Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia Sintesi dello studio di Enrico Mattioda L’Italia di Machiavelli e quella di Guicciardini (pubblicato negli Atti del XV Congresso Nazionale dell'Associazione degli Italianisti Italiani (ADI),Torino, 14-17 settembre 2011, a cura di Clara Allasia, Mariarosa Masoero, Laura Nay, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2012, pp. 53-65). […] In questo senso il De principatibus si rivelava essere un libretto scritto per invitare a un’azione politica e militare precisa e quasi immediata: il fatto che la sua pubblicazione sia avvenuta soltanto diciott’anni più tardi dalla sua ideazione e dal primo getto, in una situazione politica profondamente mutata, ha contribuito da subito a farlo leggere come un trattato politico generale e ha favorito la nascita del mito del machiavellismo. Quell’ultimo capitolo conteneva però anche una riflessione che sarebbe divenuta una sorta di chiave di lettura della storia d’Italia futura: mi riferisco alla riflessione sul fatto che occorra giungere al punto più basso dell’abiezione morale perché via sia una reazione: “E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, et aconoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d’uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina.” Un tipo di lettura che i secoli successivi avrebbero ripreso, sognando a ogni grave crisi, politica e morale del paese, susseguenti redenzioni, rigenerazioni, rinascite, risorgimenti. In ogni caso, Machiavelli aveva ben chiaro come il programma espresso nel XXVI capitolo del “Principe” avesse dei punti deboli: dalla figura di Lorenzo de’ Medici, alla stessa famiglia Medici, fino e soprattutto al ruolo nella storia d’Italia del papato e dello stato che questo aveva costituito nel centro dell’Italia. Su quest’ultimo punto avrebbe riflettuto, com’è noto, nel dodicesimo capitolo del primo libro dei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”: “ Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.” 1 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia Ancora una volta la desolazione morale degli Italiani moderni è contrapposta alla virtù “antica” degli Svizzeri. Da questo si può inferire che il modello classicista agisce in Machiavelli non solo a livello di conoscenza delle dinamiche politiche e militari: anche l’idea di «redenzione» italiana espressa nel XXVI capitolo del Principe comporta il richiamo al passato. La stessa idea di «redenzione» non guarda al futuro, ma al passato, dovendo ispirarsi al modello della virtù e della milizia dei romani. Anche lo strumento principale della redenzione, la già richiamata creazione di un “terzo” ordine della fanteria che possa sconfiggere svizzeri e francesi, verrà chiarito nell’ Artedella guerra come ritorno alla disposizione tattica della legione romana. Siamo all’interno di un pensiero che elabora un “futuro passato”, un programma classicista che vede il miglioramento del futuro esclusivamente come riappropriazione di un passato glorioso, quello romano. Quel che più importa al nostro discorso è però che sul testo appena citato ebbe occasione di riflettere nel 1530 Francesco Guicciardini che, d’accordo sulla corruzione degli ecclesiastici e sulla funzione della Chiesa di Roma nell’aver impedito l’unità d’Italia, non era però d’accordo sul giudizio negativo da assegnare a questa funzione. In Guicciardini, ancora dopo il sacco di Roma, prevale la visione municipalista: anche per lui la soluzione è quella di tornare alla situazione anteriore al 1494, a quella politica di equilibrio tra gli stati italiani che ha permesso all’Italia ricchezza economica e sviluppo di varie città e poteri locali; una situazione peculiare che Guicciardini reputa migliore, o comunque più adatta all’Italia, rispetto a un potere centrale come quello affermatosi nelle grandi monarchie europee. Nelle sue Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, Guicciardini scriveva: “Non si può dire tanto male della corte romana che non meriti se ne dica piú, perché è una infamia, uno esemplo di tutti e' vitupèri ed obbrobri del mondo. Ed anche credo sia vero che la grandezza della Chiesa, cioè la autoritá che gli ha data la religione, sia stata causa che Italia non sia caduta in una monarchia; perché da uno canto ha avuto tanto redito che ha potuto farsi capo, e convocare quando è bisognato príncipi esterni contro a chi era per opprimere Italia, da altro essendo spogliata di arme proprie, non ha avuto tante forze che abbia potuto stabilire dominio temporale, altro che quello che volontariamente gli è stato dato da altri. Ma non so giá se el non venire in una monarchia sia stata felicitá o infelicitá di questa provincia, perché se sotto una republica questo poteva essere glorioso al nome di Italia e felicitá a quella cittá che dominassi, era all'altre tutte calamitá, perché oppresse dalla ombra di quella, non avevano facultá di pervenire a grandezza alcuna, essendo el costume delle republiche non participare e' frutti della sua libertá ed imperio a altri che a' suoi cittadini propri. E se bene la Italia divisa in molti domíni abbia in vari tempi patito molte calamitá che forse in uno dominio solo non [ar]ebbe patito, benché le inundazione de' barbari furono piú a tempo dello imperio romano che altrimenti, nondimeno in tutti questi tempi ha avuto al riscontro tante cittá floride che non arebbe avuto sotto una republica che io reputo che una monarchia gli sarebbe stata piú infelice che felice. Questa ragione non milita in uno regno el quale è piú commune a tutti e' sudditi; e però veggiamo la Francia e molte altre provincie viversi felici sotto uno re; pure, o sia per qualche fato di Italia, o per la complessione degli uomini temperata in modo che hanno ingegno e forze, non è mai questa provincia stata facile a ridursi sotto uno imperio, eziandio quando non ci era la Chiesa; anzi, sempre naturalmente ha appetito la libertá, né credo ci sia memoria di altro imperio che l'abbia posseduta tutta, che de' romani,e' quali la soggiogarono con grande virtú e grande violenzia; e come si spense la republica e mancò la virtú degli imperadori, perderono facilmente lo imperio di Italia. Però se la Chiesa romana si è opposta alle monarchie, io non concorro facilmente essere stata infelicitá di questa provincia, poi che l'ha conservata in quello modo di vivere che è piú secondo la antiquissima consuetudine ed inclinazione sua.” 2 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia L’unità sotto un solo governo non sarebbe adatta alle popolazioni italiche, troppo inclinate per natura e per abito al municipalismo e all’autodeterminazione su base locale. Prevale, cioè un mito della ricchezza che è possibile costruire soltanto localmente attraverso un governo stretto e la prudenza di un gruppo di ottimati che nutre il proprio particulare ( Ricordi). Ma è aliena dal pensiero di Guicciardini, come da quello di Machiavelli, l’esaltazione della cultura letteraria e artistica come gloria parallela o come consolazione alternativa a quella politica e militare. […] Il suo giudizio [di Guicciardini] su Leone X è durissimo: fino al 1521 la situazione militare sembrava essersi calmata e, con l’eclisse degli svizzeri, si era giunti a una sorta di equilibrio tra Francia, impero e stati italiani. Guicciardini intravede in quel momento la possibilità di tornare a una politica degli equilibri capace di dare prosperità all’Italia. È invece una sorta di nuovo inizio di catastrofe: come Ludovico il Moro aveva aperto la strada agli invasori, così Leone X è lo strumento che causa la nuova catastrofe: “stata circa tre anni in pace, benché dubbia e piena di sospizione, pareva che avesse il cielo il fato proprio e la fortuna o invidiosi della sua quiete o timidi che, riposandosi piú lungamente, non ritornasse nella antica felicità. Principio a nuovi movimenti dettono quegli i quali, obligati piú che gli altri a procurare la conservazione della pace, piú spesso che gli altri la perturbano, e accendono con tutta la industria e autorità loro il fuoco; il quale, quando altro rimedio non bastasse,doverebbono col proprio sangue procurare di spegnere.” (Storia, XIV, 1) Così l’intervento di Leone riapre le ostilità e prepara l’Italia all’ultima catastrofe: “Né si vedeva cagione che lo necessitasse a desiderare o a suscitare la guerra, perché e prima aveva tentato l'armi infelicemente e, amen due questi príncipi tanto grandi, aveva da temere parimente della vittoria di ciascuno di loro; conoscendosi chiaramente che quello che rimanesse superiore non arebbe né ostacolo né freno a sottoporsi tutta Italia. Possedeva tranquillamente e con grandissima ubbidienza lo stato amplissimo della Chiesa, e Roma e tutta la corte era collocata in sommo fiore e felicità, piena autorità sopra lo stato di Firenze, stato potente in quegli tempi e molto ricco; ed egli per natura dedito all'ozio e a' piaceri, e ora per la troppa licenza e grandezza alieno sopramodo dalle faccende, immerso a udire tutto dí musiche facezie e buffoni, inclinato ancora troppo piú che l'onesto a' piaceri che si godevano con grande infamia, pareva dovesse essere totalmente alieno dalle guerre. “(ibidem) La condotta irrazionale di Leone conduce a rompere l’equilibrio che si era ricomposto; cosi, qualche anno più tardi, l’incapacità di condotta coerente di Clemente VII e la viltà dei capitani italiani condurranno all’epilogo della tragedia: è proprio l’elemento personale e irrazionale che introduce l’imponderabile, le variabili rispetto agli esempi antichi e che non permette di trasformare in scienza l’arte della prudenza, della previsione politica. Per questo è necessario ricorrere continuamente alla discrezione, quel criterio di giudizio al quale, e lo ricorda bene il giurista Guicciardini, fa anche ricorso il giudice nei casi non contemplati dalla legge. Proprio la nuova scomparsa della politica d’equilibrio tra gli stati italiani conduce Guicciardini a uno sguardo d’insieme sui territori italiani e a convincersi che non è possibile osservare le cose fiorentine da sole: ma se anche occorre fare S t o r i a d I t a l i a , questa non è intesa dallo stesso Guicciardini come stato unitario. Il suo impegno diplomatico può essere stato per il mantenimento dell’equilibrio e dell’autodeterminazione 3 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia dei vari stati italiani, ma la sconfitta di quel progetto riporta il suo orizzonte di governo a quello della città di Firenze: proprio per questo, dopo il sacco di Roma ritorna a Firenze e cerca di mediare con il governo repubblicano prima, con il principato civile di Alessandro e ancora vi prova, pur venendo emarginato, con il giovane duca Cosimo I. Per entrambi, il problema era l’unità politica, seppur diversa, e non l’unità culturale che al limite sarebbe un derivato. […] La pubblicazione del corpus delle sue opere [di Guicciardini], attraverso il quale si poté avere un’idea complessiva di quel pensiero, avvenne ancora più tardi, soltanto con l’edizione Canestrini apparsa tra il 1857 e il ’67: non più in tempo per poter essere apprezzate da un federalista come Cattaneo, in tempo per essere valutate da De Sanctis con il metro della generazione risorgimentale e far nascere un confronto con Machiavelli - diventato poi tradizionale - mettendoli l’un contro l’altro in un’opposizione che a lungo avrebbe impedito di cogliere la reale portata del pensiero guicciardiniano. In quel confronto nella Storia della letteratura italiana , che era la storia dello spirito e della redenzione italiana, Machiavelli era celebrato come padre e profeta della patria: […] La glorificazione di colui che aveva potuto almeno negli scritti prevedere la patria italiana si afferma sulla pagina stessa di De Sanctis, nella quale egli interviene in prima persona per registrare la conflagrazione tra illusione e avveramento, tra storia passata e presente storico: mi riferisco al famoso passo in cui, mentre sta parlando di Machiavelli, la storia contemporanea fa irruzione nella sua pagina: “Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell'antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l'entrata degl'Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.”(p. 607) Anche il machiavellismo viene liberato dai suoi aspetti deteriori e diventa metodo di indagine scientifica per fondare un mondo nuovo, un mondo fondato sull’idea di patria, di nazionalità e sui valori etici: “Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo su' rottami del medioevo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico, un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.” (pp. 608-9) Dopo questa lettura ed esaltazione della “funzione” della lezione machiavelliana all’interno dello sviluppo dello spirito nazionale, il giudizio su Guicciardini non poteva essere che sfavorevole per colui che aveva teorizzato il richiamo al particulare: “Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non ci è più il cielo per lui,ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili, ma liammette sub conditione , a patto che sieno conciliabili col tuo “ particulare” , come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse.” (p. 611) 4 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia […] Con questa lettura Machiavelli e Guicciardini hanno finito per diventare una coppia antitetica: anche il loro pensiero storico, che non era poi così distante, è stato a lungo presentato come fondato su di un’opposizione agonistica. Da De Sanctis in poi, i due sono diventati gli esponenti di un’antinomia dello spirito nazionale italiano, di una spinta schizofrenica verso opposti ideali e princìpi. Forse la recente fortuna critica di Guicciardini sta facendo saltare questo schema storiografico; o forse questa fortuna è dovuta soltanto al fatto che viviamo in tempi tristemente guicciardiniani, in quel senso deteriore assegnatogli da De Sanctis. Le condizioni economiche e sociali durante il Rinascimento Durante l'epoca rinascimentale emergono già in maniera evidente i differenti livelli di sviluppo economico raggiunti dalle diverse parti della Penisola. Il Nord conobbe una fase di prosperità che lo inserì fra le regioni più ricche d'Europa. Le Crociate avevano consentito di costruire legami commerciali duraturi con l'Asia e in particolar modo la Quarta Crociata aveva permesso a Veneziani e Genovesi di estromettere i rivali bizantini dai traffici nel Mediterraneo orientale. Le principali rotte commerciali passavano infatti attraverso i territori bizantini e arabi e avevano come snodo proprio Venezia, Genova e Pisa. Prodotti di lusso acquistati nel Levante, come spezie, coloranti e sete, venivano importati in Italia e da qui rivenduti in tutto il continente, mentre le merci provenienti dall'Europa continentale quali lana, frumento e metalli preziosi raggiungevano la Penisola attraverso le fiere della Champagne. I traffici lungo l'asse dall'Egitto al Baltico fruttavano ai mercanti italiani ingenti guadagni, che venivano reinvestiti nel settore agricolo e nell'estrazione mineraria. In questo modo le regioni settentrionali dell'Italia, che non vantavano risorse superiori a quelle di altre aree europee, raggiunsero elevati livelli di sviluppo grazie all'impulso dato dai commerci. Firenze in particolare si affermò come uno dei centri più prosperi grazie soprattutto alla produzione di panni di lana, gestita dall'Arte della Lana, una delle più importanti corporazioni cittadine. La materia prima era importata dal Nord Europa (nel XVI secolo dalla Spagna) mentre i coloranti importati dall'Est erano utilizzati per la fabbricazione di tessuti di alta qualità. I prezzi che già dal 1510 mostravano una tendenza al rialzo. Emergono, quali centri di produzione agricola sviluppati, quelle regioni i cui prodotti venivano richiesti. Il quadro, pertanto, non è determinato dai grani, ma dall'allevamento e dalle colture speciali destinate ai palati raffinati, al commercio e alla produzione manifatturiera. L'Italia settentrionale, che con le sue molte città non aveva sofferto granché la crisi tardo medievale, sviluppa in questo periodo una agricoltura innovatrice: allevamento intensivo, fattorie per bestiame da latte, risaie, praticoltura, frutticoltura, orticoltura, piantagioni di gelso e piante coloranti. Si diffonde a partire dagli anni 30 il fenomeno delle bonifiche che estende enormemente il terreno coltivabile. Il Sud invece, nonostante l'unità territoriale realizzata fin dal XII secolo, non era venuta a formandosi una borghesia dinamica ma perduravano le antiche strutture feudali fondate sul privilegio e una tendenza alla concentrazione fondiaria nelle mani di un forte ceto baronale. Inoltre le attività commerciali e finanziarie erano gestite quasi interamente da banchieri stranieri, soprattutto fiorentini e catalani, che concedevano prestiti alla Corona e realizzavano profitti destinati ad essere reinvestiti altrove. L'età rinascimentale fu inoltre interessata da un processo di costante incremento della popolazione seguito al crollo demografico del Trecento, dovuto al flagello della peste bubbonica. L'aumento si 5 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia verificò in maniera piuttosto generalizzata in tutta Europa e vide l'Italia settentrionale al secondo posto per densità abitativa (40 abitanti per km²) dopo i Paesi Bassi. Nel 1550, nella fase conclusiva del periodo rinascimentale, la città più popolosa d'Italia era Napoli, con circa 210.000 abitanti, seguita da Venezia (160.000), Milano e Palermo (entrambe 70.000). Le grandi città commerciali italiane erano ancora le più ricche, di denaro, di reti commerciali, di esperienza professionale. Le città italiane- come abbiamo ampiamente visto- si erano sviluppate per prime, e avevano dominato l’economia medievale, grazie alla debolezza del potere centrale a cui erano formalmente sottoposte, l’impero. Anzi, la lotta dei Comuni contro l’imperatore per l’autonomia aveva potenziato le capacità di sviluppo economico dal basso. Quella lotta era avvenuta con il forte sostegno del papato. Nel 16° sec., dopo cinque secoli di sviluppo, l’Europa occidentale era ormai matura per il dominio dell’economia capitalistica. Ma a quel punto le Signorie e le Repubbliche italiane risultarono troppo piccole per attuare il decollo. Il loro mercato interno era insufficiente per alimentare la domanda dei prodotti delle manifatture. Inoltre sia le borghesie locali sia le loro espressioni politiche avevano perso l’abitudine di pensare allo sviluppo. Esse non avevano più progetti di crescita economica. Per due secoli (il 15° e il 16°) i governi dei maggiori Stati italiani impiegarono tutti i loro sforzi in una lotta accanitissima, sia tra di loro sia con le rispettive opposizioni interne; nei giochi di potere e nelle strategie di bilanciamento dei poteri, soprattutto tra Firenze, Milano, Venezia, Napoli e il papa, per impedire che qualcuno di questi Stati guadagnasse l’egemonia sugli altri. La Riforma protestante in Italia La Riforma protestante, cioè quel periodo di rivolgimenti religiosi della Chiesa cattolica del XVI secolo originatosi a partire dall'opera di Martin Lutero e di altri riformatori, in Italia si caratterizza come un processo eterogeneo di esperienze religiose che, a partire dalla tradizione umanistica e dalla teologia dei riformatori d'oltralpe, contribuiscono da una parte a originali rielaborazioni in materia teologica, in una critica all'ortodossia cattolica e protestante; dall'altra non permettono, per l'assenza di un nucleo forte, di capacità organizzative e soprattutto per la violenta reazione dell'Inquisizione, un processo unitario e competitivo nei confronti della Chiesa cattolica. Poco prima della riforma luterana ci fu il movimento di Girolamo Savonarola (1452-1498) e la sua Riforma del convento di San Marco a Firenze. Durante il periodo della principale Riforma protestante luterana, calvinista, ci sono stati molti personaggi italiani che hanno contribuito alla Riforma come la Famiglia Diodati, Pietro Martire Vermigli, Paolo Sarpi, Bernardino Ochino, Pietro Paolo Vergerio, Celio Secondo Curione e personaggi importanti che ne vennero influenzati, come Giordano Bruno e Camillo Benso, conte di Cavour. Inoltre altri movimenti, come i Valdesi, si allinearono adottando i principi della Riforma protestante soprattutto quella calvinista. Origini e diffusione delle idee luterane Nel terzo e quarto decennio del Cinquecento, in particolare nelle città del nord, la diffusione clandestina degli autori della Riforma, Lutero, Ulrich Zwingli, Filippo Melantone, Martin Bucero; contribuì a diffonderne i principi religiosi più innovativi: giustificazione per fede, predestinazione, critica ai sacramenti e polemica antipapale. Il successo di una riflessione teologica sul problema della salvezza, alternativa in particolare al sistema penitenziale tradizionale fu dovuto particolarmente ad un clima di risveglismo religioso già 6 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia alla fine del XV secolo: millenarismo apocalittico, profetismo, contribuirono ad alimentare un bisogno diffuso di avere maggiori certezze e migliori strumenti per la via della redenzione. In tal senso il tema della fede come unica certezza, in un atteggiamento consolatorio di fiducia nell'infinita bontà di Dio (evidente nei primi scritti di Lutero), e nel sacrificio redentore di Cristo, apparivano una soluzione ideale: in questa direzione si mossero alcuni predicatori itineranti, soprattutto agostiniani e francescani che, in particolare negli anni trenta, ai temi tradizionali univano più precisi riferimenti alla predestinazione, alla teologia paolina della fede, e alla critica del culto dei santi, in un richiamo ideale al pensiero religioso della Riforma. Il tradizionale anticlericalismo si unì ad una maggior insofferenza verso un autoritarismo romano e imperiale, che suggellava definitivamente la crisi del mondo comunale: perciò, in particolare l'esperienza della Riforma svizzera, nell'uguaglianza religiosa della Repubblica di santi a Zurigo e Ginevra, rievocava il recupero di antiche libertà e di una tradizione repubblicana propria delle antiche città italiane. Motivazioni sociali e religiose favorirono dunque il proliferare dei principi teologici luterani, e nel contempo alimentarono maggiormente la discussione sul problema della salvezza individuale. Il fenomeno interessò particolarmente la società urbana, ma trovò riscontro in tutti gli strati sociali; i mercanti in particolare, dai loro viaggi in Germania riuscivano a far circolare opere dei riformatori sotto vari pseudonimi, nascondendo i libri tra le mercanzie e rivendendoli a stampatori che ne agevolavano la traduzione. Il fenomeno fu assai importante soprattutto a Venezia, per i frequenti contatti con il mondo germanico e numerosi personaggi importanti aderirono alle idee luterane: 7 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia Lutero poteva ben dire, che Venezia sarebbe stata "la porta della Riforma in Italia", sperando nella progressiva organizzazione di un movimento unitario. Le sue attese restarono vane, la Repubblica infatti, si allineò rigidamente alla svolta autoritaria e repressiva della Chiesa, che, dopo il fallito accordo di Ratisbona, del 1541, vide emergere la corrente più intransigente. Nel resto della Penisola proliferarono gruppi protestanti, spesso con la compiacenza delle autorità, in particolare a Mantova, Lucca e Ferrara, dove lo stesso Calvino fu ospite di un gruppo di calvinisti che faceva capo alla duchessa Renata di Francia. A Milano numerosi gruppi sono presenti tra il 1521 e il 1542, nel Ducato di Savoia le sopravvivenze valdesi confluirono nella riforma svizzera, inoltre, dopo il 1520 tracce di luteranesimo erano presenti a Pavia a Como e resistettero fino ai processi inquisitoriali del 1541-42. La fede "valdesiana" Particolare importanza ebbe la diffusione di un'opera composta a partire dal 1539, e pubblicata a Venezia nel 1543, "Il Beneficio di Cristo". Autori furono Benedetto Fontanini e Marcantonio Flaminio, vicini alla cerchia di Juan de Valdés (1505-1541), l'umanista e religioso spagnolo, che non poco contribuì con la sua elaborazione teologica di tinta erasmiana, luterana e intrisa di misticismo, a diffondere in particolare la giustificazione per sola fede. Nell'opera non c'è un chiaro ed esplicito riferimento ai principi della fede luterana, tanto meno alcuna polemica antipapale: negli autori c'è l'intento di non uscire dall'ortodossia cattolica, ma allo stesso tempo di proporre nuove soluzioni al credente per la via della redenzione. Nel percorso di salvezza assume centralità la fede nel sacrificio redentore di Cristo, in un tono consolatorio e fiducioso che non lascia spazio alla funzione delle opere meritorie della teologia tradizionale. Tali elementi, propri della fede valdesiana, riflettono l'esigenza di un rinnovamento soggettivo e interiore che ha origine dalla volontà dell'individuo di avvicinarsi spontaneamente alla perfezione morale di Cristo. Diversamente dalla teologia d'oltralpe, per lo meno da Calvino, ma anche dalla riflessione luterana sul servo arbitrio ("De servo arbitrio" 1525); l'abisso infinito tra l'uomo e Dio viene parzialmente colmato. Valdes, nel suo soggiorno napoletano, tra il 1534 e il 1539, legò a sé importanti personaggi dell'aristocrazia, come Vittoria Colonna, Giulia Gonzaga, religiosi come Bernardino Ochino, e, non da meno la sua religiosità, in particolare proprio con la diffusione del "Beneficio di Cristo", influenzò numerosi personalità della gerarchia ecclesiastica come i cardinali Reginald Pole e Gaspare Contarini. Questi, interpretavano l'esigenza di riforma della chiesa proprio a partire da un accoglimento delle istanze dottrinali della Riforma, particolarmente nella giustificazione per fede: alla dieta di Ratisbona, in cui cattolici e luterani si incontrarono per raggiungere un accordo in materia teologica, il Contarini non escludeva da parte della Chiesa una parziale accettazione della giustificazione per fede. Tuttavia, nonostante gli sforzi della corrente interna alla Chiesa vicina alle idee della Riforma, prevalse la corrente intransigente. Questa guidata da Pietro Carafa, fondatore dei Teatini e futuro papa Paolo IV (1555-1559), vedeva nel luteranesimo un'eresia da estirpare piuttosto che una corrente religiosa con cui dialogare, e riuscì a far fallire l'incontro di Ratisbona (1541; successivamente ci fu un secondo colloquio nel 1546), dopo il quale seguì una svolta repressiva messa in atto tramite il tribunale dell'Inquisizione che si preoccupò non solo di mettere all'indice opere proibite, ma anche di perseguitare con mezzi più convincenti coloro che diffondevano idee non conformi alla dottrina cattolica. 8 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia A seguito della svolta repressiva nella penisola restarono pochi gruppi attivi, tra questi, a seguito della morte di Valdes, quello riunito a Viterbo da Reginald Pole. La religiosità riformata perse ogni slancio e continuò soltanto sotto forma di un'adesione personale e interiorizzata dei credenti, senza esteriori manifestazioni di eterodossia: in sintesi, soprattutto dopo il 1542 tale adesione continuò ad essere intesa secondo i dettami del "Beneficio", il cui contenuto, nel richiamo convinto alla fede e alla grazia come consapevole conversione a Cristo, era stato sapientemente elaborato per eludere ogni accusa di eresia, e soprattutto finalizzato a una semplice "cura d'anime", senza intenti sovvertitori. Gli "eretici" italiani Con il procedere degli anni molte posizioni da riformiste passarono ad essere considerate eretiche e tanti personaggi dell'epoca, soprattutto umanisti, rischiarono di dover negare la loro fede per non trovarsi su posizioni esterne alla Chiesa ufficiale. Per questo motivo la svolta repressiva del 1542 contribuì alla fuga di numerosi personaggi, laici ed ecclesiastici, che preferirono continuare un'attività di proselitismo fuori dall'Italia attraverso la composizione di nuove opere, e tramite la rielaborazione attiva dei principi religiosi della Riforma piuttosto che abiurare o, peggio, a passare a posizioni nicodemistiche. La tradizione umanistica, nella valorizzazione del contenuto morale del messaggio cristiano, e nella critica razionalistica al dogmatismo teologico ora cattolico, ora protestante; contribuì alla confluenza di numerose dottrine: misticismo radicale, critica alla predestinazione, antitrinitarismo, antisacramentalismo. Codesti personaggi in fuga dall'Italia, si recarono particolarmente a Ginevra, ma fu a Basilea che riuscirono a stampare le proprie opere. Calvino infatti, si trovò subito in disaccordo dottrinale con gli esiliati italiani; in particolare l'atteggiamento antispeculativo e il rifiuto dei dogmi portava a soluzioni, come il misticismo neoplatonico di Celio Secondo Curione, ritenuti inaccettabili dal riformatore ginevrino per l'eccessiva fiducia nei confronti dell'uomo e la possibilità di confondersi nell'abisso della deità. Curione, attivo negli anni cinquanta, osservava che la porta verso il cielo doveva essere larga, e non riservata a pochi eletti come la rigida dottrina predestinataria di Calvino prevedeva. Al di là della critica al dogmatismo era il problema della libertà religiosa a dividere gli esiliati italiani da Calvino: la condanna al rogo di Michele Serveto nel 1555 confermò la rigidità della nuova ortodossia ginevrina, che dopotutto, appariva non dissimile da quella romana. In tal senso la definizione di "eretici" per gli italiani è riferibile sia da un punto di vista della Chiesa cattolica che da quella riformata. Bernardino Ochino era il più noto predicatore italiano negli anni trenta: la sua conversione ai principi luterani divenne manifesta con la sua fuga a Ginevra nel 1542 allorché Calvino giudicò la sua religiosità coerente alla sua. Tuttavia Ochino, pur accettando la predestinazione non accettò mai la Omnipotentia Dei nel servo arbitrio luterano e calvinista, ma la reinterpretò alla luce dell'amore divino che non abbandona alcun credente. Egli restò profondamente legato alla religiosità francescana e valdesiana di cui le sue opere restarono profondamente intrise: perciò le sue peregrinazioni tra Ginevra, Augusta, Londra, Basilea e Zurigo mostrano il perenne conflitto tra l'eterogeneità della sua teologia, che lo portò sino all'antitrinitarismo, e l'ortodossia dei riformatori. Pietro Paolo Vergèrio, (il Giovane). - Giurista e riformatore religioso (Capodistria 1498 - Tubinga 1564). Morta la moglie, Diana Contarini, si pose a servizio della Chiesa: nunzio in Germania 9 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia (1533), fu poi consacrato prete e vescovo (1536) e fu a capo delle diocesi di Modrus in Croazia e quindi di Capodistria. Rappresentante ufficiale della Francia alla dieta di Worms (1540), si oppose, su istruzioni della curia, ai disegni conciliativi di Carlo V; riprese tuttavia i contatti coi principali riformatori tedeschi, tanto da allontanarsi dall'ortodossia cattolica ed essere denunciato come luterano (1544) e processato a Venezia (1546), dove fu assolto. Chiamato a Roma per discolparsi, preferì recarsi esule in Svizzera (1549); di lì passò a Tubinga, poi in Polonia (1556), dove tornò (1560) dopo un lungo giro di propaganda luterana in Svizzera e nel Friuli; continuò poi a svolgere intensa attività politico-religiosa in Germania, nei Grigioni, in Valtellina, rivelandosi avversario molto deciso del papato. La sua attività letteraria, essenzialmente propagandistica, consta di opuscoli e volumetti (Della creatione del nuovo papa Giulio III, 1550; Bolla della inditione et convocatione del Concilio, 1550, ecc.), di traduzioni di opere di altri riformatori; famose le sue polemiche contro i varî indici dei libri proibiti e contro P. de Soto e S. Osio. La necessità di identificare Cristo come l'esempio più alto e nobile di umanità portò, in alcuni autori, all'esautorazione della sua natura divina, e pertanto al rifiuto della trinità, non diversamente da Michele Serveto: il senese Lelio Sozzini, e il nipote Fausto iniziarono un efficace proselitismo particolarmente in Polonia. Altri come il Gribaldi, il Biandrata, giunsero a posizioni che rifiutavano l'efficacia dei sacramenti. Gli italiani diedero un notevole contributo allo sviluppo del protestantesimo successivo: Ochino, soprattutto, ebbe un ruolo nell'edificazione della Chiesa d'Inghilterra, (assieme ad altri italiani come Pietro Martire Vermigli), ma contribuì anche, nella sua riflessione sul libero e servo arbitrio ("Laberinti del libero over del servo arbitrio" 1561) e nella sua teologia antispeculativa, ad anticipare quella necessità di semplificazione religiosa che il protestantesimo conobbe soltanto con l'Illuminismo. Il Concilio di Trento (1545-63). A premere per la convocazione di un concilio era stato soprattutto Carlo V, già al tempo di Clemente VII (Medici, 1523-1534): per il suo disegno imperiale la pacificazione della Germania e la riforma della Chiesa risultavano essenziali. Il papato e la Curia opposero, finché poterono, resistenza al progetto, per timore che riapparissero le istanze conciliariste e per le temibili conseguenze di una riforma dottrinale e disciplinare: lo fecero differendone di continuo la convocazione, ma anche favorendo tentativi di riforma senza concilio, quale quello che nel 1536-37 portò all’elaborazione del Consilium de emendanda ecclesia. Fu la Pace di Crépy (1544), che impegnava Carlo V e Francesco I a favorire la convocazione di un concilio e a rispettarne le decisioni, a obbligare Paolo III (Farnese, 1534-1549) all’organizzazione dell’assise nella città imperiale di Trento. I lavori iniziarono nel dicembre 1545, sotto la guida dei legati pontifici e senza la partecipazione dei protestanti. Subito si discusse se il concilio dovesse iniziare a trattare di riforma disciplinare della Chiesa, come chiedeva, con altri, Carlo V, o di questioni dottrinarie, come auspicava il papa. Si decise che le due prospettive dovessero coesistere, ma Paolo III riuscì a imporre da subito le deliberazioni sulla dottrina, il che gli consentì di scavare un solco che impedisse qualsiasi tipo di intesa con il mondo riformato. Alla tradizione storica della Chiesa romana fu attribuita la stessa rilevanza della Sacra Scrittura; venne condannata la dottrina della giustificazione per fede e ribadita l’efficacia dei sette sacramenti. I dissapori con Carlo V spinsero il papa a trasferire nel marzo 1547 il concilio a Bologna con il pretesto di un’epidemia. La contestata decisione portò a una sospensione dell’assise che durò fino al 10 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia maggio 1551 quando i lavori ripresero a Trento senza troppa convinzione per interrompersi il 28 aprile 1552. La nuova sospensione durò 10 anni: nel 1555 la Pace di Augusta aveva intanto fatto svanire la speranza di ricondurre i protestanti tedeschi nel seno della Chiesa cattolica, e il già ricordato papa Paolo IV era contrario al concilio. L’assise tornò a riunirsi a Trento il 18 gennaio 1562 dopo una lunga trattativa tra papa Pio IV (1559-1565), la Francia, la Spagna e l’Impero. Tra grandi contrasti, anzitutto legati alle diverse concezioni della Chiesa, quella papocentrica e quella dovuta a una visione episcopalista, si dettarono norme sull’ordinamento delle diocesi ribadendo tra l’altro l’obbligo della residenza per i vescovi (non dovuta però de iure divino, il che consentiva ai papi di accordare dispense), elencando i loro doveri e prescrivendo infine l’erezione dei seminari per la formazione del clero (15 luglio 1563). Vennero regolati i sinodi provinciali e diocesani, che dovevano tenersi a intervalli regolari e ravvicinati ed essere accompagnati da visite nelle diocesi. La notizia della malattia del papa affrettò la conclusione dell’assemblea che fu proclamata il 4 dicembre 1563. Dal Concilio emersero le linee fondamentali del cristianesimo cattolico, operanti per quasi 4 secoli e nettamente distinte dal contenuto dottrinale delle confessioni protestanti. L’attuazione del programma di riforma deciso a Trento, contro le opposizioni del potere politico e del protestantesimo, impegnò la Chiesa con l’aiuto dei nuovi ordini religiosi e della rinnovata Inquisizione. In particolare il Concilio di Trento fissò il dogma del peccato originale e quello della giustificazione per la fede e per le opere, condannando il principio luterano della giustificazione per la sola fede, indipendentemente dalle opere, e affermando il valore del libero arbitrio persistente anche dopo il peccato originale. Anche nel campo della riforma disciplinare il concilio svolse opera essenziale, dando norme per la scelta e l’azione dei cardinali e dei vescovi e condannando il nepotismo. La Controriforma Fu così nominata la vasta azione svolta dalla Chiesa cattolica nel 16° sec. e in parte del 17° per restaurare una più intensa, viva, sincera e disciplinata vita religiosa, realizzando quella «riforma nel capo e nelle membra», già discussa nei concili del 15° sec. e resa ancor più urgente dal dilagare della Riforma protestante nel 16° sec. La Controriforma operò nel campo del dogma e in quello della disciplina ecclesiastica, tra il clero e il laicato, con mezzi religiosi, politici, giudiziari, sul terreno culturale e su quello delle armi; agì con particolare intensità tra il quinto e il nono decennio del 16° sec., ma la sua opera si protrasse sino a che, con la pace di Vestfalia (1648), apparvero ormai decise le sorti religiose d’Europa e tracciati i confini territoriali fra le confessioni. Sul terreno dogmatico, l’opera della Controriforma si concentra particolarmente nell’attività del più sopra ricordato Concilio di Trento (1545-63). Fuori dal concilio, i papi diedero infinite disposizioni volte a evitare il continuarsi di mali, per lo più da lunghissimo tempo deplorati, ma ai quali non si era mai riusciti a porre riparo. Ai papi si affiancarono ecclesiastici eminenti come s. Carlo Borromeo, s. Alessandro Sauli, i beati Paolo Burali d’Arezzo e Giovanni Giovenale Ancina, il cardinale Gabriele Paleotti e altri. Grandi artefici dell’intera opera riformatrice furono i nuovi ordini religiosi, principalmente la Compagnia di Gesù, e poi teatini, somaschi, barnabiti, ospedalieri di s. Giovanni di Dio, ministri degli infermi, chierici regolari della Madre di Dio, chierici regolari minori, scolopi. A questa fioritura di nuovi ordini religiosi si accompagnò la riforma degli antichi: sorsero così i cappuccini, i carmelitani scalzi, i romitani scalzi di s. Agostino. Nel complesso con la 11 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia Controriforma, i diritti della gerarchia diedero luogo a un’organizzazione sempre più forte e disciplinata; il primato papale affermò con sempre maggiore fermezza i suoi attributi. Caratteristica della religiosità della Controriforma fu, nel campo morale, una maggiore benignità, un senso più vivo e una valutazione più estesa di tutte le condizioni psicologiche degli atti umani. Lo spirito di mortificazione della carne rimase parte essenziale della pietà cattolica, ma scomparvero o si attenuarono certe forme di aspra e pubblica penitenza. Aumentò anche grandemente la cura per il miglioramento del costume degli ecclesiastici, l’attività sociale e benefica del clero: l’importanza del sacerdozio, che era stato elemento vitale sin dagli inizi della Chiesa cattolica, ne risultò ancora accresciuta, anche se qualche laico assurse a figura di primo rango nella vita della Chiesa, così come molti ecclesiastici i quali ebbero in essa un’importanza senza alcun rapporto con la loro posizione gerarchica. La Contoriforma lottò contro l’eresia, non soltanto attraverso un’opera polemica in difesa dei principi cattolici, ma soffocando con mezzi repressivi ogni focolaio di eresia nei paesi cattolici. Quest’opera fu in particolare modo affidata all’Inquisizione. Connessa all’operato di questa, fu l’attività di prevenzione, che si esplicò soprattutto nel campo librario con la censura preventiva (sottoposizione all’imprimatur) e repressiva (istituzione dell’Indice dei libri proibiti). A tutte le attività in cui si concretizzò la Controriforma va aggiunta quella politica e militare, che la Chiesa non poté realizzare da sola, ma che non cessò fin dall’inizio di raccomandare agli Stati, incoraggiando le imprese volte a vincere sui campi di battaglia gli eretici e a sgominarne le coalizioni. La storia della Controriforma comprende pertanto quella delle guerre di religione. La Germania fu il loro campo principale, dalla formazione della lega di Smalcalda alla pace di Vestfalia. Infine, è da menzionare l’opera delle missioni, specialmente gesuitiche, che portarono il cattolicesimo non solo fra gli indigeni dell’America Meridionale, ma in Etiopia, in India, in Cina, in Giappone. Nella stessa direzione di riconquista ed espansione della Chiesa cattolica si accentuarono gli sforzi verso l’unione delle chiese e il ‘recupero’ dei cristiani ortodossi, con conseguente impegno, religioso e militare, per l’allontanamento dei Turchi dall’Europa centrale e dai Balcani. L'Inquisizione romana (o Sant'uffizio) La Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o Sant'Uffizio fu creata nel 1542 da papa Paolo III con la bolla Licet ab initio. Consisteva di un collegio permanente di cardinali e altri prelati dipendente direttamente dal papa: il suo compito esplicito era mantenere e difendere l'integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. A questo scopo fu anche creato l'Indice dei libri proibiti. Il raggio d'azione degli inquisitori romani comprendeva tutta la Chiesa cattolica, ma la sua concreta attività, fatta eccezione per alcuni casi (come quello del cardinale inglese Reginald Pole), si restrinse quasi solo all'Italia. Va ricordato che, tra gli stati italiani, la Repubblica di Lucca si oppose sempre alla penetrazione sul suo territorio dell'Inquisizione Romana. Questo fatto non impedì la persecuzione di streghe e protestanti, che fu però condotta da magistrati statali, come in altri stati europei, portando comunque all'emigrazione forzata dei principali esponenti della fede riformata. Tra i processi famosi celebrati dal tribunale dell'Inquisizione si ricordano quello a carico di Giordano Bruno, il processo a Galileo Galilei e i cinque processi, con applicazione della tortura, contro Tommaso Campanella, conclusisi con la messa al rogo del primo, la condanna per eresia e con l'abiura delle sue concezioni astronomiche per il secondo e complessivamente circa 30 anni trascorsi in carcere per il terzo (pena dell'ergastolo, ma scontata nella villa medicea di Arcetri, grazie alla protezione dei Medici, signori di Firenze). 12 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia Delle inquisizioni nate a partire dal Medioevo è l'unica ancora oggi esistente. La caduta dello Stato pontificio con l'unità d'Italia privò l'Inquisizione delle funzioni repressive prima delegate al braccio secolare, riducendola ad apparato puramente censorio, attento soprattutto a vietare la circolazione di prodotti culturali che l'apparato ecclesiastico considerava contrari alla teologia e all'etica cattolica. Essa non è stata tuttavia abolita: la Romana e Universale Inquisizione fu rinominata in Sacra Congregazione del Sant'Uffizio il 29 giugno 1908 da papa Pio X. Il 7 dicembre 1965 papa Paolo VI ne cambiò il nome in Congregazione per la dottrina della fede ridefinendone i compiti. Papa Giovanni Paolo II (che in un discorso dell'8 marzo 2000 ha chiesto perdono a nome della Chiesa per i peccati dei suoi appartenenti anche riguardo all'Inquisizione) ne ha ridefinito i compiti promuovere e tutelare la dottrina della fede e dei costumi cattolici - ponendovi a capo nel 1981 Joseph Alois Ratzinger, in seguito divenuto anch'egli papa con il nome di Benedetto XVI. L’inquisizione a Venezia Con l'istituzione del nunzio a Venezia, anche questi si vide attribuire competenze inquisitoriali (almeno a partire dal 1521; la nunziatura di Venezia fu istituita nel 1500). La diffusione della Riforma protestante a partire dagli anni venti del XVI secolo ma ancor più la riorganizzazione dell'Inquisizione romana con l'istituzione della Congregazione del Sant'Uffizio (1542) rivitalizzarono l'attività dell'Inquisizione veneziana. Nel 1547 fu istituita la magistratura dei Tre Savi sopra l'eresia, di fatto una risposta veneziana alla riorganizzazione dell'Inquisizione romana. I Tre savi erano anziani scelti per le loro posizioni antiromane. Il potere inquisitoriale fu quindi di fatto spartito tra il nunzio e l'inquisitore da un lato (che rappresentavano gli interessi papali) e il patriarca e i Savi sopra l'eresia dall'altro (che rappresentavano gli interessi dello Stato veneziano), il che ha portato a parlare di presenza di un'"Inquisizione mista". In ogni caso gli interessi veneziani e quelli papali molto spesso non collimavano, il che produceva uno stato di tensione permanente tra Venezia e Roma in materia di persecuzione degli eretici. E se popolani eretici, specie se non erano sudditi dello stato veneziano, erano consegnati facilmente nelle mani degli inquisitori e poi all’esecuzione , molto più difficile era inquisire i nobili. Nel 1560, a seguito della cacciata da Venezia dell'intransigente Felice Peretti (il futuro papa Sisto V, 1585-1590), la guida dell'Inquisizione veneziana passò dai frati minori conventuali ai domenicani. Il tribunale dell'Inquisizione di Venezia di fatto aveva un ruolo preminente sulle altre sedi inquisitoriali presenti nel territorio della Repubblica e molto spesso gli eretici e i loro processi venivano trasferiti da queste sedi alla sede inquisitoriale veneziana. Egualmente il nunzio apostolico rappresentante del papa e i Savi sopra l'eresia rappresentanti del governo veneziano avevano competenza su tutto il territorio della Serenissima. "Prose della volgar lingua" di Pietro Bembo (1470-1547): introduzione all'opera A cura di Silvia Milani Nelle sue Rime, edite prima nel 1530 e poi nel 1535, Pietro Bembo attua un'importante “rifondazione del petrarchismo”: l'imitazione quattrocentesca di Petrarca, che mostra fino a quel momento una natura ibrida, riadattata e spesso occasionale, viene superata a favore di un 13 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XXI Lezione: Machiavelli e Guicciardini. Le condizioni economiche e sociali. La Riforma protestante in Italia travestimento totale della personalità letteraria dello scrittore toscano, che nel suo corpus poetico racconta di errori giovanili e di illusioni, di un sofferto e tormentato rapporto con Dio e di una maturità spirituale raggiunta solo in età adulta. Bembo instaura perciò, nel suo canzoniere, l'imitazione di quel tracciato storico dell'intimità personale già visibile nelle opere del poeta trecentesco. La struttura delle Rime, che conta 165 testi, segue il principio di un unico modello per ogni genere della comunicazione letteraria, discusso per la prima volta in uno scambio epistolare tra il 1512 e il 1513 con Giovanni Francesco Pico della Mirandola. Una caratteristica che l'autore ripropone in maniera sistematica nelle Prose della volgar lingua, in cui predomina però la descrizione delle proprietà stilistico-retoriche del suo "ottimo modello" (il Petrarca), nella ricerca di un equilibrio formale assieme a una commistione armonica tra gravità e piacevolezza. Pubblicate per la prima volta nel 1525, le Prose sono un trattato in forma di dialogo ambientato a Venezia in un periodo antecedente al 1503, tra Federico Fregoso, Giuliano de' Medici, Ercole Strozzi e Carlo Bembo, preceduto da una dedica al cardinale Giulio de' Medici. L'opera è suddivisa in tre libri: il primo tratta delle origini del volgare e dei suoi legami con il latino e il provenzale; in questa prima sezione vengono meglio definite le caratteristiche del volgare italiano e viene confutata la tesi della lingua cortigiana (sostenuta ad esempio dal Castiglione), a favore della teoria arcaizzante, dell'eccellenza del toscano letterario e dell'imitazione di Boccaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia. Nel secondo libro, vengono trattate le tesi già citate della gravità e della piacevolezza, oltre a quella della variatio, esposta attraverso le parole di Federico Fregoso. In questa parte, Bembo mette in atto un confronto stilistico tra Dante e Petrarca, a favore di quest'ultimo. Nel terzo libro è contenuta la descrizione di una lingua stabile e depurata, e cioè una vera e propria grammatica della lingua toscana letteraria, esposta attraverso numerosi esempi. Con il modello delle Rime e la teoria delle Prose, il “classicismo moderno” di Bembo stabilisce un nuovo e più definito orientamento della lingua letteraria italiana e determina la progressiva scomparsa del latino. 14