che venga compiuta una serie di atti che ancora non sia
sufficiente ad integrare il reato consumato e questa serie venga interrotta poco prima della
consumazione e con elevata possibilità di danno.
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Pag. 63
La struttura stessa del reato come necessariamente abituale ha portato poi ad
escludere, da parte della prevalente dottrina, l'applicabilità della attenuante della
provocazione di cui all'art. 61 1 comma n. 2 c.p.
Poiché questa tipologia di reato si realizza sovente in contesti caratterizzati da alta
conflittualità, ci si è posti in effetti la questione se il fatto ingiusto della persona offesa possa
determinare la condotta criminosa e, pertanto, permettere l'applicazione della attenuante
di cui sopra.
In generale la conclusione è sempre stata sfavorevole, sia perché la reazione d'ira
mal si concilia con una ipotesi delittuosa che sanziona propriamente la volontà di
maltrattare, sia perché, trattandosi di una serie continua di atti di maltrattamento, appare
ben difficile che il fatto in sé provocatorio riesca a giustificarli tutti.45
Il presupposto del fatto è l'esistenza di un rapporto familiare oppure di un rapporto di
subordinazione o di affidamento: ad avviso della prevalente dottrina l'idea ispiratrice dello
stesso Guardasigilli era l'ampliamento del novero delle persone offese per rafforzare il
concetto stesso di famiglia quale “unità sociale”, portatrice di suoi interessi distinti ed
autonomi rispetto a quelli dei suoi singoli componenti; questa posizione, unitamente alla
volontà di considerare il reato di maltrattamenti in maniera unitaria rispetto alla ipotesi di
abuso dei mezzi di correzione (che contemplava già una categoria più ampia di persone
offese) si è risolta nella attuale formulazione.46
La Suprema Corte ha da tempo assunto l'indirizzo univoco per cui, ai sensi dell'art. 572
c.p., deve intendersi quale famiglia ogni “consorzio di persone tra le quali, per strette
relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la
necessità della convivenza e della coabitazione”: anche la cessazione del rapporto di
convivenza non fa venir meno la configurabilità del reato.4748
Anche per quanto attiene la natura dell'elemento psicologico del reato vi sono state
in passato alcuni interessanti confronti – mai sopiti a dire il vero – in merito alla necessità di un
dolo sì generico ma unitario e programmatico e quindi di una rappresentazione completa e
45
Anche il giudice di legittimità ha escluso che vi sia compatibilità tra l'attenuante della provocazione
ed un reato a condotta abituale: cfr. Cass. Pen. VI sez. 27.10.2000 n. 12307, CP 2002, 1393.
46
Una ampia ed articolata ricostruzione della evoluzione dottrinale in tal senso è proposta da L.
Monticelli in “I maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli “, in I Reati contro la Famiglia, Utet 2006.
47
Cass. Pen. III sez., 19.01.2010, n. 9242; Cass. Pen. VI sez. 3.03.2010 n. 24668.; Cass. Pen. VI ,29.01.2008 n.
20647 ( dep. 22.05.2008); Cass. Pen VI sez. 24.01.2007 n. 21329.
48
Cass. Pen. VI sez. 27.06.2008, n. 26571.
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volontaria di tutte le azioni criminose in un unico quadro d'insieme da parte del soggetto
agente. 49
Di diverso avviso è invece quella linea dottrinale che ritiene sia più coerente con la
struttura del reato proprio abituale la previsione e la volontarietà delle singole condotte,
purché sia presente la consapevolezza delle condotte precedenti: in una decisione molto
recente della Corte d'Appello di Trento (27.01.2012 n. 3809) viene nuovamente ribadita
questa posizione, specificando che il dolo in questa tipologia di reato è sicuramente di
natura unitaria, “in modo da non confondersi con la coscienza e volontà di ciascun
frammento della condotta, ma non è necessario che scaturisca da uno specifico
programma criminoso rigorosamente finalizzato alla realizzazione del risultato effettivamente
raggiunto. Ciò che la legge impone è solo che sussista la coscienza e volontà
di
commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà o del decoro della
persona offesa in modo abituale”.
Dalla accettazione dei singoli episodi, ognuno dei quali previsto dall'agente con la
consapevolezza dei precedenti, viene così rilevata la inclinazione della volontà a
maltrattare50; ad avviso della Corte di legittimità, il momento soggettivo di questa figura di
reato può ben realizzarsi in modo graduale, giungendo così a costituire poi il singolo
momento unificatore delle singole condotte. 51
Il peculiare schema del reato di maltrattamenti ha comportato in dottrina ed in
giurisprudenza l'insorgere di due ordini di problemi, che sono stati risolti nel tempo in maniere
assai differenti.
Prima di tutto ci si è trovati ad affrontare la controversa questione del concorso tra i
la figura di maltrattamenti con i singoli reati che concorrono a realizzarne la fattispecie, e
quindi – in alternativa - dell'assorbimento di questi ultimi nell' ipotesi stessa di cui all'art. 572
c.p.
Il punto di partenza di ogni analisi in questo senso non può che essere – come
dettato dall'art. 15 c.p. - l'identità del bene oggetto di tutela: per questo motivo si è ritenuto
che il reato di maltrattamenti assorba le diverse fattispecie di percosse (art 581 c.p.) e
minacce (art. 612 c.p.) anche gravi, qualora le singole condotte siano state poste in essere
49
E' questa la posizione sostenuta da Pagliaro ed - in tempi meno recenti - da Giovanni Leone, seguito
peraltro da una corrente minoritaria della giurisprudenza di legittimità.
50
Cass. Pen. VI sez. n. 6319 del 22.01.1994.
51
Cass. Pen. sez VI, 18.02.1995 n.2800 in Rivista Penale , 1995, 5, 583.
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Pag. 65
con la rappresentazione e la volontà di maltrattare, perché in essi identica è l'offesa al bene
giuridico oggetto di tutela 52 .
Per quanto invece concerne le lesioni, che – come per la morte – sono
espressamente previste dal secondo comma dell'articolo in esame come aggravanti
speciali della condotta di maltrattamenti qualora ne siano una conseguenza consapevole,
voluta o comunque accettata della condotta lesiva, si rileva come queste stesse – qualora
non volute dall'agente -
concorrano con la condotta di maltrattamenti proprio perché
hanno una obiettività giuridica differente.53
E' purtroppo estremamente frequente che la condotta di maltrattamenti in ambito
intrafamiliare venga realizzata mediante atti di violenza sessuale, che sarebbero
ordinariamente sanzionati dagli art 609 bis ss c.p.; un caso abbastanza esemplare è dato dal
coniuge al quale vengono imposti – contro la sua volontà – rapporti sessuali
sadomasochistici o comunque di altro genere non gradito al solo fine di provocarne la
mortificazione e la prostrazione (si veda la recentissima decisione di Cass. Pen. VI, 29.10.2011
n. 39228). In tal caso, attesa la diversa struttura della fattispecie di cui agli art 609 bis e 572
c.p. nonché il differente bene giuridico tutelato suggeriscono il concorso di reati. 54
Anche per quanto concerne il reato di riduzione in schiavitù di cui all'art. 600 c.p.,
non vi è identità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza: sempre argomentando sul diverso
oggetto di tutela nonché della differente condotta materiale si può ritenere che vi sia
concorso di reati: tuttavia una diversa linea di pensiero parte invece dalla constatazione
che il tratto comune nelle due ipotesi di reato sia dato dallo sfruttamento della vittima e
quindi dal suo maltrattamento; così, potendo applicare il principio di consunzione anche nel
52
Cass. Pen. VI sez. n.33091 del 19.06.2003 ( ud.5.08.2003) RV 226443;
53
Così Cass. Pen VI sez. 11.05.2004 n.28367 “la diversa obiettività giuridica del reato di maltrattamenti
del reato di lesioni personali esclude l'assorbimento del secondo nel primo, rendendoli, anzi
concorrenti”; ma in tema di lesioni involontarie lievi, si ritiene generalmente, sia da parte della dottrina
che della giurisprudenza, che le lesioni involontarie lievi o lievissime vadano assorbite dal delitto di
maltrattamenti come sua normale conseguenza, mentre per le lesioni lievi o lievissime si verifichi il
concorso di norme.
54
Questa posizione è tutt'altro che pacifica nell'ambito delle corti di legittimità: in Cass. Pen. III sez.
29.11.2000 n. 3998 si specificò che il delitto di violenza sessuale continuata non può concorrere
formalmente con il delitto di maltrattamenti, poiché entrambi presentano un dolo unitario e
programmatico, e la diversa obiettività giuridica è un criterio estraneo al principio di specialità.
Conforme, Cass. Pen. Sez. VI, 24.06.2004 n. 35849. A favore del concorso, invece, Cass. Pen. Sez. III
16.05.2007 n. 22850, Cass. Pen. VI sez. 25.06.2008 n. 35910, Cass. Pen VI. 12.02.2010 n. 12423.
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Pag. 66
caso di beni giuridici non omogenei, proprio perché le due norme hanno il comune obiettivo
della tutela del soggetto più debole da atteggiamenti di sopraffazione, non si potrà
configurare il concorso tra l'ipotesi di reato di cui all'art. 600 e quella di cui all'art. 572 c.p.55
Si ritiene invece pacificamente che non sia configurabile il rapporto di specialità tra il
reato di maltrattamenti ed il sequestro di persona, sia per la diversità di bene giuridico che di
condotta materiale. 56
Un diverso approfondimento merita poi
verifica del rapporto sussistente tra i
maltrattamenti in famiglia e la fattispecie criminosa espressamente richiamato dallo stesso
art 572 c.p., ovvero l'abuso dei mezzi di correzione.
Da una prima lettura della norma il delitto di maltrattamenti parrebbe unicamente
una ipotesi residuale rispetto all'abuso di mezzi di correzione, con la espressa clausola di
riserva specifica; la clausola esclude infatti l'applicazione del reato di maltrattamenti nel
caso in cui ricorra il cosiddetto fine pedagogico.
Nel corso degli anni l'asse del discorso si è tuttavia spostato dall'animus corrigendi,
quale criterio di discrimine fra le due fattispecie, alla condotta materiale concretamente
posta in essere e quindi al mezzo correttivo; poiché la violenza - a qualsiasi fine venga
utilizzata - rappresenta sempre e comunque un mezzo
illecito,
solo qualora il metodo
correzionale sia lecito in sé si potrà allora verificare se esista la volontà di vessare un proprio
sottoposto o familiare ed in tal caso si potrà quindi valutare la sussistenza dell'abuso di mezzi
di correzione.
Ponendo quindi la dovuta attenzione al mezzo correttivo utilizzato, la Suprema Corte
ha consolidato l'indirizzo per cui i mezzi di correzione consentiti sono esclusivamente quelli
che non comportano ricorso alla violenza, quindi rimproveri o punizioni non corporali: “gli atti
di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie di abuso dei mezzi di
correzione, dovendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano
l'importante e delicata funzione educativa” (Cass. Pen. VI 22.09.2005, n. 39927) ed ancora
“l'esercizio della funzione correttiva con modalità afflittive e deprimenti della personalità,
nella molteplicità delle sue dimensioni, contrasta con la pratica pedagogica e con la finalità
di promozione dell'uomo ad un grado di maturità tale da renderlo capace di integrale e
libera espressione delle sue attitudini, inclinazioni ed aspirazioni.” (Cass. Pen. VI sez.
25.09.1995 n. 2609).
55
La decisione della Cassazione prendeva in esame un caso di sfruttamento di minori, costretti alla
mendicità dai genitori stessi (Cass. Pen. VI sez. 12.12.2006 – 17.01.2007 n.1090);
56
Cass. Pen. 1 sez. 2.05.2006 n.18447.
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Un secondo ordine di questioni è insorto in merito alla corretta qualificazione in cui
inserire le ipotesi disciplinate dal secondo comma dell'art. 572 c.p., ove si legge che “Se dal
fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se
ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la
morte, la reclusione da dodici a venti anni.”
Ad avviso di una dottrina minoritaria, si tratta di circostanze oggettive di maggiore
punibilità che comporterebbero la fattispecie tra i delitti preterintenzionali in senso lato,
poiché l'evento più grave deve essere causato, ma non voluto dall'agente.57
Secondo una diversa corrente di pensiero, il fatto che rimanga inalterata la struttura
del reato porterebbe a pensare che si tratti in realtà di circostanze aggravanti speciali.
La dottrina maggioritaria sostiene invece che si tratti di autonome figure di reato,
aggravate o qualificate dall'evento: questa soluzione sembra più coerente con la differenza
di pena prevista tra l'ipotesi del primo comma (la reclusione da uno a cinque anni) ed i casi
previsti nel secondo comma, che prevede la reclusione da quattro ad otto anni per le lesioni
gravi, da sette a quindici anni per le lesioni gravissime e da dodici a venti anni in caso di
morte: si tratta in effetti di pene troppo elevate per semplici circostanze aggravanti.58
Infine, occorre prendere in esame il caso in cui la vittima, in esito ai maltrattamenti
subiti, decida di porre fine alla sua vita. Se infatti le pronunce giurisprudenziali hanno
considerato integrata l'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 572 c.p. solo qualora vi fosse
un sicuro collegamento tra il suicidio ed i gravi e ripetuti episodi di maltrattamento, tali da
provocare alla vittima il desiderio di porre fine alle sue sofferenze, la dottrina ritiene che
debba essere comunque operato un approfondito accertamento nel rapporto causale tra
maltrattamenti e suicidio; si argomenta in tal senso partendo dal presupposto che – almeno
nella maggioranza dei casi – l'autore del reato non desidera la fine della sua vittima, che,
anzi, gli è necessaria per appagare i suoi istinti prevaricatori. Secondo questa teoria, quindi,
per poter contestare l'ipotesi aggravata occorrerebbe una indagine aggiuntiva sulle
modalità del suicidio, al fine di comprendere se la decisione finale del soggetto passivo sia
effettivamente l'inevitabile conclusione di una vicenda di maltrattamenti oppure l'effetto di
una causa diversa connessa magari con la personalità del suicida.59
57
Così Pisapia, Maltrattamenti in famiglia, in Novissimo Digesto pag. 79.
58
E' questa la posizione sostenuta da Coppi, in Maltrattamenti in famiglia, pag. 262 e da Delogu, Diritto
penale, pag. 638.
59
Questa è l'interessante teoria di Preziosi, in “Maltrattamenti seguiti da suicidio: oggettivo e soggettivo
nell'imputazione dell'evento ulteriore, sullo sfondo della colpevolezza dell'autore” in 1988. Si veda però
anche Cass. Pen. VI, 29.11.2007 n. 12129, ove si ritiene che l'espressione “deriva” utilizzata dal legislatore
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6. I maltrattamenti subdoli
Come si è visto sono ad ora, le dispute sulla natura del reato sono dovute
precipuamente dal fatto che la condotta di maltrattamento solitamente si estrinseca in altre
condotte delittuose; tuttavia non è infrequente che tali condotte singolarmente individuate,
non configurino poi alcuna tipologia criminosa ed anzi, solo valutate nel contesto
complessivo della loro ripetizione abituale vengano qualificate per quel che realmente sono:
ovvero singoli momenti di un contegno complessivo volto a rendere un inferno l'esistenza del
soggetto passivo.
D'altro canto, l'ipotesi di reato descritta nell'art. 572 è una fattispecie a forma libera,
quindi può essere realizzata attraverso qualsiasi “comportamento idoneo”, sia esso una
condotta commissiva od omissiva60: da questa prospettiva, particolare rilievo è dato alla sia
alla sensibilità dell'operatore delle strutture di supporto di cui si è già fatto cenno, al quale è
richiesta la capacità di percepire e far emergere il malessere nella vittima del
maltrattamento, così da poter eventualmente aiutare e sostenere la presa di coscienza
nel secondo comma dell'art. 572 c.p. non possa essere intesa come una limitazione della attribuibilità
delle lesioni e della morte della vittima dei maltrattamenti ai soli casi in cui trovino in tale condotta la
loro unica causa. Ad avviso di questa pronuncia, “in natura non si hanno eventi prodotti da una sola
ed unica causa e che il ricorso alla espressione derivare non può significare una deroga ai principi
posti dallo stesso art 41 c.p., ma che, anzi, stia a segnalare proprio un rinvio alle regole in cui il codice
penale regolamenta l'imputazione soggettiva degli eventi causati dall'autore di un reato. Si ritiene
infatti, condividendo altra autorevole dottrina, che nella specie la condotta suicida possa considerarsi
come una causa sopravvenuta che abbia potenziato l'efficienza causale dei maltrattamenti
concorrendo a produrre l'evento.”
60
In dottrina si è soliti riportare l'esempio del minore privato di cure o sostegno alimentare: si segnala
tuttavia una rilevante decisione dei giudici di legittimità, ove si specifica che la morte del minore
determinata dalla mancata somministrazione di cibo integra il reato di omicidio volontario e non la più
lieve ipotesi di morte in conseguenza di maltrattamenti contemplata dall'art. 572 2 comma c.p. ( Cass.
Pen. 1 sez., 14.05.2008 n. 21329. La Corte argomenta dal fatto che è nella cognizione è nell'esperienza
di qualsiasi individuo che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino ne cagionerà
sicuramente la morte; pertanto occorre valutare – come nel caso affrontato – la presenza del dolo
diretto omicidiario poiché “ attesa la diversa obiettività giuridica del debito previsto dall'art. 572 c.p. E
di quello di omicidio volontario, qualora dai maltrattamenti derivi, come nel caso in esame, la morte
della persona offesa non è configurabile l'ipotesi aggravata di cui al capoverso dell'art. 572 c.p. Ed è
da escludere l'assorbimento, nell'ambito della citata fattispecie, del delitto di omicidio volontario,
quando la morte, lungi dal costituire una conseguenza non voluta della condotta abituale di
maltrattamenti, è stata oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell'agente, oltre ad essere
causalmente collegata alla condotta da questa posta in essere.”
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della situazione del soggetto passivo e segnalare il caso alle autorità; sia poi alla prudente
valutazione del magistrato cui compete di verificare se le condotte evidenziate integrino o
meno la fattispecie criminosa in esame.
Si è già avuto modo di vedere come le corti di merito abbiano da circa vent'anni
adottato un criterio dichiaratamente aperto per la individuazione di quelle condotte che
possono integrare il reato di maltrattamenti, ritenendo che questi non si realizzano
necessariamente tramite la compromissione della integrità fisica del soggetto passivo,
intendendo con ciò fare riferimento ai cosiddetti maltrattamenti “che lasciano il segno”, ma
anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità, purché questi si risolvano comunque in
vere e proprie sofferenze morali
61;
quel che rileva è se la singola condotta rientri nella
sopraffazione sistematica del soggetto debole, diretta a renderne impossibile l'esistenza: nel
caso di reati fra coniugi, per esempio “occorre di volta in volta verificare se la condotta
irrispettosa dell'un coniuge verso l'altro abbia carattere meramente estemporaneo ed
occasionale, nel senso che sia solo l'espressione reattiva di uno stato di tensione, che
comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, nel qual caso si dovrà eventualmente
fare richiamo a figure criminose estranee ai delitti contro la famiglia e rientranti tra quelli
contro la persona, oppure se la detta condotta si concreti nella inosservanza cosciente e
volontaria dell'obbligo di assistenza morale ed affettiva verso l'altro coniuge ( …) oppure, se
la condotta antidoverosa assuma connotati di tale gravità da costituire, per il soggetto
passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, nel qual caso l'ipotesi delittuosa
configurabile è quella di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. “ (così Cass. Pen. III, 9.03.1998,
n. 4752).
Alcuni autori hanno evidenziato come alla base della violenza domestica vi sia
fondamentalmente un abuso di posizione dominante, che può senz'altro essere considerato
un elemento decisivo sulla base della quale poter distinguere la violenza domestica dalla
conflittualità familiare . 62 Il giudice di merito viene così chiamato, volta per volta, ad operare
una ricostruzione del contesto familiare in cui è maturata la vicenda che si assume
criminosa, per valutare con esattezza il rilievo penale delle singole condotte poste in essere
nell'ambito del consorzio familiare; lo schema normativamente previsto della fattispecie non
richiede un completo stato di soggezione dipendenza della vittima rispetto all'autore della
condotta criminosa 63, ed il giudice di legittimità – con un discusso provvedimento del 2010 -
61
Cass.Pen VI, 7.06.1996, Vitiello
62
Giordano – De Masellis, Violenza in famiglia – Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè 2011
63
Cass. Pen. VI, n.4015 del 4.03.1996
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Pag. 70
ha escluso la sussistenza del reato qualora la parte offesa, per una sua particolare forza di
carattere, riesca a non farsi intimorire dai comportamenti prepotenti del coniuge.64
Così, come si è già avuto modo di vedere, anche la “intollerabile avarizia” può
integrare il reato in questione quando “non rappresenta altro che il callido alibi dietro cui
imporre il proprio autoritarismo gratuito, inconciliabile con il benché minimo rispetto
dell'affectio maritalis”; anche
le infedeltà ostentate, quando siano dirette a creare nel
coniuge una situazione di vita dolorosa ed avvilente, rientrano sicuramente nell'ambito della
condotta materiale dei maltrattamenti in famiglia e così pure il comportamento del coniuge
che obbliga la moglie a tollerare la presenza della concubina nel domicilio coniugale (
Cass. Pen. Sez. VI, 20 aprile 1977 n.1303).
Una recente decisione della Corte di legittimità ha individuato la condotta di
maltrattamenti anche nei comportamenti iperprotettivi della madre e del nonno nei
confronti del minore che ne abbiano impedito la socializzazione e, pertanto, ne abbiano
turbato lo sviluppo psichico.
Nel caso in esame, la condotta criminosa è stata qualificata come “eccesso di
accudienza”; in breve, la madre ed il nonno del minore sono stati ritenuti responsabili del
reato di cui all'art. 572 c.p. per aver privato il minore di ogni contatto sociale con i suoi
coetanei nonché di avere di fatto cancellato la figura del padre, rappresentato al ragazzo
come una personalità del tutto negativa ed impedendo allo stesso figlio di assumere il
cognome del padre.
Il decisum della Corte è estremamente indicativo nel precisare la natura della
materialità dei maltrattamenti necessari per integrare la condotta criminosa: la rubrica
dell'art. 572 non sanziona esclusivamente quel tipo di atteggiamenti che presentano una
“chiara connotazione negativa”, almeno secondo il comune sentire, come abbandonare
un minore in strada per obbligarlo all'elemosina oppure esporlo a contesti erotici.
Questo perché l'interesse dello Stato – in questo tipo di delitto – non è solo, come si è
visto, la salvaguardia della famiglia dai comportamenti dichiaratamente negativi, ma
64
L'iter logico del giudice nomofilattico è lineare: non è sufficiente un semplice stato di tensione che
per poter parlare di sopraffazione di un coniuge in danno di un altro, ma è necessaria una condotta
abitualmente lesiva della integrità fisica e morale del soggetto più debole che – nel caso in esame – si
era poi rilevato semplicemente “fortemente scosso” dai comportamenti dell'imputato che –
evidentemente-non erano idonei ad integrare la condotta lesiva (Cass. Pen. VI 12.03-02.07.2010 n.
25138). Diversamente, i comportamenti umilianti, volgari ed irriguardosi, come una serie continua di
aggressioni verbali ed ingiuriose possono senz'altro configurare il reato di maltrattamenti quando
realizzino un regime di vita mortificante ed avvilente (Cass. Pen. II 11.11.2011 n.4101- conforme
Cass.Pen. VI sez. 16.11.2010 - 28.12.2010 n. 45547).
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Pag. 71
anche la tutela della incolumità fisica e psichica dei soggetti passivi indicati nella norma,
“interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello
svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle
risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente”
In questa prospettiva anche gli atteggiamenti iperprotettivi e le deprivazioni
psicologiche e sociali possono integrare il reato di maltrattamenti: ne' può essere portato
quale discrimine del maltrattamento lesivo della maturazione psicologica e fisica del minore
il fatto che quest'ultimo non percepisca il maltrattamento quale tale ma anzi ritenga
inconsapevolmente di vivere in uno stato di benessere, poiché il minore esige tutela anche
al di là della sua percezione soggettiva.
Sul punto il provvedimento richiama poi la ferma posizione della giurisprudenza di
legittimità per cui il reato di maltrattamenti non può mai essere scriminato dal consenso
dell'avente diritto; il consenso ad essere maltrattati è sicuramente una tematica
estremamente viva nell'ambito delle dinamiche intrafamiliari, ove sovente si ravvisano forme
di auto colpevolizzazione da parte dei soggetti passivi del reato.
La dottrina maggioritaria ha da sempre ritenuto che i beni salvaguardati dalla
disciplina dei reati contro la famiglia non rientrino nell'ambito dei diritti disponibili cui fa
riferimento l'art. 50 c.p.65
Alcuni autori ritengono che il limite alla disponibilità del diritto alla integrità personale
vada circoscritto in base all'articolo 5 del codice civile, che limita gli atti di disposizione del
proprio corpo; tuttavia si ritiene genericamente che se le condotte lesive dell'integrità
personale vengano realizzate in un contesto familiare, l'ordinamento ponga una tutela
rafforzata rispetto ai reati contro l'incolumità individuale ed, in tal senso, deve essere anche
intesa la procedibilità d'ufficio per il reato di maltrattamenti prevista nella normativa
codicistica.66
Nel caso affrontato dalla Suprema Corte per l'eccesso di accudienza, si ritiene che il
reato di maltrattamenti non possa mai essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, “sia
pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali o, come nella specie, scelte e stili
pedagogici obsoleti, od in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base
dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili
65
Articolo 50 c.p. Consenso dell’avente diritto. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col
consenso della persona che può validamente disporne.
66
L. Monticelli, Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, in Reati contro la famiglia.
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Pag. 72
dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto
di famiglia.”
Si tratta sicuramente di un provvedimento innovativo che segna un passo avanti
nella nozione di maltrattamento
67:
in tale senso la giurisprudenza sta mostrando una
considerevole sensibilità per adeguare il concetto stesso al mutare della realtà sociale e dei
costumi.
In precedenza si è fatto riferimento ad alcune recenti rilevazioni statistiche, che
correttamente hanno censito non solamente le vittime dirette delle condotte di reato, ma
anche tutti coloro che – in qualche modo – erano stati costretti ad assistere al perpetrarsi
della violenza.
Ebbene, già nel 2010 i giudici di legittimità avevano sancito come la condotta
vessatoria ed umiliante diretta verso la madre abbia sicuramente ripercussioni tali nei figli
minori - costretti ad assistere alla mortificazione della madre – da integrare la condotta di
maltrattamenti in famiglia. Nel caso affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza n.
41142/2010, i giudici di legittimità avevano rilevato come tale fosse il clima di angoscia
maturato in ambito familiare che i figli minori avevano più volte espresso la volontà di non
recarsi a scuola nel timore di lasciare la madre senza difesa.
Poiché il reato può essere realizzato anche mediante atti omissivi, non è quindi
necessario – ad avviso della Corte - uno specifico comportamento vessatorio nei confronti di
un soggetto determinato, ma è sufficiente l'instaurazione di un clima di prostrazione
all'interno di una comunità, ove i soggetti attivi siano tutti consapevoli degli abusi realizzati, a
prescindere dalla entità numerica degli atti vessatori e della loro riferibilità ad uno qualsiasi
dei soggetti passivi (Cass. Pen. VI sez. 8592 del 21.12.2009 (dep.03.03.2010); conforme, Cass.
Pen.V sez. 22.11.2010 n. 41142.)
Conclusioni
I riferimenti giudiziari sul maltrattamenti psicologici sono in costante aumento: i casi
individuati segnalano che si tratta di manifestazioni differenziate e spesso complesse, indici di
una conflittualità esasperata in ambito familiare.
Il richiamo alla prudenza nelle valutazioni è ovviamente di rigore, poiché non di rado
la questa conflittualità si traduce in forme di insidia non immediatamente percepibili che
67
Secondo un arguto commento, la Cassazione sembra aver assunto quasi il ruolo di giudice minorile,
chiamato a valutare il contesto familiare e la condotta lesiva indipendentemente dalla percezione
che ne abbia il minore cf. V. Pusateri, in Diritto Penale Contemporaneo
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Pag. 73
richiedono agli operatori sia grandi capacità di analisi che la rara capacità di vedere oltre
l'immediato.
Se infatti una violenza fisica, per quanto devastante, può forse essere individuata e
comunque fermata, la violenza psicologica può lasciare del pari tracce indelebili e talvolta
insanabili.
Nel 2000 venne data alle stampe una pubblicazione della WHO, l'Organizzazione
mondiale della Sanità, in tema di Violenza domestica contro le donne e le bambine: sin
dalle prime battute del documento si rileva una verità sotto gli occhi di tutti, potremmo dire
di una evidenza cristallina: donne e bambini, quindi o soggetti deboli per eccellenza,
corrono i maggiori pericoli proprio nel luogo ove teoricamente dovrebbero trovarsi più la
sicuro: la famiglia. 68
La violenza psicologica, ovviamente, per sua stessa natura sfugge per lo più ad ogni
tentativo di classificazione: in questo modo non è facile fornire una misura di un fenomeno
che riguarda uno dei livelli più insidiosi e pericolosi di violenza. Le vittime spesso riferiscono
che una vita passata nel terrore è sovente più orribile della stessa violazione della integrità
fisica.
Il problema non è strettamente connesso al livello sociale o di istruzione, come pure
al censo od all'etnia. Numerosi studi sul tema confermano – sia pure con tutta la prudenza
che suggeriscono dati che abbiamo visto essere molto limitati - che gli autori delle violenze
domestiche
sono
spesso
persone
incensurate,
senza
nessun
atteggiamento
apparentemente criminale o comunque pericoloso. Alcuni appaiono all'esterno come
genitori normali e coniugi affettuosi; solo l'oggetto delle violenze è quindi a conoscenza di
avere, purtroppo, il nemico in casa.
68
M. Khan, La violenza domestica contro le donne e le bambine, Innocenti Digest n. 6 Giugno 2000, in
http://www.unicef-irc.org/publications/235. Si veda anche la rilevazione statistica eseguita
dall'ISTAT e pubblicata nel 2007 in www3.istat.it/salastampa/comunicati/non...00/testointegrale.pdf.
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Pag. 74
Il fenomeno della "magia" nel diritto penale: i termini della odierna analisi
di Federica Federici
Tra i numerosi e delicati aspetti di rilievo giuridico afferenti al fenomeno di maghi, imbonitori
ed all’occultismo ed esoterismo in generale, si rinvengono:
- la questione della qualifica della fattispecie dei possibili reati ad esso sottesi. che vanno dal
plagio alla circonvenzione di incapaci, dalla violenza morale ai maltrattamenti - anche
minorili - nonché ricatti ed estorsioni, associazione a delinquere, esercizio abusivo della
professione medica, violazioni delle leggi che disciplinano il rapporto di lavoro, minacce ed
evasioni fiscali, reati tribunati, fino alla truffa;
- il tema dell’inquadramento dei gruppi a cui i soggetti si affiliano, che associano gli adepti
condizionando necessariamente le loro abitudini, valori, idee, atteggiamenti come singoli e
nel tessuto familiare e sociale;
- il sistema sanzionatorio trattandosi di organizzazioni spesso non riconosciute o soggetti
difficilmente individuabili;
- la loro natura come enti religiosi o come sette o come associazioni o come altra tipologia
di associazione con aspetti criminali, la cui qualifica ha una ricaduta inevitabile
nell’ordinamento penale;
- il trattamento fiscale e tributario a loro spettante;
- le questioni di carattere internazionale e trasnazionale del loro trattamento;
- questioni legate al sistema gerarchico interno sia sotto il profilo giuridico che sociologico
che criminologico.
La rivista, riservandosi di approfondire tali tematiche nei numeri successivi proprio per la
complessità del fenomeno, affronta in questo numero il caso Scientology69, che non è
69
I governi di Svizzera (Rapporto della Commissione Consultiva della Sicurezza dello Stato. Luglio 1998),
Germania (Rapporto Jaschke del 1995 e Cosiddette Sette e Psicogruppi, rapporto finale presentato al
Governo dal Parlamento Tedesco, giugno 1998) e Belgio definiscono ufficialmente Scientology come
un culto totalitario. In Germania, in particolare, nel dicembre del 2007, il ministro dell'Interno tedesco
Wolfgang Schäuble e i responsabili dell'Interno dei 16 stati federali hanno concordato di "non
considerare Scientology un'organizzazione compatibile con la costituzione" aprendo quindi la strada
per una possibile messa al bando dell'organizzazione. In Francia, un documento parlamentare
(Rapporto Guyard prodotto nel 1995 ha classificato l'organizzazione come un culto pericoloso; in
Francia Scientology è stata condannata per truffa nell'ottobre 2009 e ad una multa di 600 000 euro,
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Pag. 75
riconosciuta come confessione religiosa dall'ordinamento giuridico italiano e non è, altresì,
riconosciuta come Ente di Culto. Pertanto, Scientology, mancando sia dell'intesa che della
qualifica di ente di culto, non è una religione riconosciuta dallo Stato Italiano.
Per la precisione, si analizzeranno con particolare attenzione:
- le sentenze della CEDU del 2007 e della Cassazione Penale (Cass. Pen., III Sez., sent. 23
febbraio 2000, n. 2081) relative al fenomeno Scientology;
- il "Sistema Vanna Marchi" nella Rubrica "Il caso" di Martino Modica;
- la situazione attuale dell'occultismo in Italia nella rubrica "Oltre il mio nome" dove troverete
l'intervista al Prof. Silvano Fuso, responsabile per la scuola del C.I.C.A.P. (Comitato Italiano
per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) condotta da Tommaso Migliaccio
Buona lettura.
evitando il rischio di scioglimento grazie ad un recente emendamento legislativo che impedisce alla
giustizia francese di sciogliere le organizzazioni condannate per truffa. In Gran Bretagna, Scientology
non raggiunge gli standard legali per essere considerata una religione. In Grecia un'inchiesta partita
nel 1995 ha portato alla condanna in tribunale e conseguente smantellamento dell'organizzazione
avvenuto nel gennaio 1997. Lo status di Scientology continua ad essere fonte di controversie in molti
paesi nel mondo e Scientology stessa tende a presentarsi come religione o negando di esserla a
seconda delle norme vigenti nel Paese. Lo stesso Parlamento europeo nel 1997 si è occupato del
fenomeno settario in Europa. Nella relazione viene più volte citata Scientology come esempio di setta.
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Pag. 76
Il caso Scientology per la giurisprudenza italiana e comunitaria70
di Federica Federici
Forse non è (abbastanza) noto né all’opinione pubblica né agli
operatori del diritto che - sia in ambito nazionale che comunitario
- vi sono state pronunce su Scientology.
La qualifica di Scientology, termine che deriva dal latino scio (da
cui scientia) ovvero
"conoscere” e dal vocabolo greco logos
ovvero "parola, è molto controversa: i siti ufficiali di Scientology
parlano di "filosofia religiosa applicata", in realtà Scientology è
un'organizzazione che raccoglie e diffonde l'insieme delle credenze e pratiche ideate da L.
Ron Hubbard nel 1954 basate sul precedente sistema di auto-aiuto denominato Dianetics.
Hubbard ha dato nel tempo diverse definizioni di Scientology ("filosofia religiosa", "corpo
organizzato di conoscenza", ecc.). Molte fonti71 la definiscono una setta.
Da un punto di vista giuridico il riconoscimento dello status di "religione" è accordato a
Scientology solo in alcuni Stati (ad esempio Stati Uniti e Australia); in Europa, nella
maggioranza degli Stati, non gode dello status di religione riconosciuta.72 Manca a
70
Il simbolo di Scientology, la croce ad otto punte, è molto simile a quello della setta del satanista Aleister Crowley
di cui Hubbard fu membro (secondo Scientology come spia del governo americano anche se questa tesi è
considerata assolutamente ridicola dai suoi detrattori).
71
Time 6 maggio 1991, Richard Bear; L'espresso Numero 5 - ANNO XLIII - 6 febbraio 1997; LA VOCE n. 30,
8 agosto 1997; Dipartimento di Sociologia dell'Università di Alberta, Canada. Scientology: is this a
religion? - documento rilasciato il 30 giugno 1997 a Lipsia, Germania, Jon Atack, 1990; A Piece of Blue
Sky: Scientology, Dianetics and L. Ron Hubbard Exposed, Russell Miller, Bare-Faced Messiah 1988, Il libro
nero delle sette in Italia, Caterina Boschetti, Newton Compton, 2007, Rapporto Guyard; Relazione sulle
sette dell'unione europea, Rapporto del Dipartimento di Pubblica Sicurezza sul fenomeno delle sette
(Italia).
72
Il quartier generale di Scientology si trova nella cittadina statunitense di Clearwater (Florida). A
gestire i marchi d'impresa è il Religious Technology Center (RTC). Dopo la morte di Hubbard nel 1986, il
movimento è guidato da David Miscavige, presidente del Consiglio d'Amministrazione del Religious
Technology Center (RTC).
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Pag. 77
Scientology una teologia e un concetto di dio definito, e non richiedendo di aver fede in
esso, secondo alcuni non potrebbe essere definita una religione, bensì un culto o un sistema
di automiglioramento.
Prima di approfondire la posizione della giurisprudenza comunitaria e nazionale sul
fenomeno Scientology, si tenga presente che tale organizzazione è considerata la
“religione” più costosa della terra: esistono infatti esistono precisi listini per qualsiasi prodotto
(libri, audiocassette, ecc.) o servizio (auditing, corso, ecc.) proposto dall'organizzazione.
Dai "listini delle donazioni obbligatorie" interni si può quantificare in circa 25.000 euro il costo
complessivo per raggiungere lo "stato di Clear", e in circa 250.000 euro quello per
l'ottenimento del livello di OT VIII, il più alto attualmente a disposizione.
Oltre all'elevamento spirituale in quanto tale, le Chiese di Scientology organizzano
periodicamente grandi "event" che si concludono con raccolte fondi per l'attuazione di
questo o quel progetto, e le testimonianze parlano di forti pressioni a versare ingenti somme
di denaro, o all'acquisto di materiali e gadget vari.
Scientology costituisce un vero e proprio mondo a parte per i suoi membri, che vengono
invitati a disconnettere, cioè a troncare i contatti, con chi è ostile al movimento e che, a
giudizio degli istruttori di Scientology, ha l'unico scopo di distruggere Scientology, ostacolare
il percorso spirituale dello scientologist, impedire il "chiarimento del pianeta".
La persona che quindi mette in atto un qualsiasi comportamento di critica o contrasto verso
Scientology viene etichettata come "persona soppressiva" e può essere non solo il criminale
conclamato che non ha mai speso una parola contro Scientology, ma anche il genitore
semplicemente preoccupato dall'affiliazione del figlio, chi scrive un articolo critico su internet
ecc....
A volte si tratta di ex-membri che hanno abbandonato Scientology e parlano apertamente
delle loro esperienze negative. Ai membri di Scientology viene vietato qualsiasi contatto con
la persona etichettata come "soppressiva".
Scientology ha la reputazione di intraprendere azioni ostili verso chiunque la critichi
pubblicamente.
Giornalisti, politici, ex scientologisti, gruppi anti sette, già a cominciare dal 1960, hanno
accusato Scientology delle più svariate malefatte e quasi senza eccezione, tutte queste
critiche, sono state oggetto di ferma reazione da parte di Scientology attraverso cause
legali e accusando pubblicamente i critici di personali malefatte.
Molti critici hanno inoltre riferito di essere stati oggetto di molestie e minacce.
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Il fenomeno Scientology in Italia
Scientology arriva in Italia nel 1974 con la fondazione del primo "Hubbard Dianetics Institute",
inizialmente senza l’utilizzo del nome Scientology e senza che il movimento si presentasse
come una religione.73
Con i primi seguaci arrivano rapidamente anche le prime polemiche. Sin dall'inizio infatti i
vari centri di dianetica furono oggetto di esposti ed indagini di varie preture d'Italia per reati
di truffa, violazione valutaria, associazione a delinquere, esercizio abusivo della professione
medica, circonvenzione di incapaci, violazioni delle leggi che disciplinano il rapporto di
lavoro. Alla metà degli anni ottanta Scientology fu quindi al centro di una gigantesca
inchiesta giudiziaria che si concluse con il rinvio a giudizio, nel 1988, di 140 operatori dei suoi
centri, ormai diffusi su quasi tutto il territorio nazionale.
Le imputazioni spaziavano dalla circonvenzione di incapace all'abuso della professione
medica, fino all'associazione per delinquere. Il procedimento, che per 12 anni vide alternarsi
pesanti condanne dei giudici di merito e annullamenti dalla Corte di Cassazione, si concluse
in via definitiva nel 2000. I vertici furono assolti dall'imputazione di associazione per
delinquere, ma furono mantenute alcune condanne per circonvenzione di incapace e
abuso della professione medica.
Nel 1996 Scientology (più propriamente la New Era Pubblications Italia Srl, casa editrice della
chiesa) viene condannata dall'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato per
pubblicità ingannevole (Provvedimento n. 3582).74 Nel 1997 Scientology viene nuovamente
73
Il primo statuto della sede di Milano del 1977 affermava che l'organizzazione aveva natura
"idealistica", la dianetica era indicata non quale religione ma quale scienza. Con lo statuto del 1982
(dopo circa trent'anni dalla fondazione di Scientology) per la prima volta i fini dell'organizzazione
verranno definiti "religiosi, culturali ed idealistici", anche in Italia, e sarà introdotto il termine "chiesa",
nonostante l'organizzazione di Milano continuasse a denominarsi Dianetics Institute. Con lo statuto del
1985 l'organizzazione assumerà anche in Italia il nome di Chiesa di Scientology.
74
Si legge nel provvedimento del Garante che “il messaggio pubblicitario, apparso sul settimanale
"Oggi" (n. 35 del 30 agosto 1995, pag. 87), teso a promuovere la vendita, effettuata dalla New Era
Pubblications Italia Srl, del libro "Dianetics" di L. Ron Hubbard, abbinata all'omaggio del libro "La via
della felicità", costituisce, limitatamente alla parte in cui si vantano come riconoscimenti da parte di
130 Governi e del Congresso degli Stati Uniti semplici ringraziamenti di cortesia per l'invio in omaggio
del libro "La Via della felicità", pubblicità ingannevole, ai sensi dell'articolo 2, lettera b), del Decreto
Legislativo n. 74/92, e ne vieta l'ulteriore diffusione.”
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condannata dall'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato per pubblicità
ingannevole (Provvedimento n. 5016).75
Infine nel novembre del 2004 il Tribunale di Cagliari condanna (N. 1555/2003 R.G. TRIB. N.
25/1999 R.N.R.) un dirigente della locale organizzazione di Scientology a 4 anni e 6 mesi di
reclusione per il reato di estorsione, nel dettaglio il dirigente è stato condannato: perché,
anche in concorso con altre persone non identificate, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, mediante minacce, costringeva ripetutamente De. R. a
consegnargli varie somme di danaro in contanti per un ammontare complessivo di circa
cento milioni di lire, così procurandosi l'ingiusto profitto della predetta somma, con pari
danno della persona offesa. Minacce consistite: nel prospettare la morte della persona
offesa e dei suoi genitori; nel prospettare rivelazioni su particolari intimi della vittima appresi
nell'ambito dell'associazione "Missione Chiesa di Scientology" di Cagliari frequentata dalla
vittima (e di cui il Ca. era dirigente).
Esistono tuttavia una serie di provvedimenti - a livello nazionale e non - favorevoli
all’organizzazione.76
75
Si legge nel provvedimento del Garante che “il messaggio pubblicitario reclamizzante 20 lezioni di
"Anatomia della mente umana", così come descritto al punto 2, è da ritenere ingannevole ai sensi
degli artt. 1 e 2, con riferimento all'articolo 3 del Decreto Legislativo del 25 gennaio 1992 n. 74, per le
ragioni e nei limiti esposti in motivazione, e ne vieta, con effetto immediato, l'ulteriore diffusione.”
76
Nel 1993, negli USA, Scientology ottiene la piena esenzione fiscale per sé ed i gruppi affiliati e il
riconoscimento dello status di "charity". Nel novembre 2007 in Spagna la terza sessione amministrativa
dell'Audiencia Nacional, il tribunale speciale spagnolo, ha dato il via libera all'iscrizione di Scientology
nel Registro unico delle Entità Religiose del Ministero della Giustizia, dandole così personalità
giuridica.Per ottenere la pronuncia favorevole (dopo il diniego avuto dal Ministero della Giustizia, due
anni prima) Scientology ha dovuto riscrivere il proprio statuto. Il 5 aprile 2007 la Corte Europea dei diritti
dell'uomo ha accolto il ricorso della Scientology contro la Russia. In particolare il processo ha
sanzionato la Russia per la condotta che ha tenuto nella richiesta di registrazione come ente religioso
di Scientology, poiché ha negato tale registrazione senza fornire spiegazioni adeguate. In sostanza,
quindi, Scientology non viene "riconosciuta" come religione (compito che non è di pertinenza della
Corte Europea dei diritti dell'uomo), più semplicemente viene sanzionato il comportamento negligente
delle istituzioni Russe nella valutazione dello status di Scientology. Nell’ottobre 2001, la Sezione Civile
della Corte Suprema di Cassazione ha annullato una precedente sentenza sfavorevole a Scientology
della Commissione Tributaria Regionale di Milano, in quanto ha affermato che la natura religiosa di un
ente va accertata di volta in volta sulla base delle indicazioni date dalla Corte Costituzionale.
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Attualmente Scientology è presente in Italia con una ventina di "org" (chiese) e una
quarantina di missioni sparse su tutto il territorio nazionale, con una netta prevalenza nelle
regioni settentrionali. Dichiara di vantare più di 100.000 seguaci sul territorio nazionale, ma il
Rapporto di Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno su "Sette religiose e nuovi movimenti
magici in Italia" del 1998 ne ha identificati circa 7.000.
Massima
A prescindere dalla natura - religiosa o meno - di centri ed organizzazioni aventi
caratteristiche come quelli affiliati a Scientology, essi devono soggiacere ai fini tributari al
trattamento degli enti commerciali, sia per quanto attiene alle imposte dirette sui redditi sia
per quanto riguarda l'imposta sul valore aggiunto. In altri termini, si tratta di un'attività
religiosa "a pagamento", che, in quanto produttiva di reddito per l'organizzazione che la
gestisce, pertanto essa non è sottratta agli obblighi tributari.
Sintesi del caso
In seguito a denunce presentate da familiari di aderenti alla associazione, preoccupati
soprattutto del salasso economico cui andavano incontro i loro parenti per usufruire dei
servizi offerti dalla chiesa, venivano avviati vari procedimenti penali per truffa, esercizio
arbitrario della professione medica e associazione per delinquere, quasi tutti però conclusi
con l'archiviazione.
La materia del contendere
La qualificazione quali enti religiosi dei c.d. centri Narconon, gestiti in Calabria dalle
imputate delle sentenza appellata, che si presentano come articolazioni operative della
ormai nota Chiesa di Scientology
Nella fattispecie di causa alle imputate, quali amministratici della Comunità Narconon
Albatros, è stata contestata l'omessa presentazione della dichiarazione fiscale ai fini delle
imposte dirette e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché la omessa annotazione nelle
scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell'I.V.A. di corrispettivi superiori
alle soglie di punibilità (per gli anni dal 1990 al 1993). Si tratta quindi di stabilire se per la
Comunità Narconon ricorrevano i presupposti soggettivi e oggettivi per l'applicazione della
imposta sui redditi delle persone giuridiche e dell'imposta sul valore aggiunto.
Quaestio juris
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La mancanza di un formale riconoscimento da parte dell'ordinamento giuridico italiano fa sì
che la natura di confessione religiosa andrà accertata di volta in volta dal giudice chiamato
a dirimere una data questione. L'accertamento della natura religiosa andrà fatto sulla base
dei principi indicati dalla Corte Costituzionale che dice: Nulla quaestio quando sussista
un'intesa con lo Stato. In mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche
da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri,
o comunque dalla comune considerazione.
Normativa di riferimento
D.P.R. 26.10.1972 n. 633
D.P.R. 917/1986 - T.U.I.R. artt. 87, 108 e 111
D.Lgs. 4.12.1997 n. 460
Nota esplicativa
L'autoqualificazione statutaria della chiesa di Scientology come associazione religiosa è
diventata centrale nelle vicende processuali che la riguardavano sotto il profilo penale o
tributario. In virtù della sua natura religiosa, infatti, molte decisioni delle commissioni tributarie
le riconoscevano il diritto all'esenzione dai tributi spettante appunto alle associazioni con
scopo religioso o culturale; così come molte pronunce dei giudici penali assolvevano dai
reati tributari, in base alla considerazione che la chiesa e le sue articolazioni operative non
rientravano tra i soggetti passivi delle imposte sui redditi e dell'I.V.A.
In ordine ai reati tributari, la Cassazione sottolinea come la natura religiosa dell'ente,
secondo la normativa vigente, non sempre esclude i presupposti soggettivi e oggettivi degli
obblighi tributari e quindi delle norme che puniscono la violazione degli obblighi stessi. Per
quanto invece riguarda l'applicabilità dell'imposta sui redditi delle persone giuridiche, viene
in rilievo il capo terzo del titolo secondo del t.u.i.r., specificamente dedicato agli enti noti
commerciali, vale a dire agli enti che non hanno per oggetto esclusivo o principale
l'esercizio di attività commerciale (lettera c), comma 1 dell'art. 87), come sono in genere gli
enti religiosi, assistenziali, terapeutici e simili. Per questi enti l'art. 108 del testo unico stabilisce
che non si considerano attività commerciali (e quindi non sono soggette all'imposta) le
prestazioni di servizi (diverse dalle attività industriali, di intermediazione, di trasporto, bancarie
e assicurative di cui all'art. 2195 cod. civ.) "rese in conformità alle finalità istituzionali dell'ente
senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi
di diretta imputazione". Per conseguenza, sono da considerarsi attività commerciali soggette
all'imposta quelle prestazioni di servizi che, pur conformi alle finalità istituzionali dell'ente, sono
rese attraverso una specifica organizzazione e contro corrispettivi che eccedono il costo del
servizio, ovverosia producono reddito. E ciò vale - com'è stato notato - sia quando il servizio
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"a pagamento" è diverso e solo strumentale rispetto all'attività religiosa dell'ente, sia quando
costituisce l'essenza stessa dell'attività religiosa.
La Cassazione ha concluso che, pur ammettendo il carattere religioso della chiesa di
Scientology di quelle sue articolazioni terapeutiche che sono i centri Narconon, considerata
la specifica organizzazione che li caratterizza, e la prestazione di servizi, comprensivi di vitto e
alloggio, a fronte di corrispettivi più che remunerativi rispetto ai costi, tali centri devono
soggiacere ai fini tributari al trattamento degli enti commerciali, sia per quanto attiene alle
imposte dirette sui redditi sia per quanto riguarda l'imposta sul valore aggiunto. In altri termini,
si tratta di un'attività religiosa "a pagamento", che, in quanto produttiva di reddito per
l'organizzazione che la gestisce, non è sottratta agli obblighi tributari.
Se è vero che per gli enti di tipo associativo, al cui novero appartiene sia la chiesa di
Scientology sia la comunità Narconon, l'art. 111 del t.u.i.r. detta una disciplina particolare,
secondo cui non è considerata commerciale l'attività svolta dall'ente nei confronti degli
associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali dell'ente stesso, sicché le
somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non
concorrono a formare il reddito complessivo soggetto al tributo (comma 1), è altrettanto
vero che, a norma del secondo comma dello stesso art. 111, si considerano tuttavia
effettuate nell'esercizio di attività commerciali le prestazioni di servizi agli associati o
partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote
supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali hanno
diritto; sicché in tal caso tali corrispettivi concorrono alla formazione del reddito complessivo
tassabile, come componenti del reddito di impresa ove la prestazione del servizio abbia
carattere di abitualità.
I giudici di merito avevano accertato - con motivazione non censurata in sede di legittimità che la retta pagata dagli ospiti della comunità Narconon non era affatto una quota
associativa, ma configurava piuttosto un corrispettivo specifico per il servizio reso, tanto vero
che aumentava o diminuiva in ragione del prolungamento o della precoce interruzione del
"trattamento". Come tale concorreva alla formazione del reddito tassabile. La quota
associativa, invece, per sua natura, è svincolata dalla prestazione del servizio e dalle sue
vicende, ma esprime solo una partecipazione alla associazione.
Secondo la Cassazione alla stessa conclusione si deve giungere a seguito della evoluzione
legislativa maturata dopo i fatti per cui è processo, la quale anzi è chiaramente ispirata
all'intento di limitare il trattamento tributario di favore per le organizzazioni religiose, sindacali,
culturali, etc. o almeno di introdurre più serie garanzie per evitare che le associazioni
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interessate strumentalizzino le finalità istituzionali dichiarate nei loro statuti per lucrare indebiti
benefici ed esenzioni fiscali.
Il D.Lgs. 4.12.1997 n. 460, sul riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e
delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (o.n.l.u.s.), poi modificato dal D.Lgs.
19.11.1998 n. 422, ha introdotto significative restrizioni alle esenzioni fiscali degli enti religiosi,
sia in materia di I.V.A., (modificando l'art. 4 del D.P.R. 633/1972) che in materia di i.r.p.e.g.
(modificando l'art. 111 e introducendo l'art. 111 bis del D.P.R. 917/1986, t.u.i.r.). In particolare,
l'esenzione tributaria per le attività svolte dagli enti religiosi in attuazione degli scopi
istituzionali a favore degli iscritti, associati o partecipanti, verso pagamento di contributi
specifici, è accordata solo a condizione che lo statuto dell'ente contenga clausole
determinate, sintomaticamente assunte come "indici di non commercialità", quali: il divieto
di distribuire utili o avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitale durante la vita
dell'associazione; l'obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente, in caso di suo scioglimento,
ad altra associazione con finalità analoga; l'obbligo di redigere e approvare annualmente
un rendiconto economico e finanziario; l'intrasmissibilità inter vivos della quota o contributo
associativo (comma 4 quinquies dell'art. 111 cit.).
Inoltre, indipendentemente dalle previsioni statutarie, l'ente perde la qualifica di ente non
commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo
di imposta (art. 111 bis).
La Cassazione ha ritenuto quanto mai chiara l'intenzione del legislatore tributario di
accertare il carattere commerciale o non commerciale degli enti sulla base di parametri
effettivi e non meramente formali, e di prevenire il rischio di un uso fiscalmente fraudolento di
finalità socialmente apprezzabili come non lucrative. Il che è tanto più rilevante per le finalità
religiose: per queste, infatti, si legge in sentenza come “l'ordinamento giuridico si inibisce
laicamente ogni penetrante valutazione di merito; ma contemporaneamente sì riserva di
accertare se all'ombra dell'intangibile libertà religiosa prosperi di fatto un'attività lucrativa
fiscalmente apprezzabile”. Ha pertanto respinto tutti i ricorsi che miravano ad ottenere le
varie esenzioni.
Dottrina
E’ stato fondatamente osservato dalla dottrina che il riconoscimento della natura religiosa
(di per sé molto problematico in un ordinamento come quello italiano, che laicamente, si
astiene dal definirla) non è dirimente ai fini penali, potendo ricorrere il caso che nell'ambito
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di un'associazione religiosa alcuni membri commettano reati o addirittura si associno per
delinquere (è noto il caso, ormai risalente, dei frati di Mazzarino).
Sentenze e precedenti conformi e difformi
- Cass. Sez. III, n. 3857 del 3.4.1992, ud. 11.3.1992, Zanella, rv. 189810, con riferimento a
un'analoga associazione per la liberazione dalla droga, citata anche dalla sentenza qui
commentata.
- In ordine, invece, ai reati comuni di associazione per delinquere e di estorsione, contestati a
dirigenti di Scientology, è stata emblematica una lunga vicenda giudiziaria che ha visto
protagoniste la corte di appello milanese e la seconda Sezione della Cassazione, attestate
con vari argomenti su una diversa concezione di religione e dei suoi parametri di
identificazione nell'ordinamento giuridico (App. Milano 5.11.1993, Segalla ed altri; Cass. Sez.
II, 9.2.1995, Avanzini e altri, che ha annullato con e senza rinvio App. Milano 5,11.1993; App.
Milano 2,12.1996, Bandera e altri; Cass. Sez. Il, 8.10.1997, Bandera e altri, che ha annullato
con rinvio App. Milano 2.12.1996). Da una parte il giudice di merito era propenso a escludere
il carattere religioso di Scientology, perché l'autoqualificazione confessionale contenuta
nello statuto appariva un mero espediente preordinato al fine di ottenere il trattamento di
favore riconosciuto alle confessioni religiose. Dall'altra il giudice di legittimità ha
correttamente ribadito che la valutazione di religiosità di un'associazione, in ossequio al
principio di laicità dell'ordinamento costituzionale, deve essere condotta su criteri formali e
oggettivi, prescindendo da orientamenti personali e anche da concezioni storicamente
egemoni come quelle risalenti alle religioni "del libro" (ebraismo, cristianesimo e islamismo).
Testo sentenza
Cassazione. Terza Sezione Penale. Sentenza 23 febbraio 2000, n. 2081
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
(omissis)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
(omissis)
Motivi della decisione
5 - Per chiarezza sembra opportuno premettere che i C.D. centri Narconon, quali quelli gestiti in Calabria dalle
imputate, si presentano come articolazioni operative della ormai nota Chiesa di Scientology, fondata nella metà
del secolo XX da uno scrittore americano di fantascienza, Ron Hubbard. Questi, nel 1950, pubblicava il libro
"Dianetics: the modern science of mental health" e nel 1954 fondava la "Church of Scientology" allo scopo di
diffondere i principi della dottrina dianetica, che non è il caso di riferire in questa sede. A partire dagli anni Settanta,
la chiesa si diffonde anche in Italia, attraverso l'apertura di vari istituti nei quali viene offerta una serie di servizi,
progressivamente complessi e costosi, principalmente costituiti da sedute di auditing (sorta di terapia di tipo psico-
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analitico) e programmi di purification (cicli di saune, con somministrazione massiccia di vitamine), nel contesto di
una martellante opera di indottrinamento sulle teorie di Hubbard. Negli anni Ottanta, sempre ispirati alle teorie di
Hubbard, cominciano a essere aperti nel territorio italiano i centri Narconon per il recupero dalla tossicodipendenza.
Quasi contemporaneamente, in seguito a denunce presentate da familiari di aderenti alla associazione,
preoccupati soprattutto del salasso economico cui andavano incontro i loro parenti per usufruire dei servizi offerti
dalla chiesa, venivano avviati vari procedimenti penali per truffa, esercizio arbitrario della professione medica e
associazione per delinquere, quasi tutti però conclusi con l'archiviazione.
Ben presto l'autoqualificazione statutaria della chiesa di Scientology come associazione religiosa diventava centrale
nelle vicende processuali che la riguardavano sotto il profilo penale o tributario. In virtù della sua natura religiosa,
infatti, molte decisioni delle commissioni tributarie le riconoscevano il diritto all'esenzione dai tributi spettante
appunto alle associazioni con scopo religioso o culturale; così come molte pronunce dei giudici penali assolvevano
dai reati tributari, in base alla considerazione che la chiesa e le sue articolazioni operative non rientravano tra i
soggetti passivi delle imposte sui redditi e dell'I.V.A. (anche se una sentenza della suprema corte aveva statuito che
nessun tipo di organizzazione era escluso dalla sfera di applicazione dell'obbligo tributario: Cass. Sez. III, n. 3857 del
3.4.1992, ud. 11.3.1992, Zanella, rv. 189810, con riferimento a un'analoga associazione per la liberazione dalla droga,
citata anche dalla sentenza impugnata).
In ordine, invece, ai reati comuni di associazione per delinquere e di estorsione, contestati a dirigenti di Scientology,
è stata emblematica una lunga vicenda giudiziaria che ha visto protagoniste la corte di appello milanese e la
seconda Sezione di questa corte, attestate con vari argomenti su una diversa concezione di religione e dei suoi
parametri di identificazione nell'ordinamento giuridico (App. Milano 5.11.1993, Segalla ed altri; Cass. Sez. II, 9.2.1995,
Avanzini e altri, che ha annullato con e senza rinvio App. Milano 5,11.1993; App. Milano 2,12.1996, Bandera e altri;
Cass. Sez. Il, 8.10.1997, Bandera e altri, che ha annullato con rinvio App. Milano 2.12.1996). Da una parte il giudice di
merito era propenso a escludere il carattere religioso di Scientology, perché l'autoqualificazione confessionale
contenuta nello statuto appariva un mero espediente preordinato al fine di ottenere il trattamento di favore
riconosciuto alle confessioni religiose. Dall'altra il giudice di legittimità ha correttamente ribadito che la valutazione
di religiosità di un'associazione, in ossequio al principio di laicità dell'ordinamento costituzionale, deve essere
condotta su criteri formali e oggettivi, prescindendo da orientamenti personali e anche da concezioni storicamente
egemoni come quelle risalenti alle religioni "del libro" (ebraismo, cristianesimo e islamismo).
Peraltro, è stato fondatamente osservato dalla dottrina che il riconoscimento della natura religiosa (di per sé molto
problematico in un ordinamento come quello italiano, che laicamente, si astiene dal definirla) non è dirimente ai fini
penali, potendo ricorrere il caso che nell'ambito di un'associazione religiosa alcuni membri commettano reati o
addirittura si associno per delinquere (è noto il caso, ormai risalente, dei frati di Mazzarino).
6 - Altrettanto si deve concludere in ordine ai reati tributari, giacché la natura religiosa dell'ente, secondo la
normativa vigente, non sempre esclude i presupposti soggettivi e oggettivi degli obblighi tributari e quindi delle
norme che puniscono la violazione degli obblighi stessi.
Nella fattispecie di causa alle imputate, quali amministratici della Comunità Narconon Albatros, è stata contestata
l'omessa presentazione della dichiarazione fiscale ai fini delle imposte dirette e dell'imposta sul valore aggiunto,
nonché la omessa annotazione nelle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell'I.V.A. di
corrispettivi superiori alle soglie di punibilità (per gli anni dal 1990 al 1993). Si tratta quindi di stabilire se per la
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Comunità Narconon ricorrevano i presupposti soggettivi e oggettivi per l'applicazione della imposta sui redditi delle
persone giuridiche e dell'imposta sul valore aggiunto.
Più esattamente si tratta di stabilire se la Comunità Narconon:
a) svolgeva operazioni soggette all'I.V.A., ai sensi dell'art. 1 del D.P.R. 26.10.1972 n. 633, e in specie prestava servizi
nell'esercizio di impresa ai sensi degli artt. 1 e 4 dello stesso decreto;
b) in quanto ente privato diverso dalle società, che non ha per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività
commerciali (ex art. 87, comma 1, lett. c) del testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22.12.1986 n. 917),
possedeva redditi di impresa o altri redditi imponibili (ex art. 86, in relazione all'art. 6, del citato t.u.i.r.).
A tal fine occorre tenere presente quello che i giudici di merito, con motivazione congrua e legittima, incensurabile
in questa sede, hanno accertato in fatto. E cioè che la Comunità Narconon, per un trattamento di tre-quattro mesi,
a fronte di una retta di lire 14.000.000 versata da ciascun iscritto o partecipante (nell'anno 1993), offriva in via
principale vitto e alloggio, e in via economicamente marginale un servizio "terapeutico" consistente in una sauna
giornaliera di varie ore, nonché in meditazioni e discussioni sulle teorie di Hubbard e sulla filosofia "Scientology"; che
a tal fine la Comunità aveva una specifica organizzazione, e che i costi sopportati per questa organizzazione e per
l'erogazione dei predetti servizi erano sicuramente inferiori ai proventi derivanti dalle suddette rette di
partecipazione pro capite (v. soprattutto pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata).
Orbene, a norma dell'art. 4 del D.P.R. 26.10.1972 n. 633 (istitutivo dell'imposta sul valore aggiunto) si considerano
effettuate in ogni caso nell'esercizio di imprese (e quindi sono assoggettate all'imposta) anche le prestazioni di servizi
fatte dagli enti o associazioni ai propri soci, associati o partecipanti (comma 3). Si considerano fatte nell'esercizio di
attività commerciali (e quindi sono assoggettate all'imposta) anche le prestazioni di servizi ai soci, associati o
partecipanti verso pagamenti di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle
maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto, ad esclusione di quelle effettuate in conformità alle finalità
istituzionali da associazioni politiche, sindacali, religiose, assistenziali, culturali etc., anche se rese nei confronti dei
rispettivi soci, associati o partecipanti (comma 4). Peraltro, sono considerate in ogni caso commerciali (e quindi
sono assoggettate all'imposta) alcune specifiche attività, fra cui l'organizzazione di viaggi e soggiorni turistici e le
prestazioni alberghiere o di alloggio (comma 5).
Ne deriva che anche per gli enti religiosi i corrispettivi riscossi per i servizi di vitto e alloggio costituiscono base
imponibile per l'imposta sul valore aggiunto.
Per quanto invece riguarda l'applicabilità dell'imposta sui redditi delle persone giuridiche, viene in rilievo il capo
terzo del titolo secondo del t.u.i.r., specificamente dedicato agli enti noti commerciali, vale a dire agli enti che non
hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale (lettera c), comma 1 dell'art. 87), come
sono in genere gli enti religiosi, assistenziali, terapeutici e simili. Per questi enti l'art. 108 del testo unico stabilisce che
non si considerano attività commerciali (e quindi non sono soggette all'imposta) le prestazioni di servizi (diverse dalle
attività industriali, di intermediazione, di trasporto, bancarie e assicurative di cui all'art.2195 cod. civ.) "rese in
conformità alle finalità istituzionali dell'ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che
non eccedono i costi di diretta imputazione". Per conseguenza, sono da considerarsi attività commerciali soggette
all'imposta quelle prestazioni di servizi che, pur conformi alle finalità istituzionali dell'ente, sono rese attraverso una
specifica organizzazione e contro corrispettivi che eccedono il costo del servizio, ovverosia producono reddito. E ciò
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vale - com'è stato notato - sia quando il servizio "a pagamento" è diverso e solo strumentale rispetto all'attività
religiosa dell'ente, sia quando costituisce l'essenza stessa dell'attività religiosa.
Se ne deve concludere che, pur ammettendo il carattere religioso della chiesa di Scientology di quelle sue
articolazioni terapeutiche che sono i centri Narconon, considerata la specifica organizzazione che li caratterizza, e
la prestazione di servizi, comprensivi di vitto e alloggio, a fronte di corrispettivi più che remunerativi rispetto ai costi,
quei centri devono soggiacere ai fini tributari al trattamento degli enti commerciali, sia per quanto attiene alle
imposte dirette sui redditi sia per quanto riguarda l'imposta sul valore aggiunto. In altri termini, si tratta di un'attività
religiosa "a pagamento", che, in quanto produttiva di reddito per l'organizzazione che la gestisce, non è sottratta
agli obblighi tributari.
7 - Vero è che per gli enti di tipo associativo, al cui novero appartiene sia la chiesa di Scientology sia la comunità
Narconon amministrata dalle prevenute, l'art. 111 del t.u.i.r. detta una disciplina particolare, secondo cui non è
considerata commerciale l'attività svolta dall'ente nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle
finalità istituzionali dell'ente stesso, sicché le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o
contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo soggetto al tributo (comma 1).
Ma è altrettanto vero che, a norma del secondo comma dello stesso art. 111, si considerano tuttavia effettuate
nell'esercizio di attività commerciali le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti verso pagamento di
corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse
prestazioni alle quali hanno diritto; sicché in tal caso tali corrispettivi concorrono alla formazione del reddito
complessivo tassabile, come componenti del reddito di impresa ove la prestazione del servizio abbia carattere di
abitualità.
Orbene, nella fattispecie concreta, i giudici di merito hanno accertato - anche qui con motivazione incensurabile in
sede di legittimità - che la retta pagata dagli ospiti della comunità Narconon non era affatto una quota
associativa, ma configurava piuttosto un corrispettivo specifico per il servizio reso, tanto vero che aumentava o
diminuiva in ragione del prolungamento o della precoce interruzione del "trattamento". Come tale concorreva alla
formazione del reddito tassabile. La quota associativa, invece, per sua natura, è svincolata dalla prestazione del
servizio e dalle sue vicende, ma esprime solo una partecipazione alla associazione.
Si potrebbe ancora obiettare, ed è stato obiettato dai difensori, che per le associazioni religiose, assistenziali,
culturali e simili, fra le quali indubbiamente rientra l'associazione de qua, il terzo comma del predetto art. 111
prevede una ulteriore specifica disciplina, secondo la quale non si considerano commerciali (e quindi non sono
assoggettate all'i.r.p.e.g.) le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento
di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti. Ma a questo riguardo si deve replicare
che, per effetto del quarto comma, la disposizione del predetto terzo comma non si applica per le somministrazioni
di pasti, per le prestazioni alberghiere, di alloggio e simili. Sicché anche sotto questo profilo si deve concludere che il
servizio di vitto e alloggio prestato dalla comunità Narconon deve considerarsi attività commerciale; con la
conseguenza che la retta versata a titolo di corrispettivo concorre a formare il reddito complessivo della comunità.
8 - Infine, va sottolineato che alla stessa conclusione si deve giungere a seguito della evoluzione legislativa
maturata dopo i fatti per cui è processo, la quale anzi è chiaramente ispirata all'intento di limitare il trattamento
tributario di favore per le organizzazioni religiose, sindacali, culturali, etc. o almeno di introdurre più serie garanzie
per evitare che le associazioni interessate strumentalizzino le finalità istituzionali dichiarate nei loro statuti per lucrare
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indebiti benefici ed esenzioni fiscali.
Così il D.Lgs. 4.12.1997 n. 460, sul riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni
non lucrative di utilità sociale (o.n.l.u.s.), poi modificato dal D.Lgs. 19.11.1998 n. 422, ha introdotto significative
restrizioni alle esenzioni fiscali degli enti religiosi, sia in materia di I.V.A., (modificando l'art. 4 del D.P.R. 633/1972) che
in materia di i.r.p.e.g. (modificando l'art. 111 e introducendo l'art. 111 bis del D.P.R. 917/1986, t.u.i.r.). In particolare,
l'esenzione tributaria per le attività svolte dagli enti religiosi in attuazione degli scopi istituzionali a favore degli iscritti,
associati o partecipanti, verso pagamento di contributi specifici, è accordata solo a condizione che lo statuto
dell'ente contenga clausole determinate, sintomaticamente assunte come "indici di non commercialità", quali: il
divieto di distribuire utili o avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell'associazione;
l'obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente, in caso di suo scioglimento, ad altra associazione con finalità analoga;
l'obbligo di redigere e approvare annualmente un rendiconto economico e finanziario; l'intrasmissibilità inter vivos
della quota o contributo associativo (comma 4 quinquies dell'art. 111 cit.).
Inoltre, indipendentemente dalle previsioni statutarie, l'ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora
eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo di imposta (art. 111 bis).
In sostanza, si fa sempre più chiara l'intenzione del legislatore tributario di accertare il carattere commerciale o non
commerciale degli enti sulla base di parametri effettivi e non meramente formali, e di prevenire il rischio di un uso
fiscalmente fraudolento di finalità socialmente apprezzabili come non lucrative. Il che è tanto più rilevante per le
finalità religiose: per queste, infatti, l'ordinamento giuridico si inibisce laicamente ogni penetrante valutazione di
merito; ma contemporaneamente sì riserva di accertare se all'ombra dell'intangibile libertà religiosa prosperi di fatto
un'attività lucrativa fiscalmente apprezzabile.
9 - Per le ragioni testé esposte tutti i motivi di ricorso devono essere disattesi siccome giuridicamente infondati.
In particolare, in ordine al primo motivo del ricorso sottoscritto dall'avvocato Leale, si può ribadire che la corte di
merito ha motivatamente accertato il contenuto dei servizi resi dalla comunità Narconon agli iscritti, e che essendo già in grado di decidere allo stato degli atti - non aveva l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale ex
art. 603 c.p.p. per acquisire documenti peraltro non essenziali (quali i libri di testo usati).
In ordine al secondo motivo dedotto a sostegno del ricorso Leale, va ribadito che la retta versata dagli iscritti aveva
natura di specifico corrispettivo del servizio prestato e non di mera quota associativa.
Quanto poi al ricorso sottoscritto dall'avvocato Gallucci, si è già spiegato perché la comunità Narconon non aveva
titolo per l'esenzione dall'i.r.p.e.g. e dall'I.V.A.
Mentre per quanto attiene alla buona fede invocata sia nel ricorso Leale che in quello Gallucci, basti osservare che
si tratta di reati contravvenzionali, a integrare i quali è sufficiente la mera colpa. Nel caso di specie l'errata
interpretazione delle norme tributarie extrapenali non può dirsi inescusabile ai sensi dell'art.5 cod. pen. e dell'art. 8
legge 516/1982, anche se indotta dal consiglio del commercialista di fiducia. Il fatto stesso che prima del 1990 il
centro Narconon tenesse la contabilità fiscale e presentasse le dichiarazioni dei redditi esclude il carattere
inescusabile e inevitabile della ignorantia legis dedotta.
10 - I ricorsi vanno quindi respinti. Segue per legge la condanna alle spese del processo. In ragione del contenuto
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dell'impugnazione, non si ritiene di dover irrogare anche la sanzione pecuniaria di cui all'art.616 c.p.p.
P.Q.M.
La corte rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
(omissis)
Sentenza
Il 5 aprile 2007 la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha accolto il ricorso della Scientology
contro la Russia. In particolare il processo ha sanzionato la Russia per la condotta che ha
tenuto nella richiesta di registrazione come ente religioso di Scientology, poiché ha negato
tale registrazione senza fornire spiegazioni adeguate. In sostanza, quindi, Scientology non
viene "riconosciuta" come religione (compito che non sarebbe in ogni caso di pertinenza
della
Corte Europea
dei
diritti
dell'uomo),
è
stato
semplicemente
sanzionato
il
comportamento negligente delle istituzioni Russe nella valutazione dello status di
Scientology.
Il caso
Il governo russo aveva più volte rifiutato la registrazione della Chiesa di Scientology, in alcuni
casi senza fornire alcuna motivazione, in altri casi sulla base di una valutazione discrezionale
dell'attività dell'organizzazione religiosa oppure per la presunta mancanza di requisiti per la
registrazione, non previsti dalla legge.
Nota esplicativa
Il rifiuto di registrare un'organizzazione religiosa comporta una violazione sia dell'art. 11
(libertà di associazione), sia dell'art. 9 (libertà di religione) della Convenzione europea per la
Salvaguardia dei diritti umani (CEDU), in quanto la mancanza di una registrazione può
impedire all'associazione il libero esercizio di una serie di attività connesse con la pratica
religiosa. La pubblica amministrazione nel procedere alla registrazione di un'associazione
religiosa deve assumere un atteggiamento neutrale ed applicare eventuali restrizioni solo se
si tratta di misure prescritte dalla legge, appropriate e necessarie per la salvaguardia
dell'ordine e della morale pubblica in una società democratica.
Testo sentenza su: http://www.coordiap.com/Document/europe.pdf
N.B.: ulteriori approfondimenti in materia sono reperibili nella Rubrica "Oltre il mio nome" ed
in "Rassegna stampa" del presente numero.
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Pag. 90
A lezione di… diritto amministrativo
Semplificazione, liberalizzazione e privatizzazione
"nomina sunt consequentia rerum"
A cura di
Davide Nalin (paragrafi 1, 3, 4, 5), Donatella Rocco (paragrafo 2), Luigi Caffaro
(paragrafo 6)
Direzione e coordinamento: Davide Nalin
Sommario:
1.
Semplificazione,
liberalizzazione
e
privatizzazione:
inquadramento generale; 2. Il fenomeno delle privatizzazioni; 3. Il
fenomeno delle liberalizzazioni; 4. Il fenomeno della semplificazione; 5.
Il d.l. n. 1/2012: una prima analisi; 6. Liberalizzazioni nella avvocatura o
della avvocatura?
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Questo mese, data la complessità degli argomenti affrontati, si e' deciso di
suddividere la trattazione in materia di liberalizzazioni, semplificazioni e privatizzazioni
in due parti.
La prima parte, generale, fornisce al lettore le competenze tecniche atte ad
orientarsi nelle complesse questioni che hanno sollevato le più recenti riforme.
La seconda parte, in uscita con il numero di mese di maggio, rappresenta invece
una applicazione dei più rilevanti interventi normativi nella materia di riferimento
1. Semplificazione, liberalizzazione e privatizzazione: inquadramento generale
Semplificazioni, liberalizzazioni e privatizzazioni sono concetti che ricorrono sempre più spesso
nella cronaca e nelle trattazioni giuridiche, tant'è che sovente si assiste ad un loro
accostamento tale da far ritenere che essi siano sostanzialmente dei sinonimi. Tuttavia così
non e'. Si tratta infatti di tre fenomeni giuridici che presentano, accanto ad alcuni punti di
contatto, notevoli differenze.
Compito del presente lavoro e' dunque tracciare un'esatto confine tra i fenomeni in esame,
al fine di evitare pericolose confusioni terminologiche destinate necessariamente a tradursi
in errori nella applicazione delle leggi.
Orbene, il termine privatizzazione può essere inteso in una pluralità di significati (F. BELLOMO,
Manuale di diritto amministrativo, Cap. X vol. I, CEDAM). In generale, detta locuzione fa
riferimento al fenomeno di dismissione della proprietà pubblica che può avere per oggetto i
beni facenti parte del demanio pubblico, del patrimonio indisponibile e disponibile della
P.A. e, infine, il controllo di attività imprenditoriali e di pubblico interesse tout court, con
conseguente alienazione dei pacchetti azionari.
Di privatizzazione, inoltre, si e' discusso anche con riferimento al rapporto di pubblico
impiego (ad eccezione di alcune categorie) a seguito di vari provvedimenti normativi (d.lgs.
29/93 e d.lgs. 80/98) e con riferimento agli enti pubblici economici, che ha avuto la sua fonte
principale nella l.n. 359/92 (e per certi aspetti residuali nella l.n. 35/92).
La privatizzazione può avere natura formale o sostanziale (il fenomeno globalmente inteso
prende il nome di privatizzazione della titolarità). La prima espressione si riferisce alla
adozione di una forma giuridica di tipo privatistico, in luogo di una di tipo pubblicistico, senza
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che tuttavia detta trasformazione sia contestualmente affiancata da vicende traslative
aventi ad oggetto il capitale societario di maggioranza, che rimane in mano pubblica.
La privatizzazione sostanziale, di contro, si identifica nell'effettivo trasferimento, totale o
parziale, della proprietà di impresa da un soggetto pubblico ad uno privato. Secondo
l'opinione dominante, la privatizzazione sostanziale e' ipotizzabile solo nel caso in cui lo Stato,
in una operazione globale di dismissione, perda il controllo della società.
Dalla privatizzazione della titolarità (privatizzazione formale e sostanziale) va tenuta distinta a
privatizzazione della gestione, la quale postula l'affidamento ai privati della cura del servizio,
che resta tuttavia nella titolarità dell'ente pubblico. In tale accezione la privatizzazione può
assumere significati più o meno ampi, a seconda che venga affidata solo l'erogazione o
anche la organizzazione, e che l'affidamento avvenga tramite modelli pubblicistici o
privatistici.
La privatizzazione e' un fenomeno che si presenta strettamente contiguo con la
liberalizzazione, essendo entrambi applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale (art.
118 ultimo comma Cost.), tuttavia deve essere tenuta distinta da quest'ultima.
Secondo la migliore dottrina (BELLOMO,), la liberalizzazione può riguardare il mercato e
l'accesso al mercato. Nella prima ipotesi, va rilevato che un mercato liberalizzato si presenta
alla stregua di un mercato concorrenziale, accessibile cioè a qualsiasi operatore
economico. La liberalizzazione dell'accesso al mercato, viceversa, comporta la possibilità
per chiunque di concorrere ad ottenere il provvedimento giuridico che consente di entrare
in un mercato chiuso o a numero limitato (non liberalizzato, dunque, nell'accesso). Si e' in
presenza, quindi, di una concorrenza per il mercato e non nel mercato.
Volendo tracciare una distinzione tra i fenomeni della privatizzazione e della liberalizzazione,
va rilevato che essi non sempre vanno di pari passo, pur essendo entrambi una applicazione
del principio di sussidiarietà nel mercato (la quale si presenta nelle seguenti forme:
privatizzazione dell’impresa pubblica, liberalizzazione dei servizi pubblici economici e
liberalizzazione delle attività economiche private). Esistono, infatti, mercati liberalizzati in cui
vi e' la presenza di operatori pubblici (non privatizzati, quindi) e mercati non liberalizzati in cui
vi e' la presenza di operatori privati, ai quali e' affidata la gestione.
La semplificazione (che può avere natura amministrativa o normativa; v.infra) , infine, si
colloca a fianco della sussidiarietà orizzontale (e quindi della liberalizzazione e della
semplificazione) perchè risponde alla stessa esigenza di modernizzare il sistema pubblico in
nome di una nuova concezione del bene pubblico, più attenta all'effettiva soddisfazione del
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cittadino (la c.d. customer satisfaction) ed ai costi dell'azione amministrativa. La sussidiarietà
mira a questo obiettivo attraverso devoluzione, esternalizzazione, fuoriuscita del pubblico. La
semplificazione attraverso il taglio dei costi per cittadini e imprese mediante l'impiego di
moduli sostitutivi (s.c.i.a. - silenzio assenso).
Ciò precisato su di un piano generale, e' possibile ora procedere ad una analisi
maggiormente dettagliata dei concetti esposti.
2. Il fenomeno delle privatizzazioni.
Con riguardo al termine privatizzazione deve tenersi presente che questo è usato in diverse
accezioni, sia con riferimento alla dismissione del patrimonio demaniale indisponibile o
disponibile, con riferimento alla disciplina del pubblico impiego, infine con riguardo alle
modifiche strutturali degli enti pubblici economici statali e alla dismissione della
partecipazioni statali o locali.
Si può distinguere tra una privatizzazione della titolarità, che ha ad oggetto proprio la veste
formale o sostanziale dell’ente, rispetto ad una privatizzazione della gestione, in special
modo dei pubblici servizi, con affidamento a privati della cura del servizio con permanenza
della titolarità in capo al soggetto pubblico.
A fronte di un sostanzioso intervento dello Stato nell’economia operato nel corso del secolo
scorso con la pubblicizzazione di rilevanti ed importanti settori dell’economia accentuatasi
tra gli anni ’60 e ’70, a partire dai successivi anni ’80 e soprattutto nel corso degli anni ’90 si è
assistito ad un progressivo mutamento di tendenza, caratterizzato da un lato dall’apertura
alla cd. deregulation e dall’altro dalla privatizzazione delle imprese pubbliche e dalla
dismissione delle partecipazioni azionarie.
L’evoluzione del rapporto esistente tra lo Stato e il settore economico trae le sue motivazioni
dalla inadeguatezza sistema di partecipazioni dello Stato o degli enti locali nell’economia
pubblica, caratterizzato da gestioni in grave perdita economica, e nella scarsa
compatibilità di questo con i principi di diritto comunitario in materia di interventi pubblici in
economia.
Si è, quindi, verificato, alla fine del secolo scorso, un progressivo mutamento del ruolo dello
Stato con una riduzione di interventi diretti in economia ed un abbandono della veste di
operatore economico con attribuzione invece di ruolo di controllo e razionalizzazione
dell’economia con regolamentazione del mercato.
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Si assiste a tale collegamento tra privatizzazione dei servizi e attività di regolamentazione in
ipotesi di cd. pubblic utilities, laddove ai sensi del disposto di cui all’art. 1 bis legge n.
474/1994 le dismissioni delle partecipazioni azionarie di enti pubblici gestori di servizi di
pubblica utilità sono subordinate alla costituzione di autorità indipendenti per la
regolamentazione e il controllo della qualità dei servizi e la regolarità delle tariffe.
Per quanto riguarda gli impulsi forniti dall’appartenenza dello Stato Italiano alla Unione
Europea e all’obbligo di rispetto delle statuizioni comunitarie si deve tener presente che la
disciplina comunitaria ha alla propria base come obiettivo l’istituzione di un mercato unico
caratterizzato da parità di condizioni e neutralità rispetto ad un regime pubblico o privato
degli operatori economici.
In base all’art. 86 comma 1 del Trattato CE “gli stati membri non emanano ne mantengono,
nei confronti delle imprese pubbliche, e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o
esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente Trattato, specialmente a quelle
contemplate dagli artt. 12 e da 81 a 89 inclusi”. Ciò che caratterizza l’ordinamento
comunitario è proprio la neutralità rispetto ad un regime pubblico o privato dell’operatore
economico per cui non vi è avversione rispetto alla partecipazione degli stati membri
nell’economia qualora questa sia rispettosa delle regole del mercato e non le falsi a proprio
favore.
Il sistema delineato dal diritto comunitario ha imposto limiti agli stati membri innanzitutto
rispetto alla possibilità di operare i cd. aiuti di stato, sotto forma di norme legislative di favore
o di provvedimenti amministrativi altrettanto di favore alle imprese pubbliche, che siano
rappresentati da contributi palesi o da agevolazioni indirette di vario tipo (ad esempio
agevolazioni fiscali, agevolazioni tariffarie o sgravi di oneri sociali o tassi di interesse).
Preso atto della richiamata normativa comunitaria e degli obblighi di adeguamento del
sistema economico dello Stato, si è assistito ad un procedimento di privatizzazione con
dismissione delle imprese pubbliche e delle partecipazioni statali che ha riguardato tanto gli
interventi economici a livello statale che a livello di autonomie locali.
La dottrina e la giurisprudenza distinguono, in merito alla privatizzazione della titolarità, una
privatizzazione di carattere formale da una si carattere sostanziale.
Nella prima ipotesi si ravvisa una modificazione della struttura organizzativa di un ente
pubblico che assume veste privatistica. Il modello tipico degli enti privati può non essere
recepito integralmente, permanendo la previsione di un regime speciale differenziato
rispetto ai parametri privatistici. Si avrà così una mera trasformazione dell’ente con
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mutamento della natura giuridica senza che ad esso corrisponda il trasferimento del
patrimonio ad un soggetto diverso.
Nella seconda ipotesi, invece, si verifica il vero e proprio trasferimento di quote societarie o
dei pacchetti azionari dello Stato a soggetti privati, con perdita di controllo da parte dello
Stato dell’impresa che viene acquisita dai privati.
La distinzione tra privatizzazione formale o sostanziale non assume rilevanza meramente
descrittiva del fenomeno mutamento del ruolo dello Stato nell’economia, ma riveste rilevanti
ripercussioni in materia di regime giuridico applicabile, tra cui in tema di assoggettabilità
dell’ente o meno ai controlli della Corte dei Conti, con risposta affermativa da parte della
Corte Costituzionale con sentenza n. 466/1993 laddove manchi la dismissione del patrimonio
azionario da parte dello Stato che rimanga unico azionista o azionista di maggioranza; in
tema di disciplina relativa al diritto di accesso agli atti amministrativi e di esercizio da parte
del privato nei confronti dell’ente, ammissibile per la giurisprudenza amministrativa in
presenza di privatizzazione formale (si veda TAR Lombardia Milano, 05.03.2003 n. 360); in
tema di patrocinio da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Il processo di privatizzazione operato da parte del legislatore italiano ha visto disciplinare
entrambe le nozioni di privatizzazione, delineando anche un iter cronologico fondato sulla
trasformazione del modello giuridico dell’ente pubblico in società per azioni con successiva
possibilità di dismissioni del patrimonio azionario a favore di privati.
Il quadro normativo di riferimento, con riguardo alla privatizzazione formale, è dato dal
decreto legge n. 386 del 1991 convertito nella legge n. 35 del 1992, che ha previsto la
trasformazione in s.p.a. degli enti pubblici economici, delle aziende autonome e degli enti di
gestione, mediante un procedimento rimesso all’iniziativa degli enti stessi con apposita
delibera.
Preso atto dell’inerzia degli enti, il legislatore è successivamente intervenuto stabilendo con
la legge n. 359 del 1992 due diverse fattispecie costitutive delle s.p.a., caratterizzate una
prima dalla espressa disposizione di legge di trasformazione per i maggiori enti pubblici (quali
IRI,ENI,INA,ENEL) e una seconda modalità mediante deliberazione del CIPE, che, secondo il
disposto dell’art. 18 legge n. 359/1992, avrebbe prodotto gli stessi effetti della legge.
Le trasformazioni sono così avvenute in maggior parte in modo coattivo, poiché imposto
dalla legge o dalle delibere del CIPE, e diretto, poiché avvenute con unica fase di
trasformazione da ente pubblico in s.p.a.
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Il procedimento di privatizzazione statale sostanziale ha quale normativa di riferimento la
legge n. 474/1994, che prevede le norme per la dismissione delle partecipazioni azionarie
dello Stato nelle varie società pubbliche. Con tali operazioni lo Stato persegue gli obiettivi di
riduzione del debito pubblico, auspicando una gestione efficiente delle società rivelatesi
scarsamente competitive ed antieconomiche, vuole favorire il cd. azionariato diffuso e,
infine, ridurre il debito pubblico. La legge n. 474/1994 prevede due distinte modalità di
alienazione delle partecipazioni, la prima mediante offerta pubblica di vendita delle azioni
disciplinata dalla legge n. 149/1992 ora sostituita dal D.Lgs n. 58/1998 e una seconda
modalità con cessione sulla base di trattative dirette con i potenziali acquirenti. Le due
distinte procedure possono anche combinarsi tra di loro vendendo così a prevedersi una
terza tipologia con modalità mista. Come specificatamente indicato nella legge n. 474/1994
art. 1 comma 3, il legislatore ha previsto una peculiare ipotesi di vendita mediante trattativa
diretta che favorisca la presenza di un nucleo privato di azionisti di riferimento che
rappresenti il cd. nocciolo duro e che dia garanzia di continuità di indirizzo della società.
L'intento di rendere più efficiente e funzionale il sistema delle imprese pubbliche perseguito
dal processo di privatizzazione ha comportato un mutamento di ruolo dello Stato in
economia passando da uno stato-padrone ad uno stato-regolatore. Proprio per assicurare
la possibilità di esercitare tale importante compito di controllo, il legislatore ha previsto
accanto alla dismissione delle partecipazioni azionarie anche peculiari norme in deroga alla
disciplina comune delle società per azioni che prevedono poteri speciali in capo all'azionista
pubblico quali strumenti in grado di assicurare la tutela dell'interesse pubblico nella fase
della privatizzazione sostanziale.
Nel settore dei servizi pubblici le dismissioni delle partecipazioni azionarie dello Stato sono
state subordinate alla creazione di agenzie di regolazione, ossia autorità amministrative
indipendenti
per
risponderebbero
la
regolazione
all'esigenza
di
dei
servizi
sorvegliare
il
pubblici
privatizzati.
mercato
finale,
Tali
esigenza
Authorities
che
non
riguarderebbe il solo ente pubblico in questione, ma l'intero settore economico. Le Autorità si
caratterizzano per l'assenza di poteri di gestione diretta dei servizi pubblici, ma per la
presenza di poteri precettivi e sanzionatori, di soluzione dei conflitti, di verifica e di controllo
sull'attività dei gestori dei servizi. La legge n. 481/1995, indicando le norme per l'istituzione
delle autorità di regolazione dei servizi pubblici di utilità, ha attribuito loro la funzione di
garantire la promozione della concorrenza e dell'efficienza, adeguati livelli di qualità dei
servizi, tariffe trasparenti.
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Con specifico riguardo alla disciplina speciale delle società privatizzate ed agli strumenti
individuati per la tutela dell'interesse pubblico, si indicano, in primo luogo, i nuclei stabili, che
prevedono che la cessione del pacchetto di controllo avvenga a favore di soggetti
predeterminati, mentre viene collocata sul mercato solamente la quota residua.
Altro strumento è stata la possibilità di previsione di tetti di possesso azionario, ossia limiti al
possesso di azioni sia da parte di singoli che di alleanze di imprenditori, così favorendo
l'azionariato diffuso.
Un sistema volto a conservare il controllo su decisioni importanti e sugli organi societari
previsto in settori ritenuti strategici, quali difesa trasporti energia è dato dal cd. golden share,
quale azione riservata al Governo cui permangono poteri di intervento nelle decisioni di
maggiore importanza nella vita societaria. Viene così previsto l'obbligo di inserire nello
statuto delle società privatizzate una clausola che attribuisca al Ministero del tesoro poteri
speciali in tema di controllo e guida, tra cui ad esempio poteri di nomina di un quarto degli
amministratori, gradimento a pena di invalidità su patti e accordi conclusi in vista di vendita
o acquisto mediante offerte pubbliche di acquisto di azioni od obbligazioni, potere di veto
su determinate delibere modificative dello statuto.
La normativa di riferimento si riviene nella legge n, 474 del 1994, il cui art. 2 inizialmente
prevedeva ed indicava i vari poteri speciali a favore del Ministero del Tesoro, da esercitare
d'intesa con gli altri ministeri del bilancio e della programmazione economica e con il
Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato. Tali previsioni, nel tempo, sono state
oggetto di critica da parte della dottrina ed anche di esame da parte della giurisprudenza
comunitaria. Difatti, nonostante i chiari intenti di tutela dell'interesse pubblico, gli speciali
poteri in discussione non appaiono in linea con i principi di autonomia propri del modello
societario, né tanto meno con i principi di libera concorrenza e circolazione libera di capitali
di matrice comunitaria.
Il legislatore è così dovuto intervenire per specificare le modalità di esercizio di tali poteri,
correggendo i possibili punti di conflitto con la disciplina comunitaria. La stessa Corte di
Giustizia CE nella causa C-58/1999 nella valutazione del rispetto o meno del diritto
comunitario delle norme attributive dei poteri speciali di cui sopra al Ministero del Tesoro ha
individuato quattro condizioni necessarie affinché manchi il temuto contrasto, ossia
l’applicazione in modo non discriminatorio di tali poteri, devono essere giustificati da motivi
imperativi di interesse generale, devono essere idonei a garantire il conseguimento
dell’obiettivo perseguito
e non devono andare oltre quanto necessario per il
raggiungimento di questo.
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Al fine di porre in linea con i principi di diritto comunitario così indicati dalla Corte di Giustizia
CE, il legislatore ha trasformato i poteri speciali inizialmente previsti da strumenti di controllo
preventivo in
poteri di controllo solamente eventuali a fronte di elementi di sospetto
nell’assetto societario. La legge n. 350 del 2003 ha così modificato i poteri speciali di
gradimento in poteri di opposizione soggetti a obbligo di motivazione in relazione al
potenziale concreto pregiudizio arrecato ai preminenti interessi generali statali. Anche il
potere di nomina degli amministratori ha subito rilevante ridimensionamento con la
previsione di un solo amministratore senza poteri di voto.
La privatizzazione della titolarità ha avuto riguardo non solo quella dei servizi pubblici
statali,ma anche quelli locali. Il legislatore ha previsto all’art. 115 T.U degli enti locali la
possibilità di trasformazione delle aziende speciali, enti strumentali dell’ente locale dotati di
personalità giuridica e di autonomia gestionale, in società per azioni. Anche in tale ipotesi si
assiste alla possibilità
di una privatizzazione in senso formale ed in una successiva
privatizzazione in senso sostanziale. Difatti, la norma richiamata prevede espressamente che
l’ente locale possa rimanere unico azionista entro il limite di due anni dalla trasformazione,
entro tale termine dovrà poi operarsi la dismissione del patrimonio azionario.
Con riguardo poi alla erogazione di servizi pubblici di rilevanza economica ex art. 113
comma 12 T.U. degli enti locali la dismissione del pacchetto di azioni di proprietà dell’ente
nelle società miste create per l’erogazione di tali servizi potrà avvenire mediante procedure
ad evidenza pubblica.
Come anticipato la privatizzazione formale e quella sostanziale degli enti pubblici economici
di cui si è discusso ha avuto riguardo alla titolarità degli stessi, per cui si è assistito ad una
modificazione solamente nella forma nel primo caso o anche nella sostanza nel secondo
caso dell’ente pubblico interessato.
Tale privatizzazione si distingue dalla diversa ipotesi in cui essa non riguarda la titolarità del
servizio pubblico esercitato ma la sua gestione, che viene affidata a soggetto privato
permanendo in capo alla Pubblica Amministrazione la titolarità del medesimo. Il fenomeno
può essere inquadrato nel più ampio ambito delle cd. esternalizzazioni, per cui l’esercizio di
attività pubbliche, siano esso funzioni amministrative, servizi pubblici o attività strumentali alla
realizzazione dello stesso o alla gestione di un bene pubblico, vengono affidate a soggetti
diversi dalla P.A. sia ricorrendo a sua volta strumenti di affidamento di carattere pubblicistico
come la concessione o di carattere privatistico come il ricorso a contratti sinallagmatici tipici
o atipici.
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3. Il fenomeno delle liberalizzazioni
Da un punto di vista generale, la migliore dottrina (F. BELLOMO, Manuale di diritto
amministrativo, Cap. XXIV vol. II, CEDAM) ha inquadrato il fenomeno delle liberalizzazioni
nell'ambito della sussidiarietà orizzontale (118 u.c. Cost.).
Precisamente, la sussidiarietà orizzontale può esplicare effetti rilevanti nel triangolo StatoSocieta'-mercato.
Per quanto riguarda lo Stato, la sussidiarietà implica
a) chiusura di attività di governo non necessarie77;
b) incremento dell'autonomia di quegli enti pubblici che si collocano sulla frontiera tra i
poteri pubblici e la società civile78;
c) devoluzione ai privati di attività di interesse generale propri dello Stato, in cui la presenza
dello Stato è immanente alla sua esistenza e funzione79.
Nell'ambito dl la Società, essa implica:
a) possibilità per i privati di affiancare gli enti pubblici nella gestione di compiti di interesse
generale propri del Welfare, in cui la presenza dello Stato e frutto di un’opzione politica, e
non della natura intrinsecamente pubblica del settore80;
b) disciplina di maggior favore per gli enti privati che operano nel sociale81.
Infine, la sussidiarietà nel Mercato postula:
a) privatizzazione dell’impresa pubblica;
b) liberalizzazione dei servizi pubblici economici;
77
es. la soppressione o la trasformazione degli enti autarchici che svolgono funzioni non essenziali
78
università, enti di ricerca, camere di commercio
79
es. sicurezza pubblica, giustizia
80
es. le fondazioni che svolgono attività finalizzata al perseguimento di scopi di utilità sociale e di
promozione dello sviluppo economico, annoverate dalla Corte Costituzionale nel settore cd.
dell'organizzazione delle libertà sociali (cfr. i pareri del CdS n. 1354/02 e 1794/02 relativi alle fondazioni
sociali ed alle società costituite o partecipate dal Ministero per i beni culturali)
81
es. la legge sull’impresa sociale, che ammette la forma societaria per il perseguimento di scopo non
lucrativi
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c) liberalizzazione delle attività economiche private.
Nella presente sede ci si occuperà per ragioni sistematiche soltanto di quest'ultima ipotesi
con particolare riferimento alle liberalizzazioni (per quanto concerne le privatizzazioni si rinvia
al precedente paragrafo), avendo cura altresì di specificare come la sussidiarietà orizzontale
impatti nell'ambito delle autorizzazioni e delle concessioni.
Ma procediamo con ordine, iniziando la disamina dalle liberalizzazioni dei servizi pubblici
economici (ipotesi sub b), che possono riguardare 1) il mercato e 2) l'accesso al mercato.
I processi di liberalizzazione nel campo dei servizi pubblici sono in generale ricollegati ad un
duplice fattore: accanto all'intento di migliorare la qualità e l'efficienza di essi attraverso il
coinvolgimento di gestori privati si e' assistito ad una progressiva rottura del monopolio
pubblico dovuta alla applicazione della disciplina comunitaria.
Emblematica a tal riguardo e' la disciplina contenuta nell'art. 119 del Trattato sul
funzionamento dell'Unione Europea, secondo cui "Ai fini enunciati all'articolo 3 del trattato
sull'Unione europea, l'azione degli Stati membri e dell'Unione comprende, alle condizioni
previste dai trattati, l'adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto
coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla
definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un'economia di
mercato aperta e in libera concorrenza".
Come si può agevolmente comprendere dalla disposizione riportata, la libera concorrenza
nel mercato unico appare il fondamento dell'edificio comunitario, costituendo una opzione
in favore di una concezione teorica liberale che nella scienza economica e' da sempre
discussa.
Per quanto concerne la liberalizzazione del mercato nell'ambito dei servizi pubblici (ipotesi
sub 1), occorre mettere in evidenza che un mercato liberalizzato ha natura concorrenziale,
essendo esso accessibile a tutti gli operatori senza limitazioni. Queste ultime, più
precisamente, possono essere sia di tipo giuridico che materiale. Il primo tipo di limitazioni e'
dato dalla riserva pubblica originaria o dal successivo trasferimento di imprese o categorie di
imprese riferibili a servizi pubblici essenziali disciplinate dall'art. 43 della Costituzione.
Limitazioni materiali ricorrono invece nel caso delle c.d. barriere all'ingresso, derivanti da
posizioni monopoliste od oligopoliste di fatto, o dall'imperfetto funzionamento della
concorrenza.
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La riserva pubblica del mercato può dipendere da necessita' di carattere economico
(ricollegate a a caratteristiche oggettive del settore - es. scarsità fisica dei beni - che
determinano inevitabili fallimenti del mercato concorrenziale) oppure da scelte di carattere
politico (dettate principalmente dal perseguimento degli obiettivi dello Stato sociale o da
ragioni di finanza pubblica).
In tali occasioni la liberalizzazione e' legata al superamento dei fattori di ordine tecnicoeconomici o politici preclusivi, dovuti rispettivamente al progresso scientifico-tecnologico e
alle modificazioni in ordine alle modalità' del perseguimento delle finalità pubbliche.
L'apertura del mercato e' segnata dal passaggio dal sistema concessorio a quello
autorizzatorio, occorrendo sul punto precisare che un regime di autorizzazione e' coerente
con la liberalizzazione del mercato solo se si traduce esclusivamente in una verifica di
idoneità tecnica dell'operatore. Ove, invece, la stessa implichi la verifica in ordine alla
compatibilità dell'accesso con le condizioni di mercato, mirando alla salvaguardia di un
tetto massimo di presenze nel settore, il mercato non può' dirsi totalmente liberalizzato.
La liberalizzazione dell'accesso al mercato (ipotesi sub 2) comporta, invece, la possibilità per
chiunque di concorrere ad ottenere il provvedimento giuridico che consente di entrare in un
mercato che rimane a numero chiuso o limitato, con la conseguenza che si viene a
realizzare una concorrenza per il mercato e non del mercato (come nella ipotesi sub 1). La
liberalizzazione dell'accesso al mercato si sostanzia dunque nella adozione di una procedura
competitiva di scelta del soggetto privato chiamato a gestire il servizio.
Le liberalizzazioni nelle attività economiche (ipotesi sub b) private presuppongono la
sottrazione al regime amministrativo di attività economiche originariamente sottoposte ad
autorizzazione, in ragione di un più ampio riconoscimento della libertà di iniziativa privata. In
tal modo il diritto del privato allo svolgimento della attività può essere esercitato al di fuori di
qualsiasi condizionamento, salvo il rispetto dell'altrui sfera giuridica.
Una prima applicazione del fenomeno delle liberalizzazioni nel mercato può' essere
individuata nel d.l. n. 138/2011, convertito in nella legge n. 138/2011.
Si riporta per intero l'articolo 3 (abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio
delle professioni e delle attivita' economiche), data la sua importanza ai fini della materia in
esame:
"1. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio
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secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio'
che non e' espressamente vietato dalla legge nei soli casi di:
2. vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;
3. b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;
c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e contrasto con l'utilita' sociale;
d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle
specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
e) disposizioni ((relative alle attivita' di raccolta di giochi pubblici ovvero)) che ((comunque))
comportano effetti sulla finanza pubblica.
2. Il comma 1 costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e attua la piena
tutela della concorrenza tra le imprese.
3. Sono in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni
normative statali incompatibili
con
quanto disposto
nel medesimo
comma,
con
conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attivita' e
dell'autocertificazione con controlli successivi. Nelle more della decorrenza del predetto
termine, l'adeguamento al principio di cui al comma 1 puo' avvenire anche attraverso gli
strumenti vigenti di semplificazione normativa. ((Entro il 31 dicembre 2012 il Governo e'
autorizzato ad adottare uno o piu' regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge
23 agosto 1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di
quanto disposto nel presente comma ed e' definita la disciplina regolamentare della
materia ai fini dell'adeguamento al principio di cui al comma 1.))
4. L'adeguamento di Comuni, Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce
elemento di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'articolo 20, comma 3,
del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
5. Fermo restando l'esame di Stato di cui ((all'articolo 33 quinto comma della Costituzione))
per l'accesso alle professioni regolamentate, gli ordinamenti professionali devono garantire
che l'esercizio dell'attivita' risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla
presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralita'
di offerta che garantisca l'effettiva possibilita' di scelta degli utenti nell'ambito della piu'
ampia informazione relativamente ai servizi offerti. Gli ordinamenti professionali dovranno
essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto per
recepire i seguenti principi:
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Pag. 103
a) l'accesso alla professione e' libero e il suo esercizio e' fondato e ordinato sull'autonomia e
sull'indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista. La limitazione, in forza
di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa
professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, e' consentita
unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico (tra cui in particolare
quelle connesse alla tutela della salute umana)e non introduca una discriminazione diretta o
indiretta basata sulla nazionalita' o, in caso di esercizio dell'attivita' in forma societaria, della
sede legale della societa' professionale;
b) previsione dell'obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua
permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti emanati dai consigli nazionali,
fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua
in medicina (ECM). La violazione dell'obbligo di formazione continua determina un illecito
disciplinare e come tale e' sanzionato sulla base di quanto stabilito dall'ordinamento
professionale che dovra' integrare tale previsione;
c) la disciplina del tirocinio per l'accesso alla professione deve conformarsi a criteri che
garantiscano l'effettivo svolgimento dell'attivita' formativa e il suo adeguamento costante
all'esigenza di assicurare il miglior esercizio della professione. Al tirocinante dovra' essere
corrisposto un equo compenso di natura indennitaria, commisurato al suo concreto apporto.
Al fine di accelerare l'accesso al mondo del lavoro, la durata del tirocinio non potra' essere
complessivamente superiore a tre anni e potra' essere svolto, in presenza di una apposita
convenzione quadro stipulata fra i Consigli Nazionali e il Ministero dell'Istruzione, Universita' e
Ricerca, in concomitanza al corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello
o della laurea magistrale o specialistica. Le disposizioni della presente lettera non si
applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente;
d) il compenso spettante al professionista e' pattuito per iscritto all'atto del conferimento
dell'incarico professionale prendendo come riferimento le tariffe professionali. E' ammessa la
pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe. Il professionista e' tenuto, nel rispetto
del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessita' dell'incarico,
fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento
alla conclusione dell'incarico. In caso di mancata determinazione consensuale del
compenso, quando il committente e' un ente pubblico, in caso di liquidazione giudiziale dei
compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale e' resa nell'interesse dei terzi si
applicano le tariffe professionali stabilite con decreto dal Ministro della Giustizia;
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Pag. 104
e) a tutela del cliente, il professionista e' tenuto a stipulare idonea assicurazione per i rischi
derivanti dall'esercizio dell'attivita' professionale. Il professionista deve rendere noti al cliente,
al momento dell'assunzione dell'incarico, gli estremi della polizza stipulata per la
responsabilita' professionale e il relativo massimale. Le condizioni generali delle polizze
assicurative di cui al presente comma possono essere negoziate, in convenzione con i propri
iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti;
f) gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l'istituzione di organi a livello territoriale,
diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali sono specificamente affidate
l'istruzione e la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina. La
carica di consigliere dell'Ordine territoriale o di consigliere nazionale e' incompatibile con
quella di membro dei consigli di disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della presente
lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa
vigente;
g) la pubblicita' informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attivita' professionale, le
specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle
prestazioni, e' libera. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non
devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie.
6. Fermo quanto previsto dal comma 5 per le professioni, l'accesso alle attivita' economiche
e il loro esercizio si basano sul principio di liberta' di impresa.
7. Le disposizioni vigenti che regolano l'accesso e l'esercizio delle attivita' economiche
devono garantire il principio di liberta' di impresa e di garanzia della concorrenza. Le
disposizioni relative all'introduzione di restrizioni all'accesso e all'esercizio delle attivita'
economiche devono essere oggetto di interpretazione restrittiva, fermo in ogni caso quanto
previsto al comma 1 del presente articolo.
8. Le restrizioni in materia di accesso ed esercizio delle attivita' economiche previste
dall'ordinamento vigente sono abrogate quattro mesi dopo l'entrata in vigore del presente
decreto,fermo in ogni caso quanto previsto al comma 1 del presente articolo.
9. Il termine «restrizione», ai sensi del comma 8, comprende:
a) la limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono
titolate ad esercitare una attivita' economica in tutto il territorio dello Stato o in una certa
area geografica attraverso la concessione di licenze o autorizzazioni amministrative per
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Pag. 105
l'esercizio, senza che tale numero sia determinato, direttamente o indirettamente sulla base
della popolazione o di altri criteri di fabbisogno;
b) l'attribuzione di licenze o autorizzazioni all'esercizio di una attivita' economica solo dove
ce ne sia bisogno secondo l'autorita' amministrativa; si considera che questo avvenga
quando l'offerta di servizi da parte di persone che hanno gia' licenze o autorizzazioni per
l'esercizio di una attivita' economica non soddisfa la domanda da parte di tutta la societa'
con riferimento all'intero territorio nazionale o ad una certa area geografica;
c) il divieto di esercizio di una attivita' economica al di fuori di una certa area geografica e
l'abilitazione a esercitarla solo all'interno di una determinata area;
d) l'imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all'esercizio di una
attivita' economica; e) il divieto di esercizio di una attivita' economica in piu' sedi oppure in
una o piu' aree geografiche;
f) la limitazione dell'esercizio di una attivita' economica ad alcune categorie o divieto, nei
confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti;
g) la limitazione dell'esercizio di una attivita' economica attraverso l'indicazione tassativa
della forma giuridica richiesta all'operatore;
h) l'imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi,
indipendentemente dalla determinazione, diretta o indiretta, mediante l'applicazione di un
coefficiente di profitto o di altro calcolo su base percentuale;
i) l'obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all'attivita' svolta.
10. Le restrizioni diverse da quelle elencate nel comma 9 precedente possono essere
revocate con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23
agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente entro quattro mesi
dall'entrata in vigore del presente decreto((, fermo in ogni caso quanto previsto al comma 1
del presente articolo.))
11. Singole attivita' economiche possono essere escluse, in tutto o in parte, dall'abrogazione
delle restrizioni disposta ai sensi del comma 8; in tal caso, la suddetta esclusione, riferita alle
limitazioni previste dal comma 9, puo' essere concessa, con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita ((l'Autorita' garante della concorrenza e del
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mercato)), entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto, qualora:
a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico((, tra cui in particolare quelle
connesse alla tutela della salute umana;)
b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di
interferenza nella liberta' economica, ragionevolmente proporzionato all'interesse pubblico
cui e' destinata;
c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalita'
o, nel caso di societa', sulla sede legale dell'impresa".
In materia di liberalizzazioni va altresì segnalato l'art. 34 (Liberalizzazione delle attività
economiche ed eliminazione dei controlli ex ante) del d.l. n. 291/2011, convertito nella l.
n.214/2011, secondo cui:
" 1. Le disposizioni previste dal presente articolo sono adottate ai sensi dell’articolo 117,
comma 2, lettere e) ed m), della Costituzione, al fine di garantire la libertà di concorrenza
secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato,
nonché per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di
accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale.
2. La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di
organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale,
costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono
giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo,
nel rispetto del principio di proporzionalità.
3. Sono abrogate le seguenti restrizioni disposte dalle norme vigenti:
a) il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area geografica e
l’abilitazione a esercitarla solo all’interno di una determinata area;
b) l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio di una
attività economica;
c) il divieto di esercizio di una attività economica in più sedi oppure in una o più aree
geografiche;
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Pag. 107
d) la limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei
confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti;
e) la limitazione dell’esercizio di una attività economica attraverso l’indicazione tassativa
della forma giuridica richiesta all’operatore;
f) l’imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi.
g) l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta.
4. L’introduzione di un regime amministrativo volto a sottoporre a previa autorizzazione
l’esercizio di un’attività economica deve essere giustificato sulla base dell’esistenza di un
interesse
generale,
costituzionalmente
rilevante
e
compatibile
con
l’ordinamento
comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità.
5. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è tenuta a rendere parere
obbligatorio, da rendere nel termine di trenta giorni decorrenti dalla ricezione del
provvedimento, in merito al rispetto del principio di proporzionalità sui disegni di legge
governativi e i regolamenti che introducono restrizioni all’accesso e all’esercizio di attività
economiche.
6. Quando è stabilita, ai sensi del comma 4, la necessità di alcuni requisiti per l’esercizio di
attività economiche, la loro comunicazione all’amministrazione competente deve poter
essere data sempre tramite autocertificazione e l’attività può subito iniziare, salvo il
successivo controllo amministrativo, da svolgere in un termine definito; restano salve le
responsabilità per i danni eventualmente arrecati a terzi nell’esercizio dell’attività stessa.
7. Le Regioni adeguano la legislazione di loro competenza ai princìpi e alle regole di cui ai
commi 2, 4 e 6.
8. Sono escluse dall’ambito di applicazione del presente articolo le professioni, il trasporto di
persone mediante autoservizi pubblici non di linea, i servizi finanziari come definiti
dall’articolo 4 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e i servizi di comunicazione come
definiti dall’art. 5 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno)".
In materia di liberalizzazioni occorre, inoltre, richiamare per la sua importanza la "direttiva
servizi" (direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, attuata con il d.lgs. n.
59/2010). Precisamente, la direttiva in esame si fonda sul principio generale affermato nella
nota sentenza Cassis de Dijon del 1979 secondo la quale se un bene è prodotto e
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commercializzato legalmente in uno stato europeo, gli altri stati membri non possono
limitarne la circolazione bensì presupporre la sua conformità. Questo è il principio della
mutua fiducia.
La direttiva, che rientra nel quadro della strategia di Lisbona, propone quattro obiettivi
principali:
1) facilitare la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione di servizi nell'Ue, in quanto i
servizi rappresentano il 70% dell'occupazione in Europa e la loro liberalizzazione aumenta
l'occupazione ed il Pil europeo;
2) rafforzare i diritti dei destinatari dei servizi, promuovere la qualità dell'offerta e, infine,
stabilire una cooperazione amministrativa effettiva tra gli Stati membri;
3) obbligo di valutare la compatibilità dei regimi di autorizzazione alla luce dei principi di non
discriminazione e di proporzionalità; obbligo di rispettare determinati principi quanto alle
condizioni e alle procedure di autorizzazione applicabili al settore dei servizi e divieto di
alcuni requisiti giuridici esistenti nelle legislazioni di determinati Stati membri e che non
possono essere giustificati;
4) in materia di libera prestazione di servizi, la direttiva prevede che gli Stati membri
debbano garantire il libero accesso a un'attività di servizi, nonchè il suo libero esercizio sul
loro territorio.
Nel quadro della tutela dei diritti dei destinatari dei servizi si precisa il diritto a utilizzare servizi
in altri Stati membri e ottenere informazioni sulle regole applicabili ai prestatori di servizi,
qualunque sia il loro luogo di stabilimento e sui servizi offerti da un prestatore di servizi.
In relazione alla qualità dei servizi si mira a rafforzarla mediante, ad esempio certificazioni
volontarie, e a incoraggiare l'elaborazione di codici di condotta europei.
Infine, sulla cooperazione amministrativa tra gli Stati membri, la direttiva stabilisce un obbligo
legale vincolante di collaborare con le autorità di altri stati membri per garantire un controllo
efficace delle attività di servizi dell'Unione e la creazione di un meccanismo di allerta basato
su un sistema elettronico di scambio di informazioni tra gli Stati membri.
Per quanto concerne il campo di applicazione, occorre mettere in evidenza che la direttiva
interessa molteplici attività come i servizi alle imprese (quali, ad esempio, servizi di pubblicità,
certificazione e collaudo, manutenzione degli uffici), i servizi collegati al settore immobiliare
(come le agenzie immobiliari, l'edilizia, la distribuzione, l'organizzazione di fiere, agenzie di
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viaggio) e i servizi ai consumatori (servizi ricreativi, guide turistiche, servizi nel settore del
turismo).
Sono invece esclusi, fra quelli forniti dietro corrispettivo economico, i seguenti servizi:
- servizi non economici di interesse generale, servizi finanziari;
- servizi di comunicazione elettronica in relazione alle materie disciplinate dalla direttiva;
- servizi nel settore dei trasporti, compresi quelli portuali;
- servizi delle agenzie di lavoro interinale;
- servizi sanitari;
- servizi audiovisivi, attività di azzardo, attività connesse con l'esercizio di pubblici poteri;
- alcuni servizi sociali (nel settore degli alloggi e del sostegno alle famiglie e alle persone
bisognose);
- servizi privati di sicurezza;
- servizi forniti da notai e ufficiali giudiziari nominati con atto ufficiale della Pubblica
amministrazione.
Sebbene non sia la presente la sede più' appropriata per analizzare funditus la disciplina
della direttiva servizi, occorre rilevare che il suo ambito di applicazione e' limitato
esclusivamente alle autorizzazioni. I riferimenti alle concessioni, invece, rappresentano un
atecnicismo, dovuto al linguaggio comunitario maggiormente incline a far prevalete la
sostanza sulla forma. Dal punto di vista logico, dunque, le autorizzazioni stanno alle attività
economiche come le concessioni stanno ai servizi.
Si hanno ora a disposizione gli strumenti necessari per valutare in che modo i principi in
materia di liberalizzazioni nel mercato e di sussidiarietà orizzontale impattino sull'esercizio
delle funzioni ampliative (autorizzazioni e concessioni). Occorre mettere in evidenza a tal
riguardo che l'ordinamento comunitario, come si può agevolmente notare leggendo la c.d.
direttiva servizi più sopra citata, nella materia in esame risulta essere maggiormente
permissivo rispetto all'art. 41 co.2 Cost., con particolare riferimento alla libertà dei servizi.
Orbene, per quanto concerne le autorizzazioni, occorre distinguere a seconda che il
mercato di riferimento sia a numero chiuso o a numero aperto.
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Nel primo caso la sussidiarietà opera nel senso di ampliare il numero dei soggetti che vi
possono accedere, come emerge plasticamente dall'art. 12 della direttiva servizi, secondo
cui:
" 1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per
via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri
applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di
imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio
della procedura e del suo svolgimento e completamento.
2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata
e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al
prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.
3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello
stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di
obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed
autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di
altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario".
Nel caso in cui venga in rilievo un mercato a numero aperto, invece, la sussidiarietà
orizzontale implica liberalizzazione tout court. Laddove si ravvisi la necessita' (di natura
politica) di mantenere dei controlli ex post, la liberalizzazione viene parzialmente
ridimensionata dalla semplificazione (per la cui analisi si veda infra).
Per quanto riguarda, invece, le concessioni, il venir meno della necessita' economica e
politica fa si' che si assista al fenomeno della liberalizzazione; al contrario, la sussistenza di
esigenze di controllo all'ingresso di operatori (necessita' politica) comporta, laddove venga
meno la necessita' e economica, che il mercato non venga liberalizzato, bensì che la
concessione si converta in autorizzazione.
4. Il fenomeno della semplificazione.
La tematica della semplificazione si presenta strettamente interferente con quello della
sussidiarietà. La semplificazione può' riguardare la funzione amministrativa e quella
normativa (sul punto v. amplius (F. BELLOMO, Manuale di diritto amministrativo, Cap. V vol. I,
CEDAM).
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La semplificazione della funzione amministrativa attiene alla attività della Pubblica
Amministrazione e tende da un lato alla deregolazione (semplificazione funzionale:
eliminazione degli interventi amministrativi non strettamente necessari) e dall'altro alla
revisione
di
procedimenti
di
organi
(semplificazione
organizzativa:
riduzione
e
accorpamento dei procedimenti e delle fasi, riordino delle competenze, soppressione di
organi e uffici superflui). Essa richiede a monte scelte di carattere politico in ordine alla
ingerenza del potere pubblico nei settori privati e alla ristrutturazione della organizzazione
amministrativa.
La semplificazione amministrativa trova un diretto referente a livello organizzativo e
procedimentale nell'art. 97 della Costituzione. Senza pretesa di esaustivita', le principali
applicazioni a livello legislativo possono essere identificate nelle seguenti griglie normative:
l.n. 241/90, l.n. 59/97, l.n. 127/97, d.P.R. n. 445/2000, l.n. 246/05.
Di particolare interesse sono gli articoli 25, 26 e 74 del d.l. n. 112/08, che si riportano
integralmente data la loro importanza.
Articolo 25 (Taglia-oneri amministrativi):
"1. Entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, su proposta del Ministro
per la pubblica amministrazione e l'innovazione e del Ministro per la semplificazione
normativa, è approvato un programma per la misurazione degli oneri amministrativi derivanti
da obblighi informativi nelle materie affidate alla competenza dello Stato, con l'obiettivo di
giungere, entro il 31 dicembre 2012, alla riduzione di tali oneri per una quota complessiva del
25%, come stabilito in sede europea. Per la riduzione relativa alle materie di competenza
regionale, si provvede ai sensi dell'articolo 20 ter della legge 15 marzo 1997, n. 59, e dei
successivi accordi attuativi.
2. In attuazione del programma di cui al comma 1, il Dipartimento della funzione pubblica
coordina le attività di misurazione in raccordo con l'Unità per la semplificazione e la qualità
della regolazione e le amministrazioni interessate per materia.
3. Ciascun Ministro, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e
l'innovazione e con il Ministro per la semplificazione normativa, adotta il piano di riduzione
degli oneri amministrativi, che definisce le misure normative, organizzative e tecnologiche
finalizzate al raggiungimento dell'obiettivo di cui al comma 1, assegnando i relativi
programmi ed obiettivi ai dirigenti titolari dei centri di responsabilità amministrativa. I piani
confluiscono nel piano d'azione per la semplificazione e la qualità della regolazione di cui al
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comma 2 dell'articolo 1 del decreto legge 10 gennaio 2006, n. 4, che assicura la coerenza
generale del processo nonché il raggiungimento dell'obiettivo finale di cui al comma 1.
4. Con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione e del Ministro per
la semplificazione normativa, si provvede a definire le linee guida per la predisposizione dei
piani di cui al comma 3 e delle forme di verifica dell'effettivo raggiungimento dei risultati,
anche utilizzando strumenti di consultazione pubblica delle categorie e dei soggetti
interessati.
5. Sulla base degli esiti della misurazione di ogni materia, congiuntamente ai piani di cui al
comma 3, e comunque entro il 30 settembre 2012, il Governo è delegato ad adottare uno o
più regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su
proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione e del Ministro per la
semplificazione normativa, di concerto con il Ministro o i Ministri competenti, contenenti gli
interventi normativi volti a ridurre gli oneri amministrativi gravanti sulle imprese nei settori
misurati e a semplificare e riordinare la relativa disciplina. Tali interventi confluiscono nel
processo di riassetto di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
6. Degli stati di avanzamento e dei risultati raggiunti con le attività di misurazione e riduzione
degli oneri amministrativi gravanti sulle imprese è data tempestiva notizia sul sito web del
Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, del Ministro per la semplificazione
normativa e dei Ministeri e degli enti pubblici statali interessati.
7. Del raggiungimento dei risultati indicati nei singoli piani ministeriali di semplificazione si
tiene conto nella valutazione dei dirigenti responsabili.
Articolo 26 (Taglia-enti):
"1. Gli enti pubblici non economici con una dotazione organica inferiore alle 50 unità, con
esclusione degli ordini professionali e loro federazioni, delle federazioni sportive e degli enti
non inclusi nell’elenco ISTAT pubblicato in attuazione del comma 5 dell’articolo 1 della legge
30 dicembre 2004, n. 311, degli enti la cui funzione consiste nella conservazione e nella
trasmissione della memoria della Resistenza e delle deportazioni, anche con riferimento alle
leggi 20 luglio 2000, n. 211, istitutiva della Giornata della memoria e 30 marzo 2004, n. 92,
istitutiva del Giorno del ricordo, nonché delle Autorità portuali, degli enti parco e degli enti di
ricerca, sono soppressi al novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, ad eccezione di quelli confermati con decreto dei Ministri
per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa, da
emanarsi entro il predetto termine. Sono, altresì, soppressi tutti gli enti pubblici non
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Pag. 113
economici, per i quali, alla scadenza del 31 marzo 2009, non siano stati emanati i
regolamenti di riordino ai sensi del comma 634 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007,
n. 244. Nei successivi novanta giorni i Ministri vigilanti comunicano ai Ministri per la pubblica
amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa gli enti che risultano
soppressi ai sensi del presente comma.
2. Le funzioni esercitate da ciascun ente soppresso sono attribuite all’amministrazione
vigilante ovvero, nel caso di pluralità di amministrazioni vigilanti, a quella titolare delle
maggiori competenze nella materia che ne è oggetto. L’amministrazione così individuata
succede a titolo universale all’ente soppresso, in ogni rapporto, anche controverso, e ne
acquisisce le risorse finanziarie, strumentali e di personale. I rapporti di lavoro a tempo
determinato, alla prima scadenza successiva alla soppressione dell’ente, non possono
essere rinnovati o prorogati".
Articolo 74 (Riduzione degli assetti organizzativi):
"1. Le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, ivi inclusa la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, le agenzie, incluse le agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 e successive modificazioni e integrazioni, gli enti
pubblici non economici, gli enti di ricerca, nonché gli enti pubblici di cui all'articolo 70,
comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni ed
integrazioni, provvedono entro il 31 ottobre 2008, secondo i rispettivi ordinamenti:
a) a ridimensionare gli assetti organizzativi esistenti, secondo principi di efficienza, razionalità
ed economicità, operando la riduzione degli uffici dirigenziali di livello generale e di quelli di
livello non generale, in misura non inferiore, rispettivamente, al 20 e al 15 per cento di quelli
esistenti. A tal fine le amministrazioni adottano misure volte:
alla concentrazione dell'esercizio delle funzioni istituzionali, attraverso il riordino delle
competenze degli uffici;
all'unificazione delle strutture che svolgono funzioni logistiche e strumentali, salvo specifiche
esigenze organizzative, derivanti anche dalle connessioni con la rete periferica, riducendo,
in ogni caso, il numero degli uffici dirigenziali di livello generale e di quelli di livello non
generale adibiti allo svolgimento di tali compiti.
Le dotazioni organiche del personale con qualifica dirigenziale sono corrispondentemente
ridotte, ferma restando la possibilità dell'immissione di nuovi dirigenti, nei termini previsti
dall'articolo 1, comma 404, lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296;
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b) a ridurre il contingente di personale adibito allo svolgimento di compiti logisticostrumentali e di supporto in misura non inferiore al dieci per cento con contestuale
riallocazione delle risorse umane eccedenti tale limite negli uffici che svolgono funzioni
istituzionali;
c) alla rideterminazione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale,
apportando una riduzione non inferiore al dieci per cento della spesa complessiva relativa al
numero dei posti di organico di tale personale".
La semplificazione normativa attiene, invece, ai procedimenti di produzione normativa ed
ha la precipua finalità di ridurre le leggi in vigore, di migliorare la chiarezza del linguaggio
legislativo attraverso la raccolta delle disposizioni in codici e testi unici e, infine, di eliminare
fonti superflue.
In sintesi, gli strumenti per realizzare gli obiettivi indicati nel nostro ordinamento giuridico sono
i seguenti:
(a) la legge annuale di semplificazione;
(b) la delegificazione;
(c) la deregolamentazione;
(d) i testi unici ricognitivi e innovativi, i testi unici misti di norme legislative e regolamentari, i
codici;
(e) l'analisi dell'impatto della regolamentazione (c.d. AIR) e la verifica di impatto della
regolamentazione (VIR);
(f) taglia leggi.
Sul fronte della semplificazione amministrativa la direttiva servizi obbliga gli Stati membri a
snellire tutte le procedure relative all’istituzione e alla realizzazione di un’attività di servizio.
Devono essere eliminati requisiti formali, quali l’obbligo di presentazione dei documenti
originali, le traduzioni certificate o le copie di certificati conformi, fatte salve alcune
eccezioni. Dal dicembre 2009 le imprese e i privati devono poter espletare per via
elettronica tutte le formalità necessarie mediante gli “sportelli unici”, i quali sono dei portali di
amministrazione elettronica realizzati dall’amministrazione nazionale di ogni paese dell’UE.
In conclusione, occorre soffermare la attenzione sulle modalità con le quali si verifica la
interferenza tra semplificazione e funzioni ampliative. Precisamente, la semplificazione della
funzione amministrativa opera nel senso di sostituite i provvedimenti autorizzatori con il
silenzio assenso (art. 20 l.n. 241/90) e con la S.C.I.A. (art. 19 l.n. 241/90).
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Con riferimento, invece, alle concessioni, la semplificazione implica la applicazione dell'art. 1
co.1bis l.n. 241/90 e dell'art. 11 della l.n. 241/90. Qualora venga in rilievo congiuntamente la
sussidiarietà orizzontale, essendosi la funzione trasformata da concessoria in autorizzatoria
(salve le ipotesi di liberalizzazione tout court), si verificano i medesimi effetti più sopra messi in
evidenza (silenzio assenso e S.C.I.A.).
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Diritto tributario
L’Accertamento con adesione: quest’oggetto (quasi) misterioso
a cura di Michele Molinari
L’istituto dell’adesione ha più di dieci anni di vita e conosciuto diverse rivisitazioni, ma,
nonostante il clamore mediatico e giornalistico pressoché quotidiano suscitato ormai dai
temi fiscali, si ha l’impressione che resti ancora un oggetto misterioso, che francamente
neppure la stampa specializzata contribuisce a “disvelare” pienamente: difficilmente
potrebbe esserlo se viene chiamata indifferentemente (e impropriamente) transazione
fiscale, concordato, o addirittura patteggiamento (sic!), termini che rievocano un solo
comune denominatore: il concetto di “accordo”, ma che, per il resto, divergono molto tra
loro, se ci si ferma a riflettere, come qualunque giurista e economista ben sa.
Altro spunto di riflessione è che l’adesione è sempre oggetto di articoli e servizi dei
massmedia solo quando riguarda personaggi famosi, come se fosse un “privilegio” riservato
ai pochi eletti che possono servirsi dei migliori studi e consulenti.
In realtà l’accertamento con adesione è a portata di tutti, è lo strumento principe
impiegato quotidianamente per cercare un confronto tra Amministrazione Finanziaria e il
contribuente, cui si rivolge non solo il vip, ma anche e soprattutto il professionista, la piccola
e media impresa, così come il cittadino privato.
L’Accertamento con adesione conosce la luce con il d.lgs. n. 218 del 1997, facendo
seguito alla legge delega n. 662 del 23/12/1996: viene creato un corpus omogeneo di
articoli con cui viene istituzionalizzato il dialogo tra le parti.
L’istituto non ha avuto vita facile: prima del 1997 c’erano solo norme settoriali, per i
singoli (e non tutti) tributi ed il primo vero tentativo si è avuto col d.l. 452/94, decaduto per
mancata conversione, il cui contenuto è stato trasfuso in una serie di decreti legge reiterati,
fino alla conversione finale nella legge 656 del 1994, più volte modificata fino all’attuale
d.lgs.
Sul piano soggettivo, non esistono particolari preclusioni (a differenza di quanto
previsto inizialmente nel 1994), in quanto l’accesso è consentito a tutta la platea dei
contribuenti: persone fisiche (privati e titolari di partita iva), società di persone e assimilati di
cui all’art. 5 del dpr 917/86 (es: azienda familiare), società di capitali e assimilati di cui all’art.
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87 del dpr 917/86 (es: i trust), sostituti di imposta (coloro che effettuano ritenute di legge a
qualunque titolo).
Sul piano oggettivo, l’adesione è applicabile alle imposte dirette (irpef e relative
addizionali, ires, irap, imposte sostitutive) ed alle principali indirette, quali iva, registro,
imposta di successione e donazioni, ipocatastali (l’art 1 parla ancora di INVIM, ma in realtà
non esiste più dal 2000/01), ma non all’imposta di bollo; ugualmente importante è
sottolineare che può essere oggetto di adesione qualunque categoria di reddito delle
attuali sei, quindi non più solo il reddito di impresa o reddito autonomo (per molto tempo
privilegiati), ma anche il reddito da lavoro dipendente (es, a seguito di accertamenti su
lavori in nero), oppure redditi di fabbricati (es: i canoni di locazione non denunciati).
Per essere ancora più appetibile per il contribuente, l’adesione è esperibile
potenzialmente per tutti i tipi di accertamenti previsti dalla legge, e quindi si pensi agli
accertamenti
da
indagini
finanziarie,
accertamento
per
omessa
dichiarazione,
accertamento sintetico (es: il c.d. redditometro), accertamenti induttivi-analitici (es: da studi
di settore), accertamenti induttivi puri (es: quando si prescinde da una contabilità
inaffidabile), accertamenti parziali (es: si rettificano i redditi
da lavoro dipendente in
presenza di due o più Cud, non tutti conteggiati, prendendo in considerazione solo in
seguito, per il medesimo anno, alcuni affitti attivi in nero percepiti).
TIPOLOGIA DI CONTROLLI AI QUALI E’ APPLICABILE
Il Lettore attento avrà intuito che il nome stesso dell’istituto (Accertamento con
adesione) e l’uso ripetuto del termine accertamento non è causale: l’adesione non è
esperibile in presenza di un qualunque controllo, ma solo in presenza di una fattispecie tipica
codificata dal Legislatore, cioè quel controllo disciplinato dagli articoli 37 e ss del d.p.r.
600/1973 che può sfociare emissione di un atto amministrativo tipico chiamato “Avviso di
accertamento” (per le imposte dirette e l’iva) oppure “avviso di rettifica e liquidazione” (per
le iposte indirette), avente un contenuto tassativo (art. 42 del d.p.r. 600) e sottoposto a
termini di notifica precisi (art. 43 del dpr 600).
L’Accertamento è quel tipo di controllo che implica una certa complessità di analisi
della situazione, che comporta “uno sforzo” intellettivo e intepretativo del controllore, che
consente un sindacato sulla condotta fiscale del contribuente, il quale può spingersi molto in
profondità, come nell’ipotesi della disciplina antielusiva (art. 37bis del dpr 600) e nella sua
evoluzione giurisprudenziale dell’abuso di diritto, ma proprio perché l’accertamento, come
controllo, è frutto di interpretazione e (di fatto) è spesso un sindacato di merito non può non
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contenere un margine di incertezza o errore nella quantificazione del possibile imponibile
evaso, che si riverbera nell’avviso di accertamento.
Pertanto l’adesione serve ad aprire un contraddittorio per ridurre questa incertezza o
errore, in tale sede il contribuente può far valere le sue argomentazioni e documentazione
per confutare in toto o in parte le pretese erariali.
In assenza di tale sforzo intellettivo, dove la discrezionalità è ridotta al minimo se non
nulla, non si può parlare di accertamento, ma solo di controlli formali (in senso lato), cui
possono seguire sanzioni, con o senza recupero di imposta, attraverso “atti di contestazione”
o avvisi bonari con successiva iscrizione a ruolo: il pagamento delle sanzioni ridotte per
chiudere subito la pendenza, tecnicamente, non è adesione, ma genericamente definizione
I DIVERSI TIPI DI ADESIONE E PROCEDIMENTO DI DEFINIZIONE
Al fine di ridurre quanto possibile il tasso di litigiosità e deflazionare il relativo
contenzioso spesso defaticante per entrambe le parti, il legislatore ha arricchito nel tempo le
ipotesi di adesione, da ultimo coi dd.ll. n. 112 e 185 del 2008. Pertanto attualmente abbiamo:
Adesione ai verbali di constatazione (art. 5bis del d.lgs 218/97)
Se una verifica, un accesso, un’ispezione ha avuto esito negativo con la redazione di
un Processo Verbale di Constatazione con indicazione delle violazioni riscontrate e relativo
imponibile sottratto, il contribuente entro 30 gg dalla notifca del pvc può aderire ai rilievi
(con l’apposita modulistica) e nei successivi 60 notificherà l’atto di definizione col prospetto
delle imposte (o meggiori imposte) da pagare, con gli interessi e le sanzioni ridotte ad 1/6.
Più precisamente i benefici dell’art. 5bis si applicano alle ipotesi in cui col pvc siano
constatate violazioni che portino all’emissione di accertamenti parziali, di cui all’art. 41bis del
dpr 600/73 (c.d. Decreto Accertamento) e art. 54 del dpr 633/1972 (c.d. decreto IVA).
In questa ipotesi non è previsto contraddittorio, pertanto l’adesione al pvc deve
essere totale, senza possibilità di osservazioni: da qui l’incentivo della sanzione ad un sesto.
Se il contribuente non ritiene di aderire e le memorie difensive non sono ritenute
congrue per un’archiviazione, segue l’avviso di accertamento, ma è NON è preclusa la
possibilità di presentare istanza di adesione, ma in questo caso, se l’esito fosse positivo, le
sanzioni sarebbero ad 1/3.
L’art. 5bis non è applicabile alle imposte indirette.
Adesione all’invito al contraddittorio (art. 5 del d.lgs. 218/97)
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Con le modifiche del 2008 e la previsione delle sanzioni ad 1/6 in caso di adesione,
l’invito al contraddittorio ha conosciuto un grande sviluppo diventando di largo uso: basti
pensare che ormai un accertamento da studi di settore, spesso complesso per la sua
metodologia di calcolo, è sempre preceduto da questo strumento.
Come suggerisce il nome, l’invito è un atto che riproduce in modo identico il
contenuto del potenziale avviso di accertamento, indicando i motivi del controllo, i
prospettivi riepilogativi e contabili ed infine le imposte, interessi e sanzioni da pagare (1/6),
invitando il contribuente a pagare entro un certo termine oppure presentarsi per avviare il
contraddittorio.
Nella prima ipotesi dovrà aderire in toto ai rilievi dell’Ufficio e la sua posizione è da
considerarsi quindi chiusa per ogni singolo anno d’imposta controllato, mentre nella
seconda ipotesi il contraddittorio (in una o più sedute) può essere utile per ottenere
l’archiviazione delle contestazioni o comunque una loro riduzione nel successivo avviso di
accertamento. Il rifiuto di definire con l’invito non è passibile di sanzione pecuniaria, ma
comunque preclude questa volta la possibilità di presentare successivamente richiesta di
adesione (art. 6).
La disciplina dell’art. 5 è applicabile anche alle imposte indirette (soprattutto al
registro).
Adesione tradizionale (art. 6 del d.lgs. 218/97)
Con questa dizione si indica l’adesione che staturisce dall’istanza presentata dal
contribuente a seguito di un avviso di accertamento, non preceduto da un invito di cui
all’art. 5.
L’Ufficio ha tempo 15 gg (termine ordinatorio) per formulare, anche per telefono, un
invito a comparire per iniziare il contraddittorio, che naturalmente può svolgersi in più incontri
in modo di dare alla parte la possibilità di reperire, per quanto possibile, nuova
documentazione contro i rilievi mossi.
Un effetto importante dell’istanza è quello di sospendere per 90 gg i termini
dell’avviso di accertamento (60 gg) per pagare o presentare ricorso. La sospensione è
considerata per prassi dell’Amministrazione, confermata dalla giurisprudenza (cfr. Cass sent.
3762 del 9 marzo 2012), a termine fisso, anche in presenza di un contraddittorio negativo già
dopo poche settimane o un rifiuto/rigetto immediato dell’Ufficio: in definitiva il contribuente
ha a disposizione un totale di 150 gg in caso di adesione per valutare la propria posizione.
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Il termine complessivo è destinato ad allungarsi se l’avviso di accertamento cade nel
periodo estivo, trovando applicazione la sospensione feriale dei 45 gg (1 agosto – 15
settembre) prevista dalla legge 742 del 1967.
Per quanto riguarda la tipologia di documentazione, in sede di contraddittorio non
sono previste particolari preclusioni, quindi il contribuente può porre all’attenzione dell’ufficio
qualunque elemento ritenuto utile.
La tipologia di argomentazioni e documenti utilizzati sono i più disparati, ma
cercando di categorizzare, in genere si fanno presente costi e spese non considerati nei
rilievi mossi (frequente per le partite iva) oppure redditi non imponibili perché, ad es., esenti
per legge, perché già tassati in precedenza, perché sottoposti ad imposte sositutive, ecc.
Effetti tributi ed extratributari dell’accertamento con adesione
L’esito positivo in un’adesione viene siglata con la redazione di un atto in duplice
copia e comporta la riduzione delle sanzioni ad 1/3 dell’imposta, ma soprattutto ridurre la
base imponibile su cui calcolare l’imposta ( o le imposte).
In genere l’avviso di accertamento rettifica un reddito rilevante per più tributi
contemporaneamente, quindi l’adesione riduce innanzitutto la base imponibile per tutti, ma
potrebbe anache azzerare una determinata imposta per via delle diverse aliquote
applicate ai tributi.
Si tenga presente che sia l’accertamento sia l’adesione non fanno altro che
rettificare la propria dichiarazione: se sono presenti delle voci negative, delle spese, dei
costi, dei crediti d’imposta, questi potrebbero risultare superiori in termini assoluti rispetto ad
una delle imposte rideterminate.
Esempio: a Mario Rossi, professionista, viene accertato un mggior imponibile di €
100.000, su cui quindi si calcolano la maggiore irpef, iva ed irap. A seguito di adesione
l’imponibile viene ridotto a € 70.000, e rideterminate (a ribasso) tutte le imposte; il
contribuente potrebbe anche dimostrare di non essere soggetto ad irap, che quindi viene
annullata, restando immutati gli atri tributi. L’irap tuttavia, con un’aliquota più bassa (max
6,82 %) rispetto a irpef (min. 23%), ires (27,50) e iva (21% aliquota ordinaria), potrebbe anche
non essere più dovuta perché l’imponibile accertato viene ridotto tanto che l’irap
ricalcolata è sì maggiore di quella dichiarata, ma comunque inferiore all’insieme delle
componenti negative deducibili e detraibili: ad es, € 2000 di componenti negativi - € 1500 di
irap = - € 500, quindi nessuna imposta dovuta).
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Pag. 121
Altra possibilità data dall’adesione è il pagamento del dovuto (imposta/e, sanzioni e
interessi) a rate, di importo variabile a secondo del quantum; pagamento agevolato
ulteriormente con l’abolizione dell’obbligo di prestare garanzia fideiussoria a partire dal 2011.
La maggiore iva viene calcolata sempre con la regola dell’aliquota media (art. 2),
quindi sempre conveniente rispetto a quella presente in un avviso di accertamento,
calcolata con le aliquote di legge.
L’accertamento definito con adesione non è impugnabile dalle parti, non integrabile
o modificabile dall’Ufficio se non nei casi tassativi previsti dall’art. 2 (es: in presenza di
accertamento parziale, se vi sono nuovi elementi con un maggior reddito superiore al 50%
del reddito definito e comunque non inferiore a € 77.850), ma che di rado vengono presi in
considerazione.
Quanto agli effetti extratributari, ha effetto sui contributi previdenziali e assistenziali,
perché riducendo l’imponibile si riducono i contributi dovuti e inoltre non sono dovute le
sanzioni e gli interessi.
In campo penale, nei caso di reati tributari di cui al d.lgs. 74/200, il pagamento delle
somme prima dell’apertura del dibattimento di primo grado costituisce attenuante,
permettendo l’abbattimento fino alla metà delle sanzioni e la non applicazione delle pene
accessorie.
La scheda
Gli Istituti deflattivi del contenzioso
Autotutela
È il potere-dovere dell’A.F. di procedere all’annullamento o revoca (totale
o parziale) dei propri atti ritenuti illegittimi o infondati.
Funzione
E’ esperibile in
qualunque fase, ed a determinate condizioni, anche in presenza di
sentenza definitiva.
E’ attivabile d’ufficio o su richiesta di parte, e l’stanza non richiede
particolari forme né il pagamento del bollo.
In linea generale, va presentata presso l’Ufficio che ha emanato l’atto, ma
le comunicazioni di irregolarità (c.d. avvisi bonari ex art. 36bis) sono
annullabili anche via call center.
La Direzione regionale competente ha poteri sostitutivi in caso di grave
inerzia
dell’Ufficio
adito,
e
deve
esprimere
parere
preventivo
all’annullamento totale o parziale quando l’importo totale contestato
superi euro 516.456,89.
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L’annullamento dell’atto illegittimo comporta l’annullamento di tutti gli atti
consequenziali ed, a seguito dell’annullamento, il contribuente avrà diritto
alla restituzione delle somme, maggiorate degli interessi.
L’istanza di autotutela non sospende i termini di impugnazione dell’atto.
Art. 2-quater del D.L. 564/94 conv. nella L. 656/94
D.M. 11.2.1997 n. 37
Disciplina
c.m. 198/S del 1998; c.m. 258/E del 1998; C. Agenzia Entrate n. 103 del 2001
Acquiescenza
Accettando i rilievi dell’avviso di accertamento e versando gli importi
dovuti, si ottiene una riduzione delle sanzioni ad 1/3 oppure a 1/6 se l’avviso
Funzione
non è stato preceduto da invito ex art. 5.
Art. 15 del d.lgs. 218
Disciplina
c.m. 235/E del 1997; c.m. 238/E del 1997; c.m. 180/E del 1998; circ. AE 14 del
2006
Adesione al pvc
Funzione
Sanzione ridotta ad 1/6 se il contribuente accetta tutti i rilievi mossi nel Pv.C.
notificatogli. E definibile solo il verbale che comporta l’emissione di un
accertamento parziale ed attivabile solo per le imposte dirette e iva.
E’ possibile versare soluzione unica o a rate, senza obbligo di garanzia.
La mancata accettazione non preclude la possibilità di presentare istanza
di adesione.
E’ ammessa compensazione con altri crediti tributari vantati.
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Pag. 123
Disciplina
Art. 5bis del d.lgs. 218/97
Circ AE 55/2008; circ. AE 8/2009; Circ Ris. AE 426/2008;
Adesione all’invito al
contraddittorio
Funzione
Sono previste sanzioni ad 1/6 se il contribuente accetta i rilievi, versando il
dovuto. E’ possibile versare con soluzione unica oppure a rate, senza
obbligo di garanzia.
E’ applicabile alle imposte indirette.
E’ ammessa la compensazione con altri crediti tributari vantati.
Disciplina
Art. 5 del d.lgs. 218/97
Circ AE 55/2008; circ. AE 8/2009; Circ Ris. AE 426/2008; Ris. AE n. 482/2008
Provvedimento del Direttore dell’Agenzia prot. 48.780 del 29.3.2012, in
merito alla riorganizzazione degli uffici interni, in particolare l’Ufficio legale
Accertamento con
adesione
Funzione
Sono previste sanzioni ad 1/3, imponibile riderteminato se l’Ufficio accoglie
le osservazioni del contribuete. L’Istanza sospende per 90 gg i termini
dell’accertamento, cui si possono aggiungere i 45 gg della sospensione
feriale. l’adesione può riguardare tutti o il singolo tributo tra quelli indicati
dell’avviso. l’adesione ridetermina nache i contributi prev. , essendo
calcolati sul medesimo imponibile fiscale.
In caso di penale, consente un abbattimento fino alla metà della pena, se il
versamento del dovuto avvienen prima del dibattimento, e la non
applicazioni delle pene accessorie.
E’ applicabile alle imposte indirette.
E’ ammessa la compensazione con altri crediti tributari vantati.
Disciplina
Art. 6 del d.lgs. 218/98
c.m. 235 del 1997; c.m. 65 del 2001; c.m. 28 del 2002; c. AE 14 del 2006
Conciliazione
giudiziale
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Pag. 124
Funzione
E’ applicabile a tutte le controversie sotto l giurisdizione della commissione
tributaria provinciale e non oltre la prima uienza.
Non è obbligatoria né vincolante.
Può essere pesentata da ambo le parti e anche dal giudice.
La conciliazione può essere in udienza o fuori udienza.
Se l’esito è positivo, il contribuente può versare in un’unica soluzione o a
rate senza obbligo di garanzie. Le somme sono compensabili tra imposte
dirette e iva con altri crediti vantati, ma non con i tributi versabili in F23 (altre
imposte indirette).
Le sanzioni sono dovute nella misura del 40%
Disciplina
Art. 48 del d.lgs. 546/92.
Reclamo e
Mediazione
Funzione
Dal 1 Aprile 2012 è obbligatorio, a pena di inammissibilità del ricorso,
presentare reclamo con eventuale proposta di mediazione conto una serie
di atti emessi dall’Agenzia delle Entrate con valore non suepriore a € 20.000:
si considera solo l’imposta, al netto di sanzioni e interessi, e per gli atti di
contestazioni il vaore della sanzioni stessa.
Nelle ipotesi previste dalla nuova disciplina, non è applicabile la
conciliazione giudiziale.
Il relcamo deve avere tutti i requisiti previsti per il ricordo , posto che si
“trasforma” in ciò se non si raggiunge un accordo con l’Agenzia.
Con il reclamo si chiede l’annullamento totale o parziale dell’atto e se ciò
non accade si passa alla eventuale fase di mediazione proposta dal
contribuente o dell’Ufficio.
La circolare 9/2012 precisa che il reclamo non sospende l’efficacia dell’atto
impugnabile, cosa che invece dovrebbe accadere se vi fosse la fase della
mediazione, che risulta conciliabile con l’accertamento con adesione.
Reclamo e mediazione devono essere presentati presso un ufficio diverso
da quello che ha emanato l’atto, individuato nell’Ufficio legale della D.P.
competente o Direzione regionale.
L’esito positivo della mediazione comporta l’appicazioni delle sanzioni al
40%.
Art. 17bis del d.lgs. 546/92
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Pag. 125
Disciplina
Circ. 9/2012
Giurisprudenza su...
... redditometro
Motivata valutazione delle deduzioni del contribuente
Cass. sez. trib., 22 febbraio 2008, n. 4624
E’ illegittimo l’avviso di accertamento fondato sulla mera applicazione dei coefficienti e
parametri presuntivi di reddito derivanti dal c.d. redditometro laddove l’Amminstrazione
finanziaria abbia omesso di dare contezza, in sede di motivazione dell’atto impositivo, delle
puntuali e dettagliate deduzioni difensive presentate dal contribuente a seguito della
relativa richiesta di chiarimenti formulata nei propri confronti.
Possibilità di provare un reddito inferiore
Cass. sez. trib. 18 giugno 2008, n. 16472
La determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione del c.d.
redditometro non preclude l’assolvimento dell’onere della prova circa la sussistenza di un
reddito imponibile inferiore a quello accertato. Le presunzioni previste ex lege hanno
carattere relativo e non assoluto; conseguentemente, il thema probandum non è limitato
all’accertamento della sussistenza di redditi esenti o redditi soggetti a ritenute alla fonte a
titolo di imposta, essendo ammissibile dimostrare l’entità del reddito inferiore.
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Pag. 126
La scheda
COMBINAZIONE DI BENI. IL REGIME DELLE AREE PARCHEGGIO.
di Massimo Marasca
1. Premessa.
Un bene giuridico può risultare anche dalla particolare connessione che può instaurarsi tra
più cose: si discorre, in queste ipotesi di combinazioni di cose, che possono essere cose
composte o universalità di mobili.
 Le universalità di mobili (art. 816 c.c.) sono costituite dalla relazione di più cose
destinate alla funzione unitaria, appartenenti allo stesso proprietario (biblioteca). La
disciplina è diversa da quella dei singoli beni; ad esempio il principio possesso vale
titolo è applicabile ai singoli beni, ma non alle universalità. Si distingue (Galgano):

In direzione esterna tra universitas rerum e universitas personarum,
quest’ultima
universitas
consistente
personarum
(v.
nell’associazione,
associazione,
–
concepita
come
quale
universitas
personarum).

In direzione interna tra universitas facti e universitas iuris. La seconda
sarebbe costituita da quelle pluralità di cose che ricevono una
considerazione unitaria non per la destinazione impressa loro dal
proprietario, ma per disposizione di legge. Gli esempi che si sogliono
fare, quelli dell’azienda (v.) e dell’eredita` (v.),
dimostrano che la
categoria dell’universitas iuris non è prevista nel nostro ordinamento,
poiché le figure richiamate hanno una disciplina radicalmente diversa
tra di loro e con l’universalità di beni mobili.
• Le cose composte sono costituite dalla connessione di più cose che, nella
destinazione unitaria, perdono la loro funzione originaria per adempierne una diversa
(ad esempio la ruota dell' automobile). La cosa composta si distingue dall’universalità
di mobili fondamentalmente perché nell’universalità non vi è coesione fisica fra i vari
elementi: la cosa composta è considerata come un bene semplice (recte, unico). È
possibile, in sede di vendita di immobile in condominio, evitare la cessione della quota
millesimale dell'area condominiale. (Cass. Civ., Sez. VI, n. 22361 del 26 ottobre 2011)
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Pag. 127
2. Nozione di pertinenza.
Le pertinenze riguardano quei beni che hanno funzione durevole, di servizio o di ornamento,
di un altro bene; esse danno luogo ad una combinazione di cose per accessorietà.
Tanto la cosa principale quanto la pertinenza possono essere sia cose mobili sia cose
immobili.
Esempi (Galgano): le scialuppe di salvataggio di una nave sono cose mobili al servizio di
altra cosa mobile; l’arredo di un albergo è un insieme di cose mobili legate da rapporto
pertinenziale di servizio all’immobile adibito ad albergo; il garage di un appartamento o di
una villa è un immobile al servizio di un altro immobile; e la statua collocata nel giardino è
una cosa mobile posta ad ornamento di un immobile.
2.1.
Relazione pertinenziale.
La relazione pertinenziale può essere costituita, modificata o estinta.
A) Costituzione.
La relazione pertinenziale può essere costituita solo dal proprietario della cosa principale, o
da chi ha su di essa altro diritto reale (art. 817, comma 2o, c.c.). Tuttavia, non occorre,
invece, che egli sia anche proprietario della pertinenza, che può appartenere ad altri.
Può accadere, perciò, che il proprietario trasferisca la cosa principale senza escludere
dall’atto di trasferimento le pertinenze, che non gli appartengono. Orbene, il rapporto
pertinenziale fa sì che l’acquirente della cosa principale acquisti anche le pertinenze, salvo
che egli non fosse in mala fede al momento dell’acquisto, ossia sapesse che le pertinenze
non appartenevano al venditore.
Se però la pertinenza è un immobile o un mobile registrato, il suo proprietario può
rivendicarla anche nei confronti dell’acquirente di buona fede, se il suo diritto sulla
pertinenza risulta da atto avente data certa anteriore al trasferimento. La durevole
destinazione richiede un elemento oggettivo, dato dall’effettiva esistenza di un
collegamento economico o estetico fra i due beni, ed un elemento soggettivo, consistente
nella volontà del proprietario di destinare l’uno al servizio o all’ornamento dell’altro.
Questa volontà può anche essere implicita e desumersi, ad esempio, dalla clausola del
contratto di locazione
che prevede il rilascio del garage all’atto del rilascio dell’appartamento. E' appena il caso
di precisare che il rapporto di servizio opera fra le cose, non rispetto alla persona del
proprietario.
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Pag. 128
B) Estinzione della relazione pertinenziale.
Il rapporto pertinenziale, come è costituito per volontà del proprietario della cosa principale,
così può cessare per volontà dello stesso. La cessazione non è, tuttavia, opponibile ai terzi
che abbiano anteriormente acquistato diritti sulla cosa principale (art. 818, comma 2o, c.c.).
La vendita separata della pertinenza implica cessazione del rapporto pertinenziale; ma la
vendita, se la pertinenza è un immobile, per essere opponibile all’acquirente della cosa
principale, deve risultare da atto trascritto nei registri immobiliari in epoca anteriore.
C) Modificazioni (Regime di circolazione delle pertinenze).
Le modificazioni derivano dagli atti di disposizione delle pertinenze. Queste possono essere
alienate ad altri, tuttavia il rapporto pertinenziale influisce sulla circolazione delle pertinenze
(art. 818, comma 1o, c.c.): gli atti o i rapporti che hanno per oggetto la cosa principale
comprendono, se non sono espressamente escluse, anche le pertinenze.
Le pertinenze possono formare oggetto di separati atti o rapporti: si possono vendere le
scialuppe senza vendere la nave (art. 818, comma 2o, c.c.).
Altra modificazione di rilievo riguarda il pignoramento della cosa pertinenziale. Il
pignoramento non priva il debitore esecutato della proprietà dei beni pignorati, nè rende
nulli gli atti di disposizione di essi: effetto del pignoramento è` di rendere inefficaci gli atti di
disposizione nei confronti del creditore procedente e degli altri creditori intervenuti
nell’esecuzione (art. 2913 c.c.). Il pignoramento comprende gli accessori e le pertinenze, e si
estende ai frutti della cosa pignorata maturati successivamente al pignoramento (art. 2912
c.c.); sicché sono inopponibili ai creditori anche gli atti di disposizione, successivi al
pignoramento, che riguardino le accessioni della cosa pignorata, le loro pertinenze, i frutti
civili e i frutti naturali che, al momento del pignoramento, non erano stati ancora separati.
3. Le aree parcheggio.
A partire dalla legge ponte del 1967 si sono succedute una pluralità di normative settoriali,
che hanno disciplinato la circolazione delle aree parcheggio in modo distinto e, a tratti, più
restrittivo rispetto a quello regolato dal codice civile.
A) Nozione spazi parcheggio.
Sono porzioni di terreno destinate alla sosta dei veicoli e alle manovre relative.
Se ne conoscono diverse specie:
1.
aree scoperte, che danno luogo ai cosiddetti posti auto;
2.
aree coperte, che a loro volta si distinguono in:
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Pag. 129

aree chiuse su tre lati- cd box;

aree chiuse su quattro lati- cd garages.
B) i molteplici regimi giuridici.
In base alla normativa succedutasi nel tempo si possono distinguere una pluralità di regimi
giuridici a cui sono soggette le aree parcheggio (Cass. 21003 del 2008).
1.
Parcheggi liberi;
2.
Parcheggi legge ponte, ma anteriori alla legge 246-2005;
3.
Parcheggi legge Tognoli 1989.
4.
Parcheggi successivi alla legge 246-2005;
3.
I Parcheggi liberi.
I parcheggi liberi sono quelli che, in linea di massima, sono assoggettati alla disciplina del
codice civile. Per questi beni non sussiste alcun limite alla libertà negoziale.
Nell’ambito di questo macro gruppo di parcheggi vi sono quelli:
 Costruiti anteriormente all’entrata in vigore della legge ponte;
 Quelli costruiti successivamente all’entrata in vigore della legge 246/2005;
 I parcheggi realizzati in eccedenza rispetto alla cubatura minima prevista dalle
leggi Ponte e Tognoli;
 Parcheggi realizzati nella vigenza della legge Tognoli, ma che in ragione di una
serie di decreti legge reiterati e non convertiti sono stati alienati (sanati con legge
204-1995).
 Parcheggi liberi ex art. 3 lett e) dpr 380-2001.
In giurisprudenza di è posta la questione dei parcheggi che siano stati ristrutturati (ricostruiti)
dopo la legge Ponte e alla legge Tognoli, ovvero dopo l’introduzione dei limiti alla libera
circolazione. Si discute sull’applicabilità dei limiti previsti da tale legge ai parcheggi ricostruiti.
La Cassazione 4465/95 ha applicato i limiti previsti dalla legge.
4.
Parcheggi legge Ponte.
Sono le aree parcheggio costruite dopo l’entrata in vigore della legge ponte del 1967.
Punto di partenza è costituito dall’art 18 della Legge n. 765/1967, cd. Legge Ponte (così
denominata poiché doveva rappresentare una disciplina transitoria in attesa di una
complessiva riforma urbanistica poi non
realizzata), il quale introduce l’art.41 sexies nella legge n.1150/42- cd legge urbanistica
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Pag. 130
fondamentale, prevedendo che i fabbricati condominiali costruiti posteriormente al 1
settembre 1967 devono dotarsi di spazi destinati a parcheggio rispettando la cubatura
indicata dalla norma stessa. La norma citata non specifica la natura giuridica del vincolo
riguardante le aree destinate a parcheggio, ciò ha dato adito ad una querelle
interpretativa in giurisprudenza, caratterizzata dall’emersione di due contrapposte teorie:
A. TESI VINCOLO OGGETTIVO. Secondo una prima tesi, l’art. 18 L. n.765/67 avrebbe
costituito un vincolo oggettivo tra la cosa principale e l’area parcheggio: la seconda
sarebbe assoggettata alla destinazione d’uso in favore della prima. Pertanto, le unità
immobiliari destinate a parcheggio potrebbero essere attribuite, cedute in proprietà
o date in locazione a persone diverse dai proprietari dei singoli appartamenti
immobiliari, purché ne venga rispettata la destinazione a parcheggio.
Il vincolo avrebbe carattere generale e pubblicistico; esso riguarderebbe solo i profili
amministrativistici, cosicché da un punto di vista civilistico non rileva se il diritto di
godimento sulla pertinenza è esercitato da un soggetto diverso dal proprietario.
D’altronde il diritto civile conosce ipotesi di scissione tra titolarità e legittimazione, nel
cui novero andrebbe inserita anche questa.
B. TESI DEL VINCOLO SOGGETTIVO. Secondo questa tesi il vincolo avrebbe natura
soggettiva, con la conseguenza che il diritto reale di godimento sulla pertinenza
deve appartenere necessariamente al proprietario.
 CONSEGUENZE DELLA TESI.

La legge avrebbe, quindi, costituito una pertinenza necessaria ed
inderogabile. Essa risponderebbe ad un interesse pubblico, rappresentato
dalla lotta al parcheggio selvaggio. La violazione di tale norma imperativa
comporterebbe la nullità virtuale ex artt. 1418 co 1 e 1419 co 2 di tutte
quelle clausole derogatorie al regime giuridico tracciato dalla stessa
legge, che escludono cioè la cessione del parcheggio.

Queste clausole sarebbero sostituite ex art. 1339 cc da una clausola che
ex lege costituisce un diritto reale in favore del cedente (Questo
orientamento si può dire culminante nella nota pronunzia Cass. Civ. Sez.
Unite, 6600/84).

l'integrabilità ope judicis degli atti di alienazione delle unità abitative
separatamente rispetto ai posti auto (Cass. Civ. Sez.II,7994/91; Cass.Civ.
Sez.II, 244/95; Cass.Civ., 10459/01);

l'indispensabilità del trasferimento del diritto di uso dell'area a parcheggio
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Pag. 131
anche in favore del conduttore, essendo conseguentemente viziato di
nullità parziale il contratto di locazione che lo escluda (Cass.Civ.
Sez.III, 19308/05).

la natura di credito di valore e non di valuta del corrispettivo da versarsi a
fronte dell'integrazione dell'oggetto del contratto costituita dal posto auto
(Cass.Civ. Sez.II, 4622/93);

la determinabilità giudiziale del prezzo in caso di disaccordo (Cass.
5755/04).
 CRITICHE ALLA TESI.

Si sostiene (Rescigno) che la tesi è priva di qualsiasi fondamento giuridico
sia per quanto riguarda la nullità virtuale, poiché questa può operare solo
in assenza di altre “sanzioni” (come poteva essere ad es quella
risarcitoria), sia per quanto concerne la sostituzione integrativa, poiché
nessuna norma dice il cosa, il come e il quando sostituire;

Anche il diritto reale d’uso appare (Fusaro) una soluzione tecnicamente
non condivisibile: l’art. 1021 cc stabilisce la personalità del diritto d’uso e
l’art.1024 cc ne prevede l’incedibilità. Si tratta di caratteri difficilmente
conciliabili con la realità accessoria della pertinenza e con la sua
trasmissibilità mortis causa.

Le finalità pubblicistiche sono vanificate dalla possibilità di prescrizione
ventennale per mancato esercizio ex art. 1014 e 1026 cc(Cass.14731-00,
che ha ammesso la prescrizione estintiva del diritto reale d’uso).
Su questa regolamentazione è intervenuto l’art. 26 L. n.47/1985, il quale ha qualificato
espressamente le aree destinate a parcheggio come pertinenze rispetto al fabbricato
d’appartenenza, prevedendo l’applicazione della disciplina generale di cui agli artt. 817 e
ss. C.c. A seguito dell’intervento legislativo,
Si sono contrapposti due orientamenti:
Il più remoto sostenuto da Cass. 3363 del 1989 sostiene che nessuna abrogazione per
incompatibilità può essere ricavata dalla legge del 1985, la quale non incide né sul
carattere necessario e pubblicistico dell’area parcheggio né sui limiti all’autonomia
privata.
Quello più recente (cfr. Cass. S.U. n. 12793/2005; Cass. Ss.uu 24572/06; cass. 29344/08)
applica la disciplina delle pertinenze: le SS.UU hanno sostenuto la tesi dell’alienabilità
delle aree destinate a parcheggio limitatamente a quelle realizzate in eccedenza
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Pag. 132
rispetto allo standard urbanistica, poiché si tratta di spazi che sono aggiuntivi e che
quindi possono soddisfare esigenze di tipo privatistico.
5.
Parcheggi legge Tognoli.
Sono parcheggi da realizzare su edifici già esistenti e soggetti a due tipologie di
agevolazioni:
 Urbanistiche- è una costruzione soggetta a DIA e la realizzazione può avvenire
anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti;
 Civilistiche- la legge Tognoli qualifica questi parcheggi come innovazione
condominiale e la assoggetta a maggioranze ridotte rispetto a quelle ex art.
1136 cc.
L’atto di cessione è, però, nullo.
6.
Parcheggi ex legge 246/05.
La legge di semplificazione 28 novembre 2005, n.246 incide sul secondo comma dell’art.41
sexies della legge urbanistica:

Recide il vincolo pertinenziale;

Esclude la sussistenza del diritto d’uso;

Consente la libera cedibilità delle aree parcheggio.
La Cassazione n.4264 del 2006 sancisce che:

la legge si applica solo ai parcheggi di nuova realizzazione, non avendo
applicazione retroattiva ex art. 11 delle preleggi;

7.
la legge incide sul regime civilistico degli spazi parcheggi e non su quello urbanistico.
IL DECRETO SEMPLIFICAZIONE N.5/12.
L’art. 10 del DL 5/12, rubricato “Parcheggi pertinenziali”, sostituisce il precedente testo
dell'articolo 9, comma 5, della legge 24 marzo 1989, n. 122, stabilendo che: "5. Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 41-sexies, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e
successive modificazioni, e l'immodificabilita' dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la
proprieta' dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 puo' essere trasferita, anche in
deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi
atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza
di altra unita' immobiliare sita nello stesso comune. I parcheggi realizzati ai sensi del comma
4 non possono essere ceduti separatamente dall'unita' immobiliare alla quale sono legati da
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vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione sono nulli.".
In sostanza la novità normativa amplia ulteriormente l’area dei cosiddetti parcheggi liberi,
prevedendo (B. Consales) che la proprietà dei parcheggi di pertinenza delle abitazioni può
essere trasferita separatamente dall’unità immobiliare di riferimento, a condizione che ciò
avvenga solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso Comune.
Rimangono, invece, incedibili quei parcheggi realizzati su previsione dei Comuni
nell’ambito del programma urbano dei parcheggi, da destinare a pertinenza di immobili
privati, insistenti su aree comunali o nel sottosuolo delle medesime.
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Pag. 134
Focus
PROSPETTIVE DI UN POSSIBILE PROCESSO AL PATRIMONIO:
NORME, ORIENTAMENTI, FINALITA’82
Le confische viste dall’alto: breve viaggio nel diritto sovranazionale
di Fabiana Rapino
La oramai acquisita consapevolezza di far parte di un ordinamento giuridico più ampio dei
confini territoriali nazionali, e la conseguente costante esigenza di armonizzare discipline
diverse, bilanciare esigenze, trovare punti di equilibrio tra specificità nazionali e base
comune europea, portano con sé la necessità di vagliare qualunque aspetto del diritto
nazionale sotto la lente sovranazionale.
Spesso è l’Europa a chiederci di adottare degli strumenti legislativi; altre volte capita invece
che essa sia la sede in cui raccogliere gli elementi che possano poi porsi come minimo
comune denominatore tra tutti gli Stati, comportando talvolta la rinuncia a qualche
peculiarità interna, e forse anche un abbassamento del livello di tutela, passaggi obbligati
per raggiungere una disciplina europea della materia. Benchè non esista ancora un diritto
penale europeo, diversi sono i modi in cui l’Unione Europea può intervenire sulla potestà
penale dello Stato: non può certo imporre la previsione di fattispecie penali, pena la
violazione del principio di legalità, ma può certamente condurre all’armonizzazione in una
determinata materia o, sul piano sanzionatorio, richiedere agli Stati di prevedere sanzioni
effettive, proporzionate e dissuasive, lasciando così alla discrezionalità statale la scelta della
misura. Questo, in linea generalissima, l’approccio dell’UE.
La visuale sovranazionale sarebbe però monca se non si considerasse anche, e soprattutto,
la Convenzione europea dei diritti dell’uomo83, la quale spicca per la sua natura non
La I a parte del Focus "Prospettive di un possibile processo al patrimonio: norme,
orientamenti e finalità", intitolata Introduzione generale e profili storico-evolutivi della
prevenzione speciale è contenuta in Nuove frontiere del diritto n. 3 - Marzo 2012, pag. 63 e
ss.
82
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 135
meramente proclamatoria ma anzi cogente, vincolante per gli Stati, e per la caratteristica di
essere lo strumento di protezione dei diritti civili e politici più efficace a livello internazionale.
Da un lato, quindi, è nell’ambito di tale perimetro sovranazionale, che devono
necessariamente inserirsi i mezzi di ablazione che colpiscono i patrimoni illecitamente
accumulati. E, dall’altro lato, l’attenzione ai
fenomeni di criminalità economica,
sostanzialmente organizzata, non può rimanere confinata al territorio nazionale, poiché la
costruzione di un processo al patrimonio non può non passare indenne al vaglio della tutela
europea dei diritti e delle garanzie processuali, e poiché anche in tale materia ferve l’opera
di armonizzazione e l’applicazione del mutuo riconoscimento.
Ciò premesso, la rapida disamina che ci si accinge a svolgere tenterà di analizzare i punti di
contatto/scontro della confisca di sicurezza e di quella di prevenzione sia con la legislazione
dell’UE, sia con i principi scolpiti nella Cedu.
La Cedu.
Quando si parla di confisca, a prescindere dalla sua esatta qualificazione giuridica, ci si
riferisce all’ablazione, a favore dello Stato, di determinati beni, che per un motivo o per un
altro risultano legati alla condotta criminosa, o per lo meno alla pericolosità sociale, del
soggetto che li detiene o li utilizza. Dei beni, quindi, vengono espropriati ed assegnati allo
Stato, con tutto ciò che ne consegue in termini di loro riutilizzo per fini sociali, di loro
“purificazione” dall’illegalità e reimmissione in un circuito economico sano: appare evidente
come si incida fortemente sul diritto di proprietà dei titolari di tali beni. Dal confronto tra il
nostro testo costituzionale e la Cedu, emerge una diversa rilevanza di questo diritto che
chiarifica quanto sostiene la Corte Edu: essa, sostanzialmente, considera la confisca
un’ingerenza nel godimento di un diritto fondamentale. La Costituzione repubblicana, in
tema di proprietà, ribalta quella che era la concezione liberale ottocentesca, per cui il diritto
in esame era “sacro” (basti pensare che nello Statuto Albertino la proprietà era considerata
un diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, quasi, se vogliamo, “illimitato” di fronte
ai
poteri
pubblici),
affermando
all’opposto
la
centralità
della
persona
e
non
ricomprendendo la proprietà tra i diritti fondamentali dell’individuo. Troviamo il diritto di
proprietà, infatti, “soltanto” all’art. 42 Cost., tra i rapporti economici, privo della preminenza
che aveva ante 1948. Ex adverso, nell’alveo della Cedu la proprietà è considerata un diritto
fondamentale84 che, certo, può subire compressioni e limitazioni, come nel caso della
83
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.
84
Art. 1 Prot. 1 Cedu: Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può
essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla
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Pag. 136
confisca, ma in virtù di alcune precise condizioni: la confisca è legittima se è prevista dalla
legge, se realizza uno scopo legittimo, e se è necessaria in una società democratica
85.
La
misura è perciò compatibile con la Cedu quando viene ritenuto giusto l’equilibrio tra diritto
individuale ed esigenza della collettività; altrimenti, la Cedu considera la confisca
un’intromissione dello Stato nel diritto al godimento di beni proprio. Per inciso, la Corte di
Giustizia dell’UE, invece, sebbene riconosca l’illegittimità di un intervento sproporzionato
rispetto alle prerogative del proprietario, sembra porre maggiormente l’accento sul par. 2
art. 1 Prot. 1 Cedu, ritenendo il diritto di proprietà non una prerogativa assoluta, ben
potendo trovare dei limiti data la sua funzione sociale 86, quasi in perfetto parallelismo con la
Costituzione italiana. È stato fatto notare come tale orientamento della Corte di Giustizia sia
stato confermato anche dalla Carta di Nizza del 2000 laddove, all’art. 17, bilancia l’uso dei
beni con i limiti imposti dall’interesse generale 87.
Ma non è questo l’unico punto di frizione tra diritto interno e Cedu. Quanto alla confisca
come misura di sicurezza, la Corte edu interviene anche in punto di qualificazione giuridica.
Unanime
è
il
riconoscimento
“camaleontico”, è stato detto
88,
della
natura
proteiforme
di
tale
strumento
reale,
poiché adatta la propria natura in considerazione della
funzione che gli è attribuita. Questo però alla Cedu non interessa: essa, in un’ottica di tutela
effettiva, non guarda alla qualificazione interna data alla confisca ma guarda se essa, alla
luce dei suoi principi, vada considerata o meno come una pena. Il riferimento è alla nota
vicenda di Punta Perotti, più volte oggetto di pronuncia sia della Corte di Cassazione che
della Corte Edu: la confisca ex art. 44 d.P.R. n. 380/01 è stata emblematica dell’applicazione
della concezione autonomistica della sanzione propria della Corte dei Diritti. Senza voler qui
ripercorrere l’intera vicenda, basti solo considerare la diversa qualificazione data a tale
particolare confisca dalla Corte sovranazionale: privilegiando il punto di vista dell’effettività
della tutela piuttosto che quello della formale qualificazione di una fattispecie, tale Corte ha
legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni Precedenti non portano
pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare
l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di
altri contributi o delle ammende.
85
G. PISTORIO, La disciplina della confisca nel dialogo tra Corti europee e giudici nazionali, in Giur. It., n.
8-9/2009, p. 2069.
86
C.G.C.E.,
13
dicembre
1979,
C-44/79
L.
Hauer
c.
L.
Rheinland-Pfalz,
reperibile
in
http://www.giurcost.org/casi_scelti/CJCE/C-44-79.htm.
87
G. PISTORIO, La disciplina della confisca nel dialogo tra Corti europee e giudici nazionali, cit., p. 2070.
88
In questi termini, A. AULETTA-A. SERPICO, La natura giuridica della confisca e l’incidenza della Cedu, in
Innovazione e Diritto, n. 6/2010, reperibile al seguente indirizzo:
http://www.innovazionediritto.unina.it/archivionumeri/1006/aulettaserpico.pdf.
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Pag. 137
ritenuto la confisca una pena a tutti gli effetti, in quanto rispetta i criteri che qualificano in
tale modo una sanzione, ossia il collegamento alla commissione di un reato, la gravità, la
funzione preventiva e repressiva
89.
A ben vedere, l’impostazione autonomistica della Cedu
nel considerare ciò che è sanzione e ciò che non lo è appare necessitata proprio dal ruolo
di garante assoluto dei diritti che spetta alla Corte: compiere tale valutazione sulla base
delle norme interne svilirebbe tale ruolo, per questo la Corte guarda al “perché”, e non al
“come” una norma è scritta, traendone una propria interpretazione, per l’appunto
“europea”. Viene spontaneo pensare che la natura proteiforme della confisca (post
delictum), soprattutto in quelle ipotesi in cui è forte il contenuto affittivo della misura, possa,
alla luce dei principi della Cedu, essere ricondotta ad un unicum: ossia ad una sola natura
giuridica, quella che tradotta nel linguaggio della convenzione è, semplicemente, pena,
con tutto ciò che ne consegue in termini di rispetto degli artt. 6 e 7 Cedu. Del resto, viene
altrettanto spontaneo ritenere come tali principi sovranazionali, e pattizi e giurisprudenziali,
essendo ormai parte integrante dell’ordinamento nazionale, condurranno sempre più i
giudici interni a guardare le diverse ipotesi di confisca con gli occhi della Cedu, e a ritenerle
a pieno titolo sanzioni.
Diversa è la posizione della confisca di prevenzione.
Viene in rilievo, innanzitutto, la natura di misura prettamente preventiva, e non repressiva, di
tale confisca, che la rende estranea all’ambito strettamente attinente alla sanzione penale.
Qui la Corte edu è consapevole del fatto di non poter svolgere lo stesso ragionamento
seguito in merito alla confisca di sicurezza: vista la diversa ratio sottesa ai due tipi di misura,
posta la loro diversa incidenza temporale e soprattutto considerato il fondamentale
discrimine dato dalla commissione di un reato, per quanto la Corte edu sia impegnata a
dare effettività ai diritti dell’uomo proclamati dalla Convenzione, nel caso della confisca di
prevenzione la stessa Corte trova un limite, per così dire invalicabile, rappresentato dalla sua
natura, appunto, preventiva. Non possono trovare applicazione i principi dalla Corte
elaborati in punto di natura sostanziale di pena di una certa misura, perché così facendo si
89
Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 30.08.2007, ed ancora sentenza 20.01.2009, Sud
Fondi srl c. Italia . La questione posta dal caso di Punta Perotti ha portato la Corte a ritenere pena la
confisca ex art. 44 d.P.R. n. 380/2001 e quindi a ritenerla compresa nell’applicazione del principio di
legalità ex art. 7 Cedu; principio che è risultato poi violato in quanto la previsione interna di tale pena
non rispettava i requisiti di accessibilità e prevedibilità ritenuti necessari dalla Cedu affinchè una pena
sia conforme all’art. 7 Cedu.
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Pag. 138
andrebbe a snaturare la ratio stessa della misura in parola
90.
Ciò che la Cedu riconduce
nella sostanza al concetto di pena è comunque un istituto che presuppone la commissione
di un reato; la misura di prevenzione, invece, mira a prevenire quest’ultimo e per la sua
applicazione non è richiesto tale presupposto. Essenzialmente, quindi, né la confisca ante
delictum è una pena, né la Cedu, nel suo ruolo di garante effettivo dei diritti, la considera
tale. Si pone qui l’incidentale riflessione per cui, a ben vedere, le misure di prevenzione, la cui
costituzionalità è maggiormente posta in discussione nell’ordinamento interno, essendo
criticate dalla dottrina perché ritenute sotto più profili incostituzionali (benchè la Corte
Costituzionale abbia quasi sempre respinto le accuse di illegittimità), siano poi quelle che
meno soffrono al vaglio di compatibilità sovranazionale.
Fondamentale è anche qui il profilo dei rapporti col diritto di proprietà: l’ingerenza statale
nel godimento dei propri beni è forte ed evidente anche nel caso della confisca preventiva,
ma la Corte edu l’ha sempre ritenuta proporzionata e giustificata in relazione alle finalità
proprie di tale intervento ablatorio. Si legge, infatti, nelle sentenze della Corte edu come, a
fronte del par. 1 dell’art. 1 Prot. 1 Cedu, rilevi in queste circostanze il successivo par. 2 ai sensi
del quale è comunque legittimo il diritto degli Stati si applicare le leggi ritenute necessarie
per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il
pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende. Ciò che gioca a favore della
compatibilità europea della confisca di prevenzione è quindi la possibilità, legittima, per lo
Stato di intervenire per tutelare un interesse generale, che è quello di impedire un uso illecito
e pericoloso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata. Per
comprendere quanto ampio sia il margine d’azione dello Stato a riguardo occorre notare
come la Corte edu mostri consapevolezza dell’esigenza perseguita dal legislatore interno:
“la Corte sottolinea che la misura controversa si inserisce nella cornice di una politica di
prevenzione criminale e considera che, nel collocamento in opera di tale politica, il
legislatore deve godere di una grande margine per pronunciarsi tanto sull'esistenza di un
problema di interesse pubblico che richiama una regolamentazione che sulla scelta delle
modalità di applicazione di questa ultima. Osserva peraltro che il fenomeno della criminalità
organizzata ha raggiunto, in Italia, delle proporzioni molto preoccupanti. I profitti smisurati
che le associazioni di tipo mafioso traggono dalle loro attività illecite danno loro un potere la
cui esistenza rimette in causa il primato del diritto nello stato. Così, i mezzi adottati per
90
F. MENDITTO, L’amministrazione dei beni confiscati anche nell’ottica europea: problemi e prime
interpretazioni, in incontro del csm 16 febbraio 2012, “Il codice antimafia e le politiche dell’Unione
Europea”, in www.csm.it.
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Pag. 139
combattere questo potere economico, in particolare la confisca controversa, possono
apparire come indispensabili per lottare efficacemente contro suddette associazioni” 91.
Come si avrà modo di rilevare a breve, a beneficiare dell’applicazione della confisca di
prevenzione sembrano essere anche i diritti di iniziativa economica e di libera concorrenza:
la misura preventiva toglie dal circuito economico i patrimoni illeciti che falsano il mercato. Si
tratta di valori appartenenti anche alla nostra Costituzione e fortemente esaltati
dall’ordinamento sovranazionale, in particolar modo dall’UE, la cui tutela si impone sia a
favore del singolo che a favore della collettività.
Da un punto di vista strettamente procedimentale, la Corte edu ha posto l’attenzione sul
mancato rispetto del principio di pubblicità nell’ambito dell’udienza del procedimento
applicativo delle misure di prevenzione. Si può in tale sede solo accennare al fatto che tale
udienza, per la disciplina italiana, doveva avvenire, prima delle pronunce non solo della
Corte dei diritti ma anche della Corte Costituzionale 92, in primo grado e in appello, senza la
presenza del pubblico. La Corte edu93 si è pronunciata affermando la violazione dell’art. 6
Cedu, posto che la pubblicità dell’udienza è un diritto fondamentale dell’individuo
necessario per la realizzazione di un processo equo e deve trovare realizzazione in tutte le
società democratiche94.
L’Unione Europea.
Oltre al fondamentale profilo di compatibilità con la Cedu risulta fondamentale anche
l’azione delle istituzioni europee miranti all’armonizzazione delle discipline nazionali ed al
potenziamento dei mezzi per contrastare i traffici delittuosi transnazionali.
Quanto alla confisca di sicurezza, due sono le decisioni quadro95 che, sotto il profilo
dell’armonizzazione della materia, hanno previsto i requisiti minimi della confisca, lasciando
al contempo la facoltà per gli Stati di introdurre o mantenere altri strumenti di ablazione e,
sotto il profilo dell’applicazione del principio del mutuo riconoscimento, hanno disciplinato il
procedimento di emissione ed esecuzione dell’ordinanza, o meglio, eurordinanza, che
91
Corte edu, sentenza Bongiorno c. Italia, 05.01.2010 traduzione non ufficiale reperibile in
http://www.anptes.org/cedu/repertorio/sentenza.asp?id=1029&termini1=&termini2=
92
Corte Cost., sentenza 12.03.2012 n. 93, reperibile in http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0093s-
10.html.
93
Corte edu, sentenza Bongiorno, cit.; sentenza Pozzi c. Italia, 26.07.2011, in Cass. pen., n. 12/2011 pag.
4491.
94
M. MONTAGNA, La pubblicità dell’udienza quale diritto fondamentale dell’individuo nel procedimento
di prevenzione tra Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte Costituzionale, in www.diritticedu.unipg.it.
95
Si tratta della decisione quadro 2005/212/GAI, 24 febbraio 2005, in tema di armonizzazione, e della
decisione quadro 2006/783/GAI, 6 ottobre 2006, in tema di mutuo riconoscimento.
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Pag. 140
dispone la confisca, mediante rapporti diretti tra autorità giudiziarie
96.
Le due decisioni
quadro si inseriscono a pieno titolo nel quadro già delineato dalla Convenzione di
Strasburgo del 1990
97:
su entrambi i fronti, comunitario e pattizio, l’obiettivo è neutralizzare i
profitti economici della criminalità quindi privare chi delinque dei proventi dei reati 98.
Quanto alla confisca di prevenzione, si ritiene che vada esclusa dal campo di applicazione
delle succitate decisioni quadro, soprattutto perché queste fanno riferimento a misure
ablatorie emesse a
seguito di
un
procedimento penale: serve necessariamente
l’accertamento della commissione di un reato, ciò che ontologicamente manca nelle
misure di prevenzione; il basso standard probatorio richiesto per l’applicazione di tali misure,
peraltro, non sarebbe sufficiente garanzia per il mutuo riconoscimento 99.
L’Unione Europea, tuttavia, si muove comunque per estendere e promuovere in maniera
uniforme l’applicazione delle misure di prevenzione. Vero è che, in base a quanto visto in
relazione alla Cedu, è necessario rispettare i diritti fondamentali dell’uomo, sub specie il
diritto di proprietà; altrettanto vero è, però, che vi sono altri aspetti, come si accennava
supra, parimenti rilevanti in ambito europeo e fortemente sostenuti dall’UE, quali il diritto di
iniziativa economica ed il principio di libera concorrenza, che traggono beneficio
dall’ablazione di patrimoni illeciti. La legittimità europea delle misure di prevenzione emerge,
quindi, non solo sotto il profilo convenzionale, ma anche nell’ottica comunitaria: eliminare,
ancor prima che vengano commessi reati, patrimoni e ricchezze illecitamente accumulati
che possano falsare il mercato e ledere i corretti equilibri tra imprese e l’economia in
generale, è auspicato dall’UE ed anzi è un’azione di fondamentale rilievo per la tutela del
primario intesesse europeo alla libertà di concorrenza.
In tale contesto trova spazio la Risoluzione sulla criminalità organizzata nell’UE, adottata dal
Parlamento europo del 25 ottobre 2011100 che, seppur priva di efficacia vincolante, valorizza
fortemente le misure patrimoniali ed in particolare quelle di prevenzione. In tale risoluzione si
chiedono alle istituzioni europee diversi interventi, tra i quali la presentazione di una proposta
96
G. I UZZOLINO, La confisca nel diritto penale dell’Unione Europea tra armonizzazione normativa e mutuo
riconoscimento, in Cass. pen., n. 4/2011, p. 1554.
97
Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, conclusa a
Strasburgo, 8 novembre 1990, ratificata in Italia con legge 9 agosto 1993, n. 328.
98
G. I UZZOLINO, La confisca nel diritto penale dell’Unione Europea tra armonizzazione normativa e mutuo
riconoscimento, cit., pag. 1556.
99
Ancora, su tali profili, G. I UZZOLINO, La confisca nel diritto penale dell’Unione Europea tra
armonizzazione normativa e mutuo riconoscimento, cit., pag. 1556-7.
100
Reperibile al seguente indirizzo:
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/Risoluzione%20Parlamento%20UE%20su%20c%20o%20.pd
f.
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Pag. 141
di direttiva sulla procedura di sequestro e di confisca dei proventi di reato, che consenta di
intervenire efficacemente, la predisposizione di norme sul riutilizzo dei proventi a scopi sociali,
il rafforzamento della cooperazione tra Stati. Correttamente, è stato rilevato come la
legislazione italiana in materia di misure di prevenzione patrimoniali possa ergersi a pieno
titolo a modello di riferimento per la costruzione di un sistema europeo di intervento
patrimoniale 101.
Il futuro prossimo delle misure patrimoniali, di sicurezza e di prevenzione, è quindi nel senso di
una sempre maggiore convergenza tra legislazione interna e sovranazionale. Non potrebbe
essere altrimenti, posto il carattere transnazionale che la criminalità economica, mafiosa e
non, spesso presenta.
101
A. Balsamo-C. Lucchini, La risoluzione del 25 ottobre 2011 del Parlamento europeo: un nuovo
approccio al fenomeno della criminalità organizzata, in
http://www.penalecontemporaneo.it/materia/2-/22-/-/1033la_risoluzione_del_25_ottobre_2011_del_parlamento_europeo__un_nuovo_approccio_al_fenomeno_de
lla_criminalit___organizzata/.
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Pag. 142
Normativa
IL PROTESTO DEI TITOLI DI CREDITO
di Massimo Marasca
Nozione e funzione.
Il mancato pagamento o il rifiuto di accettare un titolo di credito, cambiale o assegno,
comporta l’elevazione del protesto nei confronti del soggetto emittente.
Il protesto è un atto solenne, redatto dal notaio, dall'ufficiale giudiziario o dall'aiutante
ufficiale giudiziario (oppure, in mancanza di costoro, dal segretario comunale), con il quale si
constata il mancato pagamento o il rifiuto di accettare il titolo.
La levata di protesto nell’assegno è condizione per agire in regresso verso i giranti e i loro
avallanti: esso deve essere levato entro il termine di presentazione dell’assegno, pena la
decadenza dall’azione di regresso . Il protesto dell‘assegno è , invece, superfluo per agire in
regresso verso il traente dell’assegno (art. 45, comma 2o, r.d. n. 1736 del 1933). L’esercizio
dell’azione di regresso è , però , consentita senza necessita` del – nei seguenti casi: a) il
trattario abbia dichiarato di non voler pagare con dichiarazione scritta sull’assegno e
indicante il luogo e il giorno della presentazione; b) una stanza di compensazione (v.)
emette dichiarazione datata e attestante che l’assegno le e` stato trasmesso in tempo utile,
ma non e` stato pagato (art. 45, comma 1o, r.d. n. 1736 del 1933). Il traente, i giranti e gli
avallanti possono porre sul titolo la clausola senza spese o senza –, con l’effetto di dispensare
il portatore dell’assegno dall’onere di levare – per esercitare il regresso. La clausola deve
essere apposta sul titolo e sottoscritta (art. 48,comma 1o, r.d. cit.). Quando la clausola
predetta e` apposta dal traente, essa e` efficace verso tutti i firmatari dell’assegno; se
invece e` apposta da un girante o da un avallante produce effetto solo rispetto a questi
(art. 48 comma 3o, r.d. n. 1736 del 1933).
Anche nella cambiale è condizione per l'esercizio dell'azione di regresso è che il rifiuto di
accettazione o il mancato pagamento siano stati constatati, in modo formale, tramite il
protesto (eccezion fatta per il caso di fallimento del trattario o di fallimento del traente di
una cambiale non accettabile, nel quale è sufficiente, per agire in via di regresso, la
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Pag. 143
produzione della sentenza dichiarativa di fallimento: art. 51, ult.comma, l.camb.). Ad ogni
modo il protesto non è condizione necessaria dell’azione, come chiarito da Cass., 12
gennaio 1995, n. 329, in Giust. civ., 1995, I, 2788.
Si discute se sia possibile in quei casi in cui difetti un'azione di regresso da conservare (per es.,
quando il primo prenditore faccia valere il pagherò contro l'emittente: in senso favorevole
Martorano, Pavone La Rosa).
Casistica giurisprudenziale.
La giurisprudenza ha affrontato negli ultimi anni le seguenti questioni:
1.
la possibilità di invocare la tutela cautelare per ottenere la cancellazione dall’albo
dei protesti;
2.
Integrazione del contraddittorio;
3.
la risarcibilità dei danni derivanti da illegittima levata di protesto.
Cancellazione.
I pubblici ufficiali incaricati alla levata del protesto alla fine di ogni mese devono trasmettere
alla Camera di Commercio competente l'elenco dei protesti levati
durante il mese. La
Legge n° 235/2000 e il Decreto del Ministero delle Attività Produttive N° 316/2000 hanno dato
attuazione al Registro Informatico dei Protesti (generalmente definito Elenco Protesti o
Bollettino Ufficiale dei Protesti) incaricando le Camere di Commercio della pubblicazione
ufficiale degli elenchi dei protesti.
La cancellazione dal Bollettino Ufficiale dei Protesti, invece, può essere ottenuta: per
avvenuto pagamento del titolo cambiario, per illegittimità od erroneità del protesto oppure
per riabilitazione.
La legge n. 77 del 1955, come successivamente modificata, prevede una procedura
amministrativa di cancellazione con istanza al presidente della camera di commercio
competente per territorio:
· ad istanza del debitore in caso di pagamento tardivo nei 12 mesi dal protesto;
· da parte di chiunque vi abbia interesse, se dimostri di aver subito levata di protesto, al
proprio nome, illegittimamente od erroneamente;
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Pag. 144
· nonché dai pubblici ufficiali incaricati della levata del protesto o dalle aziende di credito,
quando si è proceduto illegittimamente od erroneamente alla levata del protesto.
Il responsabile dirigente dell'ufficio protesti provvede non oltre il termine di venti giorni dalla
data di presentazione della istanza; conseguentemente, dispone la cancellazione richiesta,
curando sotto
la sua personale responsabilità l'esecuzione del provvedimento, <<da effettuare non oltre
cinque giorni dalla pronuncia dello stesso, mediante la cancellazione definitiva dal registro
dei dati relativi al protesto, che si considera, a tutti gli effetti, come mai avvenuto. In caso
contrario, decreta la reiezione dell'istanza>>. In tale caso o se non vi è decisione sull’istanza
presentata da parte del responsabile dirigente dell'ufficio protesti, entro il termine di cui al
comma 3, l'interessato può ricorrere al giudice di pace (art. 4).
1. Tutela cautelare.
La giurisprudenza reputa che la tutela cautelare non sia assoggettata al preventivo
espletamento del descritto procedimento amministrativo (Tribunale di Napoli, III Sezione
Civile, 28 maggio 2010) e ciò in ragione dell'effettività della tutela e della strumentalità con
l'azione di merito (di solito risarcitoria), che prescindono dal ricorso amministrativo.
Peraltro, la domanda e il dispositivo cautelare vanno limitati alla sola sospensione
dell'iscrizione, poiché qualora si traducessero nella cancellazione verrebbero a coincidere
con una delle possibili tutele di merito (risarcimento in forma specifica).
La disciplina ex art. 4 legge 77 del 55 è stata applicata anche agli assegni (Corte di
Cassazione, Sezione 1 civile Sentenza 28 giugno 2006, n. 14991).
2. Litisconsorzio.
Secondo Cassazione civile, sent. n. 14005 del 10/06/2010. – L’Ufficiale levatore è parte
necessaria nei processi vertenti sull’accertamento dell’illegittimità od erroneità degli atti di
protesto, mentre la Camera di commercio è parte eventuale affinché l'eventuale pronuncia
- alla cui ottemperanza quest'ultima non potrebbe in ogni caso sottrarsi - faccia
direttamente stato anche nei suoi confronti per la parte relativa all'obbligo di
cancellazione.Essendo, tuttavia, la domanda di cancellazione strettamente collegata
all'accertamento della illegittimità della levata di protesto, il giudizio non può prescindere
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Pag. 145
dalla presenza necessaria del soggetto cui questa potrebbe essere astrattamente
addebitata: soggetto che, nel caso in cui venga dedotta la illegittimità del protesto di un
assegno bancario in quanto emesso con firma di traenza diversa da quella del titolare del
conto corrente, va identificato non già nella banca trattaria - non discutendosi della
illegittimità del rifiuto di pagamento in rapporto alla inesistenza della provvista -, ma
unicamente nel pubblico ufficiale che ha levato il protesto, cui compete la verifica della
regolarità formale della compilazione dell'assegno all'atto della sua emissione.
Per inciso si rammenta che la disciplina del litisconsorzio necessario è applicata alla
seguente condizione: occorre, cioè, verifcare prognosticamente gli effetti dell'emanando
provvedimento a chi sono diretti (Trib Roma 12 marzo 2001).
Risarcimento.
Inizialmente il danno è stato ricondotto nell'alveo dell'art. 2043 cc, sancendo che "il protesto
cambiario, conferendo pubblicità all'insolvenza del debitore, costituisce causa di discredito
sia personale, che commerciale per lo stesso e, pertanto, se illegittimo, è idoneo a
provocare danno patrimoniale". (Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 1996, n. 2576 - Giust. civ.
Mass. 1996, 420 Danno e resp. 1996, 320), ma è evidente che l'impostazione risentiva
dell'impostazione multipolare del danno anteriore al 2003.
Con la rivisitazione del sistema risarcitorio ( Cassazione, sez III, 31 Maggio 2003, n.8827, e
n.8828, nonchè Corte costituzionale, 11 luglio 2003 , n. 233) is ribadisce la dualità dei dei:
patrimoniale e non: danno patrimoniale, di cui all' art. 2043 cod. civ., e danno non
patrimoniale, ex art. 2059 cod. civ..
Nel 2005 la giurisprudenza (Cassazione, sez. III civile, 30.03.2005 n. 6732) espressamente
colloca il danno da illegittimo protesto nella categoria dei danni non patrimoniali, quali
"danni che derivano dalla violazione e lesione di posizioni soggettive protette, di rango
costituzionale o ordinario, sulla base di precisi riferimenti normativi".
Si ribadisce che "il protesto cambiario, conferendo pubblicità ipso facto all' insolvenza del
debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un«ottica commerciale
imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda, di indubitabile discredito, tanto
personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato ed ove privo di una
conseguente, efficace rettifica, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno
patrimoniale anche sotto il profilo della lesione dell«onore e della reputazione del protestato
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Pag. 146
come persona, al di là ed a prescindere dai suoi eventuali interessi commerciali\"
(Cassazione, sez. I civile - 28 giugno 2006 n. 14977).
Il Collegio afferma che qualora l«illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo di diritti della
persona, come l«immagine, il danno è da ritenersi in re ipsa, e va senz«altro risarcito, non
incombendo sul danneggiato l«onere di fornire la prova della sua esistenza; diversamente,
allorchè venga in considerazione il danno, squisitamente patrimoniale, da lesione del diritto
alla reputazione commerciale, è indispensabile allegare e provare specifiche circostanze
dalla quali sia possibile desumere una compromissione, nell«ambiente commerciale, del
credito goduto dal soggetto illegittimamente protestato, come, ad esempio, l«interruzione di
forniture o trattive commerciali (App. Genova, sez. III, 30/06/2005, n.669).
La distinzione fra "reputazione commerciale" e "reputazione personale", assume rilievo ai fini
dell'onere della prova, in quanto se il danno ha riguardo la reputazione commerciale, la
lesione è ritenuta costituire un semplice indizio dell«esistenza di un danno effettivo "da
valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della situazione in cui si inserisce".
L'orientamento della giurisprudenza di merito riconduceva il danno da illegittimo protesto
nell«alveo dei danni non patrimoniali da lesione dei valori costituzionali, fino a spingersi al
punto di classificarlo nella controversia categoria dei danni esistenziali ( Trib. Modena, 29
marzo 2007).
Una conferma discendeva dalla sentenza della Corte di Cassazione ( Cassazione, sez. III
civile - 18 aprile 2007, n. 9233 ) la quale stabilisce che "allorchè emerga l«illegittimità del
protesto, spetta il risarcimento del danno conseguente alla lesione della propria reputazione
personale, e la prova della lesione, contestuale alla prova della illegittimità del protesto,
costituisce danno ingiusto "in re ipsa" ( ex pluribus Cassazione sent. n. 2576/96 ; n. 11103 /98 ;
n. 4881/01 e n. 14977/06).
Tuttavia, questa lettura non sopravvive alle sentenze gemelle di S. Martino (Cass. SS.UU.
2008), poiché la Suprema Corte, poco dopo afferma che “la semplice illegittimità del
protesto, pur costituendo indizio in ordine alla esistenza di un pregiudizio alla reputazione ..
non è di per sé sufficiente per la liquidazione del danno”, per la quale il danneggiato è
tenuto a dimostrare la gravità della lesione subita e la non futilità delle sue conseguenze,
anche mediante presunzioni semplici (Cassazione 25 marco 2009, n. 7211; Cassazione civile
sez. VI Data: 08 settembre 2011 n. 18476).
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Pag. 147
Il caso
Il Sistema “Vanna Marchi”
di Martino Modica
Vanna Marchi, assieme alla figlia Stefania Nobile, al sedicente mago Mario Pacheco Do
Nascimento e all'ex convivente Francesco Campana, celebre commerciante nel settore
della televendita grazie alle sue peculiari modalità comunicative, è stata al centro di una
vicenda giudiziaria in cui è finita condannata per bancarotta fraudolenta, truffa aggravata
e associazione per delinquere finalizzata alla truffa a seguito di trasmissioni televisive in cui si
raggiravano molti telespettatori102.
Le “regine delle televendite” e i loro collaboratori sono stati infatti ritenuti colpevoli di aver
creato un'associazione a delinquere finalizzata alla truffa e all'estorsione con un giro di oltre
32 milioni di euro (circa 65 miliardi di lire) incassati fra il 1996 e il 2001. I due centralinisti, tra cui
il Mago Victor, hanno confessato di aver seguito personalmente persone che hanno speso
fino a 30 milioni per curare mali d'amore e 60 per curare "problemi" di spiritismo.
La tecnica era semplice: inviare dei numeri da giocare al Lotto, dati sicuramente vincenti ai
clienti che venivano poi convinti ad accettare, e a pagare, delle pratiche anti malocchio
nel caso in cui i numeri non uscissero. Un meccanismo oliato che secondo l'accusa la Marchi
e sua figlia volevano addirittura esportare in Spagna, dove erano pronte a emigrare.
La tecnica era quella "di un continuo e insistente rapporto telefonico - scrivono gli
investigatori - con persone generalmente da essi individuate e accuratamente studiate. La
maggioranza delle vittime sono donne dall'età medio-alta, che versano in modeste
condizioni economiche e spesso vivono davvero delicate situazioni famigliari, psicologiche e
di salute".
102
Per costruire con precisione l'intera vicenda, che fu seguita per diverso tempo in maniera quasi
morbosa dai media, sono state consultate le seguenti fonti: 1) l'articolo di Paolo Biondani pubblicato
nel Corriere della Sera del 28.01.2002; 2) gli scritti di Francesca Brunati per l' Ansa del 28.02.2005; 3)
l'articolo
di
Emilio
Randacio
de
La
repubblica del
09.12.2010;
4)
Wikipedia.org;
5)
sito
internet http://www.cesap.net/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=68 da La Repubblica
on line dell'11.12.2001
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 148
Spietato il raggiro. Era la prima telefonata a far finire nei guai i clienti. La Marchi, sua figlia e il
mago reclamizzavano numeri vincenti al lotto. Era il pretesto per agganciare i clienti e farli
entrare in un vortice tremendo. Per uscire dai guai promettevano rimedi inesistenti, ma che si
facevano pagare a peso d'oro.
"La Marchi e sua figlia Stefania - ha dichiarato uno dei testimoni sentiti dagli inquirenti d'accordo con do Nascimento avevano dato precise disposizioni di far leva sulle persone le
cui
situazioni
familiare
e
psicologica
erano
particolarmente
delicate103".
Una delle storie più toccanti e drammatiche è quella raccontata dalla signora Michelina,
una casalinga 48enne di Genova, sposata e con un figlio, e che ora ha dei "grossissimi sensi
di colpa per aver prelevato dal conto corrente di famiglia piu' di nove milioni. Mi avevano
spaventata", ha spiegato, "e mi sono sentita minacciata e sotto pressione".
Per lei la prima volta e' stato nel '96, quando in onda su una tv privata vide una trasmissione
condotta da Vanna Marchi e il mago Do Nascimiento (fuggito in Brasile appena scattata
l'inchiesta dopo i servizi-denuncia di Striscia la Notizia). "Davano i numeri del Lotto per
centomila lire", ha raccontato. "Cosi' li contattai, pagai e mi dissero di giocare mille lire e che
avrei vinto una cifra superiore".
La vincita non arrivo' e la signora ci mise una pietra sopra: salvo poi, nel 2001, cinque anni
dopo, essere ricontattata da un addetto della societa' Ascie'. La centralinista in
quell'occasione avverti' la signora che il mago Do Nascimiento l'aveva sognata e aveva
previsto "una vincita elevata", ma era necessario pagare 300 mila lire. La signora Michelina si
prese un giorno di tempo per pensarci e poi accetto', quindi le arrivo' il 'corriere' a casa, un
addetto con il compito di consegnare la busta con i numeri della fortuna e ritirare i contanti.
La vincita arrivo', ma solo di 400 mila lire, e arrivo' anche una nuova telefonata.
Era l'operatrice numero 16 (i centralinisti si presentavano sempre e soltanto con un numero)
che l'avverti' che quella non era la vincita fortunata e che i numeri non uscivano perche'
avevo una forte negativita': per toglierla dovevo pagare 4 milioni “Mi avevano preso in un
momento particolare, e mi spiegarono che se non fosse stata tolta questa negativita' ci
sarebbero state conseguenze sui miei familiari e su mio figlio". La signora paga di nuovo ma
non basta: troppo forte la negativita', e per scacciarla ci vogliono ancora 5 milioni. In in quel
frangente la donna parlo' per telefono con Vanna Marchi: "Le ho chiesto spiegazioni e lei mi
ha risposto: 'Io non so chi lei sia, non capisco cosa voglia da me, lei e' un'esaltata'. Ma mi ha
anche domandato: 'Quanti soldi ha versato?'. Le ho risposto nove milioni, e dopo un oh! mi
ha messo giu"'.
103
Tutte le dichiarazioni sono quelle riportate nelle fonti ufficiali specificate nella precedente nota.
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Pag. 149
La storia della signora Michelina e' la fotocopia di quella raccontata in maniera un po'
confusa da un'anziana signora dell'hinterland milanese, e di quella vissuta da Pamela, una
ragazza di Busto Arsizio: a lei sono stati chiesti addirittura 15 milioni (poi grazie ad uno sconto
scesi a 5) per una "purificazione totale" che avrebbe dovuto essere fatta dall' 'Ordine dei
maghi brasiliani'.
«Mi sono prostituita per pagare i riti magici>> dichiara Elisabetta; in una telefonata la Marchi
le urla "Lei è una vagabonda, io e mia figlia ci alziamo alle cinque del mattino per venire a
lavorare per voi, andiamo fino in Brasile per salvare le vostre vite e lei non è neanche in
grado di mettere insieme dieci milioni? Si vergogni”.
Il maestro, da canto suo, le aveva detto che un «grave lutto» colpirà la sua famiglia: la morte
della figlia. «Se fosse successa una disgrazia, sarei morta per il rimorso», dice la vittima.
Si vergogna a tal punto che proprio lei - la «vagabonda», la donna che «non sa mettere
insieme dieci milioni» - decide di prostituirsi. A 50 anni e senza un rene. «Volevo salvare mia
figlia, era in carcere per furto e avevo scoperto che si bucava».
La segretaria Emilia le chiede dolcemente: «Preferisce trovare sua figlia morta in un fosso?».
No, Elisabetta preferisce prostituirsi. E paga: mette insieme 150 milioni, poi non ce la fa più. La
segretaria non si arrende: «Se non ha niente, va bene anche l' oro».
Le «quaglie», come le chiamava Vanna, hanno raccontato ai magistrati il loro calvario, un
circolo vizioso infinito, farsa e tragedia che si intrecciano: a ogni pagamento segue una
minaccia, a ogni minaccia un pagamento. Il maestro, intanto, celebra, tra rametti d' albero
tagliati nel giardino e sale antimalocchio, il rito del corallo, della terra, del trionfo. La
«negatività» è ovunque, colpa dei riti «voodoo» e «tibetani» ma più di frequente della scarsa
solvibilità. «Qualcosa di pesante accadrà alla sua famiglia», dicono a Franca: 26 milioni e in
cambio nastrini da infilare sotto il materasso. «Ti attendono malefici terribili», dicono a
Rosaria, 58 anni, che paga 15 milioni per i «riti purificatori». Poi però si stufa e la cosa non
piace per nulla: «Stupida, cretina, deficiente», le urlano. Gli insulti fanno parte del repertorio:
«"Sei una deficiente", mi diceva Vanna - racconta Maria, 55 anni, di Varese -. "Tua madre
morirà in un incidente e perderai la pensione. Se non paghi sei stron..., non ti faccio più
vincere. E questo te lo dice Vanna Marchi, parola mia"».
La vita della figlia di Vlasta, ceca emigrata in Italia, vale due milioni: «Se non paghi, andrai
presto al suo funerale». Non tutte le minacce vanno a buon fine, come per Loredana, 32
anni, di Bergamo: «Mi hanno detto: "Potrebbe accadere qualcosa ai suoi figli". Difficile, ho
risposto, non ne ho». Va peggio a Berta, pensionata di Treviso, immobilizzata a letto. Prima
che i parenti se ne accorgano e la facciano interdire, ha già pagato 300 milioni. L'
«assistente 46» si occupa di Rosalia, 54 anni, di Milano: «Gli dico che mio figlio ha un
melanoma alla colonna vertebrale. Vista la "gravità della situazione", il maestro accetta il
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consulto. Servono due milioni, però, e non li ho. Lei insiste: "Possibile che non vuole pagare
una cifra così bassa? Sembra proprio che non gli vuole bene, a suo figlio"...». Nel caso di
Pamela, varesina di 20 anni, la «negatività» è così grave che il «maestro» si vede costretto a
contattare «l' Ordine dei maghi brasiliani». Procedura costosa: 15 milioni di lire, cinque con lo
sconto. Una «maledizione eterna» attende Antonio, quarantenne genovese. Ma l' «eternità»
è di breve durata: «Entro sei mesi sarai morto». Rosaria invece si dichiara «nullatenente» e la
lasciano perdere subito.
Le minacce non mancano mai, i centralinisti di notte chiamano i «clienti» e li spaventano:
tacciono, urlano, fanno versi. Ogni tanto la ditta Marchi fa appello ai sentimenti. «La signora
Emilia - racconta Fabrizio, 33 anni, di Pisa - mi chiedeva sempre di inviare anche un' offerta
per i bambini poveri del Brasile. Mandavo 200 mila lire». I numeri del lotto non escono, le
minacce di morte non si avverano, ma i riti continuano e le vittime pagano. Come Maria
Assunta, di Varese: «Stefania mi diceva che sarei diventata la donna più ricca della
Lombardia. Vanna invece mi minacciava. Una volta mi ha detto: "Vengo a casa sua e la
sbatto giù se non paga i due milioni che mi deve"». Alla fine li paga e non solo quelli: 600
milioni. «Vedevo gente in tv che ringraziava per le vincite e mi fidavo. Ma in sette anni ho
fatto solo un ambo: 200 mila lire». E ora che tutto è finito? «Sono rovinata per colpa loro. Ma il
maestro no, lui era buono, mi aiutava, diceva che anche in Brasile avrebbe pensato a me. E
le sue magie funzionavano: se avevo mal di schiena, facevo colare la cera delle candele,
proprio come diceva lui, e poi mi sentivo meglio. Altre volte, invece, non funzionava. Ma
forse la colpa era mia».
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Pag. 151
Criminologia del nuovo millennio
L'INFLUENZA DI MAGHI, IMBONITORI E STREGONI NELL'ERA DEL WEB.
di Rosalia Manuela Longobardi
È antica la prassi di rivolgersi a maghi, fattucchieri e stregoni per motivi più svariati che vanno
dall’infuso d’amore al miracoloso unguento guaritore; Alla base di tale bisogno ci sono
molteplici fattori sociali economici e culturali.
Spesso tale prassi coinvolge persone che rappresentano i settori più svariati della società e
ciò conduce a dire che il fenomeno del ricorso alla corte dei maghi non è legato al livello di
cultura o alla conoscenza vi è, infatti, un bisogno per dire atavico di rivolgersi a qualche
“dio” al fine di ottenere quello che più desideriamo nella o dalla nostra vita.
Neanche la società moderna è immune dal bisogno di ricercare le “chiavi” della felicità e lo
fa ricorrendo a indubbie e fantasiose pratiche magiche, In Italia il fenomeno, senza
considerare il numero cosiddetto oscuro, raggiunge cifre esorbitanti. Si parla di una cifra di
circa 10 milioni di persone.
In Italia il fenomeno di maghi e imbonitori aveva segnato un boom sulla fine degli anni
novanta con la nota vicenda di maghi e imbonitori televisivi che effettuavano truffe ed
estorsioni varie a discapito di ignare vittime spesso indebolite da situazioni economiche o di
salute che inevitabilmente cercavano in pozioni e affini la soluzioni di problemi.
Nell’ultimo periodo, con l’acuirsi della crisi finanziaria, il fenomeno sembra aver segnato un
picco: ciò è dovuto soprattutto all’ideazione di veri e propri kit magici contenti i più bizzarri
oggetti e che promettono fantomatiche vincite al gioco, in un periodo dove la gente è
esasperata ricorre a tutto.
Le ragioni psicologiche che spingono individui come già accennato appartenenti a
categorie più diverse sono però accomunate dal bisogno di appagare il desideri.
In un suo scritto Sigmund Freud elaborò una convincente descrizione del meccanismo
psicologico della magia; In particolare il famoso psicanalista sottolineo come sia nei primitivi
che nei nevrotici la magia nasce dalla sopravalutazione di un bisogno dall’esasperazione di
un desiderio.
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Pag. 152
Su tale base lo studioso mostrò come gli individui ricorrono al mondo della magia chiedendo
le cose più svariate e ciò rappresenta un’oggettivazione dell’infermità o quantomeno del
disagio psichico o semplicemente un’espressione di un’infanzia non vissuta bene.
Freud notò come il magico lungi da essere una distorsione primitiva e /o patologica e anche
condizione fisiologica del ragionamento infantile.
Sullo stesso filone di pensiero è Claude levi Strauss, di cui riportiamo un importante passaggio
soprattutto in riferimento al ricorso della magia e filtri per curare i mali104;
Un altro interessante contributo è quello di ». (BANDLER e GRINDER, La struttura della magia
(1975),”dove si legge: “nell’epoca moderna il manto del mago-stregone (imbonitore) è per
lo più sulle spalle di quei dinamici professionisti della psicoterapia la cui perizia è di gran
lunga superiore a quella degli altri terapeuti … sembra che costoro pratichino la psicologia
clinica con la facilità e il prodigio di un mago terapeuta. Penetrano nella sofferenza, nel
dolore e nell’inerzia degli altri e ne trasformando la disperazione in gioia, vita e rinnovata
speranza”.
Il fenomeno si è sviluppato in forma organizzata: è nota la nascita di sette e nuovi movimenti
religiosi; l’attività imbonitrice spesso è attuata da soggetti organizzati. La diffusione del
fenomeno inoltre è avvantaggiata dalla rete web che sfrutta e dai nuovi canali mediatici
che sicuramente hanno avuto un ruolo decisivo per la capacità di raggiungere i più svariati
luoghi del mondo, appiattendo le distanze fisiche. Ne è esempio la adescamento di nuovi
adepti tramite i social network.
Un sito web che negli anni ha avuto un rilevante aumento del numero di iscritti è “I bambini
di Satana” e ciò è causato da vari fattori, ne segnalo alcuni, quali la sterilita della fede, la
voglia di essere “diversi”e la promessa del sapere illimitato.
Sotto il profilo giuridico, infine,è utile dire che l’attività di stregoni, maghi e simili non integra
reato, tuttavia se si analizza ciò che in realtà accade sotto la copertura di tali pratiche ci si
imbatte davanti a fenomeno di immense dimensioni e dove spesso si consumano reati,
prevalentemente di natura patrimoniale.
I reati perpetuati sono la truffa, l’estorsione e secondo un’analisi di telefono antiplagio negli
ultimi tempi anche l’usura e il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite (della
n’draghetta);
Dal giornale telematico“Il punto”si legge che specie nella realtà settentrionale dilaga
l’usura.
104
In “Antropologia strutturale” Strauss individua nel rapporto mago/malato un espressione del gruppo,
in maniera fittizia si immagina che il malato è passività e alienazione da se mentre il mago è attività,
straripamento..la cura(rappresentata dai vari rimedi “magici” è la relazione tra questi due soggetti
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Interessante è l’analisi effettuata poco tempo fa nel citato giornale telematico dove Franco
Trocchi, esperto del fenomeno, in prima linea presso lo sportello del XIX Municipio di Roma
spiega: “Per pagare maghi e cartomanti, i clienti si rivolgono agli usurai –Nella capitale sono
gli stessi maghi che spingono la gente verso agli usurai e spesso il mago è anche usuraio».
Fenomeno che nel Mezzogiorno si caratterizza anche con maghi soci o in buoni rapporti con
banche locali e finanziarie presta denari. E, mentre Bankitalia studia e osserva, l’uomo di
strada rimane lentamente stritolato”.105
105
Dall'articolo del giornale telematico “Il punto” di Ruggero Capone del 28/02/2012
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Oltre il mio nome – L’intervista
Intervista al Prof. Silvano Fuso106 in merito al CICAP
di Tommaso Migliaccio
1. Perché e come nasce la vostra organizzazione?
Il CICAP nasce nel 1989 su iniziativa di Piero Angela. Il noto giornalista aveva realizzato
anni prima per la Rai una serie di trasmissioni dedicate al paranormale e si era reso conto
di quanta disinformazione esistesse sull’argomento. Da qui nacque l’esigenza di creare
anche in Italia un comitato analogo a quello che già esisteva negli Stati Uniti (CSICOP,
oggi CSI). Dapprima riunì un gruppo di scienziati sensibili al problema. Successivamente,
nel 1989 appunto, nacque il CICAP, inteso come associazione alla quale chiunque può
aderire.
2. Quali competenze lavorano in équipe al vostro interno?
La composizione dei soci effettivi (cioè quelli che rappresentano di fatto il comitato) è
piuttosto composita. Abbiamo fisici, chimici, ingegneri, biologi, neuroscienziati, psicologi
e comunicatori scientifici. I membri onorari sono Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia e
Umberto Eco. I garanti scientifici sono Edoardo Boncinelli, Silvio Garattini, Margherita
Hack, Tullio Regge e Umberto Veronesi. Abbiamo poi una serie di consulenti tecnici e
scientifici che coprono vari settori disciplinari e ai quali ci rivolgiamo nel corso delle nostre
indagini.
3. Vi è mai capitato di “interfacciarvi” col mondo del diritto e se sì in che termini?
Il caso più clamoroso è costituito dai due processi che ha dovuto subire proprio Piero
Angela. Nel corso di una puntata di SuperQuark, l’11 luglio 2000, era stato mandato in
onda un servizio sull’omeopatia, dove veniva illustrata la posizione della comunità
scientifica, inevitabilmente critica nei confronti della popolare medicina alternativa. Due
associazioni di omeopati, la SIMO (Società Italiana di Medicina Omeopatica) e la FIAMO
106
Prof. Silvano Fuso, docente di chimica e divulgatore scientifico, socio effettivo e responsabile per la
scuola del CICAP
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(Federazione Italiana delle Associazioni dei Medici Omeopatici) querelarono Angela per
diffamazione. Secondo gli omeopati, il servizio avrebbe dovuto dar spazio anche agli
omeopati per illustrare le proprie ragioni. Angela dovette affrontare due processi. Come
dichiarò lo stesso Angela tuttavia: «La scelta di non chiamare gli omeopati in trasmissione
è stata frutto di un lungo ragionamento. Il mio punto di riferimento è la comunità
scientifica, e siccome i prodotti omeopatici non sono stati sottoposti ai test e alle
procedure attraverso cui una nuova medicina viene immessa nel mercato, con
l'autorizzazione della Commissione unica del farmaco, non avrei potuto dare loro la
parola: sarei andato contro le regole etiche del mio lavoro nel servizio pubblico...». Per
fortuna i giudici si resero conto della correttezza dell’approccio di SuperQuark e assolsero
con formula piena Angela. Purtroppo chi è a corto di argomentazioni scientifiche, spesso
reagisce in maniera piuttosto aggressiva.
4. In particolare mai stati di supporto ad indagini giudiziarie?
No, non ci è mai capitato.
5. Potreste citarci qualche caso interessante?
Ce ne sono molti. Spesso veniamo contattati da individui che, in totale buona fede,
credono di possedere straordinari poteri. In realtà sono vittime di autoillusioni.
Ad
esempio, ci era capitata una signora che sosteneva di indovinare il contenuto di scatole
ermeticamente chiuse. Purtroppo dovette arrendersi di fronte ai deludenti risultati della
nostra
sperimentazione.
Analogamente,
un
signore
che
esercitava
come
pranoterapeuta, si era convinto di riuscire a cambiare il sapore del vino semplicemente
imponendo le mani su un bicchiere. Purtroppo però non aveva mai eseguito una prova
“in cieco” e, quando gliela facemmo compiere, non fu assolutamente in grado di
distinguere i bicchieri che aveva trattato da quelli non trattati. A volte capitano anche
persone non proprio in buona fede. Personalmente, ad esempio, avevo avuto a che
fare con una sedicente medium che, usando un trucchetto dozzinale, sfruttava il dolore
e la debolezza psicologica dei suoi “clienti” facendo loro credere di comunicare con i
defunti. Mi tolsi la soddisfazione di smascherarla proprio davanti ai suoi adepti che
rimasero piuttosto delusi.
6. Perché il boom di fattucchieri, maghi etc.?
Le motivazioni che spingono molta gente a consultare i cosiddetti operatori dell’occulto
possono essere molteplici. Noi riteniamo però che la motivazione principale sia la
disinformazione. Molti credono che certi individui posseggano realmente poteri
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 156
straordinari, ma in realtà nessuno lo ha mai dimostrato. Gli operatori dell’occulto trovano
terreno fertile proprio nella disinformazione. Purtroppo i media non aiutano, perché
spesso concedono spazio a questi individui contribuendo a dar loro credibilità e
divulgano notizie sensazionalistiche senza alcun senso critico. Noi crediamo molto nel
potere preventivo dell’informazione e in questo senso cerchiamo di operare.
7. Ma esiste qualcosa oltre il “normale” e il “visibile”?
Fino a oggi nessuno ha mai dimostrato l’esistenza di un solo fenomeno autenticamente
paranormale. Quando è stato possibile svolgere studi accurati, si è sempre trovata una
spiegazione del tutto “normale”. Naturalmente sarebbe stupido ipotecare il futuro. Se un
domani qualcuno dimostrasse realmente qualcosa di paranormale, saremmo i primi a
esserne contenti. Sarebbe infatti un enorme passo in avanti per la conoscenza.
8. Cosa differenzia una religione da una setta?
Premetto che noi come CICAP non ci occupiamo né di religioni né di sette. Ci
occupiamo solo di fenomeni, non di credenze soggettive. Personalmente ritengo
tuttavia che il confine tra religioni e sette sia abbastanza sfumato. Penso che un valido
criterio di demarcazione sia costituito dalla libertà di scelta.
9. Una provocazione: c’è differenza tra i miracoli di Lourdes e le “magie” degli
imbonitori televisivi?
Come dicevo, noi non ci occupiamo di credenze soggettive. Il discorso fede esula quindi
completamente dal nostro campo di azione. Ci occupiamo però di fenomeni e i miracoli
sono (o dovrebbero essere) fenomeni. Recentemente un nostro membro autorevole,
Luigi Garlaschelli, ha curato un libro dedicato proprio a Lourdes. Se si analizzano i fatti in
modo scientifico e obiettivo, quelli che sembrano eventi miracolosi sono in realtà
interpretabili in modo normale e razionale. Spesso la presunta inspiegabilità di certi
fenomeni derivava semplicemente da carenza di conoscenze, che nel frattempo si sono
però evolute. Il fenomeno Lourdes è ovviamente molto complesso e interessante dal
punto di vista sociologico e psicologico ma, ripeto, a noi interessa solo esaminare i
presunti eventi miracolosi.
C’è chi, di recente, ha cercato di sfruttare anche la fama di Lourdes e di altri luoghi sacri,
sostenendo che le acque di certe fonti avrebbero singolari proprietà chimico-fisiche e
creando attorno a esse un certo business. Nulla di tutto ciò ha la minima fondatezza
scientifica e, giustamente, è intervenuta la magistratura per fare chiarezza. In questo
caso le differenze con gli imbonitori televisivi sfumano.
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Pag. 157
10. Come si conciliano secondo voi alcune libertà fondamenti (come quelle di
espressione e di culto) con l’esigenza di reprimere reati legati al mondo dell’occulto
e del paranormale?
Noi pensiamo che prevenire sia molto meglio che reprimere. Come dicevo, riteniamo
fondamentale informare correttamente le persone. Solo chi è sufficientemente informato
è veramente libero di scegliere. Ovviamente poi ognuno è assolutamente libero di
credere a quello che vuole. Noi non facciamo alcuna caccia alle streghe, ci
mancherebbe altro! Come spesso diciamo, ci rivolgiamo a chi vuole capire, non a chi
vuole credere. È chiaro che quando sentiamo qualcuno che fa affermazioni
palesemente false dal punto di vista scientifico, interveniamo per correggerlo. Siamo
però totalmente contrari a qualsiasi forma di censura. Ovviamente però quando si va
nell’illecito è giusto che la magistratura intervenga: ma noi non ci occupiamo di questi
aspetti.
11. Quali consigli alle persone e alle famiglie per non cadere in trappola? Avete
suggerimenti per tutelare le persone più deboli?
Il consiglio principale è questo: non fidarsi mai di chi sostiene di avere poteri straordinari
perché questi poteri non sono mai stati dimostrati da nessuno. Se si hanno problemi
(esistenziali, di salute, di lavoro, ecc.), bisogna rivolgersi a persone qualificate e
veramente esperte: psicologi, medici, consulenti del lavoro, ecc., non a ciarlatani.
Per maggiori informazioni si può magari consultare il nostro sito www.cicap.org (dove si
trovano davvero moltissime informazioni sui più disparati argomenti) oppure scriverci a
[email protected].
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Pag. 158
Le frontiere della mediazione
La tutela della riservatezza nella mediazione
di Carlo Pilia
Sommario: 1. La riforma della mediazione e la tutela della riservatezza. – 2. La normativa
europea. – 3. La normativa nazionale. – 4. La riservatezza interna ed esterna. – 5.
L’inutilizzabilità e il segreto professionale.
1. La riforma della mediazione e la tutela della riservatezza.
La normativa europea e quella nazionale sulla mediazione finalizzata alla conciliazione in
materia civile e commerciale prescrivono l’adeguata tutela della riservatezza. Nella
disciplina della mediazione sono ravvisabili numerose disposizioni che si soffermano sulla
riservatezza e, più in generale, sulla protezione dei dati personali trattati nel procedimento
stragiudiziale di composizione convenzionale delle controversie. La riservatezza, in buona
sostanza, costituisce un principio cardine imposto dalle norme a garanzia dei diritti
fondamentali delle parti contendenti che appare necessario affinché le stesse si avvalgano
della mediazione e riescano ad aprirsi al confronto costruttivo in modo da tentare di
raggiungere un accordo amichevole. I rischi di fuoriuscita delle notizie e, comunque, di
indebito impiego in altre sedi, a cominciare da quelle giudiziarie, dei contenuti delle
informazioni e delle dichiarazioni acquisite in mediazione, infatti, finirebbero per frustrare le
finalità deflattive e di pacificazione dei contendenti perseguite dalla riforma. Di qui, la
formulazione di una serie di puntuali prescrizioni da rispettare nella costituzione e gestione
degli organismi di mediazione e, comunque, nello svolgimento dell’attività di risoluzione delle
controversie attraverso i
mediatori
e, comunque, quanti
partecipano al relativo
procedimento.
Nel nuovo sistema della mediazione che l’Unione europea prescrive di strutturare in tutti i
Paesi, in primo luogo, la tutela della riservatezza sottende l’imprescindibile protezione dei
diritti fondamentali delle persone dei contendenti e, più in generale, dei soggetti coinvolti
nel meccanismo di composizione stragiudiziale dei conflitti. In questo senso, peraltro, il
rispetto della riservatezza costituisce sia un requisito essenziale da osservare affinché la
procedura finalizzata alla conciliazione si svolga all’interno dei canoni di legalità, sia un
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 159
parametro di valutazione qualitativa dei servizi di mediazione erogati in un sistema di
accreditamento aperto che dovrebbe spingere gli utenti a rivolgersi agli organismi e ai
professionisti che, anche sul punto, si dimostrano i migliori e che, pertanto, conquistando la
fiducia e il gradimento del pubblico, riescono a prevalere sul mercato.
La tutela della riservatezza, infine, costituisce un’interessante prospettiva di analisi della
riforma sulla mediazione non solo per le numerose questioni teoriche e pratiche che solleva
e, quindi, per i delicati problemi applicativi che in ambito europeo e nazionale si dovranno
affrontare, ma anche perché essa offre significativi elementi di riflessione di portata più
ampia
a
proposito
della
controversa
ricostruzione
della
natura
giuridica
e
dell’inquadramento sistematico del nuovo istituto. La mediazione, invero, non è assimilabile
alla giurisdizione, rispetto alla quale si pone come meccanismo alternativo di composizione
del conflitto, affidato a organismi e professionisti distinti e gestito secondo regole di
funzionamento autonome. Per questa ragione, sul piano della garanzia dei diritti dei
contendenti e, in particolare, della tutela della riservatezza non si applicano le disposizioni
processuali del giudizio civile. Non vi è corrispondenza neppure con gli altri meccanismi
stragiudiziali di composizione dei conflitti, in particolare la transazione, l’arbitraggio e
l’arbitrato che, pur accomunati dalla finalità pratica di prevenire o risolvere le controversie,
divergono nettamente tanto per la peculiare natura giuridica quanto per la risalente
disciplina codicistica a ciascuno di essi dedicata, senza che siano operabili delle
assimilazioni tra le varie fattispecie e neppure delle estensioni delle corrispondenti normative
rispetto alla nuova figura della mediazione finalizzata alla conciliazione. La novità e,
soprattutto, la specificità di quest’ultima richiedono l’avvio di un’approfondita riflessione che
porti a individuare la corrispondente disciplina, muovendo dai principi e dalle disposizioni
contenuti nelle fonti normative, per svilupparsi attraverso gli strumenti dell’ermeneutica,
principalmente declinati in base ai canoni funzionali e sistematici, al fine di dare coerente e
puntuale risposta ai numerosi interrogativi lasciati aperti nella scrittura della recente riforma,
quali non tarderanno a emergere dall’oramai avviata pratica quotidiana di gestione dei
conflitti.
2. La normativa europea.
La direttiva europea 2008/52/CE107, sulla cui scorta sono state emanate le recenti
normative nazionali, compresa quella italiana, sulla mediazione finalizzata alla conciliazione
107
La direttiva 2008/52/CE CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, relativa a
determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale, sulla quale cfr.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 160
in materia civile e commerciale, richiama più volte la riservatezza, negli iniziali considerando
prima che nel corpo delle disposizioni normative.
Anzitutto, al considerando n. 16, la necessaria riservatezza della mediazione è indicata
tra i principali fattori di successo della riforma108 che garantiscono la fiducia reciproca e che
gli Stati membri dovrebbero incoraggiare, in qualsiasi modo essi ritengano appropriato,
attraverso la formazione dei mediatori e l’introduzione di efficaci meccanismi di controllo
della qualità in ordine alla fornitura dei servizi di mediazione. In maniera più puntuale, il
considerando n. 23 ribadisce l’importanza della riservatezza nei procedimenti di mediazione
che, perciò, mediante l’intervento normativo sulle regole della procedura civile, deve essere
protetta nei successivi procedimenti giudiziari o di arbitrato in materia civile e commerciale. Il
considerando n. 27, inoltre, proclama che la direttiva cerca di promuovere i diritti
fondamentali e tiene conto dei principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, tra i quali è annoverata la tutela della riservatezza e, in particolare, del
diritto al trattamento dei dati personali.
Le disposizioni che la direttiva detta a tutela della riservatezza sono raccolte in una
norma appositamente dedicata, l’art. 7 rubricato “Riservatezza della mediazione”. La norma
muove dalla riconosciuta necessità del rispetto della riservatezza nella mediazione e
prescrive che gli Stati membri garantiscano che né i mediatori, né i soggetti coinvolti
nell’amministrazione della mediazione siano obbligati a testimoniare nel processo giudiziario
o di arbitrato in materia civile e commerciale riguardo alle informazioni risultanti da un
procedimento di mediazione o connesse con lo stesso. La disposizione assume un contenuto
assai ampio sul piano sia soggettivo che oggettivo, dal momento che l’esenzione
dall’obbligo di testimoniare si riferisce non solo ai mediatori, ossia ai professionisti ai quali è
affidata l’attività di assistere i contendenti nella ricerca di un accordo amichevole, ma più in
generale a tutti coloro che sono coinvolti nell’amministrazione del procedimento, tra i quali si
segnalano il responsabile, i dipendenti, i periti/esperti e tutti gli ausiliari che collaborano a
vario titolo con l’organismo. Le informazioni coperte da riservatezza, inoltre, sono tanto
quelle risultanti dal procedimento di mediazione, quanto quelle ad esso in qualche modo
connesse. L’allargamento della tutela si spiega in ragione sia della pluralità di soggetti
coinvolti dalla mediazione e sia del carattere aperto degli argomenti che si affrontano e
discutono nei relativi procedimenti, che non si esauriscono nel solo oggetto della lite, per
abbracciare anche altri rapporti giuridici in vario modo collegati, anche se non controversi.
Quanto al contenuto prescrittivo, la norma impone agli Stati membri di garantire che non
ci sia l’obbligo di testimoniare nel processo giudiziario o di arbitrato in materia civile e
108
Tra i quali sono compresi anche l’incidenza della mediazione sulla decadenza e la prescrizione,
nonché il riconoscimento e l’efficacia esecutiva degli accordi conciliativi.
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 161
commerciale su quanto appreso in sede di mediazione. La disposizione costituisce una
misura necessaria a scongiurare il rischio che le parti non si presentino in mediazione o che,
pur partecipando, non si aprano al confronto dialettico tra loro e con il mediatore per il
timore di vedersi successivamente pregiudicate dal contenuto delle dichiarazioni o delle
informazioni raccolte durante il procedimento stragiudiziario. Un siffatto rischio, invero, si
realizzerebbe se i mediatori o coloro che partecipano alla mediazione fossero per legge
obbligati a testimoniare davanti all’autorità giudiziaria o agli arbitri su quanto accaduto o
appreso in occasione della mediazione.
La prescrizione richiamata, tuttavia, non assume carattere assoluto o rigido, in quanto
sono contemplate alcune limitazioni che contribuiscono a esplicitare il fondamento e la
natura giuridica della tutela della riservatezza nella mediazione. Per un verso, le limitazioni
sono rimesse alla concreta decisione delle stesse parti contendenti e, per altro verso,
dipendono da valutazioni normative ancorate sia a fattori superiori che a ragioni pratiche. In
primo luogo, rispetto all’esenzione normativa dall’obbligo di testimoniare, si prevede che le
parti possano decidere diversamente. Ai contendenti, quindi, è attribuita la scelta se
mantenere riservate le informazioni risultanti dalla mediazione ovvero se acconsentire, ed
eventualmente in quali termini, alla comunicazione all’esterno per il tramite della
testimonianza da rendere in sede processuale o di arbitrato. Il consenso deve essere
manifestato dalle parti congiuntamente o singolarmente a seconda che si faccia riferimento
alle informazioni comuni o a quelle che le riguardino separatamente. Si è perciò in presenza
di un’applicazione alla mediazione delle regole dell’autonomia privata che si raccordano ai
principi e ai meccanismi più generali concernenti l’autodeterminazione dei soggetti
interessati nella tutela della riservatezza e nel trattamento dei propri dati personali. In questo
senso, si devono intendere pure le altre limitazioni legali apportate all’obbligo di testimoniare
per i casi previsti dall’art. 7, par. 1, riconducibili a ragioni superiori da rispettare (lett. a)
ovvero a esigenze pratiche legate all’attuazione dell’accordo raggiunto (lett. b).
Nell’ordine, la prima limitazione legale della tutela della riservatezza si riferisce ai casi in
cui sia necessario testimoniare sulle informazioni derivanti dalla mediazione per superiori
considerazioni di ordine pubblico dello Stato membro interessato. In via esemplificativa, si
indicano i casi in cui i limiti siano necessari per assicurare la protezione degli interessi superiori
dei minori o per scongiurare un danno all’integrità fisica o psicologica di una persona. La
difesa dei soggetti più deboli, i minori, e comunque la salvaguardia dei diritti fondamentali
della persona costituiscono le esigenze superiori che giustificano l’attenuazione della soglia
di rispetto della riservatezza della mediazione. Nel bilanciamento dei valori parimenti tutelati,
peraltro, la direttiva circoscrive la limitazione in termini di stretta necessità con riferimento sia
alla protezione degli interessi preminenti dei minori e sia alla prevenzione dei danni
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Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 162
all’integrità
fisica o psicologica della persona. Entro questi rigorosi limiti, quindi,
l’attenuazione della tutela della riservatezza nella mediazione risulta adeguatamente
confinata e validamente giustificata.
L’altra limitazione legale, invece, si collega all’interesse degli stessi contraenti ad attuare
l’accordo raggiunto in mediazione. Più precisamente, la norma si riferisce ai casi in cui la
comunicazione
del
contenuto
dell’accordo
conciliativo
sia
necessaria
ai
fini
dell’applicazione o dell’esecuzione dello stesso. Anche in questi casi, peraltro, i limiti sono
puntualmente definiti, in quanto si riferiscono unicamente alle informazioni che risultano dal
contenuto dell’accordo e, comunque, sono necessarie per l’attuazione di esso. La
limitazione, infine, riguarda la sola comunicazione, da intendere come una conoscenza
circoscritta a quanti, a cominciare dai componenti degli uffici pubblici preposti109, sono
direttamente coinvolti nell’attività esecutiva dell’accordo conciliativo.
In conformità al carattere minimale della direttiva, l’art. 7, par. 2, esplicita che le
disposizioni richiamate non impediscono in alcun modo agli Stati membri di adottare misure
più restrittive anche sotto questo aspetto della mediazione. Pertanto, ciascuno Stato è
abilitato ad adottare discipline più rigorose che garantiscano maggiormente la riservatezza
della mediazione, non solo in relazione all’esenzione normativa dall’obbligo di testimoniare,
ma più in generale per quanto attiene ai restanti e molteplici profili di tutela implicati nel
trattamento dei dati personali. La puntualizzazione, peraltro, appare del tutto coerente sia
con il carattere fondamentale che assumono i valori sottesi alla tutela della riservatezza in
ambito internazionale, europeo e nazionale, sia con la necessità di assicurarne il pieno
rispetto nella strutturazione dei servizi erogati nella mediazione che devono avere una
qualità di livello adeguato in modo da riuscire a incontrare la fiducia e il gradimento degli
utenti.
Siffatti parametri normativi sono stati ripresi e sviluppati dal legislatore italiano che, in
attuazione
della
direttiva
2008/52/CE,
ha
compiutamente
disciplinato
nel
nostro
ordinamento la mediazione finalizzata alla conciliazione in materia civile e commerciale.
3. La normativa italiana.
La riforma italiana della mediazione è stata realizzata attraverso una pluralità di fonti
normative che, in progressione e a diversi livelli, hanno disegnato la disciplina complessiva
109
Nella fase esecutiva dell’accordo conciliativo, tra gli altri e vario titolo, possono essere coinvolti il
presidente del tribunale ai fini dell’omologa, i giudici dell’esecuzione competenti a fissare le modalità
di esecuzione coattiva o a giudicarne la legittimità, gli ufficiali giudiziari incaricati delle operazioni di
esecuzione forzata, e i conservatori dei registri pubblici immobiliari nei quali è data pubblicità
all’accordo.
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
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dell’istituto anche per quanto concerne la tutela della riservatezza e dei dati personali,
specie quelli sensibili. E’ necessario dare conto, seppur succintamente, dei fondamentali
passaggi normativi che si sono avuti e dei principi generali che ispirano la riforma, prima di
soffermarsi sui profili più strettamente attinenti alla tematica da approfondire.
In primo luogo, la legge 69/2009110, all’art. 60 contiene la delega al Governo in materia di
mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali che, tra l’altro, ha
previsto che la riforma fosse adottata nel rispetto e in coerenza con la normativa
comunitaria e in conformità ai principi e ai criteri direttivi enucleati al comma 2. Nel generico
richiamo della normativa comunitaria, anzitutto, devono ritenersi ricomprese le disposizioni
della direttiva 2008/52/CE e, in particolare, quelle sopra riportate dell’art. 7 sulla riservatezza.
La tutela della riservatezza, invece, non risulta espressamente ricompresa tra i criteri e i
principi formulati direttamente all’interno della delega, che si riferiscono ad altri profili
connessi al rapporto tra mediazione e processo, ai requisiti degli organismi e alle regole del
procedimento. In sintesi, la delega prescrive che la mediazione finalizzata alla conciliazione
abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia.
La mediazione, pertanto, si sviluppa negli spazi e con gli strumenti dell’autonomia privata;
quindi, non si sovrappone, né si sostituisce alla tutela giudiziale alla quale le parti in conflitto
hanno diritto di rivolgersi, ancorché in una fase solitamente differita. Malgrado i vari momenti
di raccordo previsti dalla riforma, la mediazione e la giurisdizione costituiscono meccanismi
di tutela distinti e differenti, che non si devono confondere. Tanto risulta confermato sia
dall’attribuzione dell’attività di mediazione ad appositi organismi, professionali, indipendenti
e stabilmente destinati all’erogazione dei relativi servizi, sia dalla previsione di specifiche
regole di costituzione e funzionamento degli organismi, oltre che di svolgimento delle
procedure di mediazione, comprese quelle telematiche. La riforma, quindi, ridisegna la
mediazione,
quale
tecnica
di
composizione
negoziata
del
conflitto,
in
termini
complessivamente innovativi, assoggettandola a proprie regole, senza che possano
applicarsi quelle processuali del giudizio civile, neppure quanto alla tutela della riservatezza.
Piuttosto, in conformità alle prescrizioni comunitarie richiamate, nella mediazione si deve
garantire la riservatezza principalmente verso il giudizio, al fine di evitare che il timore
dell’indebito trapasso di informazioni al processo finisca per rendere la mediazione inutile. In
questo senso, soprattutto nella normativa delegata e regolamentare, la mediazione si pone
come procedura di natura essenzialmente riservata.
110
Legge 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività nonché in materia di processo civile.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 164
La delega parlamentare è stata attuata con il D.lgs. n. 28/2010111, che richiama
testualmente la direttiva 2008/52/CE e disegna in maniera organica ed incisiva la disciplina
della mediazione finalizzata alla conciliazione in materia civile e commerciale, anche in
relazione alla tutela della riservatezza, più volte e per tanti aspetti, considerata all’interno
della normativa delegata. Il sistema nel suo complesso, infatti, deve garantire la riservatezza
sotto plurimi profili, con riferimento allo svolgimento della mediazione, all’eventuale risultato
positivo che ne sia conseguito, nonché alla posizione dei mediatori e dell’organismo, oltre
che del Ministero della giustizia, quale autorità pubblica preposta al controllo e alla
vigilanza. Prima di entrare nel merito delle disposizioni dedicate al tema trattato, per cogliere
la portata e l’impatto davvero notevoli dell’attuata riforma sulla mediazione occorre
muovere dalla constatazione che si è in presenza di una disciplina organica, che prevede
non solo i principi, ma anche i criteri e i meccanismi generali di strutturazione e
funzionamento della mediazione in un ambito vastissimo di controversie. L’incidenza della
riforma, peraltro, è stata accentuata dalle scelte politiche operate con il d.lgs. 28/2010, a
cominciare da quelle di considerare l’esperimento del procedimento di mediazione una
condizione
di
procedibilità
della
domanda
giudiziale
e,
soprattutto,
di
renderla
normativamente obbligatoria in tantissime controversie in materia civile e commerciale.
Così, la mediazione è imposta prima di promuovere l’azione giudiziale in qualunque
controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di
famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla
circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo
della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Inoltre, nei giudizi pendenti, anche in grado d’appello, valutata la natura della causa, lo
stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, il giudice può invitare le parti a
procedere alla mediazione, se le stesse ritengono di aderire all’invito. Ancora, sono le stesse
parti che nei contratti, negli statuti e negli atti costitutivi possono inserire le clausole di
mediazione o conciliazione con le quali si obbligano a promuovere la procedura
stragiudiziale per tentare di comporre la controversia che dovesse insorgere prima di
incardinare il processo civile o arbitrale. In ogni caso, si prevede che chiunque possa
accedere alla mediazione per tentare di raggiungere la conciliazione di ogni controversia
civile o commerciale vertente sui diritti disponibili.
Il massiccio utilizzo della mediazione, soprattutto quando la riforma entrerà a pieno
regime, sollecita l’elaborazione e l’applicazione di un adeguato apparato protettivo, sia
preventivo e sia repressivo, che garantisca il pieno rispetto della riservatezza della procedura
111
D.Lgs. 4 marzo 2010, recante Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia
di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 165
e, quindi, la tutela integrale dei contenuti delle informazioni, oltre che dei dati personali,
specie quelli più delicati e sensibili che devono essere trattati in assoluta sicurezza. Pure i dati
sensibili e giudiziari, invero, sono suscettibili di finire in mediazione, specie con riferimento alle
controversie patrimoniali che concernono i profili più intimi e delicati della persona, come
accade ad esempio nelle domande di risarcimento del danno derivante da responsabilità
medica, oltre che da circolazione di veicoli e natanti.
La mediazione si svolge davanti a organismi accreditati che hanno natura giuridica,
consistenza patrimoniale, capacità organizzativa e gestionale, copertura assicurativa e
professionalità assai differenti, pur in presenza degli imprescindibili requisiti minimi fissati dalla
normativa attuativa (D.M. 180/2010). La tutela della riservatezza e, più in generale, la
sicurezza del trattamento dei dati personali costituiscono requisiti imposti dalle norme ai fini
dell’accreditamento, affidati alla preventiva valutazione e al successivo controllo del
Ministero della Giustizia che, in caso di riscontrata inosservanza delle prescrizioni, deve
intervenire con l’applicazione di misure sanzionatorie, ferma la possibilità per coloro i quali
siano stati lesi dalle condotte illecite dei mediatori e, nel complesso, degli organismi di
richiedere il ristoro dei pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali subiti.
In ogni caso, come accennato, su un piano di valutazione differente, la tutela della
riservatezza costituisce un elemento di qualità del servizio che, in un sistema di libero accesso
alla mediazione lasciato alla scelta dei contendenti, dovrebbe orientare le preferenze del
pubblico degli utenti verso gli organismi e i mediatori che diano maggiori garanzie di tutela.
Alla parte che promuove la procedura di mediazione, infatti, la riforma rimette
l’individuazione dell’organismo, tra quanti sono accreditati in Italia, senza vincolo di
competenza territoriale rispetto alla dislocazione della controversia e dei contendenti. Le
parti chiamate in mediazione, inoltre, rimangono libere di partecipare al procedimento e di
addivenire all’accordo, in ragione della valutazione complessiva di convenienza, non
disgiunta dalla considerazione della qualità del servizio di mediazione, da apprezzare anche
sotto il profilo della tutela della riservatezza. La designazione del mediatore nelle singole
procedure, peraltro, è affidata al responsabile dell’organismo, il quale è tenuto a osservare
le norme del regolamento, senza trascurare le richieste delle parti contraenti, specie quando
siano convergenti nell’avere o nell’escludere l’assistenza di taluni dei professionisti
accreditati. La riservatezza dell’organismo e dei suoi mediatori, infine, forma oggetto di
valutazione da parte dell’istante e dei contendenti sia prima dell’instaurazione della
mediazione, che durante lo svolgimento e all’esito del procedimento. La formalizzazione di
quest’ultimo incombente valutativo, peraltro, è prescritto dalla normativa che impone a
ciascuna delle parti la compilazione di un’apposita scheda di valutazione del servizio fruito,
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Pag. 166
nella quale si traccia anche la riservatezza dei funzionari e dei mediatori dell’organismo e
che viene portata alla periodica attenzione del Ministero della Giustizia.
Nel d.lgs. 28/2010 sono contenuti i principali riferimenti normativi dedicati alla
riservatezza, per ciascuno si pongono delicate questioni da affrontare in chiave ricostruttiva
della disciplina della mediazione. Il loro esame congiunto permette di svolgere alcune
valutazioni sistematiche di carattere più generale che, anche in termini pratici, tornano utili a
valutare e comparare i sistemi di sicurezza adottati in concreto dai singoli organismi di
mediazione.
In relazione alla disciplina applicabile e alla forma degli atti, l’art. 3 individua le regole di
funzionamento della mediazione, avendo riguardo anche alla tutela della
sicurezza. In
primo luogo, si dispone che al procedimento di mediazione trova applicazione il
regolamento dell’organismo scelto dalle parti, con la puntualizzazione che il regolamento
deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento, sia quella esterna e sia quella
interna ai sensi dell’art. 9, oltre che rispettare una serie di altri requisiti di qualità del servizio
concernenti le modalità di nomina del mediatore, che ne assicurino l’imparzialità e l’idoneità
al corretto e sollecito espletamento dell’incarico. Nella riservatezza, quindi, è stato
individuato il primo ed essenziale requisito che deve essere garantito dal regolamento
dell’organismo. A tal fine, occorre sottolineare come attraverso le norme del regolamento si
estrinsechi l’autonomia di ciascun organismo di mediazione, che deve essere sottoposta al
controllo preventivo del Ministero della giustizia in sede di accreditamento e di ogni
successiva revisione. Il Ministero, in particolare, è chiamato a valutare la conformità del
regolamento
adottato
dall’organismo
istante
alle
prescrizioni
normative
vigenti.
L’inosservanza delle norme sulla riservatezza ovvero la contrarietà ad esse del regolamento,
quindi, dovrebbero impedire l’accreditamento dell’organismo. Una volta accreditato,
inoltre, l’organismo è tenuto a rispettare il proprio regolamento che viene portato a
conoscenza del pubblico degli utenti. Costoro, sulla scorta delle misure concretamente
adottare e rese disponibili dagli organismi di mediazione anche in materia di sicurezza, sono
messi in grado di operare le scelte conseguenti e, quindi, di rivolgersi all’organismo che
ritengono di preferire e, altresì, di pretendere che le mediazioni si svolgano in conformità alle
relative disposizioni, oltre che nel pieno rispetto delle normative vigenti. L’autonomia
regolamentare dell’organismo, stante la natura nel complesso imperativa delle norme
dettate sulla riservatezza, si esplicherà tendenzialmente nell’elevazione dei livelli di tutela dei
contendenti e, comunque, nella costruzione e concreta gestione del sistema di sicurezza
della mediazione, da combinare con tutte le restanti scelte organizzative e di funzionamento
adottate dall’ente.
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Pag. 167
La riservatezza della mediazione, infatti, non si realizza unicamente attraverso le norme e
le disposizioni del regolamento ad essa dedicate, in quanto, seppur indirettamente, sono
suscettibili di assumere rilievo anche quelle altre regole concernenti altri aspetti organizzativi
e gestionali del procedimento. A tal proposito, il medesimo art. 3, comma 3, d.lgs. 28/2010
dispone che gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità. In tal
modo, si lascia all’autonomia dell’organismo e alle decisioni dei mediatori in esso operanti
l’individuazione delle modalità di gestione del conflitto che garantiscano al meglio la
riservatezza e la sicurezza della mediazione, evitando inutili quanto rischiosi appesantimenti
formali costituiti da eccessive verbalizzazioni o riproduzioni documentali di dichiarazioni e
attività. La libertà dai formalismi, pertanto, deve essere intesa non solo quale principio
generale di efficienza e duttilità del procedimento, ma anche quale meccanismo che
favorisce la tutela della riservatezza dei contenuti della mediazione, oltre che la sicurezza nel
trattamento dei relativi dati.
Nel regolamento si devono altresì indicare le modalità telematiche di svolgimento della
mediazione utilizzate dall’organismo. L’impiego dei mezzi di comunicazione a distanza,
anche sotto quest’aspetto, impone l’adozione di soluzioni organizzative e gestionali
adeguate a garantire elevati standard qualitativi di riservatezza e sicurezza. Le modalità
telematiche, in quanto permettono di oltrepassare gli spazi materiali dell’organismo e di
prendere contatto anche con persone ubicate all’esterno delle strutture riservate della
mediazione, determinano maggiori rischi di fuoriuscita delle informazioni e dei dati personali
trattati e, quindi, ingenerano più gravi pericoli per la riservatezza dei contenuti della
mediazione. In questo senso, si prescrive espressamente che nel regolamento di procedura,
fermo quanto disposto dal d.lgs. 28/2010, debbano essere previste le procedure telematiche
eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da garantire la sicurezza delle
comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. L’impiego delle varie tecniche di
comunicazione a distanza nella mediazione, in prospettiva, solleverà i maggiori problemi di
tutela della riservatezza, se solo si considerano sia la spinta della riforma verso la mediazione
telematica al fine di favorirne la diffusione e semplificarne l’accesso al largo pubblico, sia la
tendenza generalizzata a delocalizzare la gestione dei servizi mediante soluzioni più razionali
ed efficienti che permettono il contenimento dei tempi e il risparmio dei costi per
l’organismo e per gli utenti. E’ da auspicare, pertanto, che nell’impiego crescente delle
tecniche di comunicazione a distanza siano garantiti sempre adeguati livelli di riservatezza e
sicurezza della mediazione.
Le modalità telematiche nell’erogazione dei servizi della mediazione, sotto un piano
differente, potrebbero essere congeniali alla migliore tutela della riservatezza in quanto
permettono la gestione della procedura di mediazione a distanza, senza la contestuale
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
Pag. 168
presenza fisica dei contendenti e del mediatore nel medesimo ambiente. A tal proposito, si
osserva come non sia affatto semplice garantire la riservatezza della mediazione in quei
contesti affollati e, comunque, frequentati da più persone che, inevitabilmente, dall’incontro
o dalla frequentazione nei locali dell’organismo finiscono per evincere il coinvolgimento
degli utenti nel procedimento di composizione stragiudiziale del conflitto. Basta segnalare
che i principali organismi di mediazione aventi competenza generale sono quelli costituiti dai
consigli degli ordini degli avvocati che operano presso i locali dei Tribunali e dalle stesse
Camere di commercio che utilizzano le proprie sedi, dove verosimilmente non si riesce a
garantire la piena riservatezza in ragione di una pluralità di utenti che si rivolgono ai vari
servizi giudiziari e camerali. Siffatti pericoli legati alle utenze promiscue o, comunque, plurime
allo sportello, di contro, non vi sarebbero nella gestione telematica delle procedure
direttamente da casa o dall’ufficio dei contenenti che, collegandosi con i mezzi di
comunicazione a distanza, come rilevato, sarebbero esposti a rischi differenti per quanto
concerne la violazione della riservatezza e della sicurezza dei dati trattati.
Gli organismi di mediazione più importanti e strutturati, peraltro, nell’erogazione dei servizi
dovranno utilizzare e sapientemente combinare sia le modalità tradizionali di incontro di
persona dei mediatori con i contendenti e sia quelle telematiche, da mettere a disposizione
ogni volta si renda necessario per garantire la riservatezza e, comunque, la tempestività
dell’accesso e dello svolgimento delle procedure.
4. La riservatezza interna ed esterna.
Nel corpo del d.lgs. 28/2010, come accennato, sono ravvisabili numerose disposizioni
riferite alla tutela della riservatezza e, in particolare, ad essa sono interamente dedicati gli
artt. 9 e 10, nei quali sono state trasfuse e sviluppate le prescrizioni europee che assumono
un ruolo fondamentale nello statuto generale della mediazione.
Più precisamente, l’art. 9, rubricato “Dovere di riservatezza”, si incentra sulla posizione
giuridica di quanti sono impegnati nella mediazione, distinguendo una riservatezza da
mantenere verso i terzi, ossia rivolta alla costruzione di una barriera protettiva verso l’esterno
(c.d. riservatezza esterna), e una riservatezza da garantire all’interno dello stesso
procedimento tra mediatore e singole parti, in modo che l’una non abbia conoscenza dei
contenuti riservati concernenti l’altra (c.d. riservatezza interna). La prima declinazione della
riservatezza assume portata generale, riferita a tutte le mediazioni, la seconda si riferisce ai
procedimenti nei quali si svolgono sessioni di incontri separati tenuti dal mediatore in maniera
disgiunta con ciascuna delle parti, i cui contenuti sono da mantenere riservati in primo luogo
rispetto alle controparti, oltre che nei confronti dei terzi estranei.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 169
L’art. 9 impone l’obbligo della riservatezza, indicando i soggetti ai quali si riferisce e i
contenuti protetti. Sul piano soggettivo, con formula ampia e comprensiva si dispone che
alla riservatezza è tenuto chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo
o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione. La riservatezza, pertanto, è
imposta a tutti coloro che sono coinvolti nel procedimento di mediazione, tanto se risultino
impegnati a prestare l’opera o il servizio all’interno dell’organismo (al riguardo si segnalano,
in primo luogo, i mediatori e gli esperti o gli ausiliari dei quali esso si avvale, oltre che il
responsabile, i dipendenti e i collaboratori della segreteria), quanto se agiscano all’esterno
ma abbiano un ruolo nell’ambito del procedimento (tra essi, in particolare, assumono rilievo i
rappresentanti, gli ausiliari delle parti contendenti) e, comunque, gli altri soggetti che sono
coinvolti durante le sequenze che precedono, accompagnano e seguono l’incardinamento
della mediazione. Così, per quanto riguarda la presentazione dell’istanza, la comunicazione
della nomina del mediatore e della data del primo incontro, oltre che gli avvisi concernenti
gli incontri successivi, ci si avvale dei vari mezzi comunicativi direttamente disponibili (per
esempio telefono, fax, cellulare, email, accesso al sito web e alla rete internet) ovvero della
corrispondenza cartacea spedita tramite gli uffici postali o i corrieri. Ancora, all’esterno si
svolgono una serie di verifiche e controlli che concernono, tra l’altro, i profili dell’ammissione
al gratuito patrocino, il pagamento delle indennità di avvio e di mediazione, oltre che delle
ulteriori spese, l’autentica notarile del verbale di conciliazione in materia immobiliare,
l’omologa presidenziale dell’accordo conciliativo, l’iscrizione di ipoteca giudiziale o
l’esecuzione forzata o in forma specifica degli accordi conciliativi omologati, l’applicazione
dei vantaggi e delle agevolazioni fiscali. A carico di tutti i soggetti direttamente o
indirettamente
impegnati
nell’organismo
e,
comunque,
coinvolti
nell’ambito
del
funzionamento della mediazione, quindi, si stabilisce una comune regola di generale rispetto
della riservatezza che abbraccia tutti i procedimenti, per l’intero relativo svolgimento,
comprese le sequenze correlate.
In relazione ai profili contenutistici dell’obbligo di riservatezza, la norma si riferisce
espressamente alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento di
mediazione. La formulazione deve intendersi in senso ampio e comprensivo, in ragione delle
finalità perseguite e dei valori tutelati con la prescrizione della riservatezza. Pertanto, sono da
ritenere coperti tutti i contenuti delle dichiarazioni rese in mediazione, sia quelle provenienti
dalla parti contendenti e dai loro rappresentanti o assistenti, sia quelle emesse dal mediatore
e dagli esperti o collaboratori dei quali si avvalga, sia le dichiarazioni rese dai terzi che a
vario titolo intervengano nei procedimenti di mediazione, per esempio, come persone in
qualche modo a conoscenza delle vicende oggetto della controversia o ad essa
variamente collegate. L’obbligo di riservatezza, inoltre, riguarda tutte le informazioni
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 170
acquisite durante il procedimento di mediazione. La riservatezza, di conseguenza, si riferisce
a qualsiasi contenuto delle informazioni comunque portate nel procedimento, senza
esclusioni o limitazioni. In sostanza, a tutela dei contendenti di dispone che l’esistenza della
mediazione e tutti i corrispondenti contenuti rimangano tendenzialmente coperti dalla
riservatezza nei confronti dei terzi. Tuttavia, occorre precisare che l’esistenza e alcuni
essenziali contenuti della mediazione, in relazione alle esigenze poste dagli incombenti
processuali e attuativi connessi al procedimento finalizzato alla conciliazione, possono essere
portati a conoscenza degli uffici giudiziari ed, eventualmente, finanziari e, comunque, di
quelli preposti alla tenuta dei registri immobiliari, ai quali si estende l’obbligo di riservatezza
verso l’esterno.
A fonte della richiamata regola generale, ancorché non integrale, sulla riservatezza
esterna, come anticipato, l’art. 9, comma 2, prescrive pure una più limitata riservatezza
interna tra il mediatore e le singole parti contendenti, con riferimento alle dichiarazioni rese e
alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate. La riforma della mediazione,
infatti, prevede che il mediatore possa svolgere sia incontri congiunti nel contraddittorio di
tutte le parti contendenti, sia incontri separati con le singole parti, dalle quali può ricevere
dichiarazioni o acquisire informazioni che debbono essere mantenute riservate verso le
controparti. Il mediatore, infatti, negli incontri separati si confronta riservatamente con la
parte ascoltandola e scambiando dichiarazioni e informazioni che possono aggiungersi a
quelle condivise tra le parti e riguardare aspetti ulteriori della controversia ovvero argomenti
estranei all’oggetto del contendere, che sono ritenuti utili a capire le posizioni in conflitto e a
individuare i possibili percorsi risolutivi finalizzati alla conciliazione. Con la riservatezza interna,
in sostanza, si favorisce il dialogo libero e il confronto franco con il mediatore,
permettendogli di conoscere in maniera più approfondita e completa le posizioni effettive,
le esigenze autentiche e i desideri nascosti di ciascun contendente. La tutela della
riservatezza interna, comunque, è lasciata nella disponibilità della parte che rende le
dichiarazioni o alla quale si riferiscono le informazioni acquisite in sessione separata. La stessa
parte, infatti, potrebbe ritenere di condividere il contenuto delle proprie dichiarazioni e
informazioni con una, alcune o tutte le controparti. In questo caso, qualora la parte non
intenda ripetere ovvero portare tali contenuti direttamente a conoscenza delle controparti,
comunque, potrebbe prestare il consenso affinché le stesse siano rese edotte dal mediatore.
Di conseguenza, spetta al mediatore nel corso delle sessioni riservate o di quelle congiunte,
in funzione del perseguimento del successo della mediazione, rendere condiviso nelle
modalità più adeguate il contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni che è stato
autorizzato a svelare. In tutti i casi, la rinuncia della parte alla riservatezza interna lascia
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 171
comunque intatta la tutela della riservatezza esterna verso i terzi, che devono essere tenuti
all’oscuro della dichiarazioni e delle informazione scaturenti dalla mediazione.
Entrambi i piani di tutela della riservatezza, infine, emergono sotto altri profili della
disciplina del procedimento di mediazione e del suo esito positivo o negativo. Così, ferma la
riservatezza dell’intero procedimento di mediazione, le disposizioni del d.lgs. 28/2010 si
soffermano sulle principali sequenze e sugli atti più importanti che contengono i dati trattati,
quali risultano dall’impiego della tecnica di mediazione aggiudicativa e, comunque, dalla
redazione dell’accordo conciliativo, ovvero dal verbale di mancata conciliazione.
La riforma prevede che, in caso di insuccesso della tecnica di mediazione facilitativa,
qualora le parti non abbiano raggiunto un accordo amichevole malgrado l’assistenza del
mediatore, questi possa utilizzare la tecnica aggiudicativa, consistente nella formulazione di
una proposta scritta di risoluzione del conflitto, sulla quale le parti sono invitate a esprimere
l’eventuale adesione. La formulazione di una proposta scritta, peraltro, costituisce un
obbligo per il mediatore ogniqualvolta le parti ne facciano concorde richiesta, dopo essere
state informate delle possibili conseguenze in ordine alle spese processuali nel successivo
giudizio. Entrambe le tecniche di mediazione sono contemplate e disciplinate dal d.lgs.
28/2010, secondo un criterio di sussidiarietà, nel senso che si passa alla seconda, di regola, in
caso di insuccesso della prima. Le due tecniche presentano caratteristiche assai differenti,
anche in relazione ai problemi di tutela della riservatezza che, per tanti versi, si complicano e
cumulano nei casi di utilizzo di entrambe le tecniche di mediazione. Con l’una tecnica,
infatti, il mediatore favorisce la ricerca di un accordo amichevole attraverso un confronto
aperto sulle posizioni delle parti, assistite anche separatamente, in relazione all’esame di tutti
i profili della controversia significativi per il raggiungimento della composizione concertata.
Con l’altra tecnica, invece, il mediatore può o, in caso di richiesta congiunta, deve tentare
di raggiungere diversamente una definizione della controversia tracciando per iscritto
un’ipotesi risolutiva, circoscritta all’oggetto del contendere e rispettosa delle normative
vigenti, sulla quale le parti sono tenute per iscritto a esprimere l’eventuale accettazione. Nel
primo caso, la tutela della riservatezza, sia esterna che interna, si pone in relazione ai
numerosi contenuti delle dichiarazioni e delle informazioni risultanti dal procedimento di
mediazione, sia nelle sessioni congiunte e sia in quelle separate, che sono suscettibili di
oltrepassare l’oggetto del contendere e le stesse posizioni conflittuali dei contendenti. Nel
secondo caso, invece, la formulazione della proposta scritta solleva più delicati problemi
non solo in ordine al vaglio di legalità, professionalità e imparzialità, in quanto deve essere
rispettosa delle norme imperative e dell’ordine pubblico e non risultare condizionata da
quanto emerso della precedente fase facilitativa, ma anche alla necessaria tutela della
riservatezza. A tal fine, il d.lgs. 28/2010 prescrive che la proposta scritta non contenga alcun
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Pag. 172
riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento. Si
vuole garantire il mantenimento della riservatezza sul contenuto della mediazione, per
quanto attiene ai piani interno ed esterno. La disposizione, che lascia alla decisione delle
parti acconsentire di riportare dichiarazioni o informazioni, si giustifica in ragione sia
dell’utilizzo della forma scritta nella redazione dell’atto e sia della condivisione del contenuto
tra le parti e pure all’esterno. La proposta scritta, infatti, viene comunicata a entrambe le
parti, le quali entro sette giorni sono tenute a esprimere l’accettazione o il rifiuto. In caso di
accettazione, il verbale di conciliazione redatto dal mediatore recherà incorporata la
proposta scritta con l’adesione delle parti. In caso di rifiuto o di mancata accettazione,
invece, il verbale di mancata conciliazione indicherà comunque la proposta scritta del
mediatore.
La proposta scritta rifiutata, che per il tramite del verbale di mancata conciliazione risulta
dall’atto finale della procedimento, assume un rilievo notevole in sede giudiziale ai fini della
decisione sulle spese processuali, che sono applicate dal giudice in deroga al criterio
generale della soccombenza, ai sensi dell’art. 13, d.lgs. 28/2010. La norma, infatti, prevede
delle conseguenze negative in sede di giudizio per la parte che non abbia accettato la
proposta scritta formulata dal mediatore, allorquando essa corrisponda alla decisione del
giudice, ovvero vi siano gravi ed eccezionali ragioni. Sebbene vincitrice nel giudizio, la parte
che non ha accettato la proposta scritta del mediatore non ha diritto alla rifusione delle
spese, ma deve pagare quelle processuali e della mediazione sostenute dalla controparte
soccombente, oltre che corrispondere ulteriori somme e penalità. In entrambe le fattispecie,
peraltro, per provvedere sulle spese processuali e sulle altre somme, il giudice è tenuto a
valutare la proposta scritta formulata dal mediatore, di cui può sempre acquisire copia dalla
segreteria dell’organismo. La conoscenza giudiziale del contenuto della proposta scritta,
quindi, determina un’evidente limitazione della riservatezza della mediazione, che non si
realizza invece nell’ipotesi in cui il procedimento si svolga integralmente in base alla tecnica
facilitativa.
In caso di mancato raggiungimento dell’accordo amichevole, il verbale negativo viene
redatto dal mediatore senza altra indicazione che il dare atto della mancata
partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione. L’indicazione è rilevante ai
fini processuali e delle conseguenze negative a carico della parte non partecipante. Più
precisamente, la mancata partecipazione senza giustificato motivo alla mediazione integra
un elemento di prova rilevante ai sensi dell’art. 116 c.p.c., oltre a terminare l’applicazione la
sanzione pecuniaria a suo carico.
La partecipazione, oltre che la promozione del procedimento di mediazione finalizzato
alla conciliazione, inoltre, costituisce fattore rilevante anche quale condizione di
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 173
procedibilità della domanda giudiziale. Nelle azioni relative alle controversie in materia civile
e commerciale per le quali la mediazione è normativamente o convenzionalmente resa
obbligatoria, infatti, il giudice rileva d’ufficio e la controparte può eccepire il mancato
assolvimento della condizione di procedibilità. Anche per tale aspetto, quindi, si ravvisa una
limitazione della riservatezza della procedura di mediazione rispetto allo sviluppo
processuale.
Nei segnalati momenti di raccordo con il processo civile, quindi, sono ravvisabili delle
limitazioni alla riservatezza della mediazione che devono intendersi in maniera tassativa.
5. L’inutilizzabilità e segreto professionale.
La riservatezza della mediazione, come accennato, è altresì presidiata dall’art. 10, d.lgs.
28/2010, che contiene le disposizioni sull’inutilizzabilità e il segreto professionale rilevanti
principalmente per le condotte delle parti e dei mediatori.
Anzitutto, all’art. 10, comma 1, si prescrive che le dichiarazioni rese e le informazioni
acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio
avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo
l’insuccesso della mediazione. La disposizione contiene una regola generale con la quale si
vuole evitare che i contenuti del procedimento finalizzato alla conciliazione siano
impropriamente riversati nel successivo giudizio. Sono da scongiurare gli atteggiamenti
opportunistici delle parti che raccolgano dichiarazioni e informazioni in sede di mediazione
per un utilizzo strumentale diretto non tanto a favorire la composizione concertata della
controversia, ma a procurare unicamente elementi probatori per avvantaggiarsi nella
successiva definizione giustiziale della stessa. Quanto accade in mediazione, in via di
principio, assume un esclusivo rilievo all’interno di questo procedimento e, tendenzialmente,
non è riproponibile in sede processuale. L’inutilizzabilità delle dichiarazioni e delle
informazioni costituisce la sanzione processuale con la quale si colpisce la produzioni e
comunque l’acquisizione in giudizio dei materiali della mediazione. Il giudice, quindi, non
deve ammette l’ingresso di tali materiali e, comunque, disporne l’estromissione dal processo.
In nessun caso, il giudice deve tenerne conto nella decisione del merito della controversia.
In tal senso, sempre all’art. 10, comma 1, si vieta espressamente l’ingresso nel giudizio del
medesimo materiale rinveniente dalla mediazione tramite le altre prove processuali, non
ammettendo sul contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni la prova per testimoni e la
devoluzione del giuramento decisorio. Le due prove si differenziano nettamente quanto ai
soggetti chiamati in giudizio a riferire della mediazione, dal momento che mentre il
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Pag. 174
giuramento viene deferito tra le parti contendenti, la testimonianza concerne soggetti terzi,
quali sono coloro che hanno prestato la loro opera o il loro servizio nel procedimento
stragiudiziale, a cominciare dai mediatori, oltre che i periti, i collaboratori e lo stesso
responsabile e, comunque, chiunque altro a vario titolo sia intervenuto o abbia conoscenza
dei contenuti del medesimo procedimento. In termini soggettivi, pertanto, la tutela della
riservatezza può dirsi piena in quanto si esplica nei confronti di tutti, parti o terzi, siano chimati
in giudizio a riferire dei contenuti della mediazione.
In termini oggettivi, tuttavia, tanto l’inutilizzabilità quanto l’inammissibilità delle prove si
riferiscono soltanto ai contenuti delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite durante
la mediazione, non già ai materiali probatori preesistenti, successivi o, comunque, esterni al
relativo procedimento. Così, le dichiarazioni e le informazioni raccolte prima o altrimenti
rispetto alla mediazione, malgrado siano state acquisite nel procedimento, rimangono
utilizzabili o riferibili in giudizio. In tal senso, l’eventuale documentazione concernente la
controversia, malgrado sia acquisita in mediazione, non sarà resa inutilizzabile nel processo.
La preclusione processuale, infatti, dovrebbe riferirsi al solo materiale che sia non solo
proveniente ma altresì formato in mediazione, che deve perciò essere mantenuto all’interno
del procedimento, in quanto finalizzato unicamente al tentativo di una composizione
negoziale del conflitto mediante la conciliazione. Se si opinasse diversamente, infatti, si
finirebbe per pregiudicare la tutela giudiziale dei diritti dei contendenti, qualora si ritenesse
che qualsiasi dichiarazione o informazione portata in mediazione sia in tal modo resa
inutilizzabile in sede processuale. Si favorirebbero abusi e strumentalizzazioni che, lungi dal
favorire la conciliazione, mediante la proposizione in mediazione dell’avverso materiale
probatorio avrebbe lo scopo di neutralizzarne l’impiego in sede giudiziale al fine di impedirne
gli effetti negativi per la parte pregiudicata dalle relative risultanze.
L’art. 10, comma 1, in ogni caso, lascia aperta la possibilità per le parti di accordarsi
diversamente, nel senso che la parte dichiarante o alla quale si riferiscono le informazioni
può acconsentire alla limitazione della riservatezza e, quindi, all’utilizzo di tali dati in sede
processuale. Il consenso della parte, a seconda dei casi, può essere rilasciato in sedi,
momenti e con modalità differenti. Fin dalla mediazione, già dal momento dell’effettuazione
della dichiarazione o dell’assunzione dell’informazione ovvero prima della chiusura del
procedimento, la parte può acconsentirne l’eventuale utilizzo anche in giudizio. In
mancanza, durante il processo il consenso della parte è concedibile anche in maniera
concludente attraverso la non opposizione all’utilizzo delle dichiarazioni o informazioni
ovvero all’ammissione dell’interrogatorio o della testimonianza sui relativi contenuti.
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Pag. 175
La tutela della riservatezza su quanto accade in mediazione, inoltre, è completata
dall’art. 10, comma 2, con particolare riferimento alla posizione del mediatore. Ai sensi della
disposizione richiamata, in primo luogo, il mediatore non può essere chiamato a deporre sul
contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di
mediazione. La formulazione dell’esonero dall’obbligo di deporre risulta assai ampia, in
quanto non è circoscritto alle sole deposizioni da rendere davanti all’autorità giudiziaria, ma
si estende a qualsiasi altra autorità. Tale ampliamento è significativo poiché determina un
rafforzamento della riservatezza nella mediazione tanto più significativo in ragione
dell’ampia area di contenzioso interessata dal riforma del d.lgs. 28/2010 e, quindi, della
pluralità di autorità giudiziarie, in sede civile, penale e amministrativa, e non giudiziarie,
amministrative locali, regionali, nazionali e sovranazionali, davanti alle quali i fatti oggetto
della controversia sono suscettibili, per tanti aspetti, di essere trattati. Si considerino, tra le
altre, le fattispecie nelle quali la condotta illecita del dipendente fonte di responsabilità
civile, per ciò portata nel procedimento di mediazione dalla vittima, assuma rilievo anche in
sede penale e disciplinare davanti alle varie autorità preposte.
L’art. 10, comma 2, infine, si conclude prescrivendo che al mediatore si applicano le
disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie
previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale in
quanto applicabili. In tal modo, la riforma a provveduto a completare lo statuto del
mediatore e della mediazione sul punto della tutela della riservatezza attraverso il richiamo
delle disposizioni del codice di procedura penale, contenute nell’ambito delle discipline
dedicate, rispettivamente, ai mezzi di prova (titolo II) e, in particolare, alla testimonianza
(capo I) e al difensore e più precisamente alla sue garanzie. Nell’ordine, le disposizioni sul
segreto professionale dell’art. 200 prevedono che talune categorie di soggetti112, chirurghi
non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio
ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità
giudiziaria. L’applicazione della disposizione al mediatore, quale professionista che assiste e
parti nel raggiungimento di un accordo amichevole, è coerente esplicazione dei principi
della riforma della mediazione, quali delineati a livello comunitario. In questo senso, tra il
mediatore e le parti si realizza uno spazio di riservatezza che si impone anche nel giudizio
112
Ministri delle confessioni religiose (lett. a); avvocati, investigatori, consulenti tecnici, notai (lett. b);
medici, chirurghi, farmacisti, ostetriche, esercenti professioni sanitarie (lett. c); gli esercenti altri uffici e
professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto
professionale (lett. d) e i giornalisti professionisti (comma 3).
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Pag. 176
penale, nel quale le esigenze della riservatezza della mediazione prevalgono rispetto a
quelle dell’accertamento processuale.
Infine, al mediatore si estendono le garanzie di libertà del difensore dell’art. 103 c.p.c.,
per quanto attiene ai presupposti e alle modalità di esecuzione previsti per le ispezioni e le
perquisizioni e i sequestri nell’ufficio del difensore, nonché le intercettazioni delle
conversazioni e delle comunicazioni, il sequestro e il controllo della corrispondenza. La
violazione delle relative disposizioni, peraltro, comporta l’inutilizzabilità dei risultati probatori
ottenuti. L’estensione delle disposizioni ai mediatori, peraltro, è prevista in quanto siano
compatibili. Perciò è affidato all’interprete il vaglio della compatibilità e dell’individuazione
del concreto contenuto normativo, formulato con riferimento al processo penale, da
estendere e applicare al procedimento di mediazione.
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Pag. 177
Convivenza uomo-animale
Il trasporto dell'animale su mezzi pubblici, navi ed aerei113
di Samantha Mendicino
Si conclude con oggi questo sintetico ma analitico excursus afferente alle regole che
disciplinano il trasporto dei nostri beniamini sui vari mezzi di locomozione. In base al principio
del responsabile possesso, ogni proprietario deve aver consapevolezza di come affrontare le
vicende del quotidiano in compagnia del proprio animale. Ed, infatti, se è vero che, per
come dice il Qoèlet114, "...chi cresce il sapere aumenta il dolore" è altrettanto verititero che
"la conoscenza è potere115". Dunque, quanto segue è la rappresentazione dell'attuale
regolamentazione in materia ma è sempre consigliato, in anticipo rispetto alla partenza,
richiedere le opportune informazioni sul trasporto animali all'ente/trasportatore specifico:
tanto al fine di conoscere eventuali modifiche regolamentari e/o normative dell'ultimo
momento.
1. I trasporti urbani
In merito ad autobus e metropolitane, si deve far riferimento ai regolamenti comunali il cui
contenuto può essere conosciuto anche tramite accesso ai siti on line dei singoli enti: i
regolamenti (come anche altri atti amministrativi) sono normalmente riprodotti in apposite
rubriche oppure, semplicemente, si può profittare dei recapiti dell'URP (Ufficio Relazioni col
Pubblico) che saranno di certo ivi pubblicati. Due elementi, però, rimangono fermi in tutti i
113
Per tutti coloro che dovessero avere dei quesiti in tema, si ricorda che l'e-mail della redazione a cui
inviare
qualunque
richiesta
e/o
domanda
e/o
comunicazione
e/o
commento
è:
[email protected]
114
Il Qoèlet o Qohèlet è uno dei libri dell'Antico Testamento della Bibbia ebraico-cristiana. In esso
viene narrato un ipotetico dialogo tra il bene ed il male, con esposizione dei vari "perchè" convenga
seguire il bene oppure del "perchè" no, soprattutto per il fatto incontrovertibile che ogni vita termina
inevitabilmente con la morte. La conclusione pare essere che allora, se la morta è l'unico fine possibile
in questa vita, tutto è vano. Ma Qoèlet (che tradotto significa: colei che è l'anima del discorso)
consiglia: "Abbi fiducia nel Padre e segui le Sue indicazioni"
115
Francis Bacon in Novum Organum, trad. italiana di E. De Mas, Laterza , Roma-Bari 1992
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Pag. 178
comuni: a) anche laddove sia consentito l'accesso ai cani su autobus e metrò, non si deve
dimenticare che gli stessi dovranno essere condotti con museruola e guinzaglio; b) inoltre,
potrebbe essere richiesto il pagamento del biglietto.
Con riferimento ai taxi, invece, il discorso cambia: qui sono i singoli tassisti/conducenti a
decidere se accettare o meno l'animale nell'autovettura. Ma non si deve dimenticare che
occorre sin da subito segnalare al centralino, che si contatta per richiedere il mezzo,
l'esistenza del nostro cucciolo: sarà cura di questi inviare chi sarà disposto a trasportare noi
ed il nostro beniamino.
2. Il treno
Qui iniziano i problemi, soprattutto, in considerazione delle recenti novità regolamentari
applicate dall'11 dicembre 2011 da Trenitalia ai viaggi sui propri mezzi di trasporto:
disposizioni ancor più restrittive e limitative del diritto dei cittadini a poter liberamente
circolare assieme al proprio animale rispetto ad un paio di anni fa.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, analizziamo quelle che possiamo considerare le
norme comuni, cioè applicabili a qualunque treno:
1) ricordiamo che all'atto di acquisto del biglietto
per l'animale potrà essere richiesta l'esibizione del
certificato di iscrizione all'anagrafe canina (per i
cani provenienti dall'estero, invece, il "passaporto
Uno dei tanti cuccioli in adozione c/o "Ass.
Progetto Aiuta un cane a Vivere" (anche su
facebook): la Ia causa degli abbandoni è la
difficoltà di condurre con sè il proprio animale
canino") ma, soprattutto, che questo certificato
dovrà essere con noi durante il viaggio: se alla
richiesta del controllore non lo potremo esibire,
potranno essere irrogate delle penalità e potrebbe
capitare che ci venga chiesto anche di scendere alla fermata successiva (anche se c'è da
discutere su questo punto); 2) gli animali ammessi nelle carrozze non possono occupare i
posti destinati ai viaggiatori e Trenitalia precisa, altresì, che "qualora -gli stessi- rechino
disturbo agli altri viaggiatori l’accompagnatore dell’animale, unitamente all’animale stesso,
su indicazione del personale del treno, è tenuto ad occupare altro posto eventualmente
disponibile o a scendere dal treno." Ma, ovviamente, tale disturbo dovrà essere oggettivo e
non è ammessa, per legge, nessuna deroga al principio generale del divieto di "abuso del
diritto" da parte degli altri viaggiatori.
A questo punto, ricordiamo che " ... i cani di piccola taglia, i gatti ed altri piccoli animali
domestici da compagnia (custoditi nell’apposito contenitore di dimensioni non superiori a
70x30x50) sono ammessi gratuitamente nella prima e nella seconda classe di tutte le
categorie di treni e nei livelli di servizio AV Executive, 1^ Business, 2^ Premium e 2^ Standard.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 179
E’ ammesso un solo contenitore per ciascun viaggiatore". Mentre a bordo dei treni con le
carrozze a cuccette, vetture comfort, vagoni letto, vetture Excelsior ed Excelsior E4 si dovrà
acquistare il compartimento per intero.
Per tutti gli altri animali (dunque, anche i cani di taglia grande) è possibile il trasporto
secondo il seguente schema:
1) sui treni Espressi, Intercity ed Intercity Notte (I a e II a classe) previo pagamento116 del
biglietto di IIa classe ridotto del 50%;
2) sui treni Regionali nel vestibolo o piattaforma dell’ultima carrozza, con esclusione
dell’orario dalle 7.00 alle 9.00 dei giorni feriali dal lunedì al venerdì (anche se non si
comprende quale sia il ragionevole motivo di fondo a questo limite temporale...), previo
pagamento del biglietto ridotto del 50%;
3) nelle carrozze letto, nelle carrozze cuccette ordinarie e comfort e nelle vetture Excelsior
ed Excelsior E4 per compartimenti è necessario acquistare per intero la cuccetta ed il cane
dovrà pagare anche un biglietto di II a classe ridotto del 50%. Ma attenzione: il trasporto è
ammesso, previa riservazione al momento dell’acquisto del biglietto dell’accompagnatore.
Ovviamente, il cane dovrà essere, in ogni caso, dotato di guinzaglio e museruola.
4) Nei treni Eurostar Italia possono viaggiare solo i cani guida per i non vedenti: ciò è negato
a tutti gli altri animali.
3. Gli aerei
Con riferimento ai velivoli non esiste un regolamento unico per tutte le compagnie aeree
(qui esiste concorrenza: elemento che non esiste con riferimento ai trasporti in treno).
Conviene sempre, per tale motivo, in largo anticipo rispetto alla data di partenza, informare
la biglietteria dell'esistenza di un animale al seguito, anche per conoscere la possibilità e/o
modalità di trasporto dello stesso oltre al relativo costo. Del pari, una volta conosciute tali
informazioni, necessiterà anche prenotare il biglietto per il nostro beniamino e portare con
noi il libretto sanitario (quando si va all'estero, occorre anche lo specile passaporto europeo
116
ATTENZIONE: se il proprietario dell'animale (al controllo del personale di bordo) dovesse risultare
sprovvisto del biglietto per il proprio beniamino oppure conducesse con sè l'animale sui treni in cui non
è ammesso il suo trasporto, sarà tenuto a pagare il prezzo del detto biglietto maggiorato di una
sopratassa. Maggiore sarà la sopratassa nel caso in cui il proprietario dovesse essere sprovvisto della
prescritta iscrizione all’anagrafe canina (intorno agli € 25,00). In tutte queste ipotesi, poi, il proprietario
e l'animale saranno costretti a scendere alla prima fermata successiva al riscontro delle dette
irregolarità.
LISTINO
PREZZI
E
SANZIONI
consultabile
su
http://www.trenitalia.com/cms-
file/allegati/trenitalia/area_clienti/Listino_prezzi_CapitoloIV_ParteII_Trasporto_Nazionale.pdf
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Pag. 180
che ne certifichi lo stato di buona salute117). In linea generale, in cabina è ammesso solo un
certo numero di animali e sempre che questi (custoditi in gabbie) siano di piccola taglia,
cioè di peso inferiore ai 10 Kg (gli uccelli, ad esempio, sono condotti nelle loro gabbie; i
gatti, invece, normalmente sono condotti nei loro trasportini, anche se alcune companie
aeree richiedono gabbie particolari).
Per gli animali di taglia medio-grande, invece, la regola generale è quella del trasporto in
apposite
gabbie
nella
stiva
(posteriore)
pressurizzata e climatizzata.
Non bisogna dimenticare, poi, che laddove l'aereo
nazionale faccia scalo all'estero oppure ivi è il
luogo di destinazione, sarà necessario informarsi
sulle formalità/normative in vigore nello/negli stato/i
interessati: esistono alcuni Paesi, infatti, in cui il
nostro animale potrebbe anche essere sottoposto
Gli abbandoni sono maggiori per gli animali di
taglia medio-grande, più difficili da gestire
negli spostamenti. Anche lui è in adozione
c/o "Ass. Progetto Aiuta un cane a Vivere"
a quarantena!
Le informazioni possono essere acquisite sia presso
la compagia aerea che (consigliabile) presso
l'ambasciata del Paese interessato.
Una curiosità: non molti sono a conoscenza della esistenza di una compagnia aerea
americana, la PetAirWays118, che consente il trasporto degli animali con modalità di gran
lunga più sicure e comode. Infine, si ricorda che le compagnie aeree low cost normalmente
non accettano animali a bordo.
4. Le navi
Sulle imbarcazioni, infine, non esistono problemi particolari. Si fa riferimento alle navi, ai
traghetti ecc: le compagnie di navigazione generalmente applicano regole favorevoli al
trasporto degli animali, soprattutto laddove si tratti di brevi traversate.
Se l'animale è di taglia grande e non è possibile, perciò, portarlo nelle tipiche "borse da
viaggio" per animali, potrebbe essere richiesto dalla regolamentazione (il cui contenuto si
raccomanda di richiedere al momento della prenotazione dei biglietti o, meglio, se in data
117
A lezione di... Diritto Civile: Rapporto tra uomo ed animale, Nuove frontiere del diritto, n. 2, pag. 52 e
ss. Disponibile su www.nuovefrontierediritto.it
118
Opera negli Stati uniti e permette agli animali di viaggiare in apposite gabbie all'interno della
cabina e non nelle stive dove vengono relegati i bagagli dei passeggeri. Esiste sull'aereo del personale
adibito al controllo degli animali (che avviene ogni 15 minuti circa), anche se i costi risultano ancora
elevati
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 181
anche anteriore) il trasporto dell'animale sul ponte. Su alcuni traghetti, infatti, vige il divieto di
condurre l'animale di media-grande taglia all'interno della nave. Non si deve mai
dimenticare, inoltre, di portare con sè il libretto sanitario (sempre meglio evitare le eventuali
sanzioni in caso di omissione) oltre al guinzaglio ed alla muserola.
5. I cani dei non vedenti - i cani poliziotto - i cani destinati ad operazioni di salvataggio
Tutto quanto descritto sino a qui non concerne i cani guida i quali hanno diritto a viaggiare
assieme al loro padrone gratuitamente ed in qualunque mezzo di trasporto (anche in
aereo).
Ciò con l'unica accortezza di doverlo fornire di museruola (ma solo eventualmente: ad
esempio, nei treni questo obbligo non sussiste per espressa disposizione regolamentare
mentre sugli aerei è previsto) oltre che di guinzaglio (comunque necessario al non vedente
per usufruire del proprio ausilio a quattro zampe).
Per i cani guida non è necessario avere con sè il certificato di iscrizione all'anagrafe canina
e non si applicano tutti gli altri obblighi/vincoli previsti in via generale per i cani.
Questa è una diretta applicazione del principio di
uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) ma, soprattutto, è
una necessaria misura atta a garantire il diritto
inviolabile della persona a muoversi liberamente, a
condurre una vita dignitosa ecc. in adempimento del
dovere inderogabile di solidarietà sociale (art. 2 Cost.).
Inoltre, le medesime regole più favorevoli sono estese
anche ai conduttori/proprietari dei cani poliziotto e di
quelli destinati
alle operazioni di salvataggio. Tanto
per evidenti motivi di sicurezza ed ordine pubblico.
Ma non solo perchè ricordiamo, seppure brevemente,
che i cani prima del loro "arruolamento" devono essere
sottoposti ad accurate visite sanitare (esami clinici,
Molti tra i cani poliziotto e quelli destinati
alle operazioni di salvataggio (in tutto il
mondo) sono "reclutati" tra i meticci.
Grazie a tutti i volontari dell' "Ass.
Progetto Aiuta un cane a Vivere"
radiografie ecc) e debbono superare anche diverse prove psico-attitudinali, al fine di
valutare la presenza dei requisiti caratteriali e psicofisici necessari per svolgere le loro
eventuali future mansioni.
Ciò garantisce, pertanto, una certa selezione tra gli animali che sarano poi destinati a tali
funzioni. Soprattutto perchè quando si parla di requisiti psicofisici ci si intende riferire non solo
alla prestanza fisica ma soprattutto alla pazienza, alla perseveranza ed all'equilibrio del
cane. Solo dopo aver superato tutte queste selezioni, mediche e psico-attitudinali, il cane
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Pag. 182
inizia la sua "specializzazione"
per essere destinato successivamente alle più disparate
attività quali l'antidroga, il soccorso soprattutto nelle situazioni causate dalle calamità
naturali, nella polizia giudiziaria o nei servizi antiesplosivo.
N.B.: I prossimi approfondimenti saranno concentrati su: il maltrattamento degli animali e gli animali ed
il Codice della Strada: il reato di omissione di soccorso ad animale ferito e riconoscimento dello "stato
di necessità". Inoltre, la scheda pratica relativa ai nostri doveri in caso di incontro di un randagio. Ogni
domanda, osservazione, richiesta, proposta e/o contributo sarà ben accetto.
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Pag. 183
Il brocardo del mese
di Pietro Algieri
Iuris et de iure - iuris tantum
La storia delle presunzioni è molto antica. La tradizione ebraica ha
tramandato ai posteri la proverbiale sapienza di Re
Salomone,
esemplificandola nelle Scritture con il noto giudizio sulla controversia tra
due donne che si contendevano la maternità del medesimo bambino ;
la contesa fu decisa proprio sulla scorta di una presunzione semplice,
che suggerì al re che la vera madre fosse quella disposta a perdere il
figlio, piuttosto che vederlo morire. Ancora, tra le antiche leggi indiane il
c.d. codice di Manù conteneva diverse
presunzioni legali circa la
mendacità dei contendenti e dei testimoni in un processo. A prescindere
da tali riferimenti normativi risalenti nel tempo, tuttavia, l’istituto delle
“presunzioni” entra a far parte a pieno titolo della storia del diritto in
concomitanza con le prime costruzioni: in particolare, con lo sviluppo del
diritto romano.
Lo strumento presuntivo, inizialmente di valenza prettamente persuasiva,
diviene col tempo anche meccanismo legale di prova e di ripartizione
degli oneri. probatori; ben nota, tra le prime, è ad esempio la c.d.
praesumptio Muciana, in virtù della quale si presumevano provenienti dal
marito i beni di cui non fosse nota l’origine: anche tale presunzione non
aveva all’inizio valore legale,
ma lo assunse senz’altro in seguito, in
consonanza con quello che storicamente è il processo di affermazione
delle presunzioni iuris Entrate a far parte del panorama giuridico, le
presunzioni non ne uscirono con la caduta dell’Impero romano; la loro
applicazione non si interruppe, ma anzi fu a
tratti valorizzata dalla
tendenza alla prevalenza della prova legale sul libero convincimento del
giudice; si avviò uno studio approfondito dell’istituto, che
interessò i
glossatori, i commentatori, gli umanisti; in particolare, fondamentali per la
sistemazione teorica della materia furono le opere di Andreas Alciatus
(Tractatus de praesumptionibus, 1551) ed ancor più di Jacobus
Menochius (De praesumptionibus, coniecturis, signis et indicis, 1590); nel
Nuove frontiere del diritto
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Le presunzioni
prendono corpo
nell’ambito delle
prove artificiales
(έντεχνоι nella
terminologia
aristotelica), ossia
quelle fondate su
operazioni logiche
che, tramite il noto
o il verosimile e in
opposizione al
metodo
dimostrativo,
cercano di
conferire all’ignoto il
più alto grado di
attendibilità. Tale
mezzo di prova
veniva definito dai
Roman con la la
denominazione di
“argumentum o
argumentat”: esso è
fondato sulla opinio
posita in communi
omnium intellectu,
perfettamente
corrispondente,
ancora, alle κοίναι
έννοιαι dei Greci,
anche definite
πρόληψις; Seneca
traduce tale ultimo
termine con la
parola latina
praesumptio
Pag. 184
solco di tali impianti
soprattutto a
si muovono anche i trattatisti del XVII e XVIII secolo, impegnati
superare il precedente approccio casistico e a dar corpo di sistema alla
tematica Sforzo proseguito nel corso dell’‘800, ultimo secolo in cui la materia pare meritare
in dottrina un approccio monografico: eppure, la legislazione sino ai giorni nostri ha
continuato ad operare riferimenti – più o meno espliciti – all’istituto delle presunzioni. – Si
suole tradizionalmente definire la presunzione come quel procedimento probatorio che, da
un fatto noto, consente di inferire la sussistenza di un fatto ignoto direttamente rilevante per
l’applicazione del diritto. Questa definizione appare certamente assai generica, e capace
di ricomprendere fenomeni per la verità piuttosto diversi tra loro.
Così, da sempre i giuristi hanno tentato di distinguere e classificare le differenti forme in cui
esse si presentano.
La prima e fondamentale distinzione deriva
presuntiva.
In tale ottica, si sono così
dalla fonte giustificativa dell’operazione
differenziate le “presunzioni legali”, dette anche
praesumptiones iuris, da quelle “semplici”, dette anche praesumptiones hominis. Ora,
mentre le presunzioni semplici sono notoriamente quelle che la legge lascia al libero
apprezzamento del giudice; le presunzioni legali sono, invece, quelle che trovano il loro
fondamento nella legge e che, pertanto, impongono al giudice di considerarle come validi
elementi di prova senza lasciarne il giudizio al suo libero apprezzamento. A sua volta, nelle
ipotesi di presunzioni legali si possono avere due diversi livelli di intensità: in un caso,
praesumptiones iuris et de iure meglio note come presunzioni assolute, la resistenza della
presunzione è massima, tale per cui nessuna prova del contrario può scalfire l’equivalenza
stabilita dal legislatore; nell’altro, praesumptiones iuris tantum più conosciute come
presuzioni relative, invece, è data la possibilità di provare la non corrispondenza a realtà di
quanto ipotizzato come veritiero.
Ritornando alle presunzioni semplici si può precisare che la fonte dell’equiparazione tra il
fatto noto e quello ignoto consisterebbe in una massima di esperienza che, sulla base dell’id
quod plerumque accidit, consentirebbe di affermare per via logico-induttiva che, data la
nota sussistenza di x, sia assai probabile la presenza dell’elemento y, che, pertanto, viene
assunto per vero. In altre parole, il giudice, al fine di accertare la sussistenza di un elemento
rilevante per l’applicazione del diritto, potrebbe far riferimento ad un fatto
noto per
dedurne logicamente (ma sulla base di un’indagine empirica) la presenza anche del fatto
ancora ignoto. L’elemento probabilistico, vera e propria anima delle presunzioni semplici,
sarebbe in realtà molto spesso ratio giustificativa anche delle legali; così, il legislatore,
proprio sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, sceglierebbe di imporre la correlazione
statistica in via generale, così da semplificare normativamente l’accertamento giudiziale. Da
ciò, come si vedrà, è sorto l’equivoco di voler sempre ravvisare nella presunzione legale la
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Pag. 185
positivizzazione per via giuridica di una valutazione probabilistica, ritenuta dal legislatore
tanto fondata da essere imposta erga omnes, giudice compreso; e proprio sulla falsa riga
di tale impostazione, si è addivenuti ad escludere dal novero della nozione che qui ci
occupa tutte quelle vicende che non apparivano spiegabili in termini di alta frequenza
statistica: con il risultato di non cogliere talune correlazioni con la tematica dell’onere della
prova,
di
ridurre
aprioristicamente
l’ampiezza
della
categoria
in
simmetricamente, di sfornire di un’adeguata collocazione fenomeni
questione
e,
assolutamente
analoghi sul piano degli effetti; che è ciò che più rileva. L’id quod plerumque accidit non è
infatti l’unico fondamento giustificativo delle
presunzioni legali; in primo luogo, per la
considerazione generale per cui l’esperienza del legislatore potrebbe non coincidere con
quella del giudice; ma soprattutto, perché la norma ha il potere di porre una presunzione
prescindendo da qualsiasi frequenza probabilistica, perseguendo solo finalità di utilità o
opportunità, senza che ciò infici la validità della presunzione stessa. Pertanto, può senz’altro
affermarsi in via di principio la neutralità della presunzione legale in punto di attendibilità
storica del fatto presunto: ogniqualvolta il legislatore sostituisca alla prova del fatto y la (più
agevole) dimostrazione del fatto x, non interessa verificare che effettivamente tra i due vi
sia una ragguardevole correlazione statistica; al contrario, il disposto normativo surrogherà
qualsivoglia valutazione empirica, imponendo con la forza della legge un accertamento
mancante. La classificazione qui proposta – presunzioni legali, assolute e relative, e
presunzioni semplici – è assai risalente, ed è stata da più parti ed in più parti confutata,
integrata, ridefinita. Tuttavia, assume ancora oggi valore convenzionale, ed in quanto tale
viene costantemente riproposta anche ai giorni
nostri, pur con le dovute cautele e
precisazioni.
Ed essa risulta accolta anche nel vigente codice civile, agli art. 2727 ss.; l’art. 2727 c.c., in
particolare, definisce le presunzioni come “le conseguenze che la legge o il giudice trae da
un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. La definizione legislativa, tuttavia, va integrata
con un opportuno richiamo alle particolari caratteristiche che deve possedere il fatto noto
posto a fondamento del procedimento presuntivo, e costituente la species della prova
critica. In tale prospettiva, ciò che lo differenzia rispetto ad una qualsiasi fonte di prova della
species rappresentativa è la sua natura non artificiale, ossia non preordinata a provare il
fatto ignoto, ma di semplice
argomento da cui desumerlo. La prova rappresentativa,
invece, nasce proprio con la destinazione e la funzione di descrivere una realtà fenomenica
ed in quanto tale è proposta al giudice. Proprio per questo, vi è chi ha considerato la
presunzione come fonte probatoria primordiale, posta alla base di ogni argomentazione
dimostrativa: il valore della
testimonianza, ad esempio, poggerebbe sulla generale
presunzione di veridicità degli uomini Tuttavia, tale opinione è eccessiva: la sussistenza e la
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Pag. 186
fondatezza di tale presunzione di veridicità ci sembrano tutte da dimostrare, né essa appare
corrispondente
alla
realtà
del
procedimento
probatorio;
sempre
restando
alla
testimonianza, essa non ha affatto valore di per sé, né lo acquista in virtù di una qualsivoglia
presunzione; al contrario, tale mezzo di prova necessita di volta in volta di un vaglio, di una
valutazione, tale per cui possa affermarsi che il narrante sia sincero e il narrato veridico.
Astrattamente meno infondata, invece, ci appare altra ipotesi: quella di tener ferma la
definizione legislativa, e sulla base della sua genericità ritenere che ogni mezzo di prova sia
in realtà esso stesso una presunzione, ovverosia una prova
critica A sostegno della tesi
potrebbe appunto invocarsi che sempre l’accertamento di un fatto ignoto parte da un
fatto noto, e che il procedimento presuntivo sia sempre il medesimo, ossia l’affidamento a
massime di esperienza (o a precetti giuridici) che ci convincano che dal fatto noto sia dato
assumere per vero l’ignorato Si potrebbe obiettare che, ad opinare così, si priverebbe di
autonomia la categoria
relativa disciplina.
della prova critica, ma soprattutto si priverebbe di oggetto la
Gli argomenti, però, non appaiono decisivi: l’eventuale assenza di
un’etichetta legislativa ad hoc per la prova critica presuntiva non è di per sé un ostacolo, se
prima non si dimostra che tale categoria meriti di essere isolata e diversamente
regolamentata: in caso contrario, vale il brocardo
entia non sunt multiplicanda
sine
necessitate. Quanto invece alla disciplina già prevista per le presunzioni quale mezzo di
prova a sé, a prescindere dalla scarsità quantitativa delle indicazioni legislative
andrebbero “perdute”, nulla osterebbe a ritenerle applicabili a qualsiasi
che
prova: se, ad
esempio, le presunzioni semplici “sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve
ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti” (art. 2729 c.c. Tuttavia, se de iure
condendo la tesi proposta può apparire non irragionevole, per
ulteriore approfondimento, de iure condito
essa si scontra
legislativo, che pone le presunzioni sullo stesso piano
quanto meritevole di
con l’inequivoco disposto
degli altri mezzi di prova;
probabilmente il legislatore non si è avveduto che il procedimento presuntivo (legale e
semplice), peraltro disciplinato con la
inconsapevole genericità che si è sottolineata,
potrebbe porsi quale “meccanismo di funzionamento” di tutte le prove, legali e non; ma
l’impostazione prescelta dal codice civile non ci appare superabile da alcuna ricostruzione
alternativa, per quanto fondata. Pertanto la definizione ivi contenuta può essere integrata,
in virtù di una lettura
sistematica che tenga conto degli altri mezzi di prova disciplinati
altrove nel testo normativo, specificando – nei termini che si è visti – la particolare natura del
fatto noto posto a base del procedimento presuntivo.
sebbene prova rappresentativa e prova critica siano
E può anche aggiungersi che,
fenomeni concettualmente
distinguibili, essi nella realtà interferiscono e si sovrappongono: accade laddove la prima
funga da dimostrazione del fatto noto da cui scaturisce la seconda ed anche laddove la
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Pag. 187
prova indiziaria serva comunque ad argomentare e giustificare l’attendibilità di quella
narrativa.
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 188
Spigolature
La buona fede
di Samantha Mendicino
Il richiamo al principio della buona fede pare essere un lietmotive del nostro ordinamento in
tema di rapporti giuridici e/o di esercizio di diritti o poteri dei privati: lo individuiamo nel
codice civile119 e lo ritroviamo anche nelle leggi speciali120. Ma, in concreto: cos'è la buona
fede?
119
Ex multis: 1) artt. 1175 c.c., in materia di obbligazione: " Il debitore e il creditore devono comportarsi
secondo le regole della correttezza"; 2) art. 1328 c.c., in materia di revoca della proposta contrattuale,
" La proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se l'accettante ne ha
intrapreso in buona fede l'esecuzione prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto a
indennizzarlo delle spese e delle perdite subìte per l'iniziata esecuzione del contratto..."; 3) art. 1337
c.c., in materia di responsabilità precontrattuale, "le parti, nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede"; 4) art. 1358 c.c., contratti
sottoposti a condizione, "colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione
sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione,
comportarsi secondo buona fede onde conservare integre le ragioni dell'altra parte"; 5) art. 1366 c.c.,
in tema di interpretazione, "il contratto deve essere interpretato secondo buona fede"; 6) art. 1375 c.c.,
in materia contrattuale,: "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede"; 7) art. 1460 c.c., in
tema di eccezione d'inadempimento, "Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei
contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di
adempiere contemporaneamente la propria , salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati
stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi l'esecuzione se, avuto
riguardo alle circostanze , il rifiuto è contrario alla buona fede"
120
Codice del consumo, D. Lgs. n. 206/2005, art. 33, in materia di vessatorietà delle clausole contenute
nei contratti del consumatore, "Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si
considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del
consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto..."; il cd. Statuto
del contribuente, L. n. 212/2000, art. 10, in materia di rapporti tra Fisco e contribuente, “i rapporti tra
contribuente ed amministrazione sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede
Nuove frontiere del diritto
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Pag. 189
Partendo dal suo concetto di base, ricordiamo che secondo l'art. 1147/I co. cc (in materia di
possesso ma riferibile anche alla invalidità contrattuale che fa salvi i beni acquistati dal terzo
in buona fede) "E’ possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto.
La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave. La buona fede e presunta
e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto". Dunque, già identifichiamo una buona fede
in senso soggettivo, intesa come “ignoranza di ledere l’altrui diritto senza dolo o colpa
grave” ed una buona fede in senso oggettivo, nota più generalmente come correttezza,
che individua e richiama le regole di comportamento. L'obbligo di buona fede-correttezza è
un autonomo dovere giuridico ed una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà
sociale ex art 2 Cost.
La sua finalità principale è quella di rappresentare una formula di chiusura dell'ordinamento
giuridico: a tal proposito, nel richiamare il contenuto di Spigolature nel n. 1 della rivista (in
tema di clausole generiche e/o elastiche121) ricordiamo qui brevemente che anche la
buona fede fa parte di quelle clausole di salvezza che evitano che l'applicazione rigida e
formale della legge si trasformi in ingiustizia sostanziale secondo il noto brocardo summum ius
summa iniuria.
Dunque, abbiamo precisato che la buona fede intesa come clausola generale è la buona
fede oggettiva e, dunque, essa è sinonimo di correttezza. Oggi, però, la buona fede da
strumento di valutazione del comportamento122 delle parti (in conformità al regolamento
e che non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia
conformato
ad
indicazioni
contenute
in
atti
dell’amministrazione
finanziaria,
ancorchè
successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti
posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni ed errori
dell’amministrazione”; ecc.
121
122
Spigolature, Nuove frontiere del diritto, n. 1, pag. 303 e ss. Disponibile su www.nuovefrontierediritto.it
Non dimentichiamo che mentre la violazione di norme inderogabili concernenti la validità
comporta la nullità dell'atto; invece, la violazione di norme inderogabili concernenti il comportamento
comporta una responsabilità di tipo risarcitorio. Ex multis ricordiamo Cass. Civ. SS.UU., sent. n.
26724/2007 in tema di responsabilità dell'intermediatore finanziario, secondo cui " ... la violazione dei
doveri di informazione del cliente e del divieto di effettuare operazioni in conflitto di interesse con il
cliente o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente stesso, posti dalla legge a carico dei soggetti
autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, non danno luogo ad una nullità del
contratto di intermediazione finanziaria per violazione di norme imperative. Le suddette violazioni, se
realizzate nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto, danno luogo a
responsabilità precontrattuale con conseguente obbligo di risarcimento del danno; se riguardano,
invece, le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto, danno
luogo a responsabilità contrattuale per inadempimento (o inesatto adempimento), con la
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Pag. 190
negoziale) è divenuta essa stessa fonte di obbligazioni ulteriori, e non pattuiti, per le parti
contrattuali. Essa non sarebbe, dunque, espressione del generale principio del neminem
ledere (art. 2043 c.c.) bensì fonte di obblighi di protezione (rectius obblighi ulteriori rispetto
alla prestazione) che nascono in occasione dell’incontro delle parti contrattuali. Da questo
ragionamento ben si può comprendere la differenza tra la buona fede e la diligenza:
mentre quest'ultima impone l'adempimento degli obblighi inseriti nel contratto, indicando la
"misura del dovere" (cioè il contenuto del comportamento che il debitore deve assumere);
la buon fede
richiede l'adempimento di quei doveri che, sebbene non cristallizzati nel
contratto, risultano per il nostro ordinamento doverosi.
Ed ancora, sottolineaiamo un'altra differenza: quella tra la buona fede ed equità. La prima è
una clausola generale mentre la seconda può essere definita come la giustizia del caso
concreto. Ciò anche se è stato osservato che il confine tra esse è evanescente: il giudice
nell'applicare la buona fede o l'equità, in termini concreti, compie operazioni simili123.
Ma tornando ad approfondirne il significato, si intende evidenziare che la circostanza che la
buona fede abbia assunto una notevole importanza ai giorni attuali è il frutto di una
conquista avvenuta mediante una lenta e lunga evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale
che possiamo sinteticamente ripercorrere al fine di poter meglio comprendere l'attuale
portata di questa clausola generale.
Si è già detto che originariamente il suo concetto coincideva con la nozione di correttezza
e, dunque, la buona fede rappresentava (ed anche oggi rappresenta) uno strumento di
valutazione dei comportamenti.
Ma non passa molto tempo e la prima tappa evolutiva vede la buona fede trasformata, in
ossequio all'art. 2 Cost., a strumento di integrazione degli obblighi contrattuali: dunque, è in
virtù della buona fede che le parti del contratto sono tenute non solo ad eseguire ciò che è
contrattualmente previsto ed, in via integrativa, i comportamenti imposti dalla legge, dagli
usi e/ dall'equità ma anche ad assumere quelle condotte solidali (ex art. 2 cost.) che
risultano rispettose degli interessi della controparte.
Non solo: il contenuto della buona fede, ben presto, dimostra la sua naturale propensione a
rappresentare il limite all'esercizio del diritto del singolo a garanzia della funzione allo stesso
conseguente possibilità di risoluzione del contratto stesso, oltre agli obblighi risarcitori secondo i principi
generali in tema di inadempimento contrattuale" (dal sito www.cortedicassazione.it e, precisamente,
http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniUnite/SchedaNews.asp?ID=1841).
Oppure: Cass. Civ, ord. n. 3683 del 16 febbraio 2007, nota di SCODITTI, Regole di comportamento e
regole di validità nei contratti su strumenti finanziari: la questione alle sezioni unite in Foro Italiano I, 2007,
2093.
123
SACCO R., Il contratto, in Tratt. Dir. Civ., diretto da Vassalli, vol. IV, Torino, 1975, pag. 798 e ss.
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Pag. 191
diritto attribuito dalla legge. Da qui discende il collegamento tra la buona fede ed il
generale divieto dell'abuso del diritto con tutte le sue applicazioni (tra cui l'exceptio doli
generalis124). In breve: anche quando alcuni comportamenti ricevono l'avallo normativo da
parte dell'ordinamento, ciò non toglie che essi possano essere vietati funzionalmente. E ciò
accade quando questi siano posti in essere per fini fraudolenti o capricciosi che sviano la
funzione inizialmente attribuita loro dalla legge: ciò che sul piano formale è un diritto/potere
della parte, secondo la legge, diviene sul piano sostanziale un abuso dello stesso
diritto/potere125.
Sul piano sanzionatorio la violazione della buona fede, in tutte le suesposte accezioni,
prevede il rimedio del risarcimento del danno (sub specie di responsabilità contrattuale o
extracontrattuale) oppure, nei casi più gravi, della risoluzione per inadempimento, oppure
ancora, l'applicazione dell'exceptio doli generalis contro l'azione che rappresenti esercizio
abusivo del diritto.
Tuttavia di recente, la giurisprudenza, soprattutto in materia di contratti del consumatore, ha
prospettato la possibilità che la buona fede (elevata a mezzo di controllo dell'autonomia
negoziale) assurga a vera e propria regola di validità del contratto. E' evidente che da
questa premessa ne deriverebbe, sul piano sanzionatorio, che alla sua violazione fa seguito
la nullità virtuale della stipulazione (art. 1418 c.c.): tanto quale conseguenza della violazione
della norma imperativa che impone condotte corrette in sede di stipulazione.
124
C'è da
Alcuni esempi: - nell'ambito dell'aumento del capitale sociale, qualora esso sia finalizzato
all'estromissione di uno o più soci; - nell'ambito del contratto autonomo di garanzia, qualora il creditore,
dopo aver già ricevuto il pagamento dal debitore principale, maliziosamente pretenda (essendogli
consentito dalla legge, in base alla regola della autonomia dei relativi rapporti) l'adempimento anche
dal garante "a prima richiesta" (il quale avrà salva la possibilità di regresso nei riguardi del garantito)
ecc. Ancora: - la L. 192/1998, sulla disciplina della subfornitura nelle attività produttive, che fa espresso
riferimento al divieto di abuso dello stato di dipendenza economica nella quale si trova una impresa
cliente o fornitrice nei confronti di un’altra impresa; - l'ipotesi di doppia alienazione immobiliare; Il detto
principio esiste anche in diritto tributario: “Il giudice comunitario ha affermato il principio dell’abuso del
diritto in materia tributaria secondo cui: non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed
eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale” (Cass., sez. trib, sent. n. 22932/2005 e di pari
tenore: Cass. sez. trib., sentt. n. 21221/2006 e n. 20398/2005)
125
L'orientamento giurisprudenziale e dottrinario moderno ammettono l'esistenza nel nostro sistema
giuridico del divieto dell'abuso del diritto che, altro non sarebbe, se non una categoria generale nella
quale far rientrare ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela per essere stato esercitato al di
fuori dei limiti stabiliti dalla legge. Esempi tipici sono: - l'abuso della cosa da parte del creditore
pignoratizio; - il divieto di concorrenza sleale (art 2598 c.c.); - la minaccia di far valere un diritto (art
1438 c.c.); - l’abuso della potestà genitoriale ecc.
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Pag. 192
precisare, però, che tale interpretazione è stata utilizzata in materia di contratti di
intermediazione finanziaria da quella parte di giurisprudenza che ha intravisto nella
omissione degli obblighi informativi (che l'intermediario finanziario deve assolvere in favore
del risparmiatore/investitotre) un comportamento contrario a buona fede a tal punto da
inficiare la validità stessa dei contratti conclusi126 (punibili con la loro nullità).
Non appare un fuor d'opera il menzionare, infine, che la necessità del rispetto della clausola
della buona fede si è estesa altresì all'attività amministrativa, iure privatorum o autoritativa. Si
richiama, a tal uopo, la sentenza pronuciata dal Consiglio di Stato n. 3536/2008 in cui si
verteva di un contenzioso ove la P.A. veniva accusata di aver indotto in errore il privato in
buona fede: “... nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione,
l’amministrazione è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di
legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento
secondo buona fede, cui corrisponde … l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli
del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo
affidamento127”.
126
Non si dimentichi, tuttavia, che -al di là dei contrasti di vedute in merito- resta regola immanente nel
nostro ordinamento giuridico la distinzione tra norme di comportamento, la cui violazione dà origine a
responsabilità aprendo la strada anche al rimedio della risoluzione, e norme di validità dei contratti, la
cui violazione incide sulla genesi del contratto determinandone la nullità. Ciò si precisa perchè è la
stessa giurisprudenza (proprio in tema di obblighi di informazione gravanti sugli intermediari finanziari
nella prestazione dei servizi di investimento) a ribadire tale distinzione
127
Si possono leggere in materia anche: - Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1441/2012, in materia di
correttezza nella negoziazione precontrattuale della P.A.; - Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3384/2007, in
materia di correttezza negli appalti della P.A.; - Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 6190/2006 ecc.
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Pag. 193
Rassegna stampa
FRANCIA:
SCIENTOLOGY CONDANNATA
TRUFFA
setta di Scientology. David Miscavige, il
leader della setta, è accusato di plagio e
riduzione in schiavitù di alcuni membri di
PARIGI - La corte di appello di Parigi ha
Scientology. E il divo hollywoodiano, fra i
condannato oggi per truffa e associazione
fedeli più famosi, sarebbe tra coloro che
a delinquere le principali strutture francesi
hanno utilizzato squadre di operai dando
di
loro una paga da fame, 50 dollari a
Scientology,
confermando
una
sentenza precedentemente emessa. La
settimana,
giustizia
di
manovalanza sottopagata che avrebbe
"avere approfittato della vulnerabilità di ex
offerto la propria disponibilità alla star
adepti per sottrarre loro importanti somme
proprio e solo in virtù dell'appartenenza
di denaro". Il Celebrity Centre e la libreria
alla setta che richiede a tutti i suoi adepti
Sel dovranno pagare rispettivamente una
una abnegazione totale. La Chiesa di
multa di 400 mila e 200 mila euro di danni.
Scientology Internazionale, da parte sua,
rimprovera
ai
condannati
scrive il
New Yorker. Una
smentisce, rendendo noto che «non è mai
Pubblicato il 02/02/2012 dall'ANSA
stato notificato alcunché, cosa di cui il
New
Yorker
MEMBRI DI SCIENTOLOGY RIDOTTI IN SCHIAVITÙ
conoscenza
ORA L'FBI INDAGA ANCHE SU TOM CRUISE
l'articolo».
era
perfettamente
prima
di
a
pubblicare
L'INDAGINE - Nel dicembre 2009 gli agenti
IL DIVO AVREBBE APPROFITTATO DEL FATTO
di una task force dell'Fbi che si occupa
CHE LA SETTA RICHIEDE
della tratta di esseri umani sarebbe stata a
AGLI
ADEPTI
ABNEGAZIONE TOTALE. L'ATTORE AVREBBE
colloquio
UTILIZZATO SQUADRE DI OPERAI DANDO
Scientology. Alcune ex seguaci della
LORO UNA PAGA DA FAME, 50 DOLLARI A
comunità religiosa avrebbero detto agli
SETTIMANA
investigatori di essere state costrette ad
Sarebbe coinvolto anche Tom Cruise,
abortire su richiesta della loro guida
stando
spirituale. Il codice penale della California
a
quanto
riportano
i
media
con
serie
di
membri
indicatori
di
americani, nell'indagine su cui l'Fbi lavora
elenca
da oltre un anno che è relativa a un
rientrano nella categoria «mercato degli
presunto mercato di esseri umani nella
esseri umani»: segni di trauma o di fatica,
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Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
una
alcuni
che
Pag. 194
la paura o l'impossibilità di parlare a causa
affidandosi totalmente a lui. Jett Travolta,
della censura imposta da altri o misure di
primogenito di Mr Pulp Fiction e Kelly
sicurezza
la
Preston, è morto venerdì mattina dopo
comunicazione. Tali condizioni sono state
aver battuto la testa nella vasca da
confermate dalle testimonianze di molti ex
bagno della villa delle Bahamas mentre
membri
sfruttamento
era in vacanza con i genitori e la sorellina
economico di Scientology dei suoi membri
Ella Bleu, di otto anni. Forse ha avuto un
e
attacco
le
che
della
impediscono
setta.
pratiche
Lo
brutali
seguite
dalla
cardiaco,
forse
una
crisi
comunità religiosa sono sempre state ai
epilettica: questo lo stabilirà l'autopsia
confini della legalità, e a quanto sembra
disposta dalle autorità per domani. Di Jett,
L'Fbi sospetta che si siano trasformate in
è certo solo che aveva la sindrome di
vera schiavitù.
Kawasaki, una malattia che provoca
l'infiammazione dei vasi sanguigni nei
Pubblicato
il
09/02/2011
su
corrieredellasera.it
bambini e che, in forma grave, può
causare seri problemi al cuore.
La dinamica dell'incidente è stata ritrattata
con il passare delle ore. Il sito Tmz.com,
SCIENTOLOGY E LA MALATTIA NEGATA: TRAVOLTA
che per primo ha rilanciato la notizia
JR, FIGLIO MAI CRESCIUTO
citando fonti locali, ha scritto che Jett era
stato visto vivo l'ultima volta giovedì sera,
MORTO A 16 ANNI. PER L'ATTORE NON
quando stava entrando in bagno. Il
SOFFRIVA DI AUTISMO: «MIGLIORÒ GRAZIE
ragazzino è stato poi trovato inerte per
ALLA CHIESA DI HUBBARD». LA VERSIONE
terra dalle due nannies il mattino dopo
DELLA
DELLA
alle dieci. La corsa in ambulanza al Rand
INDOTTA
Memorial Hospital di Freeport è stata
DALL’ECCESSO DI DETERSIVI USATI PER
inutile: qui i medici non hanno potuto che
DISINFETTARE LA CASA
constatarne il decesso. Questa la cronaca
Un bambino nel corpo di un ragazzone.
riportata nel bollettino della polizia di Old
Avrebbe compiuto diciassette anni ad
Bahama Bay. Micheal Ossi, il legale di
aprile. Ma lo sguardo, l'espressione, i
John Travolta, ha però negato che Jett sia
movimenti, tradivano l'ingenuità ancora
rimasto per tante ore da solo senza aiuto.
infantile. Appare così nell'ultimo, rarissimo,
E ha anche puntualizzato che la morte
video «rubato» a Parigi lo scorso dicembre
sarebbe
e ritrasmesso adesso dalla Cnn, dove un
ricovero.
po' spaesato dalle telecamere, la bocca
L'esatta sequenza non attenua la tragedia
aperta, stringeva la mano del padre,
che ha colpito l'attore hollywoodiano e
FAMIGLIA:
SINDROME
DI
SOFFRIVA
KAWASAKI,
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
avvenuta
due
ore
dopo
il
Pag. 195
sua moglie. «Il padre è sconvolto, aveva
campione di football Doug Flutie e la
un rapporto molto stretto con il figlio», ha
cantante Toni Braxton, non si era mai
raccontato un altro avvocato, Michael
voluto impegnare nella raccolta fondi o
McDermott.
nelle
«Trascorrevano
tantissimo
campagne
di
sensibilizzazione.
tempo insieme, lo portava sempre con lui,
Sempre l'Hollywood Interrupted nel 2006
erano molto attaccati», ha aggiunto Obie
ne denunciò l'assenza a Los Angeles
Wilchombe, membro del Parlamento ed
all'anteprima del documentario Normal
ex ministro del Turismo delle Bahamas. I
People Scare Me, le persone normali mi
fan dell'attore di film indimenticabili come
spaventano,
La febbre del sabato sera e Grease hanno
prodotto da Joey Travolta, sorella di John.
già
«Scientology
creato
gruppi
commemorativi
su
dedicato
—
scrisse
all'autismo
allora
—
non
Facebook («R.I.P Jett Travolta» ha raccolto
permette di
oltre 800 adesioni in meno di un giorno). E
neurologico, non concepisce l'idea che si
magari
imperfetto,
possa trattare con i farmaci. I Travolta
qualcuno ha rilanciato alla star una
hanno sempre spiegato la disabilità del
vecchia accusa: «John, perché non hai
figlio
mai
dicendo che a provocarla erano state le
con
tempismo
ammesso
che
tuo
figlio
era
con
riconoscere un
e
la
Sindrome
di
disordine
Kawasaki,
autistico?».
tossine ambientali prodotte dai detersivi
Il sito Hollywood Interrupted ripropone ora
domestici».
una intervista del 10 maggio 2007 a Tim
confessato nel 2001 in un'intervista a Larry
Kenny, gestore di un ristorante a Ocala, in
King: «Jett a due anni quasi morì. Ebbe un
Florida, dove ha casa la famiglia Travolta.
attacco terribile, tremava tutto, la febbre
«Quando venne da me con sua figlia gli
alta. Lo portammo all'ospedale e gli
chiesi, da padre a padre di una bambina
diagnosticarono la sindrome. A lungo fui
autistica, se faceva seguire qualche cura
ossessionato dai germi che mio figlio
particolare a Jett. Lui rispose che cercava
poteva prendere dentro e fuori casa.
di stimolarlo nelle arti. E si offrì di spedirmi
Grazie
un libro di Scientology... Ecco, non posso
detossificazione proposto da Scientology
dire che quel ragazzino abbia subito degli
le sue condizioni di salute sono molto
abusi, ma di sicuro Scientology ha una
migliorate». La Chiesa di Ron Hubbard fu
grossa responsabilità nella negligenza con
tempio e certezza. Anche ora? (OMISSIS)
a
John
un
Travolta
lo
aveva
programma
di
cui è stato curato». Altri familiari di autistici
avevano manifestato la loro amarezza sul
Pubblicato
il
Sunday Telegraph nel 2007, per il fatto che
corrieredellasera.it
04/01/2009
su
l'attore, a differenza di altre celebrità
come
il
collega
Sylvester
Stallone,
il
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
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NUORO: LIBERATA FRANCESE SEQUESTRATA DA TRE
scritte richieste di aiuto. L’uomo ha subito
CONNAZIONALI APPARTENENTI A SCIENTOLOGY
avvertito le forze dell’ordine che, fatta
irruzione nell’abitazione, hanno scoperto
UN CITTADINO DEL POSTO HA TROVATO UN
al primo piano i tre francesi e al secondo
BIGLIETTO CON RICHIESTA D'AIUTO FUORI
la donna di origine tunisina, seminuda e in
DALLA CASA. LA DONNA, UNA 47ENNE DI
pessime condizioni igienico-sanitarie: di
ORIGINE
TENUTA
fatto era costretta a vivere in una stanza
PRIGIONIERA IN UN CASOLARE SUL MONTE
piena di rifiuti e a dormire su un materasso
ORTOBENE
sporco e pieno di insetti. Mentre la donna
NUORO - Un sequestro di persona. A cui
veniva
potrebbe essere non estraneo il movente
un’ambulanza del 118 in ospedale, gli
religioso. Gli agenti della squadra mobile
agenti della polizia hanno arrestato con
di Nuoro hanno liberato domenica sera
l’accusa di sequestro di persona i tre
una 47enne francese di origine tunisina
francesi: Decouduh Marie Calude 42 anni,
sequestrata
Kabbara Rachid Hassereldith 18 anni,
TUNISINA,
da
tre
ERA
connazionali,
tutti
fatta
accompagnare
Julien
18
adepti della setta religiosa di Scientology,
Queyrou
in un casolare nel cuore della Sardegna, in
accertamenti
località Monte Ortobene.
accompagnati nel carcere di Badu e
LA LIBERAZIONE - L’operazione è partita
Carros.
di
anni.
rito
Dopo
da
sono
gli
stati
dopo la segnalazione di un cittadino del
posto, che nei pressi di un casale rurale
Pubblicato
aveva trovato alcuni biglietti di carta con
corrieredellasera.it
Nuove frontiere del diritto
Rivista mensile telematica a carattere giuridico-scientifico
il
21/01/2008
su
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Il feilleuton
LICEO A LUCI ROSSE
Romanzo breve in 12 capitoli
gentilmente ed esclusivamente scritto per la Rivista
da Paola Lena
Nuove frontiere del diritto
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Quarto Capitolo
Amfetamine
Mi sono precipitata in strada in cerca della mia macchina parcheggiata chissà
dove. L’ho trovata per puro caso, completamente dimentica di dove l’avessi
lasciata, tanto ero fuori di me. Prima di chiudere la porta di casa alle mie spalle ho
controllato il sonno regolare di Lorenzo. Avevo pochi secondi per decidere come
comportarmi con lui, se svegliarlo e portarlo con me o lasciarlo dormire. Ho
immaginato la scena, mi sono vista scuoterlo con agitazione, vederlo aprire gli
occhi con fatica, alzarsi con riluttanza sollecitato dalle mie urla disperate, osservarlo
spazientita, nel momento in cui avrebbe iniziato a piangere confuso e disorientato.
Decidere di lasciarlo dov’era è stata la conclusione più logica, l’unica attuabile in
quel momento. Gli ho scritto un messaggio su un foglio sopra il tavolo della cucina:
“Tesoro, sono andata a prendere Adele all’uscita dalla discoteca. Se hai bisogno
puoi chiamarmi sul cellulare. Baci Mamma”,
annotando il numero del mio
telefonino subito dopo. L’eventualità che possa svegliarsi è davvero remota: in
genere il sonno di Lorenzo è profondo e ininterrotto. Provo sempre una sottile e
benevola invidia nell’osservarlo mentre riposa. Vederlo dormire mi ha sempre
suscitato una sensazione di benessere totale.
Adesso che sto al volante della mia automobile con i fari delle altre macchine che
mi sparano la loro luce accecante negli occhi, penso di aver fatto una pazzia a
lasciare il mio bambino solo in casa. Mi vengono in mente mille altre soluzioni che
non ho preso in considerazione, prima fra tutte quella di chiamare la mia vicina
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Clara che in casi del genere non si è mai tirata indietro. Di sicuro si sarebbe infilata
la vestaglia ben disposta a vegliare sul riposo del mio piccolo, nonostante l’ora,
come quella volta in cui bussai alla sua porta in piena notte, chiedendole di
rimanere con Adele perché Lorenzo aveva
quaranta di febbre e lo
dovevo
portare di corsa all’ospedale pediatrico.
Do un’altra occhiata al mio orologio da polso: è l’una e un quarto. Sono passati
quindici minuti dalla telefonata di Angela. Quali sono state le sue esatte parole?
Non riesco a ricordarle, so solo che Adele sta male. Quanto manca all’ospedale,
dannazione? Spingo il pedale sull’acceleratore e sfreccio sulla Tuscolana come fossi
a Le Mans, conscia dei pochi chilometri che mi separano da mia figlia. Cosa può
esserle accaduto? Mi viene subito da pensare ad un cocktail di alcol e droghe e
l’angoscia si decuplica. Ogni tanto i notiziari parlano di giovani morti per aver
inghiottito intrugli del genere. Cosa ti hanno dato? Cosa ti hanno fatto? Ti prego
Adele, non morire.
Superate le mura di San Giovanni, attraverso la piazza deserta e vedo l’ imponente
e antichissimo complesso ospedaliero al cui interno c’è mia figlia che mi aspetta.
Parcheggio appena fuori dal cancello principale e raggiungo di corsa il pronto
soccorso. Ci sono alcune persone sedute, in attesa. I miei occhi rimbalzano da un
viso all’altro alla ricerca spasmodica di Angela e delle ragazze. Non scorgo nessuna
di loro. Mi attacco al cellulare, compongo il numero e lo sento trillare sia nelle mie
orecchie che oltre il corridoio. Mi incammino velocemente verso lo squillo e prima
ancora di sentire la sua voce rispondermi, vedo Angela in piedi di fronte alle
ragazze accasciate sulle sedie nella saletta d’attesa. Adele non c’è. Chiudo la
conversazione e il telefono mi scivola nella tasca del cappotto. “Angela, dov’è
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Adele? Come sta?”. La voce mi esce strozzata e di un tono più alto di quanto
volessi. Sto per mettermi a piangere. Mi sforzo di ricacciare indietro le lacrime e la
guardo con ansia.
“E’ ancora dentro con i medici. La stanno visitando. Quando sono arrivata in
discoteca per riportarle a casa, mi sono accorta subito che Adele non stava bene:
era sudata, i capelli gocciolanti appiccicati sulla fronte, tremava e lamentava
crampi addominali. Poi ha vomitato e subito dopo è svenuta. Non siamo riusciti a
farla rinvenire. Il buttafuori ci ha aiutato a caricarla in macchina e l’abbiamo
portata qui. Mentre la stavano portando via in barella, ha ripreso conoscenza ma
sembrava intontita. Non credo si rendesse conto di dove si trovasse. Le hanno
assegnato il codice rosso.”
Guardo di nuovo l’ora. Mancano dieci minuti alle due.
“Codice Rosso… mio Dio…. Non capisco, è quasi un’ora che è là dentro. Nessuno è
uscito per dirti come sta e cosa le stanno facendo?”
“E’ uscito il medico di turno un quarto d’ora fa. Ha detto che è fuori pericolo. Stanno
provvedendo ad una lavanda gastrica. Sembra si tratti di intossicazione.”
Mi avvicino alla porta. Busso ed apro senza esitazioni. Mi ritrovo in una saletta da cui
si diramano tre corridoi. Non vedo nessuno. Avanzo guardinga. “E’ permesso?”
continuo a ripetere, ma non ricevo risposta. Adele, dove sei? Prendo il corridoio di
destra, mi affaccio in una stanzetta con la porta aperta, ma Adele non c’è. Sbuca
fuori una donna di circa trent’anni, con la divisa da infermiera, che mi chiede
scocciata cosa ci faccio lì.
“C’è mia figlia. E’ stata portata qui un’ora fa. Un codice rosso. Si chiama Adele
Carini. Ha quindici anni. La prego, devo vederla.”
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La donna cambia espressione, la piega della bocca scompare e noto un accenno
di sorriso incoraggiante.
“Adele, si. E’ da questa parte. Venga, mi segua. Vediamo se hanno finito con la
lavanda gastrica.” Mi incammino dietro di lei con il cuore che esplode nel petto.
Raggiungiamo una porta chiusa. Lei mi dice di attendere fuori. Aspetto.
Quanto tempo è passato dal momento in cui l’infermiera è scomparsa nella stanza?
Non saprei dirlo, la mia mente è assalita da mille pensieri, uno più nero dell’altro. Poi
finalmente la porta si apre e ne esce la donna e un uomo in camice bianco.
“Lei è la madre di Adele?”
“Si, dottore, sono Doriana Miceli, la madre. Mi dica, come sta? Cosa le è
accaduto?”
“La ragazza è giunta in ospedale priva di conoscenza. Presentava tutti i sintomi di
ipertermia da anfetamine. Abbiamo prima fatto scendere la temperatura corporea
e, appena avuto i risultati delle analisi, abbiamo provveduto alla lavanda gastrica.
Adele è fuori pericolo ora. Le stiamo somministrando liquidi per fleboclisi. La teniamo
sotto controllo per ventiquattro ore. Potrà vederla subito, la stiamo trasferendo nel
reparto Osservazione Breve Intensiva. E’ cosciente anche se in stato confusionale.”
E in quell’attimo compare la lettiga che trasporta Adele, mortalmente pallida, le
braccia nude lungo i fianchi, la flebo infilata in vena. Incontro i suoi occhi opachi e
un singhiozzo di pianto mi sale in gola. La mia bambina!
Mi affianco alla portantina e le accarezzo la fronte, scostandole i capelli umidi dalle
tempie.
“Non ti preoccupare, tesoro, va tutto bene…”
“Mamma….”
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“Shhh… non parlare adesso. Devi riposare. Ti voglio bene.”
Non la mollo fino a quando non arriviamo in un’ampia sala con dei letti allineati
lungo la parete. Due infermieri prendono Adele per le braccia e le gambe e la
sistemano su una branda dalle lenzuola candide. La coprono con delicatezza,
sistemano il bastone della flebo e se ne vanno via portandosi dietro la barella ormai
vuota. Mi piego sulle ginocchia, avvicinandomi più possibile al suo viso. Adesso non
parla più, si vedono solo delle grosse lacrime che scivolano silenziose sulle guance e
raggiungono il suo collo magro. Sto piangendo anch’io. So che non dovrei, mi sforzo
di sorriderle ma vederla in quello stato è straziante per me. Continuo ad
accarezzarla e lei rimane immobile e incredibilmente docile.
Una mano si posa sulla mia spalla con tatto. Mi volto e riconosco il medico che l’ha
soccorsa. Nella targhetta appuntata sul camice c’è scritto Dr. M. Landi.
“Venga con me, adesso Adele deve riposare”.
Lo seguo inebetita, continuo a tirare sul col naso e cerco disperatamente un
fazzoletto nella borsetta. Figuriamoci se trovo qualcosa lì dentro. Lui infila una mano
nella tasca del camice e mi porge un pacchetto. Ne sfilo uno e ringrazio,
imbarazzata.
Appena fuori dall’OBI mi dice che è meglio se vado a casa, ora. Adele è in buone
mani, deve solo fare una lunga dormita, è inutile che io rimanga. Ho bisogno
anch’io di sdraiarmi e dormire un po’ e comunque non potrebbe farmi stare dentro
con lei. Mi assicura che è tutto sotto controllo. Si congeda dicendomi che ci
vedremo domattina. Lui andrà via solo alle 10.
Saluto anche io e ringrazio. Sparisce dietro la porta. Mi volto e non so bene dove mi
trovo, ma dopo pochi istanti mi rendo conto di essere di nuovo nella sala d’attesa
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del pronto soccorso. Oltre una colonna vedo Angela e le ragazze. Non si sono
mosse da dove le ho lasciate. Le raggiungo come in trance. Angela mi viene
incontro, vuole conoscere le condizioni di Adele. Le dico che l’ho vista, era pallida,
la flebo nel braccio, piangeva. Ora che ci penso non ho chiesto spiegazioni al
medico, cosa era risultato dalle analisi, se davvero ha assunto anfetamine o se si è
trattato solo di una sbronza coi fiocchi. Non ho avuto la prontezza di dire o
domandare nulla. Voglio solo tornarmene a casa, da Lorenzo.
Ma prima devo
avvertire Gianni. Non posso non farlo. Lo chiamo sul cellulare che tiene sempre
acceso. Dopo appena tre squilli risponde:
“Si? Chi è?”
“Sono Doriana. Volevo avvertirti che Adele passerà la notte in ospedale perché si è
sentita male. Niente di grave, credo che domani la faranno tornare a casa.”
Lo sento far cadere qualcosa, credo si sia rizzato di colpo sul letto e nella fretta ha
urtato contro qualche oggetto sul comodino.
“Aspettami, arrivo subito, in quale ospedale siete? Cos’ha?”
“Gianni, non è necessario che tu venga ora. La tengono in astanteria per la notte e
non possiamo entrare. Ho avuto modo di vederla ed era tranquilla. Ci vediamo
domattina alle otto qui al San Giovanni e ti spiego tutto. Sembra abbia preso
qualche pasticca in discoteca. Ma ora è fuori pericolo.”
“Pasticca??? Nostra figlia si droga?”
“Non lo so, Gianni, non lo so… Scusami ma non ce la faccio a parlare. Ti aspetto
domattina, ciao” e chiudo la conversazione. Sono a pezzi.
Angela ha assistito alla telefonata ed ora mi osserva mentre mi asciugo le lacrime.
Le ragazze sono tutte e tre sedute di fronte a noi. Le guardo e cerco di scorgere nei
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loro occhi i segni di postumi da assunzione di speed o ecstasy o chissà cos’altro. Mi
sembrano semplicemente preoccupate per la loro amica, stanche e spaventate.
Mi rivolgo a loro guardando soprattutto Benedetta:
“Avete avvertito a casa?”
“Si, ho chiamato sia Sandra che Elena” mi risponde Angela.
“Con chi stavate in discoteca? Eravate un gruppo di amici?”
Benedetta mi dice che c’erano diversi compagni di scuola. Quando le chiedo se
hanno dato loro delle pasticche mi risponde di no. La guardo severa, cerco di
carpire la sua più piccola incertezza. Sembra sincera. Guardo le altre due che
stanno con gli occhi abbassati. Soprattutto Aurora evita il mio sguardo. Lei si che
nasconde qualcosa. Mi accovaccio poggiando le mani sulle sue ginocchia, alla
ricerca del suo viso.
“Aurora, guardami! Avete preso qualche droga in discoteca? Bevuto qualche
bibita offerta da qualcuno?”
“Solo una birra. Nient’altro, lo giuro!”
“L’avete presa al bar o ve l’hanno portata?”
“Ce l’hanno portata, credo. Insomma, basta! Non me lo ricordo!”
Ha alzato la voce, è terrorizzata.
“Doriana, capisco la tua preoccupazione, ma adesso è meglio tornare a casa.
Vedrai che domani le ragazze risponderanno a tutte le nostre domande.”
Ha ragione, non è il momento. La bacio, la abbraccio, la ringrazio. Mi offro di
portare io Benedetta e Aurora, ma lei non accetta: “Corri da Lorenzo e non ti
preoccupare di nient’altro”.
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2012 Nuove frontiere del diritto - Rivista mensile telematica di diritto
Anno I - n. 4, chiusura il 10 aprile 2012
In attesa di assegnazione del codice ISSN
In attesa di registrazione presso il Tribunale
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