ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
CAMPUS DI CESENA
SCUOLA DI PSICOLOGIA E SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA IN
SCIENZE DEL COMPORTAMENTO E DELLE RELAZIONI SOCIALI
PENSIERO INTENZIONALE, SPIEGAZIONI TELEOLOGICHE E
MISCONCEZIONI DELLA TEORIA DELL'EVOLUZIONE.
Relazione della Prova Finale in
Psicologia Evoluzionistica
Presentata da
Relatore
Marco Costa
Alessandro Norfo
Sessione II
Anno Accademico 2012/2013
A tutti coloro che, con perseveranza, onestà e mente aperta,
cercano di comprendere i fenomeni del nostro mondo.
1
2
Indice
Introduzione
1
2
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L’accettazione della teoria dell’evoluzione
1.1 La teoria dell’evoluzione . . . . . . . . . . .
1.1.1 L’intuizione di Darwin . . . . . . . .
1.1.2 La sintesi moderna . . . . . . . . . .
1.1.3 Le prove . . . . . . . . . . . . . . .
1.2 Le misconcezioni . . . . . . . . . . . . . . .
1.2.1 Validità . . . . . . . . . . . . . . . .
1.2.2 Contenuti . . . . . . . . . . . . . . .
1.3 L’accettazione . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3.1 Alcuni dati . . . . . . . . . . . . . .
1.3.2 I fattori che influenzano l’accettazione
1.3.3 I movimenti anti-evoluzionisti . . . .
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Possibilità per il futuro
3.1 Insegnamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Teoria dell’evoluzione e psicologia della credenza
2.1 Etologia e psicologia evoluzionistica . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.1.1 Fisica intuitiva e psicologia intuitiva . . . . . . . . . . . . .
2.2 L’attribuzione di intenzionalità e scopi . . . . . . . . . . . . . . . .
2.2.1 Spiegazioni teleologiche-funzionali . . . . . . . . . . . . .
2.2.2 Le spiegazioni teleologiche nei bambini e negli adulti . . . .
2.2.3 L’origine delle spiegazioni teleologiche . . . . . . . . . . .
2.2.4 Inferenza di progetto e progettista . . . . . . . . . . . . . .
2.2.5 Adattività del pensiero intenzionale . . . . . . . . . . . . .
2.2.6 Panoramica sulle misconcezioni della teoria dell’evoluzione
2.2.7 Interazione natura-cultura . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.3 L’intuitività del tempo e delle probabilità . . . . . . . . . . . . . . .
2.4 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3.1.1 Terminologia ed espressione dei significati
3.1.2 Proposte didattiche nel mondo . . . . . . .
3.1.3 Proposte didattiche in Italia . . . . . . . .
3.1.4 Libri di testo e corsi di biologia . . . . . .
3.1.5 Credenze e teorie scientifiche . . . . . . .
Approcci nei confronti del creazionismo . . . . . .
Bibliografia
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Introduzione
La teoria dell’evoluzione ha ricevuto nell’ultimo secolo un’enorme quantità di conferme empiriche, al punto da essere ormai considerata dalla comunità scientifica un dato di fatto. Molte
volte è stata sottolineata la sua importanza interdisciplinare e attualmente costituisce un saldo
punto di riferimento per tante altre teorie. Nonostante ciò la sua accettazione tra il pubblico
generale trova ancora molta resistenza e ogni giorno movimenti anti-evoluzionisti si battono
per screditarla e per compromettere il suo insegnamento.
Questo lavoro prende in esame le diffuse difficoltà nell’accettazione della teoria dell’evoluzione e l’ipotesi che queste siano in parte dovute a meccanismi innati, costitutivi della mente
umana.
• Nel primo capitolo presento la teoria dell’evoluzione, le prove che la sostengono, descrivo
le più comuni misconcezioni diffuse nella popolazione e esamino la situazione attuale
riguardo l’accettazione dell’evoluzione, i fattori che la influenzano e i movimenti antievoluzionisti.
• Nel secondo capitolo descrivo i meccanismi psicologici che si sono evoluti come adattamenti per risolvere specifici problemi posti dall’ambiente e che però al tempo stesso, come effetto collaterale, contribuiscono alla difficoltà nel comprendere e accettare
l’evoluzione.
• Nel terzo capitolo presento alcune iniziative finalizzate a migliorare l’insegnamento della
teoria dell’evoluzione e alcune proposte per facilitarne la comprensione e l’accettazione.
Infine discuto gli approcci nei confronti del creazionismo.
5
Capitolo 1
L’accettazione della teoria dell’evoluzione
In considering the Origin of Species, it is quite conceivable that a naturalist, reflecting on the mutual affinities of
organic beings, on their embryological relations, their geographical distribution, geological succession, and other such
facts, might come to the conclusion that each species had not been independently created, but had descended, like varieties,
from other species (Darwin, 1859).
1.1
1.1.1
La teoria dell’evoluzione
L’intuizione di Darwin
Il 24 Novembre 1859 viene pubblicata l’opera che avrebbe cambiato il corso della biologia ed
influenzato il pensiero scientifico per i secoli seguenti: On The Origin Of Species, di Charles
Darwin.
Nella natura sono presenti organismi viventi estremamente complessi e adattati all’ambiente
che li circonda e fin dall’antichità è prevalsa quella concezione secondo cui ogni specie sarebbe
stata creata separatamente, progettata per essere adatta alla sopravvivenza in un determinato
ambiente. Così gli occhi sarebbero stati progettati per vedere, i denti per masticare.
Questa posizione si trova esposta in maniera esemplare dall’arcidiacono William Paley
(1802).
Nell’attraversare una brughiera, supponi io sbattessi il piede contro una pietra,
e mi venisse chiesto come essa fosse venuta ad essere proprio lì; potrei con tutta
probabilità rispondere che, fino a prova contraria, fosse lì da sempre: né sarebbe
forse molto facile dimostrare l’assurdità di questa risposta. Ma supponi anche
che trovassi per terra un orologio, e mi venisse riposta la stessa domanda; dovrei
praticamente riprendere in considerazione la risposta appena fornita per la pietra,
allo stesso modo, fino a prova contraria, l’orologio avrebbe potuto essere lì anche
da sempre. (...) Dev’essere esistito, in qualche tempo, ed in questo o quel posto, un
artefice, o più, a mettere assieme i pezzi dell’orologio comunque, a fabbricarlo, per
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lo scopo al quale effettivamente vogliamo risponda; egli, od essi, hanno compreso
la sua costruzione, e progettato il suo uso. (...) Ogni indicazione di ingegnosità,
ogni manifestazione di design che esistessero nell’orologio, esistono nelle opere
della natura; con la differenza, da parte della natura, di essere più grandi e migliori
ancora, ed in numero incalcolabile.
Solo in pochi prima di Darwin avevano sfidato l’argomento del progetto proponendo una visione differente da quella creazionista. Nessuno come lui però era riuscito a penetrare abbastanza a fondo nei meccanismi dell’evoluzione, a formulare la teoria in maniera sistematica e a
raccogliere sufficienti prove.
Nell’opera “Sul Principio di Popolazione” Thomas Malthus (1826) sosteneva che la popolazione umana, se non avesse regolato la propria crescita, si sarebbe prima o poi trovata a lottare
per la sopravvivenza, in quanto l’ambiente non poteva garantire le risorse necessarie per tutti.
Darwin si rese conto che tale restrizione doveva valere anche per ogni altro essere vivente sul
pianeta Terra. Comprese inoltre che, dal momento che esiste una naturale variabilità tra gli
individui di una stessa specie, e dato che questa è ereditaria (tramite meccanismi a lui ancora
oscuri), allora quegli individui in possesso di caratteristiche vantaggiose alla sopravvivenze e
alla riproduzione avrebbero generato una quantità maggiore di prole, portante le loro stesse caratteristiche. Di conseguenza, sarebbe cambiata la proporzione di individui portanti determinati
tratti, all’interno di una popolazione.
Darwin introduceva così un’idea tanto semplice quanto innovativa: gli stessi cambiamenti
che possono essere fatti dall’uomo tramite la selezione artificiale su piante, cani o piccioni,
avvengono anche in natura. In quel caso però è la morte del meno adatto, nella lotta per la
sopravvivenza, a costituire il filtro selezionante. Chiamò questo processo “selezione naturale”.
Egli capì quindi che l’accumulo di questi piccoli cambiamenti, di generazione in generazione, protratto per un periodo di tempo sufficientemente lungo poteva dar luogo a grandi mutamenti. Sul lungo termine, la selezione naturale avrebbe potuto far diventare due popolazioni,
originariamente identiche, talmente differenti da non essere più in grado di riprodursi tra loro.
Questa è l’origine delle specie.
1.1.2
La sintesi moderna
La formulazione originale di Darwin è stata ripresa ed unita alle scoperte della genetica, formando la cosiddetta sintesi moderna (o Neodarwinismo), a cui fanno riferimento gli studiosi
contemporanei.
Le caratteristiche di ogni organismo sono prevalentemente determinate dalla sua costituzione genetica ereditaria (la cui espressione è anche modulata dalle influenze ambientali) e da esse
dipendono gran parte delle sue possibilità di sopravvivenza e riproduzione. La variabilità di
tali caratteristiche tra individui della stessa specie fa sì che in certi casi alcuni siano più avvantaggiati di altri. I geni contenuti in questi individui, in particolare quelli responsabili dei tratti
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vantaggiosi, tenderanno così a diffondersi maggiormente nel pool genico della popolazione. La
“gara” è quindi tra gli alleli, ovvero ciascuna delle varianti di un gene che occupano la stessa
posizione su cromosomi omologhi e che controllano variazioni dello stesso carattere. Quelli
che in un determinato ambiente corrispondono ai fenotipi più vantaggiosi permarranno in percentuale maggiore, mentre gli altri lentamente scompariranno. L’evoluzione può così essere
vista come “sopravvivenza non casuale di istruzioni ereditarie, che variano casualmente, per
costruire embrioni” (Dawkins, 1986).
Tre componenti costituiscono le fondamenta del processo dell’evoluzione: variabilità, selezione ed ereditarietà. Da un punto di vista più astratto (darwinismo universale) possiamo
considerare l’esistenza di un’entità in grado di creare copie imperfette (variabilità) di sé stessa
usando le risorse dell’ambiente che, essendo limitate, non possono garantire la sopravvivenza di
tutte (selezione). Ammettendo che la sopravvivenza di ogni unità dipenda dalle sue caratteristiche ereditate (ereditarietà), possiamo affermare che non può non esserci evoluzione (Dawkins,
1983).
1.1.3
Le prove
Età della Terra
Affinché possa esserci stata l’evoluzione, la Terra deve essere abbastanza “vecchia”. Deve
esserci stato il tempo necessario alle prime forme di vita per nascere e raggiungere lo stato
attuale. Essa non può essere “giovane” come sostengono alcuni creazionisti, che ne stimano
l’età tra i 6.000 e i 10.000 anni.
Dal 1945 è stato possibile misurare l’età delle rocce usando gli isotopi radioattivi, elementi
che vengono incorporati nelle rocce ignee quando queste si cristallizzano fuori dalla roccia fusa
al di sotto della superficie terrestre (Coyne, 2009). La datazione radiometrica dei meteoriti
ci può dire che la Terra e il sistema solare hanno circa 4,6 miliardi di anni. Questo tempo è
stato ampiamente sufficiente all’evoluzione per fare il suo corso, soprattutto se si considera che
mentre le prime forme di vita sono nate 3,7 miliardi di anni fa, i primi vertebrati hanno visto
la luce solamente 500 milioni di anni fa (Buss, 2012). Nel primo 80% della storia della vita
tutte le specie avevano corpi molli, senza scheletro, e questo rendeva estremamente difficile la
formazione di fossili. Di conseguenza non si sa molto sui primi stadi dell’evoluzione e quasi
tutto quello che conosciamo corrisponde in realtà al solo 20% rimanente.
Una conferma ulteriore a questi risultati viene da studi effettuati su fossili di coralli vissuti
nel periodo Devoniano, circa 380 milioni di anni fa (Wells, 1963). I coralli producono nei loro
corpi, crescendo, sia anelli giornalieri che anelli annuali, ed è possibili stimare così di quanti
giorni era composto un anno al tempo della formazione dei fossili. Calcolando la differenza
rispetto al numero di giorni che attualmente compongono un anno e tenendo conto che la rotazione della Terra su sé stessa rallenta di 2 secondi ogni 100.000 anni, è possibile determinare
l’età di quei fossili. Il nostro pianeta ha ben più di 10.000 anni e questi coralli ci testimoniano
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di essere vissuti molti milioni di anni fa, quando ogni giorno durava circa 22 ore. Naturalmente
questo risultato combacia con quello che si trova usando le tecniche radiometriche.
Fossili
I fossili sono conosciuti fin dall’antichità, tuttavia il loro reale significato fu compreso solo
molto tempo dopo. Per un biologo i fossili valgono come oro poiché senza di essi si potrebbero
solamente studiare le specie viventi ed inferire relazioni evolutionistiche grazie alle similitudini
di forme, sviluppo e sequenza di DNA (Coyne, 2009). Si potrebbe avere solo una bozza approssimativa dell’evoluzione, non si potrebbe conoscere l’aspetto dei primi anfibi, dei dinosauri o
degli australopitechi.
Le condizioni necessarie alla formazione di fossili sono abbastanza rare e in particolare il
corpo deve essersi trovato sul fondo di un lago o di un oceano, il che rende ancora più rara
la formazione di fossili di animali terrestri. Una volta formato, il fossile deve resistere agli
agenti della natura e, infine, deve essere trovato dai ricercatori. È stato stimato che i fossili
finora ritrovati, appartenenti a circa 250.000 specie, corrispondono al massimo all’1% di tutte
le specie mai vissute sul pianeta, un numero che oscilla da 17 milioni a 4 miliardi.
Innanzitutto i fossili ci forniscono una immagine a livello macroscopico dell’evoluzione.
Gli strati di roccia sono disposti in ordine cronologico, quelli più antichi sono più profondi, e
strati adiacenti rappresentano periodi vicini nella linea temporale. Ricercando attraverso strati
di roccia di età differente si può notare che gli strati più antichi contengono fossili di forme
di vita più semplici, che aumentano progressivamente di complessità negli strati più recenti.
Inoltre, i fossili trovati in strati adiacenti sono maggiormente simili tra loro rispetto a fossili
trovati in strati distanti e i fossili trovati in strati più recenti sono anche quelli più simili alle
specie viventi.
Utilizzando la teoria dell’evoluzione si possono fare efficaci predizioni su quale tipo di fossili, verranno trovati in un determinato luogo e ad una determinata profondità. Si può prevedere
che in un certo strato di roccia si troveranno fossili di specie aventi certe caratteristiche, come
nel caso degli antenati comuni tra diversi gruppi di animali o delle forme transizionali. Un
esempio è l’archaeopteryx lithographica, considerato una forma di transizione tra i rettili e gli
uccelli, dato che i secondi discendono dai primi. Questa specie infatti, vissuta 145 milioni di
anni fa, possiede prevalentemente tratti da dinosauro, avendo però alcuni tratti tipici degli uccelli: l’archaeopteryx era ricoperto di penne. L’età dei fossili ritrovati si colloca esattamente
tra 200 milioni di anni fa, epoca in cui le tracce fossili mostrano solo specie di dinosauri simili
all’archaeopteryx ma privi di tratti da uccello, e 70 milioni di anni fa, in cui sono presenti fossili
di uccelli dall’aspetto moderno.
Nessuna teoria diversa da quella dell’evoluzione è in grado di spiegare dati come questi.
9
Vestigia e imperfezioni
Si definiscono vestigia quei tratti di un organismo che costituivano un adattamento nei suoi
antenati ma che hanno perso del tutto (o quasi) la propria utilità oppure sono divenuti utili per
altri scopi, diversi da quelli originali per i quali si erano evoluti (Coyne, 2009). Per esempio,
seppure gli antenati dello struzzo volassero, e questo è certo sia grazie a studi sul DNA che
grazie alle tracce fossili, le sue ali non servono per quello. Esse sono state cooptate per nuovi
utilizzi, come il mantenimento dell’equilibrio nella corsa o l’invio di segnali di minaccia o di
accoppiamento.
Nel kiwi invece le ali sembrano non avere alcuna funzione. Pur essendo composte dalle
stesse ossa che compongono le ali di uccelli che possono volare, le ali del kiwi sono piccolissime, sepolte sotto le penne. Tratti come questo sono esclusivamente residui evoluzionistici di
quelli che in passato erano adattamenti per specie antenate e non avrebbero senso come frutto
di una deliberata creazione.
Le vestigia costituiscono una prova dell’evoluzione in quanto non rispecchiano tratti derivanti da un progetto specifico per una data specie quanto piuttosto il lavoro di un processo
meccanico ed inesorabile che può solo modificare ciò che già esiste e non può mai ricominciare
da zero. Accanto alle vestigia ci sono molti altri esempi di organi e strutture lontane da quello
che sarebbe stato l’ideale funzionale, come l’inutilmente tortuoso percorso che segue il nervo
laringeo nei mammiferi. Mentre il progetto perfetto sarebbe stato il marchio di un abile ed
intenzionato progettista, seguendo la teoria dell’evoluzione ci si aspetta di trovare segni di un
“progetto imperfetto”. Non solo, ci si aspetta anche che la precisa natura di queste imperfezioni
abbia senso solo in quanto risultato dell’evoluzione di tratti ancestrali, e questo è proprio ciò
che accade.
Atavismi ed embrioni
Un’altra prova dell’evoluzione è data dagli atavismi, anomalie che compaiono di tanto in tanto
negli individui e che costituiscono la ricomparsa di tratti ancestrali. Esempi comuni sono le
gambe in alcune balene o la coda in alcuni bambini umani, detta “proiezione coccigea”. Differiscono dalle semplici malformazioni in quanto sono tratti che erano presenti negli antenati di
quell’individuo e derivano dalla accidentale re-espressione di geni che erano un tempo adattivi
ma che poi sono stati “spenti” dalla selezione naturale quando non servivano più (Coyne, 2009).
Altri fatti peculiari che hanno senso solo alla luce dell’evoluzione riguardano lo sviluppo
embrionale. Dal momento che molte strutture durante lo sviluppo richiedono “cues” biochimici da altre strutture che compaiono precedentemente, è meglio che quelle parti che si sono
evolute filogeneticamente dopo siano programmate per svilupparsi ontogeneticamente più tardi. Sempre a causa del fatto che l’evoluzione può solo modificare il vecchio e mai ricominciare
da zero, succede che la sequenza dello sviluppo ontogenetico dell’organismo ricorda la storia
filogenetica della specie. Infatti, tutti gli embrioni di pesci, anfibi, rettili e mammiferi assomi10
gliano inizialmente ad embrioni di pesce. In seguito, procedendo nello sviluppo, l’embrione
delle specie filogeneticamente più recenti subisce drastici cambiamenti, apparentemente privi
di senso, che comportano anche la formazione di strutture non presenti nell’animale adulto e il
loro riassorbimento prima della nascita.
Un embrione di mammifero assomiglia inizialmente ad un embrione di pesce, poi ad un embrione di anfibio, poi ad uno di rettile ed infine acquisirà i tratti tipici dei mammiferi. Tuttavia
non si trova mai la sequenza opposta. Un embrione di pesce non assomiglia mai inizialmente
ad un embrione di mammifero o di rettile, ed infatti i pesci sono filogeneticamente più antichi.
Questo ha senso solo come effetto dell’evoluzione: un pesce non ha alcun antenato anfibio, rettile o mammifero, mentre un mammifero ha come antenati pesci, anfibi e rettili e di conseguenza
il programma di sviluppo embrionale ha conservato tracce di questa discendenza.
Distribuzione geografica delle specie
La teoria dell’evoluzione è necessaria non solo per spiegare l’origine e le caratteristiche degli
organismi viventi ma anche la loro distribuzione geografica sul pianeta, la quale costituiva un
vero rompicapo per gli studiosi creazionisti precedenti o contemporanei a Darwin.
Senza la teoria dell’evoluzione molti fatti risulterebbero bizzarri e inspiegabili, come la
differenza di flora e fauna tra le isole continentali e quelle oceaniche (Coyne, 2009). In tutte le
isole oceaniche infatti sono assenti importanti gruppi di animali, tra cui pesci di acqua dolce,
anfibi, rettili e mammiferi terrestri che invece sono molto diffusi sia nelle isole continentali
che nel continente. La chiave della spiegazione sta nella diversa origine dei due tipi di isole.
Mentre quelle continentali si sono staccate da un continente di cui precedentemente erano parte,
e al momento della loro formazione erano già popolate dalle stesse specie che vivevano sul
continente, le isole oceaniche sono sorte dal mare, per esempio in seguito ad eruzioni vulcaniche
e di conseguenza in principio non ospitavano alcuna specie animale.
Piante e animali possono disperdersi per grandi distanze e alcune popolazioni possono evolversi in nuove specie una volta incontrata una diversa pressione ambientale. I gruppi di animali
assenti nelle isole oceaniche sono proprio quelli ai quali sarebbe impossibile attraversare il mare
per raggiungerle. Le specie che vivono in esse si sono evolute partendo da poche specie ancestrali che riuscirono a raggiungere l’isola attraversando il mare. Per questo motivo gli uccelli
delle isole oceaniche si dividono in tantissime specie uniche e strettamente imparentate tra loro,
assenti nei continenti e peculiari delle singole isole o arcipelaghi. Lo stesso vale per insetti,
tartarughe, e così via. Con una logica creazionista non è possibile rendere conto di questi fatti.
Inoltre, ora si sa che la Terra ha subito nel corso delle centinaia di milioni di anni drastici
mutamenti, ben oltre ciò che Darwin stesso aveva immaginato. Questo spiega perchè spesso
si trovino fossili in aree del tutto diverse da quelle in cui l’organismo avrebbe dovuto vivere,
come pesci fossili in montagna, e contribuisce anche a spiegare la distribuzione e la parentela
delle specie. Da circa 40 anni è possibile, analizzando il DNA, conoscere non solo la relazione
evoluzionistica tra due specie ma anche il periodo approssimativo in cui queste si sono divise
11
Figura 1.1: Convergenza evoluzionistica in due specie di mammiferi.
Fonte: Coyne, J. A. (2009). Why evolution is true. Oxford: Oxford University Press.
dall’antenato comune. Usando queste informazioni in combinazione con la conoscenza del
movimento e trasformazione dei continenti è possibile stabilire se l’origine di nuove specie
coincide con la formazione di nuovi habitat. Anche in questo caso le prove supportano la teoria.
Convergenza evoluzionistica
In molti casi si può notare che aree distanti aventi medesime condizioni ambientali ospitano specie superficialmente simili ma aventi altre differenze più profonde (Coyne, 2009), come i mammiferi marsupiali che vivono quasi solo in Australia e i mammiferi placentati che
sono molto diffusi nel resto del mondo. Nonostante differenze fondamentali, la più notevole delle quali riguarda il sistema riproduttivo, questi due gruppi di animali possiedono forme
straordinariamente simili (Figura 1.1).
Sono casi di “convergenza evoluzionistica”, fenomeno per cui specie differenti possiedono
tratti simili in quanto si sono evolute facendo fronte alle stesse caratteristiche ambientali e non
a causa della discendenza da un antenato comune avente tali tratti.
Esami del DNA possono confermare la distanza evoluzionistica di queste specie. Prendendo
ad esempio il petauro dello zucchero, un marsupiale che vive sugli alberi in Australia, e il glaucomio (detto anche scoiattolo volante) del Nord America, entrambi possiedono una membrana
che unisce gli arti anteriori con quelli posteriori, consentendo di planare tra gli alberi. Tuttavia
il loro antenato comune è vissuto circa 162 milioni di anni fa. Seppure dalle sembianze non si
direbbe, lo scoiattolo volante è imparentato più strettamente con l’orso grizzly, in quanto il loro
antenato comune è vissuto circa 94 milioni di anni fa.
La convergenza evoluzionistica è una grande prova a favore dell’evoluzione e nessuna teoria
alternativa può spiegare in maniera soddisfacente questi fatti.
12
1.2
Le misconcezioni
La misconcezione è definita dall’Oxford English Dictionary:
A view or opinion that is incorrect because based on faulty thinking or understanding.
Le misconcezioni sono rappresentazioni scorrette dal punto di vista del sapere disciplinare consolidato, costituenti però un aspetto fondamentale e inevitabile dell’apprendimento (Alexander,
1998; Mason, 2006). Come sottolineano gli studiosi dell’educazione, è molto importante prestare attenzione alle conoscenze già presenti nella mente degli studenti affinchè l’insegnamento
abbia successo (Mason, 2006).
Anche nel caso della teoria evoluzionistica, esitono molteplici misconcezioni che influenzano il grado in cui uno studente può comprendere o interpretare le nuove informazioni.
Può essere distinto un tipo di misconcezioni che riguarda la validità della teoria da un altro
che riguarda i contenuti.
1.2.1
Validità
Le misconceazioni di questo tipo hanno principalmente a che fare con le credenze epistemologiche degli individui e la familiarità con i ragionamenti scientifici.
Evoluzione come dottrina
Pensare alla teoria dell’evoluzione come ad una dottrina o filosofia alla quale sia possibile
credere o non credere.
Un discorso molto lungo e complesso potrebbe essere fatto circa la distinzione tra conoscenza e credenza (Smith, Siegel, & McInerney, 1995; Cobern, 1994; Quine & Ullian, 1978).
Alcuni autori vedono la conoscenza e la credenza come cose nettamente diverse mentre per altri
la conoscenza è una particolare forma di credenza, fondata razionalmente su prove empiriche.
Una terza possibilità è pensare che la relazione che un individuo sente con una certa affermazione possa essere di credenza, insicurezza o non credenza, ognuna delle quali può derivare o
meno da prove empiriche.
In ogni caso è da considerare una misconcezione il porre la teoria evoluzionistica allo stesso livello di qualsiasi altra spiegazione mitica o religiosa dell’origine della vita, generate in
enorme quantità da tutte le culture (Dawkins, 2011). L’evoluzione è invece da considerarsi la
spiegazione scientifica dei processi di trasformazione degli esseri viventi.
Mancanza di prove
Nel pensiero comune l’evoluzione è spesso pensata come “solo una teoria”, in quanto il comune
significato di teoria fa riferimento a qualcosa che è privo di sufficiente evidenza empirica. Di
13
conseguenza molti si sentono facilmente autorizzati a rifiutare qualsiasi parte della teoria sia in
contrasto con le proprie credenze.
Nel linguaggio scientifico invece tutto è “teoria” ed è dalle teorie che derivano le ipotesi, le
quali vengono poi testate tramite esperimenti. Una teoria è detta scientifica solo se falsificabile,
ovvero se dalle sue premesse possono essere dedotte le condizioni per almeno un esperimento
in grado di dimostrarla falsa (Popper, 1970). Come affermò John Haldane, per falsificare la
teoria dell’evoluzione è sufficiente trovare “conigli fossili nel Precambriano”.
Una teoria scientifica può in seguito ricevere più o meno supporto empirico ma resterà pur
sempre una teoria. Differentemente da quello che si poteva credere al tempo del Positivismo, è
ora concordato che non esistano “fatti assolutamenti veri” nella scienza.
Misconcezioni come questa ed altre portano a confusione e rendono molto più facile il
lavoro a chi voglia persuadere della falsità di un teoria scientifica già di per sè controintuitiva.
Lombrozo, Thanukos e Weisberg (2008) hanno infatti dimostrato che la comprensione della
natura della scienza è significativamente correlata all’accettazione della teoria evoluzionistica.
Per rendere correttamente al pubblico generale l’idea del grado di verità che la l’evoluzione
ha nella mente di si occupa di scienza, bisognerebbe dire il “fatto” dell’evoluzione piuttosto che
la “teoria”. Intendendo ovviamente con fatto, una teoria supportata da una quantità di prove
talmente vasta da poter essere, oltre ogni ragionevole dubbio, considerata vera: è sicuramente
il caso dell’evoluzione.
“Teach the controversy”
Nelle altre misconcezioni riguardanti la validità della teoria possono essere ritrovate entrambe le
tematiche descritte. Una posizione molto diffusa in questo periodo vede la teoria dell’evoluzione alla pari di una sola proposta alternativa (non scientifica), l’Intelligent Design. Le campagne
che sostengono questa posizione mirano a convincere gli insegnanti di biologia ad insegnare
una inesistente controversia.
Intervento superiore sugli uomini
Spesso l’evoluzione è considerata una spiegazione soddisfacente per quanto riguarda tutti organismi viventi, fatta eccezione per gli esseri umani. In queste misconcezioni infatti, per la nostra
specie è ipotizzato un intervento divino o di altre civiltà intelligenti extraterrestri.
La prima spiegazione è di tipo religioso e non scientifico, dato che chiama in causa una
divinità la cui esistenza non può essere falsificata. Per quanto riguarda la seconda, sarebbe
lecito chiedersi come queste civiltà extraterrestri abbiano raggiunto tale livello di intelligenza.
Avrebbero infatti dovuto evolversi autonomamente nel loro pianeta di origine, a meno che non
si ipotizzi l’intervento di una terza civiltà aliena, per la quale comunque è valido il medesimo
ragionamento. Prima o poi bisognerebbe ammettere l’evoluzione spontanea di una forma di vita
definibile “intelligente”.
14
1.2.2
Contenuti
Intenzionalità e finalismo
Le concezioni creazioniste sostengono esplicitamente che la vita sulla Terra sia frutto di un progetto intenzionale. Tuttavia, anche nelle concezioni di molte persone che affermano la veridicità
dell’evoluzione sono presenti componenti di intenzionalità e finalismo.
Più che ad una misconcezione questo si riferisce a una classe di misconcezioni, una tematica
trasversale a molte. Alla loro base c’è la credenza teleologica profondamente radicata che tutti
i tratti posseduti dagli organismi siano tali in quanto svolgono una funzione che aiuta la sopravvivenza (Kelemen, 2012). Al contrario, sappiamo che gli organismi possono possedere tratti
vestigiali oppure determinati dalla selezione sessuale o dalla deriva genetica. Spesso i meccanismi causali che sottendono il cambiamento evoluzionistico non sono conosciuti e vengono
lasciati indefiniti (“la giraffa ha il collo lungo per mangiare le foglie alte degli alberi”). Questa
tendenza può poi portare a misconcezioni più gravi e profonde riguardanti quei meccanismi che
costituiscono il processo evoluzionistico.
Esempi di questo insieme di misconcezioni sono:
• la credenza che gli esseri umani costituiscano la meta ed esito finale dell’evoluzione. In
questo caso il termine stesso di evoluzione contribuisce a trarre in inganno perchè è usato
nel linguaggio comune per intendere un miglioramento;
• vedere l’evoluzione come un meccanismo al servizio della specie, che serve alle specie
per sopravvivere. La credenza che le mutazioni occorrano nei momenti e nella forma
necessari affinchè la specie perduri;
• l’idea che una specie possa nascere per colmare un gap nell’ecosistema;
• l’idea che la pressione ambientale causi le mutazioni adeguate;
• la concezione di una entità indefinita chiamata “Natura” o “Evoluzione” che operi finalisticamente dei mutamenti negli organismi, per adattarli all’ambiente in cui vivono.
In realtà l’evoluzione per selezione naturale conduce ad un lento ed inevitabile cambiamento
che non ha una direzione o una meta. Le specie, tra cui anche gli uomini, non sono perfette.
I meccanismi dell’evoluzione operano infatti su ciò che già esiste, ovvero su quelle “istruzioni
per costruire embrioni” che sono scritte nel corredo genetico di ogni individuo.
L’evoluzione è un processo inevitabile e cieco, guidato solo dai vantaggi a breve termine.
Casualità e tempo
Una delle maggiori fonti di incomprensione, dubbi o rifiuto della teoria dell’evoluzione concerne il ruolo della casualità. È proprio su questa difficoltà che fanno leva molti degli attacchi alla
teoria da parte di movimenti anti-evoluzionisti.
15
Come spiega eloquentemente Richard Dawkins (1986) in una delle sue opere più famose, la
selezione naturale, che è proprio la parte della teoria accusata maggiormente, non ha nulla a che
fare con il caso. Le mutazioni genetiche avvengono in maniera casuale durante la formazione
dei gameti. Successivamente sono le condizioni dell’ambiente a determinare le probabilità che
un determinato organismo ha, in base alla sue caratteristiche, di restare in vita fino a riprodursi.
Questo secondo processo non è per nulla casuale e si basa sul vantaggio differenziale di varianti
geniche alternative.
Non si potrà mai ragionevolmente essere a favore dell’evoluzionismo se si crede che affermi che la straordinaria complessità degli organismi viventi derivi da uno scontro casuale di
molecole.
Un altro principale argomento usato dai detrattori dell’evoluzione riguarda il tempo. Sostengono che non ci sarebbe stato tempo sufficiente per raggiungere tanta complessità a partire
da forme di vita primordiali, tramite piccole graduali mutazioni, agenti tra l’altro su mutazioni
causali del codice genetico.
Questa obiezione alla teoria si basa sul fatto che gli individui non sono abituati a ragionare
con grandi numeri, su archi di tempo estremamente ampi, come sarebbe necessario invece per
poter comprendere appieno l’evoluzione. Abbiamo generalmente a che fare con al massimo 4 o
5 generazioni, mentre l’evoluzione agisce su centinaia, migliaia di generazioni, in centinaia di
migliaia, milioni e miliardi di anni.
Inoltre l’evoluzione non è un processo continuo, dato da minuziosi aggiustamenti progressivi e costanti. L’evoluzione ha invece un andamento a gradini. Vi sono momenti di grande stasi
e momenti di forte cambiamento.
Questi due tasti controintuitivi della teoria possono anche essere premuti contemporaneamente dagli anti-evoluzionisti. Una volta fatta confusione sul ruolo del caso nell’evoluzione è
facile portare a credere che non possa esserci stato abbastanza tempo.
Variabilità
Un’altra misconcezione affermata è causata dalla scarsa importanza conferita alla variabilità
individuale nel processo dell’evoluzione. Una ricerca (Bishop & Anderson, 1990) ha infatti
mostrato come un campione di studenti ritenesse che il processo evoluzionistico trasformasse gradualmente tutti gli individui di una popolazione, alterando contemporaneamente l’intensità di un tratto presente in ognuno di essi. L’evoluzione deve invece esser pensata come il
cambiamento della proporzione di individui aventi un tratto discreto vantaggioso.
Il cambiamento era inoltre visto da quegli studenti come guidato dalla necessità, al fine della
sopravvivenza della specie, e non come frutto di mutazioni genetiche casuali.
Margaret Brumby (1984) condusse uno studio su studenti di medicina australiani, in cui
questi venivano sottoposti ad una serie di problemi. Nonostante quegli studenti possedessero
conoscenze scientifiche superiori a quelle dei coetanei, in quanto accedere a quella facoltà era
16
molto difficile, i risultati mostrarono come gli studenti avessero una concezione dell’evoluzione
lamarckiana piuttosto che darwiniana.
Le loro risposte mettevano infatti in risalto il ruolo dell’uso e disuso dei caratteri piuttosto
che la sopravvivenza o la morte degli individui. Essi parevano ragionare sui cambiamenti che
possono avvenire durante la vita di un singolo, piuttosto che il cambiamento nella proporzione
di individui aventi un certo tratto, in base al suo valore di adattività.
1.3
1.3.1
L’accettazione
Alcuni dati
La teoria dell’evoluzione è una delle più solide, empiricamente confermate e diffusamente accettate nel panorama scientifico ed è anche la base di innumerevoli altre teorie, riguardanti molteplici discipline oltre alla biologia, come la medicina, le neuroscienze, la psicologia: “nulla in
biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione” (Dobzhansky, 1973).
È talmente importante affinchè le conoscenze della biologia possano assumere un senso
all’interno di una cornice coerente che la National Academy of Science (US) (1998) ha dedicato
un’intera opera per fornire ai professori informazioni e risorse utili per un corretto insegnamento
della teoria dell’evoluzione. Tante altre opere sono state scritte sullo stesso tema e riviste peerreviewed come “The American Biology Teacher” pubblicano ormai sempre più spesso articoli
finalizzati a chiarire l’importanza di una comprensione della teoria dell’evoluzione e alla critica
dei movimenti crezionisti intenzionati a ostacolarla e a confondere studenti e pubblico generale.
Con Richard Dawkins (1976) si potrebbe sostenere che se un’ipotetica civiltà aliena superiore raggiungesse un pianeta abitato, come la Terra, per stabilire il livello di civilizzazione dei
suoi abitanti si chiederebbe, tra le altre cose, se abbiano già scoperto l’evoluzione e in che grado venga accettata dalla popolazione. La consapevolezza del processo evoluzionistico è infatti
parte fondamentale della coscienza che una specie ha di sè e del proprio passato e futuro.
La teoria dell’evoluzione spiega tantissimi fenomeni, come la resistenza ai pesticidi, e costituisce il fondamento scientifico di numerose pratiche. Un esempio è l’utilizzo degli antibiotici,
per cui è necessario tenere conto dell’evoluzione dei batteri.
Nonostante ciò, spesso ha fama di essere un argomento controverso, nel quale gli scienziati
non hanno ancora raggiunto un accordo o per cui non vi siano in realtà prove empiriche.
La situazione è preoccupante soprattutto negli Stati Uniti, dove solo un 40% della popolazione ritiene vera la teoria dell’evoluzione (Miller, Scott & Okamoto, 2006). Ancora peggio, tra
il 1982 e il 2006 la percentuale del pubblico generale che dichiarava di credere in una evoluzione
non guidata dalla divinità non ha mai superato il 17% (Plutzer & Berkman, 2008). Questo denota una scarsissima comprensione, tra il pubblico generale, dei reali meccanismi evoluzionistici,
che agiscono in maniera cieca, non guidati da alcun agente intenzionale.
17
Figura 1.2: Percentuale di accettazione dell’evoluzione tra il pubblico generale.
Fonte: Miller, J. D., Scott, E. C., & Okamoto, S. (2006). Public acceptance of evolution. Science, 313(5788),
765-766.
18
Ancora più preoccupante è il fatto che queste proporzioni si ripetono molto similmente tra
studenti di biologia e persino nei loro insegnanti, la cui posizione nei confronti della teoria
evoluzionista influenzerà ovviamente il modo in cui la insegneranno (Aguillard, 1999; Eve &
Dunn, 1990; Shankar & Skoog, 1993).
L’insegnamento dell’evoluzionismo nelle classi, in particolare negli USA, incontra parecchie difficoltà. La Planning Committee on Thinking Evolutionarily, Making Biology Education
Make Sense, Board on Life Sciences, & Division on Life Sciences (2012), nell’opera “Thinking Evolutionarily: Evolution Education Across the Life Sciences: Summary of a Convocation” riporta le emblematiche dichiarazioni di alcuni insegnanti. Sembra che molti professori di
biologia non siano sufficientemente preparati sui meccanismi dell’evoluzione e questo è sicuramente una concausa del timore e della diffidenza che provano verso l’insegnamento di quell’argomento. La scarsa preparazione in materia di evoluzione spesso si affianca ad una mancata
comprensione del pensiero scientifico e dei suoi procedimenti: il pensiero evoluzionistico può
sorgere infatti solo su una solida base di pensiero scientifico.
La National Survey of High School Biology teachers, basata su un campione di 926 insegnanti di biologia nelle scuole pubbliche superiori statunitensi, rivela una diffusa riluttanza ad
insegnare senza mezzi termini la teoria dell’evoluzione (Berkman & Plutzer, 2011). Solo il 28%
degli insegnanti di biologia rispetta le raccomandazioni del National Research Council (1996).
Nelle scuole più conservatrici quasi 4 insegnanti su 10 rifiutano l’evoluzione umana ed in generale il 13% degli insegnanti sostiene esplicitamente le posizioni creazioniste (o del Disegno
Intelligente).
Berkman & Plutzer (2011) tuttavia sospettano che i maggiori danni siano portati da quel
60% di insegnanti che non sono schierati né dalla parte della scienza e dell’evoluzione, né da
quella delle alternative creazioniste. Per evitare di mettersi in gioco essi infatti utilizzerebbero
strategie controproduttive al fine della comprensione della teoria evoluzionistica. Le più comuni
sono
• insegnare l’evoluzione come se si applicasse solo alla biologia molecolare,
• insegnarla come se fosse un “male necessario” poichè parte del curriculum,
• esporre la teoria dell’evoluzione e il creazionismo come se fossero punti di vista alla pari.
Quest’ultima strategia in particolare va a rafforzare le misconcezioni del primo tipo, per cui
l’evoluzionismo è visto come una dottrina in cui si possa credere o meno, e non come un insieme
di affermazioni scientifiche supportate da prove empiriche.
Anche in Europa il creazionismo permane e si fa sentire. Nel 2007 un ministro dell’educazione in Germania propose che il creazionismo fosse insegnato nelle scuole al fianco
dell’evoluzionismo (Curry, 2009).
Non di meno, campanelli d’allarme dovrebbero suonare in Italia dove nel 2004, durante il
secondo governo Berlusconi, il decreto legislativo n.59 del 19 Febbraio eliminò dai programmi
19
di studio delle scuole medie l’insegnamento della teoria dell’evoluzione (Nosengo & Cipolloni,
2009). Le motivazioni dietro a questo gesto non sono chiare.
1.3.2
I fattori che influenzano l’accettazione
Sono stati fatti molti studi sui fattori che influenzano l’accettazione dell’evoluzione. Sinatra,
Southerland, McConaughy e Demastes (2003) usando un campione di studenti universitari
non hanno trovato alcuna relazione statisticamente significativa tra conoscenza e accetazione
dei meccanismi dell’evoluzione. Risultava invece significativa la stessa relazione nel caso dei
meccanismi della fotosintesi.
Nella stessa ricerca sono risultate come fattori in grado di influenzare positivamente l’accettazione dell’evoluzione, sia la sofisticatezza delle credenze epistemologiche che la disposizione
verso l’apertura mentale. La sofisticatezza epistemologica è stata misurata selezionando dall’Epistemological Belief Scale (Kardash e Scholes, 1996), solo le sottoscale ipotizzate rilevanti:
cercare risposte singole, non criticare l’autorità, informazione ambigua, dipendenza dall’autorità, e conoscenze indubbie. La misura delle disposizioni si basa invece sul lavoro di Stanovich
(1999), con punteggio composito ottenuto sottraendo la somme dei punteggi delle scale riflettenti chiusura mentale (assolutismo, dogmatismo, pensiero categoriale ed identificazione con
le credenze) alla somma dei punteggi delle scale riflettenti apertura mentale (pensiero aperto e
attivo, bisogno di cognizione, valori).
Un’analisi separata delle sottoscale sulle credenze epistemologiche e sulle disposizioni ha
rivelato tre ulteriori relazioni significative con le conoscenze sull’evoluzione: gli studenti che
riportavano un cattivo atteggiamento verso le informazioni ambigue o una forte identificazione con le proprie credenze avevano meno conoscenze, mentre il pensiero aperto e attivo era
correlato con una maggiore conoscenza dell’evoluzione.
Deniz, Donnelly e Yilmaz (2008) hanno condotto uno studio simile su un campione di
insegnanti di biologia turchi non ancora in servizio (preservice teachers). Hanno trovato che
l’accettazione della teoria dell’evoluzione correlava significativamente sia con la conoscenza
sulla teoria che con le disposizioni a pensare/apprendere. La combinazione di questi due fattori
era però capace di spiegare solo un 8,3% di variabilità. Un’altra correlazione è stata trovata
tra accettazione e educazione dei genitori (anche se non generalizzabile). A differenza dello
studio precedentemente descritto però non fu trovata alcuna correlazione significativa con la
sofisticatezza epistemologica.
In questi e in altri studi comunque il grado di conoscenza/comprensione sull’evoluzione e
le altre variabili considerate spiegano solo una piccola parte della variabilità nell’accettazione e coerentemente gli interventi educazionali non sembrano efficaci (Chinsamy & Plagànyi,
2007). Anche per quanto riguarda il comportamento degli insegnanti di biologia, aumentare
le loro conoscenze sia sull’evoluzione che sulla natura del sapere e del procedimento scientifi-
20
ci non cambia i loro atteggiamenti verso l’insegnamento della teoria evoluzionistica (Nehm &
Schonfeld, 2007).
Differentemente, altre ricerche hanno trovato relazioni più solide tra conoscenza e accettazione dell’evoluzione (Paz-y-Minõ & Espinosa, 2009). Alcuni (Catley, 2006) sostengono che le
relazioni potrebbero cambiare a seconda che si parli di microevoluzione o di macroevoluzione
e che in generale sia stata data troppa enfasi alla prima a discapito della seconda. Su questa
scia, lo studio di Nadelson e Southerland (2010) mostra, in un campione di circa 700 studenti di
biologia, una relazione significativa sia tra accettazione e comprensione della macroevoluzione
che tra numero di corsi di biologia, accettazione e conoscenza della macroevoluzione. Inoltre,
all’aumentare della conoscenza la correlazione positiva tra conoscenza e accettazione aumenta.
Una recente ricerca (Ha, Haury & Nehm, 2012) propone un nuovo fattore come “anello
mancante” tra la conoscenza e l’accettazione. Questo è la sensazione di certezza (feeling of
certainty, FOC), ovvero uno stato mentale primario, un’emozione, indipendente da qualsiasi
conoscenza sottostante. Esso emerge involontarieamente e senza alcuna precedente cognizione.
Secondo J. Evans (2003) il processo cosciente di conoscere e la sensazione di certezza dipendono da due diversi sistemi cognitivi aventi separate storie evoluzionistiche. Il primo fornisce
risposte rapide e automatiche ed opera prevalentemente al di sotto del livello di coscienza. Il
secondo è più lento e sequenziale e da esso derivano il pensiero conscio, astratto, logico. Questi
due sistemi possono essere chiamati rispettivamente mente intuitiva, di cui fa parte il FOC, e
mente riflessiva (Evans, 2010).
La proposta degli autori (Ha, Haury & Nehm, 2012) è che l’accettazione della teoria dell’evoluzione sia ostacolata da sensazioni di certezza risultanti da idee intuitive di tipo creazionista
che, come vedremo in seguito, sono presenti fin dall’infanzia. Il FOC a livello inconscio potrebbe spiegare l’accettazione meglio del livello conscio di conoscenze sulla teoria e i risultati
hanno supportato questa predizione.
1.3.3
I movimenti anti-evoluzionisti
Creazionismo e Disegno Intelligente
Il creazionismo esiste in percentuali più o meno grandi in praticamente tutti i gruppi umani,
classi sociali, culture e quasi tutti i miti e le religioni propongono una visione creazionista della
nascita della vita sulla Terra: frutto di un progetto, di azioni compiute da un agente intenzionale.
Il Disegno Intelligente (Intelligent Design, ID), una dottrina nata negli anni ’80, sostiene
che il Neodarwinismo non possa spiegare l’origine e l’evoluzione del mondo e degli organismi
viventi che lo abitano, nella loro straordinaria complessità (Forrest & Gross 2004, 2007; Young
& Taner 2004; Miller 2007, 2008). Negli USA, nel 2005, è stata combattuta la famosa causa
legale Kitzmiller v. Dover (Berkman & Plutzer, 2011; Lee, 2006): la prima in cui fu portata
davanti alle corti federali degli Stati Uniti una politica di un distretto scolastico che richiedeva
l’insegnamento della dottrina del Disegno Intelligente accanto alla teoria dell’evoluzione. Dopo
21
che importanti figure testimoniarono a favore del consenso scientifico circa la teoria dell’evoluzione, la corte stabilì che la politica del consiglio scolastico era di una “inenità mozzafiato” e che
la difesa aveva mentito nel sostenere che non vi fosse alcuna motivazione religiosa sottostante
(Coyne, 2009). Il giudice Jones dichiarò inoltre che il Disegno Intelligente era “creazionismo
riciclato” e che di conseguenza il suo insegnamento avrebbe costituito una violazione del primo
emendamento della Costituzione (Berkman & Plutzer, 2011):
“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una
religione (...)”
Questo famoso episodio è solamente uno di una lunga serie che vede i movimenti creazionisti
perdere tutte le maggiori cause degli ultimi 40 anni. Per questo motivo Jerry Coyne (2009)
paragona il crezionismo a quel pagliaccio gonfiabile sempre-in-piedi con cui spesso giocano i bambini: indipendentemente da quante volte venga colpito ritorna sempre nella stessa
posizione.
La critica ad una teoria scientifica, di per sé, non è una cosa negativa. La scienza si fonda
infatti sulla continua proposizione di ipotesi e sui tentativi di falsificarle (Popper, 1970).
La situazione in questo caso è però molto diversa. Il movimento del Disegno Intelligente
tenta di confutare una teoria scientifica ben consolidata non tramite prove empiriche bensì sfruttando tendenze mentali (culturalmente e naturalmente determinate) che rendono controintuitiva
tale teoria. L’ID si basa solamente su argomenti al negativo, ovvero attacchi a quelle parti della
teoria evoluzionistica che sono più facili da far apparire come scricchiolanti ad occhi inesperti.
Non avanza davvero prove a favore delle sue ipotesi, ma si limita a porsi come unica alternativa
obbligatoria per chi non sia convinto della veridicità dell’evoluzione.
In ogni caso non potrebbe nemmeno portare prove a suo favore dato che la spiegazione
alternativa proposta dall’ID chiama in causa costrutti non falsificabili e pertanto non scientifici,
come quello di “progettista”.
La teoria evoluzionistica è invece, come abbiamo visto, facilmente falsificabile.
La strategia dei movimenti creazionisti si basa sull’ironia e sull’emotività ed assomiglia di
più ad una campagna elettorale che ad un comportamento di ricerca scientifica. I sostenitori
del Disegno Intelligente si fanno spesso beffa della teoria dell’evoluzione, esagerandone certe
parti, sminuendone altre e cercando il più possibile di accentuare le misconcezioni, purtroppo
già molto diffuse.
I movimenti creazionisti fanno leva sulla psicologia intuitiva, che sembra naturalmente predisposta a dar loro ragione. Ciò è analogo a quel che successe con Galileo Galilei. Al tempo
infatti l’opposizione alla sua teoria faceva leva sulla fisica intuitiva (Brecht, 1994):
PRELATO GRASSO Macché! Crederebbero anche a questo. Solo a ciò che è
ragionevole, non credono. Dubitano dell’esistenza del diavolo; ma ammannitegli
un po’ la storiella della terra che rotola nel cielo come un sassolino in un tubo di
scarico, e a quella ci credono. Sancta simplicitas!
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UN MONACO (facendo il buffone) Uh, come gira in fretta! Mi sento le vertigini. Permettete, messere, che mi aggrappi a voi? (Si aggrappa, traballando
buffamente, a uno scienziato).
Il creazionismo “scientifico”
Molti argomenti a favore dell’inclusione dell’insegnamento del creazionismo accanto alla teoria dell’evoluzione nelle classi di scienze delle scuole pubbliche ruotano attorno alla questione
se il creazionismo costituisca o meno un’alternativa scientifica (Smith, Siegel & McInerney,
1995). Viene infatti chiamato “creazionismo scientifico” per sottolinearne l’indipendenza dalle
fedi religiose, come se fosse effettivamente una teoria alternativa da contrapporre al darwinismo. Naturalmente la definizione di creazionismo scientifico è solo un espediente ed infatti i
suoi promotori sono credenti in una religione che sostiene la creazione e sono mossi da motivazioni religiose. Negli Stati Uniti, i creazionisti non sono d’accordo con l’insegnamento del
creazionismo nelle classi di studi sociali o di religioni comparate ed insistono che venga insegnato nelle classi di scienze e che gli vengano dedicate le medesime ore dell’insegnamento
dell’ evoluzionismo. Questo comportamento è comprensibile in quanto altrimenti il loro punto
di vista fondamentalista cristiano sarebbe posto alla pari delle visioni del mondo di tutte le altre
religioni o culture (Scott & Cole, 1985).
Una teoria è scientifica se
• indaga sul mondo naturale;
• è basata su dati empirici (osservabili), può correggersi autonomamente;
• le sue ipotesi sono falsificabili e testabili con esperimenti ripetibili;
• se ha un potere predittivo e se mostra una certa coerenza con altre conoscenze.
Un ricercatore si comporta un maniera scientifica se
• cerca risposte e spiegazioni che abbiano tali caratteristiche di scientificità;
• ha la mente aperta e basa le proprie conclusioni sui risultati delle ricerche e non su
posizioni assunte a priori e convinzioni personali;
• è scettico circa il suo lavoro e quello degli altri ricercatori, analizzando i dati in maniera
imparziale.
Ovviamente vi sono teorie che soddisfano completamente i requisiti di scientificità, altre che
non li soddisfano per niente e altre ancora che stanno nel mezzo, soddisfando solo alcuni punti.
Allo stesso modo è difficile che un ricercatore sia completamente obiettivo e mai minimamente
influenzato dalle sue credenze personali, speranze, esperienze precedenti, e così via. Ciò che
23
conta però è che la scienza cerca il più possibile di soddisfare queste condizioni ideando stratagemmi per evitare queste distorsioni soggettive, come i disegni sperimentali a “doppio cieco”,
ed essendo consapevole dei limiti all’oggettività raggiungibile.
Una obiezione che i sostenitori del creazionismo scientifico spesso muovono verso la teoria
dell’evoluzione è che i fatti a cui si riferisce non possono essere osservati e, di conseguenza,
non può essere davvero considerata una teoria scientifica. In effetti, come detto sopra, un requisito di scientificità per una teoria è di essere basata su dati empirici, osservabili. Tuttavia anche
in questo caso siamo di fronte ad un inganno. Infatti, i canoni della metodologia scientifica
non richiedono che un dato fenomeno sia “direttamente” osservabile per accertarne l’esistenza,
quanto che la teoria sia “fondata su dati empirici”: gli scienziati possono anche lavorare sulle conseguenze, queste sì empiriche e osservabili, di quel fenomeno. Ci sono molti esempi di
teorie scientifiche basate sull’osservazione delle conseguenze che emanano da un fenomeno impossibile da osservare direttamente. Nessuno può vedere un elettrone ruotare attorno al nucleo
di un atomo ma questo non mette in dubbio la scientificità delle teorie della fisica nucleare.
Il cosiddetto creazionismo scientifico invece non si basa su dati osservabili (Scott & Cole, 1985), le sue affermazioni sono in parte non testabili con esperimenti e quelle che possono
essere testate prevalentemente si scontrano con le evidenze empiriche. Per questi motivi il
creazionismo potrebbe al massimo essere definito “pseudoscienza”. La posizione creazionista
risulta enormemente incoerente con tantissimi altri fatti, come i tratti vestigiali o la distribuzione geografica delle popolazioni e delle specie. Infine, il creazionismo ha uno scarso valore
predittivo e le predizioni che potrebbero essere fatte risultano ai fatti false.
Il creazionismo non costituisce per nulla un’alternativa scientifica alla teoria dell’evoluzione, tuttavia per poterlo capire insegnanti e studenti devono essere in grado di distinguere ciò che
è scienza da ciò che non lo è. Purtroppo gli insegnamenti riguardanti la natura della scienza e
il metodo scientifico sono spesso limitati. Moltissime persone non hanno idea di cosa significhi
definire una teoria “scientifica” e pertanto cadono facilmente in errori, finendo per concordare
con le pretese di scientificità delle teorie creazioniste.
24
Capitolo 2
Teoria dell’evoluzione e psicologia della
credenza
We humans have purpose on the brain... Show us almost any object or process, and it is hard for us to resist the
“Why” question—the “What is it for?” question (Dawkins, 1995).
È stato visto come la teoria dell’evoluzione, a differenza di molte altre teorie risulti difficile
da fare comprendere e accettare al pubblico generale. Questa difficoltà può derivare dalla sua
incompatibiltà con le concezioni e i valori di varie culture e religioni o con una spinta emotiva e motivazionale a credere in altri tipi di spiegazioni. La specie umana possiede un’adattiva
tendenza egocentrica e pone sé stessa al centro dell’universo. È una fase attraverso cui passa
ogni individuo e ogni cultura. È spontaneo che l’uomo ponga sé stesso come metro di misura
di tutte le cose e che accentui la differenza con gli altri animali. Accettare la teoria dell’evoluzione significa anche mettersi alla pari con gli altri animali, il che costituisce un’offesa a questo
spontaneo egocentrismo.
I dati tuttavia suggeriscono qualcosa di più. Sembra che il nostro cervello sia “specificamente progettato per fraintenderla” (Dawkins, 1986). In questo capitolo sarà esaminata l’ipotesi che
l’origine della controintuitività della teoria dell’evoluzione sia da ricercare nella folk psychology e, in particolare, che sia legata ai meccanismi psicologici per l’attribuzione di intenzionalità
e scopi (Girotto, Pievani & Vallortigara, 2008). Queste tendenze innate della mente umana sarebbero state così plasmate dallo stesso processo dell’evoluzione poichè adattive per l’ambiente
in cui l’essere umano si è evoluto.
2.1
Etologia e psicologia evoluzionistica
L’etologia è lo studio del comportamento animale, con lo scopo primario di descriverlo, interpretarlo dal punto di vista funzionale, causale, ontogenetico e filogenetico. La scuola etologica
europea, fondata da Konrad Lorenz, studia gli animali principalmente nel loro ambiente naturale, pone in evidenza il carattere adattativo dei comportamenti animali e tramite comparazioni
25
con organismi affini ricostruisce le modificazioni comportamentali prodottesi durante l’evoluzione per mezzo della selezione naturale. L’etologia infatti assume che ciascuna specie sia
caratterizzata, oltre che da caratteri morfologici, da specifici moduli comportamentali (Alleva
& Carere, 1999).
L’uomo come le altre specie ha alle spalle una storia di evoluzione e le sue caratteristiche sono state modellate dal processo di selezione naturale divenendo sempre più adatte ad affrontare
i problemi adattativi presenti nell’ambiente. La psicologia evoluzionistica fa proprie le conoscenze della psicologia e della biologia evoluzionistica e si propone di studiare la mente umana
in quanto prodotto della selezione naturale. I meccanismi psicologici si sono evoluti come adattamenti e costituiscono il punto di congiunzione tra le basi biologiche del comportamento e le
condizioni ecologiche in cui si manifesta (Buss, 2012).
Per introdurre questo argomento è necessario comprendere un altro “fatto scientifico” (per
come è stato sopra definito) che spesso risulta controintuitivo e difficile da accettare: le caratteristiche della mente, la cognizione, le emozioni e i comportamenti sono il risultato di processi
fisici e chimici che hanno luogo all’interno del cervello. Di conseguenza non solo le caratteristiche puramente fisiche, come artigli, pelliccia, occhi e altri organi sono soggette ai meccanismi
dell’evoluzione, ai filtri della selezione naturale, sessuale e agli effetti della deriva genetica.
Le caratteristiche di comportamenti, emozioni e processi cognitivi sono plasmabili esattamente
allo stesso modo e secondo la stessa logica.
La selezione dei comportamenti degli organismi viventi agisce sulle istruzioni fornite dal
codice genetico per la costruzione del sistema nervoso. I geni portanti istruzioni per la costruzione di reti neurali causanti comportamenti più adattivi tenderanno a diffondersi maggiormente
nel pool genico della popolazione.
La nostra mente non è costruita per essere perfettamente logica o oggettiva. Al contrario,
l’evoluzione ha fatto sì che venisse programmata con dei bias tali da distorcere i processi cognitivi nella maniera più adattiva possibile, al fine della sopravvivenza e riproduzione. Per esempio,
le persone tendono ad essere più ottimisti rispetto ai dati di realtà ed un perfetto realismo è in
genere correlato ad una lieve depressione (Haaga & Beck, 1995). Questi bias possono essere
spiegati solo considerando la storia evoluzionistica della nostra specie, avvenuta in un ambiente
ben diverso da quello moderno: la vita da cacciatori-raccoglitori nelle savane africane, durante
il Pleistocene, tra 2,5 milioni e 10.000 anni fa.
2.1.1
Fisica intuitiva e psicologia intuitiva
Una conoscenza intuitiva e innata delle proprietà che caratterizzano il mondo fisico è un tratto
adattivo. Quindi si sarà stabilita in molte specie animali, tramite l’evoluzione, un sistema di conoscenze relativo agli oggetti del mondo fisico già presente alla nascita e che quindi si sviluppa
con poca o nessuna esperienza (Girotto, Pievani & Vallortigara, 2008). Per esempio, sia gli
scimpanzè che le scimmie rhesus guardano incuriositi più a lungo eventi fisicamente impossi-
26
bili rispetto ad eventi possibili (Cacchione & Krist, 2004; Hauser & Spaulding, 2006). Prove di
quella che possiamo chiamare “fisica intuitiva” ci sono anche per i corvi (Seed, Tebbich, Emery
& Clayton, 2006).
Baillargeon, Needham e DeVos (1992) hanno dimostrato che bambini di soli 6 mesi si aspettano che un oggetto privo di un adeguato supporto fisico cada e rimangono sorpresi quando ciò
non avviene. I ricercatori hanno usato un paradigma di abituazione visiva, la cui logica deriva
dal fatto che i bambini guardano più a lungo eventi che gli sembrano nuovi o inattesi. I bambini
osservavano più a lungo l’evento di contatto parziale rispetto a quello di contatto totale nel caso
in cui il contatto parziale era inadeguato a supportare fisicamente l’oggetto (Figura 2.1), mentre non vi era differenza nei tempi di osservazione tra i due eventi nella condizione di contatto
parziale adeguato (Figura 2.2).
Figura 2.1: Condizione di contatto parziale inadeguato al supporto fisico dell’oggetto.
Fonte: Baillargeon, R., Needham, A., & DeVos, J. (1992). The development of young infants’ intuitions about
support. Early development and parenting, 1(2), 69-78.
Figura 2.2: Condizione di contatto parziale adeguato al supporto fisico dell’oggetto.
Fonte: Baillargeon, R., Needham, A., & DeVos, J. (1992). The development of young infants’ intuitions about
support. Early development and parenting, 1(2), 69-78.
Negli esseri umani la fisica intuitiva sembra implicare la nozione di “solidità” degli oggetti
e di “gravità”. Ovviamente ciò non significa che i bambini nascano con specifiche nozioni di
meccanica, simili a quelle che si studiano sui libri di scuola, ma che ci siano intuizioni primitive
sul comportamento degli oggetti fisici in determinate situazioni, come nel caso del supporto
27
fisico. Come i bambini dell’esperimento, anche gli adulti sanno che un oggetto deve avere
un supporto fisico adeguato per non cadere a causa della forza di gravità. È una conoscenza
implicita, intuizioni che ciascuno di noi dà per scontate anche senza aver mai appreso una
teoria formale esplicita e siamo spontaneamente meravigliati alla vista di eventi che infrangono
queste nostre aspettative.
Tanto quanto siamo dotati di conoscenze implicite innate relative al mondo fisico, lo siamo
anche per il mondo psicologico, che nella nostra specie in particolare riveste un ruolo fondamentale, data la quantità e l’importanza delle relazioni sociali nell’esistenza di ogni essere
umano. Se la forza è il principio che sottende le intuizioni meccaniche, l’intenzione è quello
che sottende le intuizioni psicologiche.
Gli esseri umani quindi possiedono sia una fisica intuitiva (folk physics) che una psicologia
intuitiva (folk psychology) e infatti numerosi esperimenti dimostrano come i bambini sin da
pochi mesi di vita trattino differentemente oggetti inanimati, esclusivamente fisici, e oggetti
animati, intenzionali. Inoltre i bambini sono precocemente molto sensibili a tutti gli indizi di
agenticità, come gli occhi e la bocca o l’autopropulsione, cosa che li aiuta a distinguere fin da
subito questi due tipi di oggetti e a comportarsi di conseguenza.
In un esperimento di Hamlin, Wynn e Bloom (2007) viene mostrata a bambini di 10 mesi
una scena in cui una pallina dotata di occhi cerca, senza successo, di scalare una collina. Successivamente vengono mostrate altre due scene, una in cui un triangolo aiuta la pallina a salire e
un’altra in cui un quadrato la ostacola respingendola verso il basso (Figura 2.3). Sia il triangolo
che il quadrato sono dotati di occhi, i quali costituiscono un indizio rudimentale di agenticità, e
questo porta i bambini a considerare le figure come oggetti animati e intenzionali piuttosto che
meramente fisici. A prova di quanto detto, quando i bambini vengono spinti a scegliere uno tra
i due oggetti, triangolo o quadrato, essi scelgono prevalentemente il triangolo, mostrando così
di aver effettivamente percepito le figure come agenti intenzionali e di averne anche codificato
le intenzioni, buone o cattive, preferendo poi la figura “buona”.
Se in un’altra condizione vengono tolti gli occhi dalla pallina, il comportamento dei bambini cambia radicalmente: non mostrano alcuna preferenza per il triangolo. In questo caso infatti,
seppur i movimenti delle figure geometriche fossero gli stessi, i bambini non li hanno interpretati come interazioni sociali, in cui erano in gioco delle intenzioni, ma come interazioni fisiche.
Il triangolo e il quadrato sono visti come agenti animati che “muovono” una pallina (Figura
2.4).
28
Figura 2.3: Il triangolo “aiuta” la pallina e il quadrato la “ostacola”.
Fonte: Hamlin, J. K., Wynn, K., & Bloom, P. (2007). Social evaluation by preverbal infants. Nature, 450(7169),
557-559.
Figura 2.4: Il triangolo e il quadrato spingono una pallina.
Fonte: Hamlin, J. K., Wynn, K., & Bloom, P. (2007). Social evaluation by preverbal infants. Nature, 450(7169),
557-559.
2.2
L’attribuzione di intenzionalità e scopi
I primi indizi del fenomeno oggetto di questo capitolo risalgono allo studio ormai classico di
Fritz Heider e Marianne Simmel (1944). Ai soggetti era richiesto di interpretare un breve filmato
(Figura 2.5) in cui 3 figure geometriche, un triangolo grande, un triangolo piccolo e un cerchio,
si muovevano in varie direzioni e a diverse velocità. Vi era poi un altra figura: un rettangolo
immobile del quale una piccola sezione poteva essere aperta e chiusa come una porta.
Figura 2.5: Fotogramma del filmato utilizzato nell’esperimento di Heider e Simmel.
Fonte: Heider, F., & Simmel, M. (1944). An experimental study of apparent behavior. The American Journal of
Psychology, 243-259.
29
Le istruzioni del primo esperimento erano, in generale, di scrivere ciò che accadeva nel
filmato. I risultati mostrarono come la maggior parte dei soggetti spontaneamente interpretava
la scena in termini di entità animate intenzionali. Per esempio, “un uomo ha pianificato di
incontrare una ragazza che però è già assieme ad un altro uomo, i due uomini combattono”, e
così via. Nel secondo esperimento i soggetti sono specificamente istruiti a descrivere la scena
interpretando gli eventi come azioni umane, rispondendo in seguito a specifiche domande sulla
personalità delle figure geometriche e sulle motivazioni sottostanti ai loro movimenti.
Dai risultati si capisce che i soggetti non hanno avuto alcun problema a descrivere il triangolo grande come aggressivo e dominante, quello piccolo come eroico e combattivo, il cerchio
come spaventato e timido, e via dicendo. Oltre a questo i soggetti hanno anche facilmente
individuato le motivazioni sottostanti alle azioni delle figure geometriche, questo a dimostrazione del fatto che i loro movimenti venivano codificati come diretti a scopi e non come casuali
o semplicemente meccanici. Naturalmente le interpretazioni dei diversi soggetti potevano variare, tuttavia quasi tutte le descrizioni avevano in comune riferimenti ad azioni intenzionali e
vedevano le figure geometriche come agenti animati, umanizzandoli come se la scena fosse una
rappresentazione stilizzata di una vicenda umana.
Descrivere una sequenza di movimenti in funzione di uno scopo fornisce dei vantaggi in
quanto possono essere raggruppati in insiemi logici e coerenti e non rimangono come movimenti sconnessi e arbitrari. Inoltre, essendo gli osservatori esseri umani, è comprensibile la spontaneità nell’interpretare la scena come un’interazione sociale. Le persone infatti sono immerse
per gran parte della loro vita in dinamiche di interazione sociale. Dato il ruolo fondamentale che
queste hanno avuto nel corso dell’evoluzione della nostra specie, è inoltre plausibile che la mente umana sia stata plasmata in un modo che le garantisce un’estrema sensibilità alle intenzioni,
rendendo questi tipi di ragionamenti rapidi, automatici, naturali. Numerose prove supportano
l’ipotesi che questa sensibilità alle intenzioni sia innata, sorgendo molto precocemente nel corso
dello sviluppo, e che quindi sia geneticamente determinata e propria della natura umana.
Girotto, Pievani e Vallortigara (2008) spiegano come Darwin, nelle sue opere, appaia ben
conscio della spontaneità delle obiezioni fatte alla sua spiegazione evoluzionistica. Queste obiezioni sono strettamente legate alla tendenza umana a ragionare in termini di intenzioni e scopi
e risulta quindi arduo comprendere ed accettare l’esistenza di un meccanismo che, in maniera
cieca, abbia dato luogo ad oggetti complessi e che appaiono in tutte le loro parti come se fossero
stati appositamente progettati per svolgere la funzione che effettivamente svolgono.
2.2.1
Spiegazioni teleologiche-funzionali
In generale una spiegazione di un oggetto o di un evento si definisce teleologica quando afferma
che la ragione per cui esistono sia il loro fine, assumendo che ne abbiano uno. Possiamo anche
30
chiamare queste spiegazioni “teleologiche-funzionali” in quanto fanno riferimento alla funzione
svolta.
Come ricorda Konrad Lorenz (1974; 1982), un biologo che si trovi a studiare un organo
mai visto prima deve giustamente dare sia una spiegazione meccanica che una teleologica. La
spiegazione meccanica riguarda i meccanismi di funzionamento dell’organo, ovvero i processi
fisici e chimici che lo caratterizzano. La spiegazione teleologica si riferisce invece alla funzione
che svolge in relazione all’organismo. “A cosa serve” quell’organo?
È corretto dire che un determinato tratto (ciò vale anche per i comportamenti) è stato plasmato dalla selezione naturale in una determinata maniera, proprio perchè svolge un funzione
in grado di aumentare il successo riproduttivo dell’organismo. Un passaggio successivo è affermare che un oggetto la cui esistenza può essere spiegata in ragione della sua funzione sia stato
appositamente e coscientemente creato da un artefice dotato di intenzionalità. Ciò è sicuramente
vero per gli artefatti, a cui noi siamo abitutati fin dalla nascita.
Questa inferenza risulta però falsa per quanto riguarda le proprietà biologiche, gli organi o i
comportamenti. Gli occhi, sì, trovano la ragione della loro esistenza nella funzione che svolgono, di conferire all’individuo la capacità di orientarsi nello spazio elaborando onde elettromagnetiche, tuttavia non c’è nessun artefice ad averli intenzionalmente progettati. Questo rappresenta il nucleo fondamentale della scoperta di Charles Darwin: un meccanismo che riesce, in
un tempo sufficientemente lungo, a produrre oggetti complessi e aventi una funzione, proprio
"come se" fossero stati progettati a tavolino da un ingegnere: un orologiaio cieco (Dawkins,
1986).
La domanda “a che cosa serve?” è ricorrente nel pensiero di adulti e bambini, soprattutto
quando ci si trova davanti ad un oggetto sconosciuto, sia esso biologico o artefatto. Queste
domande sono di fondamentale importanza in quanto interrogarsi sulla funzione di un oggetto
aiuta a formulare ipotesi sulle sue proprietà, sul suo comportamento futuro. La definizione date
di “organo”, in accezione anatomica, è proprio una parte di un animale o di una pianta che
svolge una specifica funzione.
Le persone abitualmente ricorrono al concetto di funzione per razionalizzare non solo gli
oggetti ma anche le azioni proprie e degli altri. È difficile anche resistere al domandarsi la
funzione di certi eventi, soprattutto quelli negativi, anche quando questi sono con tutta evidenza
causati da circostanze scarsamente prevedibili e controllabili, come prendersi un’infezione da
virus influenzale poco prima di un esame importante. Dopo tutto, si sente spesso dire che “la
fortuna è cieca ma la sfortuna ci vede benissimo”, lasciando sottinteso che certi eventi negativi
accadano con lo scopo di danneggiare la persona che ne è oggetto. Il senso comune è pieno
di questi pensieri finalistici che attribuiscono indebitamente a certi eventi una funzione, spesso
derivante da una indefinita “forza” o “volontà”, come la sorte o il destino. In molti racconti il
saggio afferma che “le coincidenze non esistono”.
Inoltre vi è un legame molto forte tra la comprensione della funzione (o delle funzioni) di
un oggetto e le inferenze circa il motivo della sua esistenza: Kelemen (1999b) mostra infatti
31
che sia i bambini che gli adulti tendono a vedere la funzione dell’oggetto come il motivo per cui
esso è stato progettato. Così, le forbici esistono per tagliare la carta, quello è il motivo per cui
sono state progettate. Secondo questa studiosa bisogna porsi due domande (Kelemen 1999c):
1. Qual è la relazione tra la tendenza teleologica funzionale degli adulti e quella dei bambini?
2. Che origini ha questa tendenza?
2.2.2
Le spiegazioni teleologiche nei bambini e negli adulti
Le ricerche indicano che i bambini in età prescolare, a differenza degli adulti, tendono ad attribuire funzioni indiscriminatamente a qualsiasi tipo di oggetto, dagli orologi alle tigri, alle
nuvole (Kelemen, 1999b). Sembra quindi che sia i bambini che gli adulti possiedano questa
tendenza alle spiegazioni teleologiche-funzionali, un “bias teleologico”, tuttavia i bambini la
applicano ad un insieme più ampio di oggetti ed eventi.
Bisogna però ricordare che tuttora molti adulti, soprattutto al di fuori della moderna cultura
occidentale, usano spiegazioni sovrannaturali teleologiche anche per entità naturali non viventi.
Inoltre, prima della diffusione delle idee evoluzionistiche e prima che la scienza spiegasse numerosi fenomeni naturali, la spiegazione teleologica di molti fenomeni naturali non biologici,
in particolare quelli necessari per la vita, era accettata dalla maggior parte delle persone.
Kelemen e Rosset (2009), utilizzando procedure più sottili rispetto ad altri studi, hanno
dimostrato che persino adulti che hanno seguito molti corsi di scienza all’università tendono
ad utilizzare spiegazioni teleologiche ingiustificate per fenomeni naturali non viventi. Nell’esperimento i partecipanti venivano esposti ad una serie di spiegazioni di “perchè certe cose
succedono” che dovevano poi contrassegnare come buone (corrette) o cattive (errate). È interessante notare che questo bias teleologico era maggiore se aumentava la velocità a cui le frasi
stimolo venivano presentate, mentre le risposte ad item di controllo non mostravano un calo
di accuratezza. Questi risultati suggeriscono che la tendenza a vedere la natura in termini finalistici perdura nell’età adulta e non è sostituita dalle spiegazioni scientificamente giustificate
acquisite con l’esperienza, che possono solo sistematicamente inibirla. Se il controllo inibitorio
è ostacolato però la tendenza riemerge come risposta automatica.
Bisogna anche considerare che non solo è un errore estendere la spiegazione teleologicafunzionale alle cose non viventi della natura ma anche estenderla all’intero essere vivente. Ovvero, è giusto dire che il cuore serve per pompare sangue attraverso le vene, ma è sbagliato
affermare che il leone serva per mangiare le gazzelle.
2.2.3
L’origine delle spiegazioni teleologiche
Quasi tutte le diverse culture, filosofie e religioni propongono spiegazioni teleologiche dei fenomeni della natura. In particolare le religioni fanno della visione finalistica del mondo il proprio
nucleo: tutto è stato progettato coscientemente da una divinità, in vista di un fine. Tuttavia
32
nello studio di Kelemen e Rosset (2009), sopra descritto, non è stato trovato alcun legame tra
credenze religiose e bias teleologico ed anche altri studi (e.g. Evans, 2001) mostrano una certa
indipendenza tra credenze religiose e spiegazioni teleologiche. Il bias teleologico deve quindi
essere considerato un fenomeno più ampio, non semplicemente dovuto all’influenza di credenze
religiose.
Ci sono molti motivi per dubitare che tale bias sia un fenomeno interamente culturale e che
debba la sua diffusione e persistenza alla trasmissione culturale. Infatti è stato dimostrato che i
genitori, parlando con i figli, preferiscono di solito le spiegazioni causali a quelle teleologiche,
anche in risposta a domande ambigue circa il tipo di spiegazione richiesta (Kelemen, Callanan,
Casler & Pérez-Granados, 2005). Inoltre il bias teleologico, pur con diversa intensità, può
essere ritrovato in tutte le culture e durante tutta la storia dell’umanità, fatto che suggerisce di
cercare le radici di questo fenomeno nella natura umana.
Si può ipotizzare che le spiegazioni teleologiche derivino da una proprietà intrinseca della
mente umana, evolutasi in un ambiente in cui ragionare in termini di scopi ed intenzioni risultava
altamente adattivo.
Jean Piaget è stato il primo ad ipotizzare la presenza di un innato bias a ragionare in termini
teleologici (Kelemen, 1999d). Dai suoi studi basati su interviste fatte ai bambini, egli concluse
che essi sono “artificialisti intuitivi”. Secondo Piaget, i bambini istintivamente interpretano
la natura come diretta a scopi, giungendo poi a credere spontaneamente che tutti gli oggetti o
eventi siano causati dalle azioni di agenti umani. Vi sarebbe di conseguenza anche una tendenza
animistica ad attribuire vita agli oggetti inanimati.
Queste misconcezioni artificialiste sono, per Piaget, dovute ad un pensiero indifferenziato
e ancora non maturo, per cui i bambini non riescono a concepire la possibilità che certi eventi
siano regolati da una causalità puramente meccanica, priva di intenzioni e obiettivi. Di conseguenza trovano difficile pensare che gli eventi possano accadere per caso e distinguere tra
oggetti naturali e artefatti (ibidem).
Seppure ricerche successive alle teorie di Piaget hanno dimostrato che sottostimò le abilità
precoci dei bambini, su due punti pare aver avuto ragione:
• i bambini piccoli tendono a credere che tutti gli eventi abbiano una causa specifica e
trovano difficile pensarli come avvenimenti casuali;
• i bambini tendono a compensare la mancanza di conoscenze su un certo fenomeno tramite
spiegazioni intenzionali.
Secondo Kelemen (1999d) queste caratteristiche permangono anche negli adulti.
Ipotesi della teleologia selettiva
Più recentemente, Keil (1995) ha suggerito che la tendenza a vedere gli oggetti come progettati
per uno scopo sia in sé innata (Kelemen, 1999d), una specifica modalità esplicativa, tra le prime
33
che consentono di interpretare del mondo. Secondo Keil questo “atteggiamento teleologico”
fornisce ai bambini in età prescolare, insieme all’atteggiamento essenzialista, una rudimentale
teoria biologica (Kelemen 1999d).
Per Keil bambini e adulti applicano l’atteggiamento teleologico in maniera selettiva. Ovvero, questo tipo di pensiero sarebbe attivato maggiormente da certi oggetti rispetto ad altri e
le persone non troverebbero appropriato ragionare teleologicamente circa entità naturali non
viventi (ibidem).
Un’altra ipotesi è quella di Atran (1994), secondo cui i bambini elaborano gradualmente
intuizioni teleologiche ed essenzialiste, strettamente legate, grazie ad un modulo mentale finalizzato al ragionamento sugli oggetti biologici. Questo si sarebbe evoluto come adattamento
specifico per la categorizzazione dei cibi, tossici o meno, e degli animali, tra cui prede e predatori. Così, i bambini interpreterebbero automaticamente la forma fisica caratteristica di una
specie biologica come il risultato di un’essenza sottostante (Kelemen, 1999d).
Nell’ipotesi di Atran, durante l’evoluzione umana ha costituito un vantaggio adattativo maggiore saper categorizzare spontaneamente le specie viventi piuttosto che gli artefatti, ed ogni
ragionamento funzionale su questi ultimi avviene tramite analogie con le strutture biologiche.
Per Atran, come per Keil, la portata del ragionamento teleologico è ristretta a quegli oggetti
che, in maniera ovvia, esistono per svolgere determinate funzioni. Per questo motivo entrambe
le ipotesi possono essere categorizzate come “teleologia selettiva”. In entrambe inoltre l’atteggiamento teleologico è innato e indipendente da altre teorie intuitive, come quelle legate alla
comprensione dell’intenzionalità o della fisica (Kelemen, 1999b).
Tuttavia, come precedentemente detto, vari studi (Kelemen, 1999b; Kelemen & DiYanni,
2005) hanno ottenuto risultati contrari a questa selettività, mostrando una tendenza dei bambini,
e talvolta anche degli adulti, ad estendere le spiegazioni teleologiche ad entità come orsi o
montagne.
Ipotesi della teleologia promiscua
Alle ipotesi di Keil e Atran si contrappone l’ipotesi della “teleologia promiscua” di Deborah
Kelemen (1999d), che sostiene due punti principali:
• l’atteggiamento teleologico deriva dalla precoce comprensione del comportamento intenzionale diretto a scopi;
• quali animali sociali, agli esseri umani viene spontaneo pensare in termini di scopi e
intenzioni e questo porterà le persone, soprattutto i bambini, ad utilizzare il ragionamento
teleologico anche quando inappropriato, a meno che non abbiano imparato a non farlo.
Durante lo sviluppo quindi le spiegazioni teleologiche saranno adottate tutt’altro che selettivamente nei riguardi di entità naturali viventi e non viventi, vedendo scopi dietro l’esistenza di un
orologio, di un cuore, di un fiume, di un albero o di un leone.
34
Secondo la Kelemen esiste un forte legame tra le intuizioni sull’intenzionalità e il ragionamento teleologico. Spiegare l’esistenza di un oggetto con la sua funzione deriva dall’intuizione
che tale oggetto esista per uno scopo che è perseguito da un agente intenzionale.
In particolare, Kelemen (1999b; 1999c) suggerisce che la sensibilità dei bambini piccoli al
modo in cui gli agenti usano oggetti come mezzi per raggiungere scopi potrebbe provocare una
rudimentale visione teleologica-funzionale delle entità qualora quegli scopi vengano interpretati come proprietà intrinseche agli stessi oggetti invece che come proprietà della mente degli
agenti. In seguito a questo cambiamento di interpretazione, l’esistenza, le proprietà e l’identità
di quegli oggetti saranno razionalizzate nei termini della loro funzione (Kelemen, 1999c, 2004;
Kelemen & Carey, 2003). Dal momento che i bambini vivono in un ambiente pieno di artefatti,
e poichè gli artefatti e le loro proprietà sono prontamente spiegabili dagli usi a cui sono adibiti,
l’interpretazione teleologica-funzionale degli artefatti sarà privilegiata.
Spesso gli artefatti possono svolgere varie funzioni, tuttavia solo alcune di esse rendono
ragione della loro esistenza, ovvero le funzioni per le quali tali artefatti sono stati intenzionalmente progettati. Per esempio, un libro può servire anche per schiacciare una mosca fastidiosa,
ma la funzione con la quale si può spiegare teleologicamente la sua esistenza è quella di essere
letto.
Codifica di scopi e intenzioni
Numerosi studi dimostrano che la sensibilità a scopi e intenzioni sorge precocemente. Woodward (1998), come Kelemen, sostiene che la tendenza a vedere un’entità come "per uno scopo"
derivi dalla precoce abilità dei bambini a interpretare le azioni degli agenti come "dirette a uno
scopo". Nei suoi studi ha utilizzato un paradigma di abituazione visiva per verificare se dei
bambini di età inferiore ad un anno prestano attenzione a quegli aspetti di un’azione che hanno
a che fare con gli scopi dell’attore.
Il metodo usato consiste generalmente nell’abituare il bambino ad un evento contenente due
dimensioni. Successivamente i bambini sono esposti a due eventi test, ognuno dei quali preserva
una dimensione variando quell’altra. Se il bambino presta attenzione più a lungo ad un evento
test rispetto all’altro, ciò significa che ha codificato la dimensione variata in quell’evento e che
quella era per lui la più saliente. In questo caso i bambini vedono il braccio di un persona raggiungere ed afferrare uno dei due giochi esposti. Dopo l’abituazione la posizione dei due giochi
viene invertita e ai bambini sono proposti due eventi test in cui è stata cambiata o la direzione
del movimento (aspetto superficiale) o l’oggetto afferrato (aspetto rilevante). Naturalmente la
dimensione dell’oggetto afferrato (l’obiettivo dell’azione dell’attore) è quella che ha a che fare
con la comprensione dell’intenzionalità.
Nel primo studio i soggetti sperimentali erano bambini di età compresa tra gli 8 e i 10
mesi. Essi mostrarono di guardare significativamente più a lungo quando la persona afferrava
un gioco nuovo, rispetto che quando questi afferrava lo stesso gioco cambiando il percorso
del movimento (Figura 2.6). Tuttavia, se al posto di un braccio umano veniva utilizzato uno
35
Figura 2.6: Un braccio umano afferra gli oggetti.
Fonte: Woodward, A. L. (1998). Infants selectively encode the goal object of an actor’s reach. Cognition, 69(1),
1-34.
strumento meccanico dalla forma simile, la differenza tra gli eventi test scompariva (Figura 2.7).
Si può quindi dedurre che quei bambini erano in grado di codificare l’intenzionalità dell’azione
mostrata loro, rimanendo “sorpresi” quando l’attore cambiava il suo obiettivo e non quando
effettuava un movimento differente.
Il secondo studio ha replicato i risultati del primo con bambini tra i 4 e i 6 mesi, seppure
con pattern più deboli, dimostrando che già a quell’età vi è una significativa sensibilità a scopi
e intenzioni.
Ovviamente questa sensibilità è presente negli adulti in forma più complessa ed amplificata.
Quando si vede una persona afferrare un oggetto viene spontaneo attribuire a quell’azione una
precisa intenzione e ci si aspetta che, se l’oggetto cambierà posizione, anche il movimento
del braccio sarà diverso al fine di raggiungere comunque lo scopo. Un discorso analogo può
essere fatto circa le attribuzioni causali: le persone sono estremamente propense ad ipotizzare
un agente intenzionale come causa di un evento, qualora tale causa sia ambigua.
Pare che già bambini molto piccoli, come gli adulti, spontaneamente ipotizzino che la causa
iniziale del movimento di un oggetto inanimato, quindi non dotato di autopropulsione, debba per
forza essere un agente animato. Carey, Tenenbaum e Saxe (2005) hanno mostrato a dei bambini
di 12 mesi un filmato (Figure 2.8) in cui un sacchetto era lanciato al di là di un muro. La causa
iniziale dell’evento era però nascosta e il sacchetto appariva già in movimento all’inizio del
filmato. Dopo una fase di abituazione, viene mostrata ai bambini una mano o sul lato da cui il
36
Figura 2.7: Un braccio meccanico afferra gli oggetti.
Fonte: Woodward, A. L. (1998). Infants selectively encode the goal object of an actor’s reach. Cognition, 69(1),
1-34.
sacchetto è stato lanciato (lato giusto) o sul lato in cui è atterrato (lato sbagliato). Naturalmente
la mano rappresenta l’agente animato causale e l’ipotesi dei ricercatori è che, sempre all’interno
di un paradigma di abituazione, i bambini siano “sorpresi” da un evento inaspettato, ovvero la
mano che compare sul lato sbagliato, e lo fissino più a lungo. I dati danno loro ragione: i
bambini fissano significativamente più a lungo la mano quando compare sul lato sbagliato.
Inoltre, se al posto di una mano viene mostrato un oggetto inanimato incapace di essere
plausibilmente la causa del lancio del sacchetto, come un trenino giocattolo, non si osserva
alcuna differenza nei tempi di fissazione, sia che compaia dal lato giusto o da quello sbagliato.
Questo falsifica anche l’ipotesi alternativa che la differenza nei tempi di fissazione fosse dovuta
alla presenza di due oggetti (sacchetto e mano) sullo stesso lato.
In un secondo esperimento i ricercatori hanno utilizzato, al posto del sacchetto, un bambolotto capace di saltellare autonomamente. Anche in questo caso non si osservava alcuna
differenza nei tempi di osservazione della mano, sul lato giusto o sbagliato, in quanto il bambolotto veniva percepito come un agente animato autonomo, dotato di autopropulsione. Per questo
motivo i bambini non avevano inferito la presenza di un agente causale nascosto e risultavano
indifferenti alla presentazione della mano.
37
Figura 2.8: Fotogrammi del filmato utilizzato nell’esperimento di Carey et al.
Fonte: Saxe, R., Tenenbaum, J. B., & Carey, S. (2005). Secret agents inferences about hidden causes by 10-and
12-month-old infants. Psychological Science, 16(12), 995-1001.
La precocità dell’età in cui possono essere visti questi pattern lascia pensare che tali predisposizioni siano geneticamente determinate. Risultati con implicazioni concordanti possono
essere trovati in uno studio su pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer (Kelemen et al., 2007).
Dal momento che questa malattia produce un danno progressivo al sistema di conoscenze acquisite, i pazienti, a differenza dei soggetti sani, preferivano sistematicamente le spiegazioni
teleologiche, rispecchiando il fenomeno della teleologia promiscua nei bambini. Questo dimostra ancora una volta come l’innata preferenza per queste spiegazioni perduri tutta la vita e non
possa essere sostituita.
2.2.4
Inferenza di progetto e progettista
Secondo la Kelemen (1999a, 1999b, 1999c, 1999d) l’iniziale interpretazione teleologica dei
bambini, che razionalizza gli oggetti nei termini del loro uso funzionale, si sviluppa in seguito
in una interpretazione di "funzione intenzionalmente progettata". In pratica, prima i bambini si
spiegano l’esistenza di un oggetto (e.g. spada) con la sua funzione (e.g. combattere), poi questa
visione si amplifica e tale oggetto è visto come intenzionalmente progettato da qualcuno (e.g.
fabbro) per svolgere quella funzione. Ciò è anche dovuto alle tante opportunità che hanno i
bambini di osservare e partecipare ad attività dirette ad uno scopo e alla creazione di artefatti.
Kelemen e DiYanni (2005) hanno cercato di collegare ed estendere due filoni di ricerca,
quello fin qui discusso relativo alla propensione dei bambini a pensare in termini di intenzioni e
a fornire spiegazioni teleologiche, e un altro che ha documentato un loro orientamento a favore
di spiegazioni creazioniste dell’origine di entità naturali, indipendentemente dal fondamentalismo del contesto religioso di provenienza (Evans, 2001). Lo studio di Kelemen e DiYanni ha
esplorato anche il ragionamento dei bambini sulle intere entità viventi (e.g. i cavalli) piuttosto
che sulle sole parti (e.g. gli zoccoli) e ha evitato metodi implicanti risposte forzate, così da indagare proprio le spiegazioni che i bambini generavano autonomamente. Le domande sono poi
38
state formulate con il “perchè”, in modo da essere ambigue e interpretabili sia come richieste di
spiegazioni causali che teleologiche.
I risultati mostrano una sistematica connessione tra i due tipi di intuizione: i bambini che
adottano le spiegazioni teleologiche-funzionali avallano anche l’esistenza di un agente creatore,
ovvero hanno intuizioni sul disegno intelligente (non umano) della natura. Kelemen (2004)
si chiede allora se i bambini possano essere considerati “teisti intuitivi”, ovvero predisposti a
considerare i fenomeni naturali come risultanti da un progetto non umano.
Una questione da chiarire è se i bambini generino spontaneamente credenze su un disegno intelligente oppure siano solo dotati di una struttura cognitiva che li rende suscettibili alle
rappresentazioni religiose presenti nella loro cultura, alle quali sono esposti fin dalla nascita.
Questa ultima posizione è sostenuta da Paul Bloom. In “Il bambino di Cartesio” (Bloom, 2005)
egli sostiene che le radici delle credenze nel sovrannaturale siano da ricercare nella distinzione
che viene fatta nella nostra mente tra le entità di natura fisica, non animate, prive di intenzioni,
e quelle di natura psicologica, animate e dotate di intenzioni (Girotto, Pievani & Vallortigara,
2008). Questa distinzione, come abbiamo visto, pare sorgere precocemente ed essere biologicamente fondata (Woodward, 1998; Saxe, Tenenbaum & Carey, 2005). Le differenze tra la fisica
intuitiva e la psicologia intuitiva avrebbero due conseguenze:
• la possibilità di trattare gli oggetti fisici come entità separate dagli oggetti mentali;
• la possibilità di una “ipertrofia” del sistema che tratta gli oggetti animati.
Dalla prima deriva la possibilità di concepire corpi privi di mente (e.g. zombie) e menti prive di
corpo (e.g. spiriti), ed è questa che costituisce il fondamento delle credenze in dèi, spiriti e vita
dopo la morte presenti in tutte le culture. Inoltre è proprio per questo motivo che risulta difficile accettare che i fenomeni mentali derivino dagli eventi fisici e chimici che hanno luogo nel
cervello. Dalla seconda invece deriva quel fenomeno di cui abbiamo parlato finora, ovvero l’inclinazione ad inferire e attribuire desideri e obiettivi laddove questi non esistono. Inclinazione
che, come vedremo, ha un forte valore adattativo.
In uno studio, Paul Bloom e colleghi dimostrano che vi sono differenze nel modo in cui
i bambini considerano gli esseri umani e gli oggetti (Kuhlmeier, Bloom & Wynn, 2004). In
altri studi oltre all’innata discriminazione tra esseri umani e oggetti sembra esservi anche una
differente concezione di Dio, rispetto agli esseri umani.
Secondo Dennet (1978) la possibilità di attribuire ad un’altra entità una falsa credenza sarebbe condizione necessaria per una piena capacità di attribuzione di credenze e stati mentali
agli altri. Seguendo questo ragionamento alcuni ricercatori hanno separatamente testato questa
capacità su un campione di bambini americani cattolici (Barrett, Richert & Driesenga, 2001) e
uno di bambini maya dello Yucatan cattolici (Knight, Sousa, Barrett & Atran, 2004). Il compito
consiste in una versione modificata del classico “Sally-Anne test”, in cui ad ogni bambino viene
accuratamente mostrato che in una scatola di biscotti, avente una raffigurazione esterna di quello che dovrebbe essere il suo contenuto, sono invece state messe delle pietre. Successivamente
39
si domanda loro cosa una terza entità penserebbe che ci fosse nella scatola, non avendo assistito
alla sua apertura.
Nel caso la terza entità sia una bambola oppure la mamma tanto i bambini americani quanto
quelli maya rispondono scorrettamente al di sotto di una età limite, attribuendo la propria credenza, ovvero che ci sono delle pietre. Dopo quell’età però sono in grado di fornire la risposta
corretta, ovvero che la bambola/mamma penserà ci siano dei biscotti (falsa credenza). Se questa
terza entità è invece rappresentata da Dio, i bambini non gli attribuiscono mai la falsa credenza.
Questo risultato è molto importante poichè significa che la concezione di Dio dei bambini non
deriva dalla concezione di essere umano, in quanto non compare una fase intermedia in cui Dio
è trattato alla pari della mamma o della bambola (Girotto, Pievani & Vallortigara, 2008).
Girotto, Pievani e Vallortigara (2008), alla luce di questi dati, concludono che le concezioni
di essere umano, di divinità o di altri agenti nascono tutte da una primigenia, probabilmente
innata, concezione di “agente intenzionale”. Questa concezione primigenia può essere applicata
“troppo” e a qualsiasi oggetto, anche ad una pallina, come è mostrato nell’esperimento di Csibra
e colleghi (1999). Nello studio, bambini di 10 mesi vengono abituati a vedere una pallina
piccola che vola sopra ad un muro, fermandosi poi vicino ad una pallina grande (Figura 2.9). In
seguito, nei due eventi test, il muro non c’è più e la pallina piccola in un caso segue la medesima
traiettoria (azione vecchia), nell’altro rotola secondo una linea retta, la traiettoria più breve
possibile (azione nuova), sempre fermandosi vicino alla pallina grande. I bambini mostrano
sorpresa nel vedere il primo evento test. Ciò significa che avevano attribuito la qualità di agente
intenzionale alla pallina piccola e, in assenza dell’ostacolo, vedevano l’azione vecchia come
irrazionale. Se la pallina piccola “vuole” raggiungere quella grande, perchè dovrebbe fare un
salto quando non c’è alcun ostacolo? E tutto questo avviene senza alcun indizio dell’agenticità
della pallina.
Figura 2.9: Evento di abituazione (A) ed eventi test in cui la pallina segue la medesima
traiettoria (B) o una traiettoria nuova (C).
Fonte: Csibra, G., Gergely, G., Bı́ró, S., Koos, O., & Brockbank, M. (1999). Goal attribution without agency
cues: the perception of ‘pure reason’in infancy. Cognition, 72(3), 237-267.
Non si sta sostenendo che il pensiero sovrannaturalistico (magico, spirituale, religioso, ecc.)
sia un pensiero infantile ed immaturo ma, al contrario, che le credenze nel sovrannaturale af40
fondino le radici nei normali processi cognitivi delle mente umana. Questi sono stati forgiati in
tal modo con tutti i loro bias dal processo cieco dell’evoluzione, in quanto adattamento ad uno
specifico ambiente di vita.
In conclusione, ci sono prove schiaccianti sulla propensione precoce degli esseri umani a
distinguere tra oggetti animati e inanimati e a pensare in termini di intenzioni, tuttavia non è
chiaro se le credenze in un progettista intelligente della natura debbano considerarsi inevitabili.
Paul Bloom (2013) sostiene che inferire dalla facilità dei bambini a pensare ad anime, dèi e
aldilà che i bambini siano "credenti nati" sia un’inferenza troppo forte: non ci sono prove che
queste credenze possano sorgere spontaneamente senza supporto culturale. La facilità a pensare
all’aldilà o ad un disegno intelligente della natura è spiegata dall’intuitivo dualismo mentecorpo. Per ora possiamo solamente dire che i bambini sono “dualisti intuitivi” e non anche
“teisti intuitivi” come ha proposto la Kelemen. Secondo Bloom i moduli di psicologia intuitiva
possono spiegare il motivo per cui un’idea religiosa sia facile da accettare e comprendere e
perchè si possa diffondere tanto. Per spiegare come tale idea nasca in primo luogo però sono
necessari altri approcci, riguardanti motivazioni, emozioni e creatività.
2.2.5
Adattività del pensiero intenzionale
Fino ad ora abbiamo descritto le caratteristiche di questo modulo mentale per l’intenzionalità e
le ricerche che documentano la sua esistenza e le sue origini. Ora però è necessario davvero dare
anche una spiegazione teleologica, ovvero spiegare i motivi per cui la mente umana si sarebbe
evoluta, tramite selezione naturale, in maniera specializzata per pensare in termini di scopi e
intenzioni.
La precocità della sensibiltà alle intenzioni non è la sola prova a favore di un determinismo
genetico. Infatti, vi sono ottime ragioni per ipotizzare che la capacità a ragionare in termini
di scopi e intenzioni abbia avuto un forte valore adattativo nella nostra storia evoluzionistica.
Quindi, da dove deriva questa “ipertrofia” del sistema che si occupa degli oggetti animati?
Anzitutto la stessa capacità innata di distinguere tra oggetti animati e inanimati che è stata
trovata nei bambini può essere vista anche in altre specie animali (e.g. Hauser, 1998). Inoltre,
pensare che un evento sia segno di un imminente attacco intenzionale da parte di uno o più predatori, e scappare di conseguenza, ha un indubbio valore positivo nel bilancio della selezione
naturale. È meglio essere cauti ma vivi piuttosto che sereni ma morti. È adattivo uno sbilanciamento a favore dei falsi positivi (i falsi allarmi) piuttosto che dei falsi negativi (scambiare un
predatore per un oggetto inanimato), e questo vale per tutti gli animali.
Tuttavia nell’uomo il pensiero intenzionale risulta molto più importante, e per un altro motivo. Noi siamo animali sociali e in quanto tali viviamo in un ambiente composto in larga parte
da altre persone che, come noi, agiscono in base ad intenzioni, desideri, motivazioni, credenze. Avere una spiccata sensibilità per gli stati mentali degli altri, saper utilizzare il minimo
indizio per comprenderli, è quindi indispensabile per muoversi nell’ambiente sociale. Creare le
41
Figura 2.10: Illustrazione schematica del test di Sally-Anne.
Fonte: Baron-Cohen, S., Leslie, A. M., & Frith, U. (1985). Does the autistic child have a “theory of mind”?.
Cognition, 21(1), 37-46.
giuste alleanze, rispettare le gerarchie, identificare potenziali antagonisti, sono tutte operazioni
altamente adattive ed è logico ipotizzare che la selezione naturale abbia favorito coloro che ci
riuscivano meglio. Così, quei geni codificanti per le caratteristiche cognitive sopra descritte
hanno potuto diffondersi maggiormente nel pool genico.
Una triste prova dell’indispensabilità dei moduli della psicologia intuitiva è data dall’autismo. Questa sindrome può essere concettualizzata come mancanza di empatia, assenza di quella
capacità di attribuire stati mentali agli altri e di interpretare il mondo in termini di intenzioni e
scopi.
Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hanno usato il Sally-Anne test (Figura 2.10) per confrontare la teoria della mente dei bambini autistici sia con bambini normali che con bambini con
sindrome di Down. Ad ogni bambino vengono mostrate le due bambole, Sally e Anne, in una
stanza con un cestino e una scatola. Sally mette una biglia nel cestino, poi esce dalla stanza.
Anne sposta la biglia dal cestino alla scatola. Quando Sally ritorna, si chiede al bambino dove
cercherà la biglia.
Mentre i bambini normali e quelli con sindrome di Down riescono a rispondere correttamente, i bambini autistici, anche quelli ad alto funzionamento, falliscono nell’attribuzione della
falsa credenza. Il confronto con i bambini con sindrome di Down è molto importante in quanto indica che questo deficit è specifico della sindrome autistica e non è dovuto ad un generale
ritardo mentale.
La capacità di attribuzione di stati mentali può essere osservata anche in specie filogeneticamente molto distanti, aventi tutte in comune una grande socialità. Una vera e propria conver42
genza evoluzionistica che costituisce un’ulteriore conferma del valore adattivo di questi moduli
mentali. Un esempio è dato dai corvidi (Emery & Clayton, 2004).
2.2.6
Panoramica sulle misconcezioni della teoria dell’evoluzione
Nel primo capitolo sono state descritte le misconcezioni più comuni della teoria dell’evoluzione
e si è accennato al fatto che molte di esse hanno a che fare con l’intenzionalità. Questo può
essere meglio compreso ora, alla luce delle ricerche sopra presentate.
Tabella 2.1: Spiegazioni scientificamente corrette.
artefatti
proprietà o parti di esseri viventi
esseri viventi
entità naturali non viventi
spiegazione teleologica
inferenza di progetto e progettista
si
si
si
no
no
no
no
no
Kelemen (2012) ha classificato dettagliatamente i vari tipi di misconcezione della teoria
dell’evoluzione causate dalla nostra propensione al pensiero intenzionale e teleologico.
Naive Adaptationist
Tutto è spiegato dalla funzione del tratto.
Basic Function-based Questo tipo di spiegazioni menzionano solo la funzione, lasciando
indefiniti i meccanismi che sottendono il cambiamento. La funzione che ha un determinato
tratto, attualmente, di aumentare la possiblità di sopravvivenza è l’unico fattore necessario a
spiegare perchè tale tratto si sia sviluppato. Questa posizione implica una logica inversa: le
conseguenze attuali di un certo tratto sono usate per spiegarne l’origine storica. Per esempio “le
giraffe hanno un collo lungo perchè così possono raggiungere il cibo”.
Basic Need-based Queste spiegazioni vanno un passo indietro rispetto a quelle precedenti.
Esse infatti si rifanno ad un bisogno fisiologico antecedente allo sviluppo del tratto in questione. Per esempio “le giraffe hanno il collo lungo perchè gli serviva per raggiungere il cibo alto”.
Questa posizione implica già un processo di cambiamento evoluzionistico, seppure comunque
i suoi meccanismi non vengano esplicitati. Lasciando indefiniti i meccanismi evoluzionistici,
questo tipo di spiegazione sembra implicare che il bisogno biologico di un animale abbia l’intrinseco potere di trasformare direttamente i geni dell’individuo, dando vita ad un tratto adattivo
ereditabile.
43
Elaborated Need-based “Le giraffe hanno evoluto un collo lungo per raggiungere il cibo
alto”. È molto facile dire le cose in questo modo, molto intuitivo, e in questo modo si esprimono
anche gli scienziati. Questa frase è giustificata però dalla sottointesa consapevolezza che i colli
lunghi delle giraffe dei giorni nostri sono tali grazie al vantaggio riproduttivo che colli più lunghi
della media (carattere eredtabile) davano ai loro progenitori. Tuttavia questa consapevolezza
viene spesso a mancare negli studenti e nel pubblico generale.
Un esempio di questo tipo di errate spiegazioni è quello “effort-based”. Gli animali avrebbero agito in maniera diretta a scopi per soddisfare i loro bisogni e con i loro sforzi i loro corpi
si sarebbero geneticamente trasformati, generando il tratto funzionale (Lamarckismo). Un altro
tipo è la concezione che una entità personificata e indefinita (“Madre Natura” o “Evoluzione”) rispose ai bisogni degli animali generando in loro la parte funzionale, al fine di preservare
l’esistenza della specie.
2.2.7
Interazione natura-cultura
Il lunghissimo dibattito tra natura e cultura ha generalmente visto contrapporsi due spiegazioni,
una che interpreta un fenomeno attribuendolo alla natura umana, geneticamente determinata, e
un’altra che invece lo spiega come una conseguenza dell’influenza culturale e della sua trasmissione intra- e inter- generazionale. Sarebbe un errore assumere nettamente in questa sede una
delle due posizioni in quanto, in questo caso come in molti altri, per comprendere appieno il
fenomeno bisogna considerare contemporaneamente la natura umana, la trasmissione culturale
e l’interazione tra di esse.
La tendenza innata e le influenze culturali e religiose sono strettamente connesse, in quanto
la prima rafforza e fa diffondere rapidamente le seconde. Kelemen (2003) ha messo a confronto
bambini americani e inglesi, due culture molto diverse dal punto di vista religioso ma per il
resto abbastanza simili. I risultati mostrano che posseggono entrambi una teleologia promiscua,
differenziandosi però nelle tipologie di scopi che propongono nelle loro spiegazioni. Perciò si
può affermare che la tendenza ad effettuare un certo tipo di ragionamento sia innata, mentre i
suoi contenuti specifici sono determinati culturalmente.
2.3
L’intuitività del tempo e delle probabilità
Altri meccanismi psicologici contribuiscono alle difficoltà nella comprensione e nell’accettazione della teoria dell’evoluzione. Svariate ricerche suggeriscono che la capacità di rappresentarsi
i numeri e di ragionarci è parte di una struttura innata della mente umana (Wynn, 1998). Ciò è
perfettamente comprensibile proprio alla luce dell’evoluzione: la capacità di contare ed eseguire
semplici calcoli risulta adattiva in numerose situazioni, e soprattutto nelle interazioni sociali.
Vi è differenza tra un’intuizione e una conoscenza più teorica ed astratta. Certe dimensioni
di tempo o spazio possono essere percepite intuitivamente mentre altre possono solo essere
44
pensate ad un livello astratto e teorico. Ognuno di noi ha ben chiara nella propria mente la
differenza tra un secondo e un minuto, proprio come quella tra un minuto e un’ora, un giorno,
un mese o un anno. Tuttavia se si aumentasse la scala temporale considerata le cose sarebbero
molto diverse. Infatti, nessuno riesce ad intuire vividamente la differenza tra mille anni e un
milione di anni, tra un milione e un miliardo di anni, e così via. Lo stesso può dirsi dello
spazio. Le persone riescono con facilità a pensare alla differenza tra pochi metri e un chilometro.
Questa distanza può essere rappresentata nella propria mente, percepita in maniera realistica e
si può stimare abbastanza accuratamente il tempo necessario a percorrerla. Tuttavia sarebbe
difficile comprendere a livello intuitivo la differenza tra un milione e un miliardo di chilometri:
entrambi nella nostra mente sono rappresentati come una quantità “enorme” di spazio e una
stima accurata del tempo necessario a percorrere tali distanze può essere ottenuta solo tramite
calcoli matematici.
La teoria dell’evoluzione può spiegare elegantemente perchè questo accade. La nostra mente, come quella degli altri animali, si è evoluta in un determinato ambiente in cui doveva svolgere
determinati compiti. Come gli organi del nostro corpo, le strutture e i processi cognitivi della
nostra mente hanno generalmente una funzione specifica, in quanto la selezione naturale tende ad “economizzare”, togliendo ciò che è inutile. I nostri occhi infatti percepiscono solo una
gamma ristretta di onde elettromagnetiche, entro uno specifico intervallo di lunghezza d’onda.
Evidentemente percepire i raggi ultravioletti non conferiva alcun vantaggio di sopravvivenza o
riproduttivo e pertanto non vi era alcuna pressione selettiva a favore di tale capacità. Similmente, la vita di un individuo rientra nell’ordine delle decine di anni, quando tutto va bene, e i ritmi
della giornata possono essere scanditi in secondi, minuti od ore. La mente umana pertanto è
adattata a pensare nei termini di queste grandezze, né più né meno. Non vi è mai stata una pressione evoluzionistica per ragionare a livello di milionesimi di secondo o di metro. In assenza di
aerei o automobili, le distanze che potevano essere percorse erano sicuramente dell’ordine dei
chilometri, non vi era certo il bisogno di preoccuparsi di distanze come gli anni luce.
In particolare, per quello che riguarda la comprensione della teoria dell’evoluzione, ha molto
peso la questione della percezione del tempo. Come spiega Dawkins (1986), il nostro cervello
è costruito per far fronte a eventi su scale temporali radicalmente diverse da quelle che caratterizzano il mutamento evoluzionistico. Per ragionare su queste ultime è infatti necessario un
grande sforzo immaginativo e, comunque, non potranno mai essere apprezzate completamente
a livello intuitivo.
La teoria di Lamarck risulta più intuitiva da comprendere e più facile da accettare sicuramente anche perchè prevede un meccanismo evoluzionistico che agisce in tempi molto brevi.
Se un organismo svolge durante la vita un’attività che potenzia i suoi muscoli, e se questa
modificazione può essere tramandata alla prole, allora si avrà un cambiamento evoluzionistico
osservabile in appena due o tre generazioni. L’evoluzione darwiniana invece richiede spesso un
tempo molto più lungo, di centinaia o migliaia di generazioni, affinchè un cambiamento possa
essere osservato e nessun essere umano è in grado di vivere abbastanza per osservarlo intera45
mente con i propri occhi. Non a caso le prove più suggestive a favore del darwinismo derivano
da quegli studi su specie (come insetti o batteri) aventi periodi di riproduzione estremamente
brevi, tanto per cui un mutamento evoluzionistico può essere osservato nell’arco di una vita
umana.
(...) La causa principale della nostra naturale riluttanza ad ammettere che una
specie abbia dato origine ad altre e distinte specie, dipende dal fatto che siamo
sempre lenti ad ammettere grandi cambiamenti di cui non vediamo i gradi (Darwin,
1872).
Lo stesso discorso può essere fatto per le probabilità. Le persone stimano intuitivamente la probabilità, alta o bassa, di un evento rispetto alla scala temporale a loro familiare. Ciò significa
che se un evento dovesse verificarsi una volta ogni cento anni, dovrebbe essere ritenuto abbastanza improbabile. Tuttavia nel tempo evoluzionistico un secolo equivale ad un battito di ciglia
e tale evento può essere considerato molto probabile. Di conseguenza, anche con una giusta conoscenza dei processi di mutazione genetica e di ereditarietà risulta arduo sfuggire alla naturale
tendenza a vedere come altamente improbabile la formazione di una struttura complessa, come
l’occhio, a causa di un graduale processo di filtro selettivo di piccole mutazioni casuali. In effetti la mutazione genetica, in particolare una che abbia un valore adattivo, è un evento che la
nostra mente valuta come molto improbabile, in quanto è raro se lo si considera sullo sfondo
della scala temporale umana. Tuttavia posto sullo sfondo della scala temporale dell’evoluzione
diventa un evento molto probabile e che, in effetti, è accaduto ormai innumerevoli volte.
2.4
Conclusione
Seppure la trasmissione culturale giochi un ruolo importante nell’assunzione di spiegazioni
teleologiche, essa non ha prodotto in primo luogo tale bias. È piuttosto vero il contrario. Se
la tendenza a fare uso di spiegazioni teleologiche dipende da meccanismi psicologici dominiospecifici innati nella specie umana, ciò rende conto del fatto che nelle credenze di tutte le culture
si possano trovare questo tipo di spiegazioni dei fenomeni naturali. A causa dei bias costitutivi
della mente umana le culture hanno sviluppato credenze antropocentriche intrise di spiegazioni
teleologiche e di entità intenzionali non umane, come spiriti e dèi.
La tendenza alle spiegazioni teleologiche è sempre presente nella nostra vita e nonostante
l’educazione scientifica essa permane e deve costantemente essere soppressa. Non c’è da stupirsi che, come discusso in precedenza, molte persone fraintendano la teoria dell’evoluzione con
una sua versione “teleologica”. Tramite il processo evoluzionistico la mente umana ha sviluppato specifici moduli per il ragionamento teleologico-funzionale, che diventa perciò semplice
e automatico, e questo rende più difficile comprendere un processo che è per sua natura cieco,
privo di finalità e intenzionalità. È il caso della teoria dell’evoluzione. Nonostante sia supportata da una quantità incalcolabile di prove e sia largamente accettata come vera dalla comunità
46
scientifica, essa viene spesso percepita dal pubblico generale come una mera speculazione, un’ipotesi infondata e poco realistica in cui solo alcuni credono o un argomento controverso. Non
solo, dal momento che le implicazioni dell’evoluzione toccano temi sensibili, come l’origine
della specie umana, essa è vista da molti come un affronto ai valori morali o una blasfemia.
47
Capitolo 3
Possibilità per il futuro
Education is the most powerful weapon which you can use to change the world (Nelson Mandela).
3.1
3.1.1
Insegnamento
Terminologia ed espressione dei significati
Gli insegnanti tendono continuamente, durante le spiegazioni, a fare riferimento ad intenzioni e
scopi. Così la specie si è adattata al mutamento ambientale "scegliendo" un certa via piuttosto
che un’altra. Parlano dell’evoluzione in prima persona, dicendo per esempio che “l’evoluzione
ha portato un certa specie a sviluppare determinate caratteristiche”. Questa terminologia, anche
quando usata da chi conosce correttamente la teoria, lascia maggiore spazio ad una possibile
confusione. È proprio per la nostra innata predisposizione a ragionare in termini di agenti
intenzionali, progetti e scopi, che risulta più facile sia agli insegnanti spiegare in quel modo che
agli studenti comprendere una tale spiegazione.
Dire che la giraffa ha un collo lungo per poter mangiare le foglie degli alberi è solo approssimativamente corretto (e anche in parte sbagliato). Ciò che la teoria dell’evoluzione dice in realtà
è che dal momento che le giraffe con il collo un pò più lungo della media riuscivano ad accedere
ad una maggiore quantità di risorse alimentari (le foglie), la loro probabilità di sopravvivenza
e riproduzione aumentava. Tra le giraffe che morivano vi erano quindi in maggior proporzione
quelle con il collo più corto della media. Di conseguenza su un lungo periodo la lunghezza
media del collo della popolazione delle giraffe crebbe fino a raggiungere la lunghezza attuale.
In alternativa, dal punto di vista del gene, si può dire che geni codificanti per un collo più lungo
riuscivano a diffondersi maggiormente nel pool genico di quella popolazione.
È giusto usare certe analogie per creare una comprensione più intuitiva, tuttavia esse andrebbero accompagnate da altrettanti riferimenti alla reale cecità dei meccanismi evoluzionistici. Andrebbe continuamente ribadito che il cambiamento spiegato dalla teoria dell’evoluzione
non ha uno scopo, non ha una meta finale, non è stato progettato da nessuno. È perciò molto
importante che gli insegnanti prestino attenzione alla terminologia usata e che siano consapevoli
48
del modo in cui stanno esponendo gli argomenti e delle possibili misconcezioni a cui potrebbe condurre. Forse sarebbe opportuno che l’insegnante periodicamente portasse all’attenzione
degli studenti le possibili misconcezioni, per discuterne collettivamente e chiarire ogni dubbio,
senza mai dare per scontato il loro superamento.
3.1.2
Proposte didattiche nel mondo
Explore Evolution
Nel 2003, un gruppo di musei di storia naturale negli Stati Uniti creò Explore Evolution, un progetto ideato al fine di accrescere le conoscenze del pubblico generale sull’evoluzione (Diamond
& Evans, 2007). Explore Evolution rappresenta un grande sforzo per far vivere esperienze di
apprendimento sull’evoluzione e sulla natura della scienza, mostrando la ricerca scientifica per
come è davvero, con reali ricercatori, esperimenti, dati. L’intento è di spingere le persone a
pensare come studiosi dell’evoluzione, mostrando loro tanti progetti di ricerca su una moltitudine di organismi anche molto diversi tra loro. “Virus and the Whale: Exploring Evolution in
Creatures Small and Large” è infatti il titolo del libro scritto da Judy Diamond (2005), l’organizzatrice del progetto. Quest’opera si rivolge sia agli studenti, descrivendo alcune delle più
entusiasmanti tematiche della ricerca sull’evoluzione, sia agli insegnanti, con suggerimenti ed
indicazioni per trattare al meglio l’argomento.
Project 2061
Il Project 2061 (http://www.project2061.org/) è una iniziativa dell’American Association for the
Advancement of Science (AAAS). Esso conduce ricerche con lo scopo di fornire informazioni,
strumenti e servizi che ricercatori, educatori e politici possono usare per apportare miglioramenti nel sistema educativo della nazione. Le sue pubblicazioni sono ampiamente utilizzate
nei corsi di educazione per gli insegnanti e come indicazioni sul modo in cui dovrebbero essere
scritti i libri di testo e svolte le lezioni.
The Brights
Generalmente sono coloro che possiedono credenze religiose ad impegnarsi in attività di propaganda della loro dottrina, mentre le persone prive di credenze sovrannaturali tendono a restare
nell’ombra. “The Brights” (http://www.the-brights.net/) è un movimento finalizzato a promuovere una visione naturalistica del mondo, ovvero priva di elementi mistici e sovrannaturali.
Coloro che ne fanno parte si impegnano a diffondere la comprensione di questa visione naturalistica in quanto può giovare alla società, per esempio nelle decisioni politiche, con lo scopo di
raggiungere una giustizia civica per tutti.
Tra i suoi progetti, alcuni riguardano l’insegnamento della teoria dell’evoluzione: il poster
(Figura 3.1) dal titolo “Earth and Life: changes over time”, creato per essere usato dagli inse49
Figura 3.1: Esempio del poster “Earth and Life: changes over time”.
Fonte: http://www.the-brights.net/action/activities/poster.html
gnanti di scienze; la diffusione via internet di materiali che riassumono i principali fatti relativi
all’evoluzione con un linguaggio adatto ad un pubblico senza preparazione scientifica; alcuni
suggerimenti bibliografici per approfondire l’argomento.
Siti internet
Oltre ai musei, vi sono anche molti siti internet dedicati all’evoluzione e pensati come database
di informazioni teoriche, contenenti testi, immagini e video. Un esempio è quello dell’università di Berkeley in California (http://www.ucmp.berkeley.edu/). Questi possono essere molto
utili in quanto ogni persona interessata può accedere ad informazioni attendibili e a spiegazioni accurate riguardanti l’evoluzione. Spesso infatti le misconcezioni e le argomentazioni degli
anti-evoluzionisti si radicano su una mancanza di informazioni, come l’idea che la teoria dell’evoluzione non sia supportata da prove empiriche oppure che affermi che la complessità della
vita biologica è originata esclusivamente da un processo casuale. In questi casi ogni persona
dal proprio computer potrebbe leggere dell’enorme mole di prove a supporto dell’evoluzione o
capire i reali meccanismi attraverso cui opera la selezione naturale, tutto l’opposto del caso.
Inoltre, delle fonti di informazioni affidabili e facilmente raggiungibili gratuitamente sono
utili ad ogni studente che per qualsiasi motivo sia interessato all’evoluzione, in modo da non
riservare questi insegnamenti ai soli studenti di biologia.
3.1.3
Proposte didattiche in Italia
In Italia spesso già alle elementari i bambini sentono parlare di evoluzione, anche se questo avviene prevalentemente all’interno degli insegnamenti di storia piuttosto che di scienze. Questo
è vero in particolare successivamente all’introduzione delle Indicazioni Nazionali per i Piani di
Studio Personalizzati nella Scuola Primaria, a partire dall’anno scolastico 2004-2005, le quali esplicitamente prescrivono che vengano trattati “la Terra prima dell’uomo” e “le esperienze
umane preistoriche”.
Toneatti (2008) ha condotto un’analisi dei libri di testo utilizzati nelle scuole elementari,
trovando che le informazioni fornite rispecchiano un linguaggio finalistico ed antropomorfico
50
in grado di preparare il terreno alle misconcezioni precedentemente descritte. Per esempio,
vengono utilizzate le parole evoluzione ed adattamento senza precisarne la definizione, il che
porta i bambini ad utilizzare le conoscenze che già possiedono per interptetare questi termini. In
particolare con il termine adattamento si fa riferimento nel linguaggio quotidiano ad un processo
che interessa il singolo individuo in un arco di tempo piuttosto breve (e.g. Adattamento ad una
nuova dieta), significato ben diverso da quello inteso parlando di adattamento di una specie
nel corso dell’evoluzione. Questo è probabilmente un altro motivo per cui la concezioni di
evoluzione lamarckiana è più diffusa rispetto a quella di evoluzione darwiniana.
Toneatti studia le concezioni sull’origine delle specie nei bambini di seconda e terza elementare, anno in cui avviene l’insegnamento, e nei bambini di terza elementare, prima e dopo
l’insegnamento. I risultati mostrano che, come i loro coetanei di altri Paesi (Evans, 2001), molti
bambini di 8-9 anni prima di studiare l’origine degli animali credono nella loro creazione. Le
loro concezioni sembrano però cambiare in direzione dell’evoluzionismo dopo aver affrontato
questo argomento a scuola.
Successivamente la studiosa ha messo a punto un curricolo di biologia per la scuola elementare finalizzato a fornire ai bambini una comprensione limitata ma corretta della teoria dell’evoluzione, prevenendo così la formazione delle misconcezioni. Questo curricolo ha durata
di due anni e prevede di costruire in seconda elementare le basi per poter parlare di evoluzione nell’anno successivo. Nella creazione sono stati tenuti in considerazione vari principi che
provengono da ricerche di psicologia cognitiva, dello sviluppo e dell’educazione (Bransford e
Donovan, 2005), ovvero:
1. Partire dalle preconcezioni. Dal momento che spesso le esperienze quotidiane rinforzano
molte idee scientificamente sbagliate, per superare le misconcezioni è necessario gettare
un ponte che porti dalle preconcezioni fino ai concetti corretti.
2. Sapere cosa vuol dire “fare scienza”. È bene che gli studenti comprendano la natura della
scienza come processo d’indagine.
3. Metacognizione. Far riflettere gli studenti sui proprio ragionamenti, in particolare su
quelli scientifici, sembra avere effetti positivi sull’apprendimento. È importante spingere
i ragazzi a formulare “buone domande” e a trovare modi per esplorarle.
Il curricolo è pensato per essere semplice, fornendo al tempo stesso una conoscenza precisa
e corretta dei punti principali della teoria dell’evoluzione. La scelta degli argomenti è stata
guidata dal criterio della propedeuticità, in modo che ad ogni tappa fossero raggiunte le capacità
per comprendere le nozioni introdotte nelle tappe successive. Un obiettivo importante inoltre
è evitare che il tema dell’evoluzione sia presentato ai bambini come un susseguirsi di eventi
privi di spiegazione e di relazioni reciproche. A tal scopo è stata data molta importanza alla
comprensione dei seguenti aspetti:
51
• l’attuale esistenza di una grandissima quantità di gruppi (o taxa) di animali, i quali presentano vari gradi di somiglianze e differenze e che sono adatti a vivere in particolari
ambienti;
• piante e animali attuali sono il risultato di una storia lunghissima, iniziata miliardi di anni
fa, con la comparsa dei primi esseri viventi;
• la moltiplicazione delle forme di vita è avvenuta grazie ai processi descritti dalla teoria
dell’evoluzione, man mano che le specie viventi si confrontavano con nuovi ambienti.
I risultati dello studio condotto sulla seconda elementare indicano un miglioramento significativamente superiore dei bambini che hanno seguito il curricolo sperimentale, rispetto al gruppo
di controllo, riguardo le conoscenze di biologia. Le capacità di quei bambini superavano quelle
indicate dai programmi ministeriali ed essi erano in grado di comprendere la variazione di un
tratto di popolazione come effetto di cambiamenti ambientali, nozione molto importante per
l’apprendimento della teoria dell’evoluzione. Infine, da genitori ed insegnanti è stato riportato
un grande interesse da parte dei bambini per l’ora di biologia, che per alcuni era diventata un
appuntamento atteso con gioia durante la settimana.
3.1.4
Libri di testo e corsi di biologia
A contribuire alla mancata comprensione dell’importanza della teoria dell’evoluzione e del suo
ruolo unificante per la biologia moderna può anche essere l’organizzazione dei libri di testo.
Nehm e colleghi (2009) hanno notato che il tema dell’evoluzione è spesso relegato in capitoli
isolati. Nonostante quasi tutti i biologi considerino l’evoluzione come il concetto che unifica
tutte le parti della loro disciplina, molti corsi introduttivi di biologia non la usano come “impalcatura cognitiva” per organizzare gli altri argomenti, come genetica, biologia cellulare, biologia
dello sviluppo, ecologia.
Questa segregazione è solitamente rispecchiata nei libri di testo, dove l’ecologia, i meccanismi dell’ereditarietà, la biochimica della vita e la teoria dell’evoluzione sono trattati come unità
isolate. Tale organizzazione può addirittura favorire le preesistenti misconcezioni, in quanto
rinforza i modelli mentali per cui l’evoluzione avrebbe poco a che fare con il resto della biologia, quasi come una teoria opzionale alla quale un biologo possa credere o meno. Così, studenti
di biologia possono ricevere buoni voti, laurearsi e divenire a loro volta insegnanti, pur conservando misconcezioni sulla teoria dell’evoluzione e persino attitudini anti-evoluzionistiche.
Questo avrebbe poi implicazioni più ampie, in quanto il rifiuto della visione evoluzionistica richiede come conseguenza logica anche il rifiuto di molti aspetti di biologia cellulare, genetica,
biologia animale e delle piante ed ecologia.
Dopo tutto, se agli studenti una teoria viene presentata come marginale e sconnessa dal resto
delle conoscenze che vogliono acquisire, risulterà anche più facile cadere nella trappole delle
52
argomentazioni dei movimenti anti-evoluzionisti. Al contrario, se per ogni nuova conoscenza viene sottolineata la sua inseparabilità dall’evoluzione, una sua confutazione desterà molti
più sospetti e resistenze. Magari spingerà quegli studenti a cercare risposte, dati per smentire quelle accuse che andrebbero a minare un intero corpo coerente di conoscenze. Queste
risposte sarebbero poi trovate con relativa facilità dal momento che tutte le accuse rivolte dai
movimenti creazionisti o del disegno intelligente verso la teoria dell’evoluzione possono essere
facilmente confutate da chiunque possieda una conoscenza completa e corretta dei meccanismi
dell’evoluzione.
È quindi opportuno che i libri di testo e i curricoli di biologia vengano ristrutturati in modo
da usare la teoria dell’evoluzione come organizzatore concettuale. Gli insegnanti dovrebbero
fungere da modelli per gli studenti mostrando loro come l’evoluzione venga usata dai biologi
come “collante” per la comprensione di campi molto diversi quali la genetica e l’ecologia,
cosa che faciliterebbe anche gli studenti nel loro lavoro. Studi dimostrano infatti che il miglior
apprendimento in ambito scientifico si verifica quando gli studenti riescono a costruire una
solida rete cognitiva di base, alla quale successivamente aggiugono fatti specifici (National
Research Council, 2000).
3.1.5
Credenze e teorie scientifiche
Un argomento usato dai detrattori dell’evoluzione, speculare alle pretese di scientificità del
creazionismo discusse in precedenza, equipara l’evoluzione ad una religione. Essi sostengono,
contro ogni evidenza, che non ci siano prove a favore della teoria dell’evoluzione e che, pertanto,
gli scienziati “credano” in essa tanto quanto loro credono nel creazionismo (Smith, Siegel &
McInerney, 1995). Questo argomento chiama in causa il concetto di credenza, che può avere
molti significati tra i quali spesso si genera confusione. Con il termine credenza si può intendere
una “fede”, e avere fede significa considerare un’affermazione o un evento come totalmente veri
senza bisogno di alcuna prova a favore e nonostante qualsiasi prova contraria. Tuttavia nell’uso
comune questa parola assume anche altri significati, connotando per esempio una incertezza.
Se si sente una persona dire “credo di avere chiuso il gas” non si pensa certo che questi abbia
una fede incondizionata nell’aver chiuso il gas, cosa che implicherebbe una certezza al 100%.
Si pensa piuttosto che l’individuo non è sicuro di averlo chiuso o meno e che però, se dovesse
scommettere, punterebbe sul fatto di averlo chiuso. È interessante notare che alcune persone
dichiarano di credere in Dio proprio con questo ultimo significato, ovvero di non essere sicuri
della sua esistenza ma, in fondo, di considerarla più probabile della sua non esistenza. Tuttavia
questo non è il significato vero e profondo di credenza religiosa, che originariamente indica una
fede incondizionata, una certezza totale dell’esistenza della propria divinità.
Di sicuro sentire scienziati che dicono di credere nella teoria dell’evoluzione può provocare
confusione e dubbi sulla sua validità in persone aventi una scarsa cognizione sulla natura della
scienza. Purtroppo vi sono anche stati casi in cui gli insegnati cercavano di imporre la credenza
53
nella teoria dell’evoluzione tramite la loro autorità anzichè fornire agli studenti gli strumenti
per giudicare autonomamente tramite un ragionamento scientifico.
Nelle scienze psicologiche la definizione di credenza è oggetto di dibattito. Alcuni autori
distinguono tra conoscenza, che deriva da un ragionamento logico basato su dati empirici, e
credenza, che invece non dipende da dati osservabili e può esistere anche in presenza di prove
contrarie. Una teoria scientifica non è qualcosa a cui si debba credere o meno ma qualcosa da
accettare o rifiutare logicamente. La propria posizione deve essere motivata in maniera oggettiva
e non si può ricorrere ad impressioni o preferenze soggettive. Da questo punto di vista quindi
sarebbe sbagliato parlare di “credenze” degli studenti sull’origine delle specie, in quanto ciò
davvero importa sono le loro conoscenze. Un bravo scienziato non deve quindi dire di credere
nella teoria dell’evoluzione ma di considerarla vera sulla base delle prove di cui disponiamo.
Spesso però gli insegnanti, soprattutto negli Stati Uniti, sentono studenti affermare che hanno capito la teoria dell’evoluzione ma che non ci credono (Smith & Siegel, 2004). Questo fa
pensare che in realtà la distinzione netta tra conoscenza e credenza sia piuttosto teorica, astratta,
artificiale. Ad un livello più pratico, in seguito ad un ragionamento logico o alla contemplazione
di prove, una persona che percepisce una cosa come vera, falsa o incerta ha sempre e comunque una credenza, intendendo così ogni convinzione riguardo il grado di verità di una certa
affermazione.
In questo caso tutto è da considerare come una credenza. Così ognuno di noi crede che la
Terra giri attorno al Sole, che la temperatura di ebollizione dell’acqua sia cento gradi Celsius,
che un determinato partito politico abbia ragione e l’altro torto, che solo una certa religione dica
il vero, e così via. Ci sono però diversi tipi di credenze, alcune derivano da prove empiriche
e altre no. Quando uno scienziato afferma di credere in una teoria non intende di avere una
fede incondizionata verso quella teoria. Un vero scienziato non crede nella verità di un’ipotesi
a dispetto di evidenze che la falsificano. La credenza, per come è intesa dalla scienza, è sempre
qualcosa che si rafforza in seguito a prove favorevoli e che si allenta a causa di prove contrarie.
Per migliorare la comprensione e l’accettazione della teoria dell’evoluzione nei corsi di
biologia sono possibili due strade:
• rendere la teoria dell’evoluzione “credibile” agli occhi degli studenti;
• convincere gli studenti che non bisogna “credere” ad una teoria ma accettarla razionalmente a seconda delle prove empiriche a suo supporto.
Che si differenzi nettamente tra conoscenza e credenza o che si parli di tante credenze di diversa
natura, ciò che di importante va insegnato a tutti gli studenti è un tipo di ragionamento, una via
per costruire la propria visione del mondo, la quale influenzerà azioni e decisioni future. In ogni
classe di scienze dovrebbe essere trasmesso un atteggiamento critico, di valutazione oggettiva
dei dati e di apertura mentale al cambiamento. Gli studenti vanno incoraggiati a ragionare
autonomamente e a giustificare le proprie convinzioni tramite ragionamenti logici.
54
Come sostengono Lombrozo, Thanukos e Weisberg (2008), in base ai risultati della loro
ricerca, l’accettazione della teoria dell’evoluzione è strettamente legata alla comprensione che
hanno gli studenti della natura della scienza.
3.2
Approcci nei confronti del creazionismo
La lotta per la difesa della teoria dell’evoluzione dagli attacchi del creazionismo vede principalmente due approcci verso le credenze religiose. Uno, sostenuto in maniera emblematica da
Richard Dawkins, si inserisce in una più ampia critica a tutte le credenze sovrannaturali e può
essere riassunto nella frase “senza creazionismo ci può essere religione ma senza religione non
ci può essere creazionismo”. Questo approccio critica duramente non solo il creazionismo ma
tutte le credenze religiose e sostiene che la comprensione e l’accettazione della teoria dell’evoluzione, con tutte le sue implicazioni, dovrebbe naturalmente portare all’ateismo. È curioso
il fatto che spesso i fondamentalisti anti-evoluzionisti utilizzino a proprio favore gli argomenti
di Dawkins, sostenendo che se la teoria dell’evoluzione porta all’ateismo, allora deve essere
combattuta, screditata e non è ammissibile che venga insegnata nelle scuole.
In realtà gli studi analizzati nel capitolo precedente mettono in difficoltà queste affermazioni. Dire che l’assenza di religione implichi l’assenza di creazionismo può essere azzardato e
infatti, come abbiamo visto, le persone tendono spontaneamente fin dalla tenera età ad interpretare gli oggetti del mondo naturale nei termini della loro funzione e a pensare che dietro la loro
esistenza non solo ci sia un progetto ma anche un progettista.
Un altro approccio sostiene invece la compatibilità tra la teoria dell’evoluzione e le credenze
religiose. È vero che senza creazionismo può esserci religione e ne sono la prova tutte quelle
persone che riescono ad accettare la teoria dell’evoluzione, in quanto fatto scientifico, senza
per questo mettere in discussione la propria fede. Una corretta educazione fin dalla scuola elementare potrebbe fornire ai bambini da subito una comprensione della storia dell’universo, del
pianeta Terra e delle specie che lo abitano, prevenendo il radicamento di misconcezioni e i rifiuti della teoria dell’evoluzione. Un precoce passaggio da parte dei bambini dalle idee intuitive
sull’origine degli oggetti del mondo naturale alle teorie scientifiche non andrebbe ad interferire con la possibilità di una fede religiosa, a meno che ovviamente questa non implichi una
interpretazione letterale dei testi sacri. Generalmente questa coesistenza si fonda su una interpretazione non letterale dei testi sacri, in cui si considerano le parti che parlano della creazione
come metaforiche.
Se da un lato risulta difficile sostenere che in assenza di religione non sorgerebbero idee
creazioniste, dall’altro l’assidua resistenza verso la teoria dell’evoluzione e i tentativi di sabotaggio del suo insegnamento trovano sicuramente la loro spinta motivazionale nelle credenze
religiose, soprattutto quando assumono la forma del fondamentalismo.
La teoria dell’evoluzione rappresenta uno dei più importanti traguardi della scienza nel tentativo di comprendere le origini della nostra specie e di ciò che ci circonda. È fondamentale che
55
venga compresa e accettata dalla popolazione e che le persone si costruiscano una visione del
mondo che tiene conto di questa realtà.
56
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Ringraziamenti
Ringrazio i miei genitori e i miei nonni, che mi hanno cresciuto con pazienza e impegno; Aurora, che mi è sempre vicina, anche quando è lontana; il mio amico Michael, con il quale ho
sempre potuto discutere tante idee; Lillo Birillo, l’affettuoso pappagallo con il quale sono cresciuto; tutti gli amici, vecchi e nuovi, con cui ho passato tante ore divertenti che mi hanno
risollevato ogni volta che ero esausto; il gruppo della palestra di Karate, poiché senza quegli
allenamenti non avrei avuto la tenacia per arrivare fin qui; la mia amica e collega Alina, per
tutte le ore di studio intenso passate insieme, e tutti i compagni di scuola e università che hanno
reso più leggere tante giornate faticose; tutte le persone che, in un modo o in un altro, mi hanno
trasmesso la loro conoscenza fin da quando ho memoria.
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Autore: Alessandro Norfo
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