STORIA DELLA MEDICINA LE ORIGINI DELLA MEDICINA INDICE CAPITOLO UNO : Le origini La medicina primitiva Medicina nella preistoria La medicina primitiva presso i selvaggi La medicina popolare La medicina nelle antiche civiltà La medicina ebraica (1200 a.C.-550 a.C.) La medicina a.C.) La medicina La medicina La medicina La medicina assiro-babilonese (1792 a.C.-323 egiziana (3000 a.C.-1000 a.C.) mesopotamica (3000 a.C.-2000a.C.) indiana (2500 a.C.-1500 a.C.) cinese CAPITOLO DUE : La medicina in Grecia Le scuole mediche Scuola di Cnido Scuola di Coo o La figura del medico o L’anatomia o La patologia o La clinica o La chirurgia o La terapia o La dietetica Il dogmatismo post-ippocratico La scuola di Alessandria La scuola empirica CAPITOLO TRE : La medicina nell’antica Roma Medicina autoctona Fase di transizione Periodo delle scuole o Medicina pre-galenica o Galeno (138-201) o Medicina post-galenica Condizioni igienico-sanitarie nell’epoca romana L'epidemiologia L'ospedalità a Roma L'insegnamento della medicina La medicina militare CAPITOLO QUATTRO : Il Medioevo La scuola salernitana Le università Le pestilenze L’ospedalità medioevale CAPITOLO CINQUE : Il rinascimento scientifico (sec. XVII) CAPITOLO SEI : Il sec. XVIII CAPITOLO SETTE IL XX SEC. CAPITOLO UNO Le origini Se per medicina si intende qualsiasi atto o procedimento finalizzato all’allontanamento di un agente patogeno, di un sintomo morboso, di un qualsivoglia elemento che turbi lo stato di salute, allora si può certamente dire che l’origine di questa scienza coincida con l’origine stessa dell’uomo e che sia strettamente legata a risvolti di carattere religioso, filosofico, paleontologico ed etnologico. Inoltre è molto difficile fare un’adeguata ricostruzione scientifica dei primi atti curativi in età preistorica, pochi i reperti di medicina vera e propria a nostra disposizione non sono sufficienti (si tratta solamente di crani trapanati e ossa con fratture consolidate risalenti a non prima di 100.000 anni fa). In realtà si possono solo fare semplici supposizioni basate sull’osservazione di graffiti, pitture murali o di sculture. Potrebbe venire spontaneo il paragone nel campo medico tra l’uomo della preistoria e le moderne popolazioni selvagge (ad esempio i pigmei africani), ma non bisogna dimenticare che anche il popolo più primitivo di oggi ha già subito millenni di evoluzione. Durante il corso dei secoli la medicina ha attraversato diversi stadi che, secondo gli storici, sono i seguenti: medicina istintiva, medicina sacerdotale, medicina magica, medicina empirica, medicina scientifica. Per medicina istintiva si intende quella serie di accorgimenti ed azioni proprie della natura degli animali superiori ed insite nel loro comportamento, quali ad esempio il leccamento della ferita, la posizione antalgica di un arto dopo un trauma, l’eliminazione dei parassiti dal corpo, il disbrigo delle occorrenze del parto. La medicina sacerdotale nacque quando l’uomo primitivo, davanti alla potenza e all’imponenza dei fenomeni naturali che trascendono ogni possibilità umana, ebbe la sensazione della presenza di uno o più esseri superiori responsabili di qualsiasi manifestazione della natura, anche di quelle relative alle patologie da cui veniva colpito. Le uniche vie di guarigione risultavano quindi essere la preghiera, l’implorazione e il sacrificio. Solo in un secondo tempo, con la corruzione del puro sentimento religioso, si ebbe la concezione magica della medicina, in base alla quale l’uomo credette di poter intervenire sui fenomeni e addirittura di poterli comandare, sostituendosi così alla divinità fin dalle più antiche testimonianze documentali di epoca storica in nostro possesso si evince il fatto che la figura dello stregone o del mago è opposta ed in contrasto con quella del sacerdote. Ciò significa che nel concetto di medicina magica inclusa una ben definita connotazione di empietà: chi si occupa di fatture e sortilegi avvalendosi delle forze occulte viene temuto come un essere malefico e diabolico. Non si può però non rilevare nell’operato di maghi e stregoni un primo abbozzo di scienza in quanto essi seguivano principi sempre uguali che, pur basandosi su correlazioni completamente sbagliate tra causa ed effetto, costituivano comunque un ragionamento guidato da un’apparente logica. Se quindi per scienza si definisce lo studio dei fenomeni naturali al fine di stabilirne le leggi e di poterli riprodurre applicando le leggi stesse, allora bisogna riconoscere che la magia tende allo stesso scopo pur partendo da presupposti errati e utilizzando mezzi inadeguati. Quando poi l’uomo, ampliando le sue conoscenze ed approfondendo gli studi su di esse, si rese conto di non potere più sostituire la divinità pur comprendendo la natura dei fenomeni intorno a lui, iniziò una prima discriminazione tra magia e scienza. Anche nella medicina empirica possiamo vedere una forma embrionale di scienza: è vero che non si preoccupa di risalire al perchè dei fatti osservati, ma è pur sempre la prima constatazione tra una causa ed un effetto che permette la formulazione di successive ipotesi, quindi il punto di partenza del ragionamento scientifico. La medicina primitiva Medicina nella preistoria. Come detto in precedenza, gli unici reperti di paleopatologia a nostra disposizione sono relativi a lesioni dello scheletro: si tratta di fratture (spesso ben consolidate), affezioni dentarie, problemi reumatici, rachitismo. Da ricordare il rinvenimento di crani trapanati che presentano processi di rigenerazione ossea, per cui si può affermare che l’intervento venne effettuato su un individuo vivo. La medicina primitiva presso i selvaggi. I popoli primitivi attualmente viventi uniscono l’interpretazione soprannaturale a un empirismo spesso assai progredito. Tutte quelle patologie che sono causate da agenti ben definibili (traumi, morsi di animali, parassitosi ecc.) sono trattate con rimedi naturali dettati da una ricerca empirica, mentre quelle la cui causa non è evidente (qualsiasi patologia interna) sono attribuite all’ influenza di divinità, maghi o stregoni. In ogni caso è sempre l’elemento magico ad avere il sopravvento nella diagnosi e nella cura che sono esclusiva competenza dei guaritori. L’eziologia di qualsiasi patologia è spesso associata a un peccato commesso, anche involontariamente, dal paziente contro divinità, stregoni, individui o oggetti dichiarati tabù (re, guerrieri, persone in lutto, donne mestruate, puerpere, chiunque abbia a che fare con cadaveri, alcuni animali) con i quali è proibito ogni contatto. Lo stregone ha poi la facoltà di causare la malattia in moltissimi modi se ha a disposizione parti del corpo della vittima (unghie, capelli ), oggetti o avanzi di cibo; in mancanza di ciò può ricorrere ad altri procedimenti come l’infissione di chiodi o spilli in feticci. Anche i demoni e le anime dei morti sono ritenuti in grado di provocare malattie. Per difendersi dalle malattie si fa ricorso ad abluzioni, all’uso di amuleti, alla somministrazione di erbe medicamentose oppure anche a cerimonie e riti collettivi a cui partecipa tutto il villaggio con a capo lo stregone: talvolta si cerca di scacciare il demone responsabile della malattia spaventandolo, talvolta allettandolo, altre volte ancora si ricorre al sacrificio o all’allontanamento di un capro espiatorio. La medicina popolare E’ un miscuglio di medicina primitiva, empirismo, magia e religione. Riconosce a determinate persone, quasi sempre donne (le streghe), la capacità di fare il male e di toglierlo. Per provocare le più svariate patologie si ricorre alle fatture che possono essere eseguite indirettamente (operando un transfert della vittima designata su figure, statuette o oggetti che la rappresentano) oppure direttamente gettandole addosso o facendole ingoiare, senza che se ne accorga, sostanze di vario genere di solito di carattere macabro e ripugnante (ossa umane polverizzate, sperma, sangue mestruale). Spesso si usano anche spilli, nodi e altri oggetti che vengono posti nel letto e nei vestiti. Le malattie possono infine essere causate anche dalla semplice invidia e dal malocchio, un fluido che viene emanato talvolta inconsapevolmente dagli occhi delle persone che lo posseggono. C’è poi la magia del bene sia per le malattie provenienti da fattura, sia per le affezioni più comuni: nel primo caso se ne occupano le streghe, nel secondo invece persone dotate di particolari virtù (settimini, appartenenti a certe famiglie ecc.) mediante toccamenti ed enunciazione di determinate formule e preghiere. Da non dimenticare infine il ricorso alla sfera religiosa che talvolta, nonostante il divieto della Chiesa, sconfina in un senso di magismo e superstizione quando arriva a far ingoiare polvere di intonaco di alcune cappelle o immagini di santi. La medicina nelle antiche civiltà La medicina ebraica ( 1200 a.C./500 a.C.) E’ sicuramente il migliore esempio del concetto assolutamente teurgico della medicina: Dio è l’unica fonte di malattia e di risanamento, per cui solo il sacerdote, cioè l’uomo scelto dal Signore, è considerato strumento di guarigione. E’ pur vero che il medico viene tenuto in grande considerazione, ma alla base di tutto sta il fatto che è la divinità ad aver creato le piante e tutti i medicamenti (fiele di pesce, il cuore, il fegato ecc.). Il concetto igienico risulta quindi molto marginale rispetto al precetto religioso. La medicina assiro babilonese ( 1792 a.C./ 323 a.C.) Rappresenta il punto di passaggio tra il concetto teurgico e quello magico: la parte religiosa sta essenzialmente nell’eziologia in quanto l’ira di una divinità verso una persona permette ai demoni maligni di aggredirla causando in tal modo la malattia (c’è un demone per ogni patologia); il concetto magico ha invece risalto nella parte terapeutica, nell’attuazione cioè degli esorcismi. Nella fase diagnostica le due concezioni vanno di pari passo e un ruolo preponderante è giocato dall’ispezione del fegato, ritenuto l’organo più importante in quanto fonte di sangue. Bisogna poi ricordare la parte dedicata alla chirurgia compresa nel Codice di Hammurabi: vi è una vera e propria serie di norme deontologiche in cui sono riportati compensi e pene per chi esercita questa attività. La medicina egiziana ( 3000 a.C./1000 a.C.) Si passa da una fase teurgica-magica ad un empirismo estremamente illuminato: notevoli sono la concezione biologica (concetto umorale sanguigno e concetto pneumatico), la conoscenza dei vari quadri sintomatologici e la farmacologia. Gli elementi che costituiscono la sapienza medico empirica vengono trattati solo in libri sacri accessibili unicamente agli iniziati. Nonostante quello che si potrebbe ipotizzare alla luce delle pratiche di imbalsamazione in cui gli egiziani erano maestri, l’anatomia non appare particolarmente progredita. Al contrario risultano molto precise le indicazioni relative alla terapia (nel solo papiro di Ebers sono menzionati 500 diversi medicamenti) ed alle sue varie forme di confezionamento e di somministrazione: polveri, tisane, decotti, macerazioni, pastiglie erano perfettamente conosciuti. Assai progredita era inoltre la chirurgia e la sutura delle ferite. Da notare infine la presenza di medici specialisti nelle malattie urinarie, nelle patologie delle orecchie, degli occhi e della pelle. La mesopotamica ( 3000 a.C. 2000 a.C) E’ un tipo di medicina magico-teurgica dotata di un certo grado di empirismo interpretato però sempre in senso mistico ed occulto. La malattia è sinonimo ed effetto di impurità per cui le cure consistono in lavacri e abluzioni, oltre che in sacrifici espiatori. Nonostante ciò vi sono accenni riguardo al medico che cura con le piante (Aura Mazda, la divinità del bene, ha creato almeno una pianta per guarire ogni malattia) e a quello che cura con il "ferro". La medicina indiana ( 2500 a.C. 1500 a.C.) Ancora oggi vi sono scuole che studiano l’antica medicina indiana nella sua forma originale, così come viene trattata negli antichi testi sacri (i Veda): la loro completezza ed organicità ha fatto sopravvivere questa concezione fino ai giorni nostri. Trattano molto accuratamente di grande e piccola chirurgia, della cura delle malattie del corpo, di demonologia (è presente una certa sfumatura di magia e religiosità), della cura delle malattie infantili, della tossicologia, della preparazione di elisir e di afrodisiaci. Notevoli la perfezione e la varietà dello strumentario chirurgico, le tecniche di medicazione, l’attenzione negli esami diagnostici e la particolare abilità negli interventi di litotomia e rinoplastica. La medicina cinese I testi più antichi risalgono al 3500 a.C. e, come nella medicina indiana, vengono ancora consultati e tenuti in considerazione. La malattia e la salute sono determinate dall’armonia o meno dei due principi fondamentali: lo Yang (il principio maschile) e lo Yin (quello femminile). I medici cinesi introdussero per primi la rilevazione del polso: ne conoscevano 200 tipi differenti tra cui 21 erano considerati indice di esito letale; la farmacologia è senza dubbio la più avanzata tra tutte le medicine antiche: comprende oltre 2000 farmaci e ne include molti ufficialmente usati nella moderna terapia occidentale (ferro contro l’anemia, l’oppio, il solfato di sodio come purgante ecc.). Da ricordare inoltre il primo tentativo di immunizzazione attiva contro il vaiolo insufflando polvere di croste disseccate nelle narici dei pazienti. Anche la chirurgia era praticata a un buon livello: caratteristici gli interventi di castrazione e quelli per limitare gli effetti della deformazione dei piedi. Non si può tralasciare infine un accenno riguardo l’agopuntura: è l’arte di penetrare con aghi di diversi materiali determinati canali che sono in contatto con gli organi interni al fine di ottenere particolari benefici. Essa fu introdotta nel 2700 a.C. ed è ancora in auge ai giorni nostri sostanzialmente immodificata. CAPITOLO DUE La medicina in Grecia Anche se la nascita del pensiero scientifico si può far risalire alla comparsa delle prime scuole mediche in Italia (Scuola di Crotone e Scuola di Sicilia), è in Grecia che avviene la completa e definitiva emancipazione del medico sul sacerdote con la costituzione del concetto di "clinica". Nell’antica Grecia la medicina veniva praticata nei ginnasi, nelle palestre e negli jatreia: il ginnasio era il luogo in cui i giovani venivano formati culturalmente e fisicamente, mentre nella palestra si allenavano gli atleti veri e propri. L’uno e l’altra consentirono un certo sviluppo della chirurgia in seguito alle non infrequenti lesioni in cui gli atleti incorrevano nell’esecuzione degli esercizi fisici. Tutti coloro che lavoravano in queste strutture avevano conoscenze abbastanza approfondite di traumatologia e massoterapia; i medici, che solitamente visitavano in strutture pubbliche o private (jatreia), venivano chiamati dal ginnasiarca solo nei casi più gravi Le scuole mediche Scuola di Cnido Particolare fu l’interesse di questa scuola per l’anatomia; il concetto di patologia appare invece piuttosto rudimentale in quanto ogni malattia era considerata un fenomeno completamente isolato e relativo al singolo organo che ne veniva colpito. Anche la terapia era poco sviluppata: si basava essenzialmente su latte, siero e succhi di alcune piante (euforbio, elleboro come cardiotonico e diuretico, scammonea e coloquintide come purganti drastici, oltre ai semi di dafne, detti anche granelli cnidici come revulsivo). Scuola di Coo C’è il passaggio all’osservazione diretta del malato eseguita con grande larghezza di vedute ed ottime intuizioni che distinguono indiscutibilmente questa scuola da tutte le altre: nasce qui il vero concetto di clinica e della conseguente diagnosi. Il medico è uomo, e la sua opera non ha sfumature soprannaturali, mistiche, astratte o filosofiche. La medicina deve essere una ricerca continua, serena e disinteressata alla quale bisogna dedicarsi solo per amore di essa e della natura umana. Fondatore della scuola di Coo e personaggio di maggior spicco fu Ippocrate (460 a.C.): egli apparteneva a una famiglia di medici che, secondo la tradizione, discendeva direttamente da Esculapio (una divinità minore che eccelleva nell’arte medica); dopo aver trascorso la giovinezza viaggiando allo scopo di approfondire le conoscenze e perfezionare la sua istruzione soprattutto in campo medico, tornò in patria per dedicarsi all’insegnamento e per mettere a frutto tutto ciò che aveva appreso. L’insieme dei libri che sono attribuiti ad Ippocrate va sotto il nome di Corpus Hippocraticum o Collectio Hippocratica: si tratta di 53 opere per un totale di 72 libri che furono raccolti dai bibliotecari alessandrini nel III sec. a. C.. Notevole senza dubbio lo stile molto incisivo e diretto, senza troppi fronzoli, divagazioni filosofiche o circonlocuzioni contorte, anche se talvolta l’eccessiva laconicità del pensiero può rendere difficile la giusta interpretazione. E’ proprio questo, comunque, che distingue le vere opere del caposcuola di Coo da quelle scritte probabilmente in seguito da qualche suo parente, allievo o successore. Da non dimenticare anche vari tentativi di falsificazione commerciale delle opere ippocratiche quando si sparse la voce che la Biblioteca di Alessandria stava inviando ricercatori e studiosi in tutto il mondo allora conosciuto al fine di raccogliere qualsiasi materiale scritto lasciato dal maestro di Coo. La questione sulla genuinità delle opere di Ippocrate appassionò da subito i critici e i cultori dell’antica medicina: Eroziano prima e Galeno in seguito compilarono un glossario delle voci ippocratiche che venne riesaminato poi in epoca umanistica e, a più riprese, anche da autori del nostro secolo. Le opere del Corpus possono essere divise a seconda del loro contenuto in diversi gruppi: o o o o o o libri libri libri libri libri libri a contenuto etico di clinica e patologia di chirurgia di ostetricia, ginecologia e pediatria di anatomia e fisiologia di terapeutica e dietetica. La figura del medico E’ l’unione del perfetto uomo con il perfetto studioso: calma nell’azione, serenità nel giudizio, moralità onestà amore per la propria arte e per il malato sono i cardini della personalità del medico così come era concepito da Ippocrate. Ogni interesse personale passa in secondo piano. Non è certo un essere superiore ed infallibile come i sacerdoti degli antichi templi, ma deve sopperire alla sua fallacità con il massimo dell’impegno e della diligenza in modo da commettere solo errori di lieve entità. Deve inoltre essere filosofo, ma non tanto da farsi distogliere dalla vera scienza che è quella che si appoggia su solide basi pratiche. Il suo abito, infine, deve essere decoroso ed il suo aspetto denotare salute. Con il passare dei secoli questa concezione rimase sostanzialmente immutata al punto che il Papa Clemente VII (Pontefice dal 1523 al 1534), in una sua bolla, stabilì che il laureato in medicina si impegnasse solennemente ad osservare il testo del giuramento ippocratico. L’anatomia. Non fu molto approfondita dalla scuola di Coo per due motivi principali: da una parte Ippocrate era più indirizzato verso il lato pratico della medicina, aveva cioè una maggiore propensione per la clinica; dall’altra la cultura greca aveva un rispetto assoluto per i corpi dei morti, quindi non c’era la possibilità di studiare l’anatomia esercitandosi direttamente sui cadaveri. Si avevano nozioni di osteologia, soprattutto riguardo la struttura delle ossa del capo, delle vertebre e delle costole; molto poco si sapeva di miologia, anche se si conoscevano i principali muscoli del dorso e degli arti; vene ed arterie venivano confuse, così come nervi e legamenti. Di cuore e cervello erano note le principali caratteristiche morfologiche ma non le reali funzioni. Gli organi di senso erano probabilmente oggetto degli studi più accurati, soprattutto per quanto riguarda la struttura dell’occhio. La patologia Alla base della medicina ippocratica stava l’integrazione tra una concezione pneumatica della vita ed una umorale, ma quest’ultima rivestiva senza dubbio un ruolo più importante. Gli umori erano quattro: sangue (caldo umido) che proveniva dal cuore, una sorta di muco detto flegma (freddo umido) dal cervello, bile gialla (caldo secco) dal fegato, bile nera (freddo secco) dalla milza. Lo stato di salute si aveva quando questi umori erano perfettamente bilanciati tra loro; se invece la crasi era alterata per l’eccesso, la corruzione o la putrefazione anche di un solo componente, allora insorgeva la malattia. Era la natura stessa con la sua capacità curativa ad intervenire nel tentativo di ristabilire l’equilibrio tramite l’espulsione degli umori in eccesso per mezzo di urina, sudore, pus, espettorato e diarrea. Se invece la malattia risultava più forte del processo autoriparativo dell’organismo il paziente moriva. Per poter essere eliminati gli umori, dovevano prima essere modificati con un processo che Ippocrate definiva di "cottura". Il periodo intercorrente tra questo processo e la guarigione prendeva il nome di "crisi". Il predominio di uno dei quattro umori conferiva anche particolari caratteristiche all’ndividuo (principio della costituzione e dei temperamenti): si avevano così i temperamenti sanguigno, biliare, flemmatico e atrabiliare. Motivi dell’alterazione degli umori potevano essere le intemperie, la dieta o, concezione nuova in assoluto, cause fisiche correlate all’ambiente di vita. Altra novità fondamentale introdotta dalla dottrina di Ippocrate fu il fatto di considerare le patologie come fenomeni generali per l’organismo e non relativi ad un singolo organo; quelle più conosciute dalla scuola di Coo furono: la polmonite, la pleurite, la tubercolosi (ma con un concetto ben differente da quello attuale), la rinite, la laringite, la diarrea, alcune malattie del sistema nervoso, l’epilessia, il tetano. La clinica L’epoca ippocratica segna la nascita della clinica intesa come studio dei segni e dei sintomi osservabili sul paziente. Vi sono 406 aforismi che racchiudono in frasi brevi e coincise tutte le osservazioni e le esperienze del maestro di Coo; la sua sapienza fu poi diffusa presso tutti i popoli allora più evoluti attraverso traduzioni in arabo, ebraico e latino. Da essi si evince che l’esame effettuato dal medico doveva essere il più approfondito possibile e comprendeva non solo l’ascoltazione, la palpazione e, forse, la percussione, ma anche qualsiasi piccolo indizio che avrebbe potuto essere utile per la diagnosi: diverse sfumatore di colore, variazioni di comportamento, insolite contrazioni muscolari, quantità e qualità di qualsiasi escrezione e secrezione ecc.. Da ricordare l’accuratezza con cui veniva esaminata l’urina, valutata come quantità, colore, sedimento e torbidità. Assai particolareggiata e minuziosa era inoltre l’anamnesi, pur essendo rivolta essenzialmente a conoscere solo la situazione presente del malato. La prognosi si basava sullo studio degli esiti delle varie patologie: essa era considerata infausta se si notavano fattori quali disturbi visivi, sudore freddo, anemizzazione delle mani, cianosi delle unghie e stato di agitazione, mentre il polso non veniva tenuto in nessuna considerazuione. La chirurgia La scuola di Ippocrate disponeva di uno strumentario abbastanza fornito comprendente coltelli e bisturi di varie forme e dimensioni. Gli interventi più frequentemente eseguiti erano la riduzione di lussazioni (con particolari macchine) e di fratture (con stecche e fasciature), la trapanazione del cranio in seguito a fratture delle ossa del capo e la cura dei piedi torti. Assai particolareggiata era inoltre la tecnica delle fasciature. Nella cura delle ferite era raccomandato il riposo e l’applicazione di calore senza ricorrere ad olii o balsami vari. Limitati erano invece gli interventi in ginecologia e ostetricia: tra questi è notevole il trattamento della deviazione del collo dell’utero con obliterazione e soppressione delle mestruazioni. Era vietata la pratica dell’interruzione volontaria della gravidanza. La terapia Varie erano le piante usate come farmaci; tra le più importanti ricordiamo: l’elleboro nero e la scilla (cardiotonici e diuretici), la coloquintide (purgante drastico), il veratro bianco (antireumatico, ipotensivo, contro le affezioni cutanee), l’issopo (espettorante), il giusquiamo (antidolorifico, sedativo), l’oppio, la mandragora e la belladonna (narcotici, analgesici locali), la ruta (abortivo), la menta (stomachico). Pur conoscendo i principali gruppi di medicamenti, la scuola di Ippocrate li usava con moderazione in quanto riponeva molta fiducia nelle capacità autocurative del corpo umano. Venivano inoltre praticati salassi, cure idroterapiche, inalazioni, irrigazioni e lavaggi vaginali. Notevole l’uso di ventose come antiflogistico: creando una depressione nella zona infiammata si provoca una vasocostrizione da suzione che riduce la quantità di essudato e trasudato. Interessante infine l’uso di vesciche introdotte nelle ferite toraciche allo scopo di tamponare la lesione e contenere l’emorragia. Il principio terapeutico seguito però varia: a prescindere dal fatto che è preferibile sconfiggere la malattia in modo indiretto invece che drasticamente e violentemente, si passa dal concetto del similia similibus (provocare fenomeni simili alla sintomatologia del paziente per guarirlo) a quello certamente più sensato del contraria contrariis (avvalersi di mezzi ritenuti contrari alla causa della patologia). La febbre è un ottimo mezzo per raggiungere la guarigione: il suo calore facilita infatti l’evacuazione degli umori in eccesso accelerandone la "cottura". La dietetica Ippocrate considerava la dieta come il complesso di regole e prescrizioni che il malato era tenuto a seguire non solo relativamente al suo regime alimentare che, comunque, era di fondamentale importanza. Lo scopo ultimo era il ripristino dell’equilibrio degli umori tramite la prescrizione di cibi che, a seconda dei casi, erano umidi, caldi, freddi, o asciutti. Il principio generale, come già accennato in precedenza, era quello di aiutare le difese naturali dell’organismo a liberarsi degli umori corrotti o in eccesso, per cui nella fase acuta della malattia erano maggiormente indicati cibi leggeri e bevande poco nutrienti al fine di non distrarre le forze dell’organismo dalla "cottura" degli umori verso quella degli alimenti. Assai famose erano la tisana, cioè un decotto di orzo macinato, e l’idromele, una bevanda data dalla fermentazione di acqua e miele. Il dogmatismo post-ippocratico Da una parte è il riconoscimento della validità delle teorie e del pensiero di Ippocrate, dall’altra è invece il ritorno a una concezione che sembrava ormai superata: c’è nuovamente una certa quale sacralità nel concetto di medicina, anche se l’elemento divino è sostituito da quello umano, cioè dalla dottrina del maestro di Coo. La scuola dogmatica, che vide come maggiori esponenti Diocle di Caristo (grande studioso di anatomia) e Prassagora di Coo (famoso per i suoi studi di semeiotica), ebbe tuttavia il merito di riconoscere il valore di un nuovo sintomo fino ad allora tenuto in scarsa considerazione: l’esame del polso. Tra i dogmatici va ricordato anche il filosofo Platone che in due delle sue opere (il "Timeo" e il "Simposio") traccia una visione d’insieme sul livello della medicina a quei tempi. La fine di questa scuola si può collocare intorno al 310 a.C., quando la filosofia stoica vi si infiltrò alterandone i principi e mutandone la fisionomia: la dialettica e la speculazione astratta sostituirono infatti l’osservazione dei reali fenomeni patologici. La scuola di Alessandria Dopo l’era della clinica rappresentata dalla scuola di Ippocrate, si apre quella caratterizzata dall’esperimento biologico: iniziano studi sistematici su sezioni anatomiche e comincia la pratica della vivisezione su animali. Prima della scuola di Alessandria fu però il filosofo Aristotele, definito da molti come il fondatore dell’anatomia comparata, ad intraprendere questo genere di studi fondendo scienza e filosofia in ragionamenti basati sui suoi famosi sillogismi: studiò a fondo l’anatomia con particolare attenzione per il sistema nervoso e per il cuore. Alessandria fu indubbiamente il più importante centro culturale del IV sec. a. C., e la medicina, come tutte le altre scienze e discipline, raggiunse un elevato grado di specializzazione grazie alla scuola che sorse appunto nella città fondata da Alessandro Magno. Partendo dalla dottrina di Ippocrate approfondà gli studi sull’anatomia e sulla fisiologia anche attraverso vivisezioni per conoscere meglio la struttura e la funzione degli organi dando così il primo impulso all’anatomia patologica. Nel periodo di massimo splendore riuscì ad integrare perfettamente la parte clinica e quella scientifica tentando di colmare le lacune che entrambe presentavano. Erasistrato fu uno dei più famosi esponenti di questa scuola: mise per primo in dubbio la teoria umorale e ipotizzò che la causa delle malattie fosse da ricercarsi in un’alterazione dei vasi o dei tessuti; dette particolare valore all’esame del polso e fu inoltre assai rinomato per l’accuratezza delle diagnosi; scoprì per primo i vasa vasorum, studiò le valvole atriali e vasali, la vena e l’arteria plomonare, il fegato (notò la correlazione esistente tra cirrosi epatica ed ascite). Altro caposcuola fu Erofilo, che si distinse per le precise descrizioni del cervello, dell’occhio e del nervo ottico. Fu inoltre famoso come ginecologo e ostetrico. La scuola empirica Si sviluppò tra il 270 e il 220 a. C. grazie all’iniziativa di Filino di Coo e Serapione di Alessandria all’interno della stessa scuola alessandrina. Sorse come risposta sia allo sterile dogmatismo in cui erano caduti molti dei successori di Erasistrato ed Erofilo, sia all’eccessivo indirizzo sperimentale che aveva fatto almeno in parte trascurare l’attuazione pratica della medicina: gli empirici ponevano infatti le cognizioni frutto della loro diretta esperienza in contrapposizione a quelle acquisite da altri. L’esperienza si basava essenzialmente su tre punti: l’autopsia (cioè la diretta osservazione), l’historicon (la storia delle osservazioni proprie e altrui), l’analogia (il confronto). Gli esponenti di questa scuola si distinsero nella chirurgia (soprattutto cura di lussazioni e fratture, cataratta e calcoli), nel trattamento delle ferite e nella tecnica delle fasciature, anche se tralasciarono completamente lo studio dell’anatomia e della fisiologia poichè le ritenevano di secondaria importanza rispetto al problema del malato. Persero quindi di vista il concetto di malattia come espressione di un generale malessere dell’organismo, considerando solo la particolarità e la localizzazione della singola patologia. Poi, anche per il fatto che la ricerca e lo studio delle leggi naturali sembravano giungere a conclusioni spesso troppo difficili da spiegare in confronto alle teorie mistiche ed occultistiche che da sempre avevano trovato terreno fertile in Egitto, tornò la tendenza a rivolgersi alla sfera soprannaturale e magica che si sarebbe manifestata in Occidente con il periodo alessandrino-romano. CAPITOLO TRE La medicina nell’antica Roma Lo sviluppo della medicina in Roma si può dividere in tre periodi: il primo è quello della medicina detta autoctona, di antica origine italica; il secondo è caratterizzato dalla coesistenza dell’elemento autoctono e di quello greco che andava infiltrando il mondo romano (fase di transizione) ed il terzo consiste nel definitivo trapianto della medicina greca nel mondo romano (periodo delle scuole). Medicina autoctona Comprende almeno i primi seicento anni di vita della città di Roma, in cui più che di medici veri e propri si può parlare di persone (curatores) in grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario in condizioni di straordinaria emergenza come ad esempio guerre o pestilenze. Due sono le espressioni della medicina in questa fase: quella empirica e quella sacerdotale. La prima si basa su nozioni desunte dall’esperienza (erbe medicamentose, infusi, decotti ecc.) unite a elementi di magia ed ha come massimo esponente Catone il censore (234 a.C.-149 a.C.) che, pur non essendo medico, era famoso per la conoscenza di parecchi medicinali e per la pratica con apparecchi per ridurre lussazioni e fratture. La seconda è testimoniata dalla presenza di una serie di divinità, ognuna delle quali proteggeva una parte del corpo o era preposta a singoli aspetti (patologici e non) della vita fisiologica. Da non dimenticare inoltre l’emanazione di leggi a sfondo igienicosanitario fin dai tempi dei sette re, e la figura del pater familias (rappresentante della medicina domestica) che era deputato alla tutela della salute di tutti i componenti del nucleo famigliare, dei dipendenti e del bestiame. Fase di transizione E’ caratterizzata dall’arrivo a Roma di parecchi medici greci, molti dei quali erano per la verità di scarsa abilità tecnica e di dubbia moralità: si occupavano infatti principalmente di esecuzione di aborti, della produzione e della vendita di filtri amorosi. Erano quasi tutti schiavi o liberti, per cui inizialmente non godevano di grande prestigio. Con Arcagato, arrivato dal Peloponneso intorno al 219 a.C., inizia invece la pubblica professione medica esercitata in luoghi a metà strada tra ambulatori, farmacie e scuole detti tabernae medicinae che ricordavano molto da vicino gli jatreia greci descritti da Ippocrate. Periodo delle scuole E’ il momento di maggiore splendore della medicina a Roma: non a caso coincide con l’età imperiale. Sotto l’influenza delle varie scuole che tuttavia degeneravano spesso in vere e proprie sette in aperta contraddizione tra loro, comincia a prendere forma un pensiero medico vero e proprio. Questo periodo abbraccia tre fasi ben distinte che hanno come punto di riferimento la figura di Galeno: la fase pre-galenica, quella galenica e quella post-galenica. Medicina pre-galenica Si estende quasi fino alla metà del II sec. d.C. (dall’arrivo a Roma di Asclepiade fino alla nascita di Galeno) ed ha come principale caratteristica la presenza di una moltitudine di scuole, dottrine e tendenze varie tra cui vanno ricordate la scuola metodica, quella pneumatica, quella eclettica e l’enciclopedismo. La scuola metodica prese questo nome perchè si proponeva di razionalizzare e semplificare la propria dottrina per renderla accessibile anche alle menti meno brillanti. L’effetto che ottenne fu invece quello di togliere scientificità alla medicina e di avvilirne il significato. Ebbe come ispiratore Asclepiade di Bitinia (50 a.C. circa) il cui pensiero si basava sul fatto che la materia fosse composta da atomi che unendosi lasciavano tra loro dei pori attraverso i quali si muovevano altri atomi. Lo stato di salute era dato dalla perfetta proporzione tra atomi e pori; la malattia era data invece dall’eccessiva larghezza o strettezza degli stessi (status laxus che provocava pallore, flaccidità e astenia e status strictus che era caratterizzato da rossori, calori e sete ardente). Negava inoltre il principio ippocrateo della natura guaritrice che non poteva in alcun modo restringere o allargare i pori causa di malattia. Abbandonando poi la teoria umorale ridusse anche l’uso dei medicinali incentrando il suo modello di terapia su massaggi, idroterapia, passeggiate e musica. A questa scuola non mancarono comunque validi esponenti come Sorano d’Efeso e Celio Aureliano: essi andarono oltre la concezione degli atomi e dei pori occupandosi di patologia, di clinica, di terapia e di igiene. La scuola pneumatica rappresentò una reazione a quella metodica e il ritorno ad alcuni principi cari ad Ippocrate. Deve il suo nome al fatto che individuava il pneuma, cioè il respiro, come la base dell’economia vitale dell’organismo anche se riteneva molto importante l’equilibrio degli umori sia per la costituzione fisica che per il temperamento. Fu fondata intorno al 50 d.C. da Ateneo di Attaleia, famoso per i suoi studi di semeiotica e sul polso, che considerava indice dello stato del pneuma nelle arterie. La scuola eclettica (dal 90 d.C.) tolse al sistema metodico la sua parte più ipotetica e assoluta mettendo invece in evidenza ciò che aveva di positivo e sperimentale, riprendendo inoltre la parte osservatrice di Ippocrate. Agatino da Sparta fu il suo fondatore; tra gli altri va citato Areteo di Cappadocia, famoso per l’accuratezza di alcune descrizioni anatomiche e di vari quadri patologici. L’enciclopedismo consisteva nella trattazione di argomenti o tematiche di qualsiasi genere. La medicina, essendo un settore ancora relativamente inesplorato, attirò molti tra i più famosi scrittori romani tra cui Cicerone, Vitruvio, Marco Terenzio Varrone, Lucrezio, Plinio il Vecchio, Gellio e Seneca che, pur non essendo medici, se ne occuparono comunque in maniera abbastanza approfondita. Un discorso a parte merita per la portata dei suoi studi e della sua opera Celso, uno tra i pochi medici originari di Roma; egli fu fondamentalmente ippocratico anche se non disdegnò altre dottrine quando spiegavano in modo sensato i fenomeni da lui presi in esame. Nelle sue opere trattò approfonditamente di patologia, di clinica, di igiene, ma soprattutto di chirurgia: da ricordare, tra tutte le altre cose, la legatura dei vasi nelle emorragie più imponenti, la sutura delle ferite profonde, la toracotomia, le ernie inguinali, ombelicali e scrotali, l’intervento per l’eliminazione dei calcoli vescicali, la tecnica delle operazioni di emorroidi e varici, la chirurgia plastica e ben 24 tipi procedure chirurgiche in oculistica. Galeno ( 138/201 ) Si battè con decisione contro l’imperversare delle scuole che, in ultima analisi, stavano portando la medicina verso un periodo di decadenza ergendosi ad arbitro di tutto lo scibile medico: tentò di separare il vero dal falso, indipendentemente dalla fonte di provenienza, riunificando i vari sistemi di studio con la raccolta di tutto il materiale a sua disposizione, esaminandolo e vagliandolo a fondo e cercando di perfezionare il metodo sperimentale che stava alla base del suo pensiero. Dal momento che dette anche particolare valore alla clinica ed alla patologia, si può certamente dire che fu l’artefice della più completa forma di medicina mai concepita fino a quel momento. In anatomia non si limitò a sterili descrizioni morfologiche: cercò di capire la funzione e la finalità di ogni singolo parte dell’organismo, anche se sezionò più che altro corpi di animali (principalmente maiali, cani e scimmie). La parti più minuziosamente trattate sono l’osteologia e la neurologia. In fisiologia quasi ogni studio fu suffragato dalla parte sperimentale: scoprì la differenza tra nervi motori e sensitivi, distinse le lesioni degli emisferi cerebrali da quelle del cervelletto, valutò la funzione escretrice dei reni, la circolazione fetale e si occupò particolarmente degli organi di senso. Si soffermò inoltre a lungo sulla funzione circolatoria che, nonostante grossolani errori, avrebbe formato un caposaldo della fisiologia medioevale fino al rinascimento; i suoi punti fermi erano i seguenti: il fegato è il centro del sangue venoso e il cuore di quello arterioso; il cuore destro e quello sinistro comunicano tra loro; il sangue si esaurisce negli organi; le vene polmonari portano sangue sporco ai polmoni e lo riportano purificato al cuore. In patologia non raggiunse invece livelli di eccellenza in parte per la costante preoccupazione di voler classificare ogni malattia, in parte per una venetura di filosofismo che emergeva nei casi in cui non riusciva a risalire alle reali cause del male. Partendo da due teorie abbastanza semplici, e cioè da quella dell’alterazione dei pori che si trovano tra gli atomi e da quella umorale, inserì nella sua dottrina una gran quantità di termini astrusi, suddivisioni spesso artificiose, cause e concause, portando talvolta la formulazione della diagnosi in un campo puramente astratto tramite sillogismi aristotelici senza dar luogo all’esame diretto del malato. In clinica fu invece assai minuzioso: grazie alla diretta osservazione del malato, alla profonda conoscenza dell’anatomia ed all’esperienza accumulata durante i suoi studi di fisiologia era in grado di spiegare fatti e fenomeni che sfuggivano ai medici della sua epoca. Degna di essere ricordata è la diagnosi differenziale tra emottisi, ematemesi e sputo sanguigno da epistassi; descrisse inoltre vari tipi di febbre, i sintomi dell’infiammazione e sottolineò l’importanza dell’esame delle urine e della valutazione del polso di cui distinse non meno di 40 varietà. Galeno fu poi il primo vero esperto di medicina legale: si occupò di morti vere ed apparenti, iniziò la pratica della docimasia idrostatica polmonare per constatare, in caso di sospetto infanticidio, se il feto avesse o no respirato, e delle simulazioni delle malattie. In terapia partì dal concetto ippocratico della forza medicatrice della natura basandosi sulla regola del contraria contrariis. Ogni medicamento doveva poi essere di provata efficacia e prescritto per una ragione plausibile; conosceva quasi 500 sostanze semplici di origine vegetale e una vasta gamma di origine animale e minerale. Tra quelli composti i più famosi erano la picra (purgante amaro a base di aloe) e la hjera (purgante sacro a base di coloquintide). Frequente era anche il ricorso al salasso. Medica post-galenica Generalmente con la morte di Galeno si rappresenta la chiusura del periodo aureo della medicina romana, anche se per almeno altri tre secoli la scienza medica sarebbe stata ancora sulla cresta dell’onda. Dopo Galeno, ad ogni modo, si sviluppò una sorta di dogmatismo e uno sterile canonismo portato avanti da figure a volte degne di nota che tuttavia non aggiunsero nulla di nuovo a quanto già era noto. Oltretutto iniziò la tendenza allo sconfinamento del conoscibile nel campo dell’inconoscibile, caratteristica peculiare della medicina nel medioevo. Da ricordare Leonida di Alessandria (studiò la filaria e fu esperto negli interventi su ernia e gozzo), il famoso chirurgo Filagrio e suo fratello Poseidonio (si occupò delle malattie del cervello descrivendo molto accuratamente i deliri acuti, gli stati comatosi, quelli catalettici, l’epilessia e la rabbia). Condizioni igenico-sanitarie nell’antica Roma Una delle caratteristiche più peculiari della psicologia romana fu senza dubbio la preoccupazione per le norme igieniche allo scopo di formare buoni soldati e proteggere la salute di tutti i cittadini: fin dai tempi della repubblica iniziò la costruzione di acquedotti, bagni e piscine, si presero provvedimenti atti a risanare luoghi malsani, si fecero studi per scegliere oculatamente i luoghi dove costruire insediamenti urbani, vennero emanate vere e proprie ingiunzioni legali al fine di moderare l’alimentazione e di evitare malattie. Celso, ad esempio, si dilunga parecchio su questo argomento nelle sue opere evidenziando particolarmente l’importanza della dieta, della moderazione nei rapporti sessuali, della necessità di scegliere un clima conveniente e di dedicarsi all’esercizio fisico ed ai bagni. Tra gli aspetti di maggior rilievo trattati dall’igiene romana vanno ricordati l’igiene dell’acqua, quella mortuaria, quella alimentare e l’esercizio fisico. L’acqua: Fu probabilmente l’argomento principale in tutti i suoi aspetti: sia come elemento di insalubrità (nei luoghi paludosi), sia come bisogno primario di ogni agglomerato urbano, sia come elemento di pulizia e di ritempramento delle forze fisiche, sia come sussidio terapeutico. Già gli Etruschi iniziarono il risanamento di alcune zone malariche attraverso canali di drenaggio che favorivano lo scolo delle acque stagnanti, e cunicoli muniti di lastre di piombo bucherellate per filtrare e depurare l’acqua. I Romani proseguirono queste opere di bonifica iniziando con la costruzione della Cloaca Massima all’epoca di Tarquinio Prisco e con la canalizzazione delle acque urbane reflue nel Tevere. La sorveglianza dello smaltimento delle acque di rifiuto e delle rive del fiume era ritenuta di fondamentale importanza ed era pertanto affidata a particolari autorità civili: in un primo momento se ne occupavano Edili e Censori, poi fu invece creato un vero e proprio apparato burocratico al cui vertice stava il Comes Cloacarum da cui dipendevano i Consulares Aquarum che arrivarono anche al numero di 700. Altra figura di primo piano era il Curator Aquarium, responsabile della sorveglianza degli acquedotti deteriorati e di quei tratti di terreno nei quali scorrevano le condutture sotterranee; egli vigilava per impedire che si costruissero case, che si piantassero alberi o che si accumulassero immondizie nelle loro immediate vicinanze. Fu Anco Marzio a portare per la prima volta l’acqua verso Roma attraverso un sistema di incanalamento, ma il primo vero e proprio acquedotto (che misurava 11 miglia romane) fu costruito dal censore Appio Claudio nel 312 a.C.. Con il passare degli anni nella sola città di Roma si arrivò al numero di 14 acquedotti per un totale di 600 Km con una portata di ben 1,5 milioni di metri cubi giornalieri, e tantissimi altri ne furono costruiti in tutte le città più importanti dell’impero (Nimes, Tarragona, Segovia, Parigi, Cartagine...). Come accennato in precedenza gli acqedotti erano in parte sotterranei e in parte scorrevano sopra strutture composte da arcate. Nel primo caso, ad intervalli regolari, vi erano aperture dette putei che servivano per la ventilazione e lo spurgo del canale. Il condotto che portava l’acqua era detto specus ed era dotato di un rivestimento impermeabile. In tratti nei quali l’acqua non era limpida venivano costruite infine alcune vasche dette piscinae limariae allo scopo di far sedimentare il fango. Altro segno tangibile della cultura romana e della sua attenzione all’igiene pubblica sono le terme, costruzioni di cui l’Urbe fu ricchissima, tanto che nell’epoca di maggior splendore se ne contavano circa 800 nella sola area della città. Anche se in seguito sarebbero state probabilmente una tra le cause della decadenza della civiltà romana a causa dell’uso smodato che si finì per farne, il principio che le aveva ispirate era senza dubbio positivo. I romani erano soliti bagnarsi nel Tevere già fin dai primi tempi dopo la fondazione della città; poi cominciarono ad essere costruite piscine artificiali, pubbliche e private . I lavaggi quotidiani si limitavano alle braccia e alle gambe, mentre ogni nove giorni veniva lavato tutto il corpo. Vitruvio codificò il sistema architettonico delle terme romane: a prescindere dal fatto che l'orientazione della struttura doveva essere tale da poter ricevere il sole in certe ore piuttosto che in altre e che si doveva tenere nella giusta considerazione anche l'esposizione ai venti, i tre elementi essenziali erano le vasche di acqua tiepida, calda e fredda, ovvero il tepidarium, il calidarium e il frigidarium, mentre quelli accessori il laconicum (la sauna) e gli apodicteria (gli spogliatoi). Poi, a seconda della maggiore o minore lussuosità, si potevano aggiungere anche altri ambienti totalmente estranei al concetto igienico come ad esempio la biblioteca, lo stadio o la palestra. Le donne potevano accedere alle terme di mattina, gli uomini invece da mezzogiorno fino a dopo il tramonto; gli ammalati potevano entrare anche prima dell'orario di apertura. Solitamente il trattamento iniziava con esercizi fisici, bagni di sole e massaggi; poi si passava nella vasca calda, in quella tiepida, e per ultimo in quella fredda. Infine la seduta alle terme prevedeva un ulteriore massaggio, la unzione con balsami ed oli profumati. Numeroso era il personale che lavorava alle terme: a parte il conductor (appaltatore) e il balneator (amministratore), vi erano parecchi schiavi addetti a vari servizi come l' arcarius (guardarobiere), il capsarius (cassiere), l'unctor (untore), il tractator (massaggiatore), l'alipiles (depilatore). L’esercizio fisico Uno dei caposaldi fondamentali nell'organizzazione sanitaria di Roma fu l'educazione fisica che veniva impartita nei ginnasi e nelle palestre al fine di irrobustire la gioventù e dare alla patria cittadini sani e soldati forti. Da ricordare la Iuventus, un'associazione a carattere ginnico premilitare a cui potevano iscriversi i giovani dai 6 ai 18 anni di età. Nei ginnasi il sistarca si occupava di dirigere gli esercizi coadiuvato dal gymnasta il quale non era un vero e proprio medico, ma doveva avere anche nozioni di traumatologia ed ortopedia. L’igene mortuaria Molte erano le leggi riguardo le sepolture e i funerali, ma probabilmente vanno intese più in senso rituale che igienico. Inizialmente i cadaveri venivano bruciati e le ceneri raccolte in urne che venivano depositate in ampie tombe comuni, mentre con l'avvento del cristianesimo iniziò l'uso di seppellire i morti: sia la cremazione che la sepoltura dovevano essere effettuate fuori dalla città per impedire il diffondersi di esalazioni provenienti dai corpi; l'inumazione si eseguiva chiudendo la salma in una bara di marmo o di metallo. Gli schiavi, i poveri e gli avanzi del circo venivano invece gettati in sorta di fosse comuni a cielo aperto nei pressi del colle Esquilino (i puticoli) e spesso diventavano cibi per corvi e cani randagi, almeno finchè Mecenate non decise di bonificare tutta quella zona. L’igiene alimentare Esistevano leggi per la morigeratezza dei banchetti che stabilivano persino la quantità dei cibi da usarsi a seconda delle persone presenti; era punita inoltre l'ubriachezza, ma solo quella delle donne. Abbastanza attenta era la vigilanza sui generi alimentari: gli Edili erano responsabili del controllo sulla qualità dei prodotti in vendita all'interno dei mercati ed avevano anche la facoltà di elevare contravvenzioni. Particolare cura era riservata la sorveglianza sul grano e sulle carni. Altre norme igieniche Apposite leggi regolavano il servizio di nettezza urbana e altre disposizioni riguardavano la manutenzione delle strade, dei luoghi dove sorgevano le terme, delle fognature e delle latrine: ad esempio vi erano disposizioni ben precise sugli appalti per lo svuotamento dei pozzi neri e non era consentita la circolazione all'interno della città durante il giorno ai carri che trasportavano i materiali di rifiuto. Da ricordare la legge contro il celibato (sia per scopi demografici che per motivi igienici) e quella sulla prostituzione: le "case chiuse" potevano essere aperte fuori città e solo di sera; inoltre le meretrici dovevano essere iscritte in un apposito registro controllato dagli edili. L'epidemiologia. Il concetto di epidemiologia non si discostò molto da quello che già esisteva in epoca greca: si pensava cioè alla costituzione epidemica dell'atmosfera causata dagli eccessi di calore, umidità, secchezza e freddo; si sospettava poi che una qualche sostanza velenosa non bene identificata (ma che si pensava provenire dalla putrefazione dei cadaveri insepolti) potesse penetrare nell'organismo principalmente attraverso le vie respiratorie. Non mancavano però interpretazioni assolutamente fantastiche: le pestilenze potevano avere origine tellurica (il veleno esalava dalla terra dopo i terremoti), religiosa e astrologica. Contro di esse si accendevano grandi fuochi in cui venivano bruciati fiori profumati ed unguenti aromatici in modo tale da rinnovare e purificare l'aria. L’ospedalità a Roma Non si può certo parlare di vere e proprie cliniche o strutture di stampo ospedaliero nell'antica Roma, tuttavia bisogna ricordare la presenza dei valetudinaria, cioè infermerie private dove i patrizi erano soliti curare i propri famigliari e gli schiavi. Qui trovavano impiego sia medici che infermieri (servi a valetudinario). Inoltre erano famose le medicatrinae adiacenti al tempio di Esculapio, sull'isola Tiberina, dove gli ammalati erano tenuti sotto la diretta osservazione di medici e dei loro discepoli. L’isegnamento della medicina Ai tempi della medicina autoctona l'istruzione in questo ambito era affidata al pater familias; nel periodo di transizione si apprendeva l'arte medica, principalmente per imitazione, nelle tabernae; nel periodo imperiale sorsero infine varie scuole private. Naturalmente non era previsto nessun esame di idoneità alla professione: l'abilitazione veniva attestata dal giudizio insindacabile del maestro. Solo in seguito lo stato iniziò ad occuparsi dell'ordinamento degli studi stabilendo una parte di insegnamento teorica ed una pratica. La teoria era trattata nelle biblioteche e nelle scholae medicorum, mentre le lezioni pratiche in cui si apprendevano i rudimenti della semeiotica, della clinica e della chirurgia venivano impartite nei valetudinari e durante le visite private che il maestro faceva nelle case dei suoi clienti. L'imperatore Vespasiano istituì uno stipendio per coloro che si dedicavano all'insegnamento, Adriano in seguito decise che spettava loro anche una sorta di liquidazione una volta cessata l'attività didattica. Quest'ultimo fece inoltre costruire un grande edificio scolastico ( atheneum) dove si tenevano pubbliche lezioni, probabilmente anche di medicina. In realtà la prima testimonianza di una cattedra statale di medicina si ebbe sotto l'impero di Alessandro Severo nel III sec. d.C., e in seguito Giuliano l'apostata decretò nel IV sec. d.C. la legge sull'idoneità dei medici stabilendo un programma di studi comprensivo di frequenze obbligatorie. La medicina militare Nell'esercito romano c'era un medico per ogni coorte e due per quella in prima linea. Dipendevano dal praefectus castrensis e da un medico capo che spesso era anche il medico personale dell'imperatore, ma non potevano passare al rango di ufficiali in quanto non partecipavano direttamente alle battaglie. L'assistenza ai feriti veniva prestata direttamente sul campo, all'aperto; per i casi più gravi c'era il valetudinarium in castris, una sorta di ospedale da campo che poteva contenere fino a 200 pazienti e in cui trovavano impiego anche infermieri, massaggiatori ed inservienti. CAPITOLO QUATTRO Il Medioevo La scuola Salernitana E' considerata la più antica ed illustre istituzione medievale medica del mondo occidentale; in essa confluirono tutte le grandi correnti del pensiero medico fino ad allora conosciuto: la leggenda narra infatti che nacque dall'incontro di un medico romano, uno greco, uno ebreo ed uno arabo. Le prime testimonianze storiche certe risalgono all'inizio del IX sec.: in quel tempo lo studio della medicina a Salerno era principalmente pratico e, anche se la tendenza di questa scuola è spiccatamente laica, erano i monaci che tramandavano oralmente gli insegnamenti. Una delle novità più importanti di questa scuola sta nel fatto di non accettare passivamente la malattia: non solo non si arrende di fronte ad essa, la combatte e la cura, ma soprattutto cerca di prevenirla con ben precisi strumenti medici; si oppone inoltre alla teoria secondo la quale è inutile curare il corpo in quanto la vera salvezza non appartiene al mondo terrestre. Alla base del concetto di medicina della scuola di Salerno stanno approfonditi studi anatomici sul corpo umano, l'importanza dell'armonia psico-fisica e il valore di una dieta corretta ed equilibrata, principi che ancora oggi sono ripresi e riaffermati dalla medicina psicosomatica e dalla scienza dell'alimentazione. Altro grande progresso è il fatto che i maestri salernitani sono disposti a scendere dalla cattedra per avvicinarsi al letto del paziente e discutere con gli allievi degli aspetti clinici delle malattie. Non era comunque facile diventare medico a Salerno: prima bisognava studiare la logica per tre anni, poi altri cinque erano di scuola medica (non solo la teoria sui classici greci, ma anche la pratica con autopsie per poter riconoscere i vari organi e capirnela funzione) ed infine si sosteneva un esame sia con il maestro del corso, sia alla presenza di un collegio composto da altri medici. Se l'esame veniva superato il giovane medico riceveva un attestato davanti al quale il re rilasciava la licenza per esercitare la professione non prima però di avere trascorso un anno come tirocinante presso un medico anziano. Da notare infine che la scuola era aperta indistintamente a uomini e donne che tuttavia esercitavano soprattutto la ginecologia. I precetti fondamentali della scuola salernitana sono raccolti nel Flos Medicinae Salerni (detto anche Regimen sanitatis salernitanum o Lilium medicinae): è un trattato igienico-profilattico a carattere divulgativo che espone una serie di norme scritte in versi che individuava una serie di elementi esterni all'organismo (alimentazione, luoghi, fattori climatici, attività fisica...) che andavano controllati e regolati al fine di conservare e migliorare la salute dell'individuo. Veramente notevole era la conoscenza delle erbe medicinali; tra gli innumerevoli esempi può essere ricordato l'issopo contro le bronchiti e le affezioni respiratorie, la ruta per la vista (favorisce la microcircolazione oculare), il colchico come antireumatico. Non si può poi dimenticare l'importanza che ebbe la chirurgia: nella Practica chirurgiae di Ruggero Frugardi (il primo chirurgo salernitano) sono menzionate tecniche come la sutura dei vasi sanguigni usando fili di seta, le metodiche per la trapanazione del cranio, una sorta di rudimentale anestesia effettuata con sostanze estratte dalla Spongia somnifera e il consiglio di adoperare nella terapia medica del gozzo spugne ed alghe contenenti iodio. Le università Le prime università sorsero a partire dal XIII sec. dove già esistevano centri di studio sia laici, sia di ispirazione religiosa, famosi per l'abilità o per il valore didattico di determinati insegnanti. Queste istituzioni erano molto ben viste dai comuni e dai loro regnanti perchè contribuivano alla loro fama: c'erano vere e proprie gare per avere i migliori insegnanti e il maggior numero di studenti. Ai primi erano riservati lauti compensi, onori, privilegi ed esenzioni; i secondi erano attirati non solo dall'amore per la conoscenza, ma anche dalla possibilità di godere delle occasioni di bella vita e di piacere offerti dall'ambiente goliardico. La prima università in Italia fu quella di Bologna (1088) e i primi corsi di medicina partirono nel XII sec. dando a chi li frequentava le qualifiche prima di Magistri, poi di Medici fisici, quindi di Professori ed infine di Dottori. L'ufficialità alla facoltà di medicina (all’interno di quella degli artisti) fu concessa dal papa Onorio III nel 1219 provocando non poche proteste da parte degli universiatari giuristi che fecero forti pressioni per impedire il riconoscimento di uguali diritti ai nuovi arrivati, cercando di allontanarli il più possibile verso altre città. Fu così che all’università di Bologna fecero ben presto seguito quelle altrettanto famose di Padova (1222) nata da un gruppo di insegnanti e studenti provenienti da Bologna, e di Napoli (1224). Da ricordare all’estero l’università di Montpellier, che risentì molto sia dell’influenza ebraica, sia di quella della scuola salernitana e l’università di Parigi, riconosciuta ufficialmente nel 1200, entrambe sotto la diretta dipendenza dell’autorità ecclesiastica; dall’esperienza di quest’ultima nacquero poi le università di Oxford e Cambridge. Le pestilenze Con la parola pestilenza si indicava qualsiasi genere di malattia epidemica rapidamente diffusibile anche per cause diverse dal contagio vero e proprio (intossicazioni, carenze alimentari...). Per spiegare queste morie l’epidemiologia medioevale ricorse ad interpretazioni naturali e soprannaturali: l’opinone più diffusa era la presenza nell’aria di vapori nocivi contenenti un veleno pestilenziale; un’altra ipotesi era quella di giganteschi incendi scoppiati in oriente che producevano fumi velenosi, oppure il morbo poteva provenire anche dalle viscere della terra o dal cielo a causa di maligne congiunzioni astrali. Ci fu poi anche chi pensava all’avvelenamento dei pozzi da parte di ebrei o di lebbrosi, scatenando così vere e proprie persecuzioni soprattutto in Francia, credenza che rimase radicata nella storia dando luogo alle dicerie sugli �untori� in epidemie posteriori. A partire dal XII sec. si può fare in Europa un conto approssimativo di una pestilenza più o meno grave in media ogni 10-15 anni. Senza contare la lebbra, una delle malattie più conosciute fin dall’antichità e di cui si parlava già nella Bibbia, le patologie che più frequentemente causavano queste morie erano: la malaria, il fuoco di S. Antonio, il vaiolo, il tifo, lo scorbuto e soprattutto la peste bubbonica. Quest’ultima raggiunse il massimo della mortalità nel 1348 manifestandosi nella forma polmonare che dava esito letale già nel terzo o quarto giorno di malattia: il contagio cominciò nel 1333 in Asia, si diffuse verso l’India ma colpì anche la Crimea e le altre zone intorno al Mar Nero da una parte e la Mesopotamia, l’Arabia e l’Egitto dall’altra; nel 1347 arrivò in Italia penetrando attraverso la Sicilia e le repubbliche marinare; si diffuse poi in Olanda, in Inghilterra, in Germania, in Polonia ed in Russia per estinguersi nel 1353 sulle rive del Mar Nero, suo punto d’origine, probabilmente perchè lì trovò i superstiti dell’episodio di 20 anni prima ormai immunizzati. Solo in Italia morirono 60000 persone a Napoli, 40000 a Genova, 100000 a Venezia, 96000 a Firenze e 70000 a Siena: tenuto conto di queste cifre e dei decessi in tutte le altre città, complessivamente la nostra penisola perse la metà della sua popolazione totale. Nel resto dell’Europa, in soli tre anni (dal 1347 al 1350) si ebbero ben 43 milioni di vittime a causa dell’epidemia. Le difese adottate dai vari comuni contro le pestilenze furono inizialmente dettate dal bisogno immediato, poi vennero codificate in leggi da applicarsi nei casi di necessitò: fin dall’inizio i malati di peste venivano espulsi dalle città; venne impedita l’usanza di accompagnare i funerali e tutto ciò che comportava un eccessivo agglomerato di gente; venne fatto obbligo di seppellire i cadaveri fuori dalla città anzichè nelle chiese come era consuetudine; vennero stabiliti cordoni sanitari tra le città colpite dalla pestilenza e quelle limitrofe che ancora ne erano immuni; le persone che avevano assistito i malati dovevano stare lontano dalla città per almeno dieci giorni senza avere rapporti con nessuno; le case e le suppellettili degli appestati dovevano essere distrutte; i sacerdoti avevano l’obbligo di denunciare tutti i malati di cui avevano conoscenza; si obbligarono le navi che provenivano da regioni sospette a trascorrere un periodo di 40 giorni fuori dai porti prima di permettere loro l’attracco (da questa pratica nacque il termine di quarantena). Si dovette però aspettare fino al 1403 per l’istituzione di particolari luoghi di ricovero, costruiti a spese dello stato e grazie a donazioni private, dove si potevano isolare i malati di peste (lazzaretti): la prima città a dotarsi di tali strutture fu Venezia, in particolare sull’isola di S. Maria di Nazareth dove i frati dell’ordine di S. Agostino avevano edificato un monastero. Il termine di lazzaretto deriva infatti in parte dall’errata pronuncia di Nazarethum, con cui si identificava il suddetto monastero ed in parte dal fatto che su un’isola poco distante (S. Lazzaro degli Armeni) già esisteva una sorta di ospedale per i pellegrini. Rapidamente tutte le altre città seguirono l’esempio di Venezia seguendo particolari norme: anzitutto un’adeguata distanza dal centro abitato per impedire il contagio, ma non eccessiva lontananza perché non fosse troppo disagevole il trasporto degli ammalati; poi una cura particolare era riservata all’orientamento al fine di evitare l’esposizione ai venti occidentali ritenuti nocivi (erano detti anche �putridi�); era infine consigliata la separazione dei lazzaretti dai centri abitati tramite acqua di mare dove possibile, di fiume (come a Roma per quello istituito sull’isola Tiberina) o di fossato (come a Milano). Senza dubbio i lazzaretti più funzionali erano quelli per la quarantena portuale che consistevano di quattro edifici isolati tra loro: uno serviva per il personale superiore (ispettori, commissari, medici, speziali, sacerdoti ed ufficiali), uno per il deposito di merci non sospette, per i malati comuni e per gli infermieri, un terzo per i malati sospetti e per la merce proveniente da luoghi infetti, l’ultimo, che era costruito ben più lontano dagli altri tre, per coloro che venivano colpiti manifestamente dalla malattia in questione. Accanto ai mezzi sopra enunciati che potrebbero essere definiti di profilassi, va ricordato l’unico metodo utilizzato per tentare di debellare i morbi che causavano le varie pestilenze e cioè l’accensione di grandi fuochi. In essi venivano gettati unguenti, resine ed erbe aromatiche per depurare l’aria dai miasmi che si riteneva diffondessero il male in quanto si contrapponevano al tanfo proveniente dai corpi abbandonati in putrefazione. Tra le sostanze più usate vanno menzionate la resina di pino bruciata su legno di larice, lo zolfo, l’aceto ed anche materiali maleodoranti che comunque erano in grado di coprire il fetore dei miasmi come ad esempio lo sterco di bovini, corna e peli di svariati animali. Fu poi introdotto l’uso di tenere alle narici sostanze odorose per purificare l’aria direttamente inspirata: si trattava di spugne imbevute di aceto in cui erano stati tenuti in infusione chiodi di garofano, cannella ed altre spezie. Molti furono gli autori che in questo periodo si dedicarono alla stesura di opere che dettavano regole e norme per preservarsi dalle varie pestilenze, in particolare dalla peste; tra essi va ricordato Dionisio Colle che enumerò e descrisse nella sua opera molti dei sintomi ai quali andavano incontro gli appestati, consigliando parecchi farmaci tra cui i suffumigi di pino e larice. L’ospedalità medievale Già poco tempo dopo la nascita della religione cristiana iniziò la pratica dell’assistenza caritativa agli ammalati e ai poveri in appositi ospizi e ricoveri: si chiamavano xenodochia quelli riservati agli stranieri, ptochia quelli per i poveri, gerontocomi erano dette le strutture per gli anziani, brefitrofi erano i luoghi dove si curavano i bambini e orfanotrofi quelli destinati a chi aveva perso i genitori. Sorsero praticamente allo stesso tempo delle associazioni dette ordini ospedalieri; essi avevano in realtà una triplice natura, e cioè erano ospedalieri, militari e religiosi, visto che spesso svolgevano la loro attività in terre straniere, tra gli infedeli e i nemici del cristianesimo. La situazione di questo genere di strutture non era certamente rosea sotto il profilo del rispetto delle norme igieniche o della qualità dell’assistenza prestata: soprattutto il personale stipendiato lasciava piuttosto a desiderare per comprensione e carità. Anche il tipo di costruzione, sebbene impreziosito da sculture, pitture ed opere d�arte, non appariva certo funzionale alle reali esigenze. Il primo ospedale sorto in Italia fu quello di S. Spirito in Sassia, fatto costruire dal papa Innocenzo III nel 1201 a Roma. A questo seguirono poi gli ospedali di Pistoia (1271), quello di Firenze (1288) e poi via via tutti gli altri nelle maggiori città della penisola. CAPITOLO CINQUE Il rinascimento scientifico (sec. XVII). In questo periodo iniziarono ad essere gettate le fondamenta di un nuovo tipo di scienza che fosse libera dal retaggio del medioevalismo galenico e diretta alla formulazione di leggi e principi generali attraverso l’esperimento, più che all’osservazione scolastica dei fenomeni. Sarebbe veramente troppo lungo ricordare anche solo le principali scoperte di questa epoca, ma, per far capire lo spirito che la animava, è sufficiente menzionare gli studi con cui Galileo Galilei, tra lo scandalo generale, contestò la teoria del geocentrismo, la determinazione della legge di gravitazione universale da parte di Isacco Newton, le prime leggi sulla pressione atmosferica stabilite da Pascal e la dimostrazione da parte di Keplero che le orbite dei pianeti sono regolate da leggi matematiche. Tutto questo fermento era inoltre supportato dal punto di vista filosofico dalle teorie razionalistiche di Cartesio, Francesco Bacone, Tommaso Campanella e Giordano Bruno: mettendo il ragionamento al di sopra della pura sensazione, essi contribuirono ad aprire la strada al metodo sperimentale. Nonostante tutto non si registrarono inizialmente grandi scoperte né in patologia, né in terapia, anche perché era difficile mettere ordine nel calderone delle innumerevoli dottrine mediche e scuole di pensiero: troppo lontane erano le posizioni dei seguaci della teoria umorale, di chi si affidava alle capacità autoguaritrici dell’organismo umano, degli interventisti, di chi propendeva per farmaci di origine animale o vegetale. Un tentativo di applicare il principio sperimentale anche alla medicina fu quello della sua interpretazione iatromeccanica e iatrochimica: entrambe tentavano di applicare ai processi fisiologici leggi e regole proprie dei corpi inorganici. La prima cercava la spiegazione di tutti i fenomeni biologici in regole di meccanica e di matematica, formule e calcoli numerici. Da ricordare la figura di Santorio Santorio (1561-1636) che condusse approfonditi studi sul metabolismo: grazie a una bilancia di straordinarie dimensioni (era in grado di sorreggere una stanza con tanto di letto e scrivania) calcolava la variazione del peso del corpo dovuta non solo alle normali attività di vita, ma anche alla perdita dei materiali eliminati attraverso cute e polmoni. Introdusse anche l’uso di strumenti che aiutassero il medico nella formulazione della diagnosi quali il pulsimetro (o pulsilogio) che misurava il ritmo e la frequenza del polso, ed il termometro ad aria. La seconda interpretava la malattia come un’alterazione chimica, uno squilibrio tra acidi e basi, sconfinando talvolta nel campo dell’alchimia. Francesco de la Boe (1614-1672), meglio conosciuto come Sylvius, ne fu il fondatore. Egli vedeva nella fermentazione la chiave di volta di tutti i processi fisiologici. Tra i personaggi di spicco di questa scuola va inoltre ricordato Giovanni Battista Van Helmont che teorizzò la presenza di tre tipi di entità nel corpo umano: gli archei, ovvero i principi spirituali che danno la vita ai vari organi; il gas, termine coniato dallo stesso scienziato belga, che rappresentava la materia aeriforme derivante dai processi fermentativi che si svolgono nell’organismo; il blas, cioè il movimento che accompagna ogni trasformazione di energia. La malattia era causata dal cattivo funzionamento degli archei e si manifestava con anomale fermentazioni. Una ventata di novità arrivò grazie a personaggi come Marcello Malpighi (1628-1694) che, utilizzando i primi rudimentali microscopi, potè compiere indagini anatomiche piuttosto accurate osservando la struttura cellulare e scoprendo tra l’altro la prova della comunicazione tra vene ed arterie a livello degli alveoli polmonari. Grazie agli studi condotti sugli insetti contribuì poi alla demolizione della dottrina della generazione spontanea, un vero e proprio dogma proveniente dal pensiero aristotelico: la loro struttura appariva infatti troppo complessa e perfetta nel suo funzionamento perché derivassero semplicemente dalla putrefazione di sostanze organiche come si era sempre pensato. Da ricordare infine la nascita del concetto della natura vivente del contagio: Giovan Cosimo Bonomo (1666-1696), ad esempio, individuò la vera eziologia della scabbia con la scoperta del ruolo dell’acaro nella malattia, anche se la medicina ufficiale ignorò i suoi studi fino quasi alla metà del sec. XIX. CAPITOLO SEI Il sec. XVIII In questo secolo la scienza medica fu caratterizzata dall’affermazione delle dottrine dei sistemi, cioè una serie di principi fisiologici, patologici e terapeutici tenuti insieme da una solida base filosofica che continuava a rivestire una certa importanza nel tentativo di spiegare alcuni fenomeni naturali di non immediata comprensione. Nonostante le numerose proposte portate avanti da alcuni autori che di volta in volta sembravano fornire chiavi di lettura esatte e definitive su svariati argomenti, limitati furono i riflessi pratici in campo medico-chirurgico: il ruolo trainante spettava infatti ancora alle teorie filosofiche come quelle di Leibniz e Kant. I principali sistemi urono quelli elaborati da Friederich Hoffmann (16601742) e da Georg Ernst Stahl (1660-1734). Hoffmann teorizzò un sistema medico che poggiava su basi essenzialmente meccaniche: l’intero organismo era composto da fibre che si contraevano e rilasciavano a seconda di un fluido regolatore contenuto nel cervello. Le malattie erano dovute alla modificazione del tono normale e si manifestavano con una quantità eccessiva di sangue a livello dello stomaco o dell’intestino, organi sui quali venivano così concentrate le maggiori attenzioni terapeutiche. Stahl sottolineava invece l’importanza dell’anima che ordinava ed equilibrava ogni processo fisiologico; la morte dell’anima portava alla putrefazione del corpo. Altre teorie ebbero un discreto seguito in questo secolo: William Cullen (1710-1790) sosteneva che l’origine della vita fosse da ricercare nel sistema nervoso il cui equilibrio corrispondeva allo stato di salute. Secondo John Brown (1735-1788) la vita era uno stato mantenuto da continui stimoli che agivano sulla eccitabilità degli organi. Ogni altro sintomo era da tralasciare, tanto che egli vedeva l’unica via di terapia in sostanze stimolanti. La concezione del Vitalismo della scuola di Montpellier (De Bordeu, Barthez) propugnava invece l’esistenza di una via intermedia tra materia ed anima: ogni singolo organo aveva in sè una forza vitale. Franz Anton Mesmer (1734-1815) era convinto che l’energia guaritrice proveniva dallo stesso organismo umano (teoria del magnetismo animale). Celebri sono i suoi studi sull’ipnotismo o sonnambulismo artificiale. In conclusione i reali progressi in questo periodo furono davvero pochi e si possono elencare brevemente: Edward Jenner (1749-1823) studiò il vaiolo ed osservò che le persone infettate una volta dalla forma vaccina non contraevano più quella umana; decise quindi di produrre artificialmente la prima infezione come misura profilattica ottenendo così l’immunizzazione da una delle patologie in quel tempo più pericolose. Paolo Mascagni (1755-1815) scoprì il sistema linfatico. Leopold Auenbrugger (1722-1809) introdusse il metodo della percussione per individuare le alterazioni del polmone. Da ricordare infine, anche se in campo non prettamente medico, gli studi di Carlo Linneo (1707-1778) che concepì il metodo binomiale (genere e specie) nella classificazione di animali e piante. CAPITOLO SETTE Il sec. XX Nel primo novecento furono oggetto di studi e ricerche soprattutto la batteriologia, la parassitologia e la sierologia: si iniziavano a capire le vere cause di molte malattie e le modalità con cui si trasmettevano. Grande fu anche lo sviluppo della radiologia; purtroppo si ignorava ancora la pericolosità delle radiazioni ionizzanti e di conseguenza vi si faceva ricorso indiscriminatamente e senza protezioni. Laparoscopie, pleuroscopie, biopsie muscolari e spirometrie erano prassi normale negli ospedali già nei primi dieci anni del secolo. Negli anni venti si affermò l’elettroencefalografia, nei trenta il microscopio elettronico, nei quaranta la diagnostica ecografica, la registrazione continua degli ECG secondo Norman Jeffers Holter (19141983); dal punto di vista farmacologico si scoprirono i primi antibiotici, alcuni antistaminici e anticoagulanti; negli anni cinquanta James Watson e Francis Crick descrissero la struttura del DNA; apparvero inoltre diuretici, cortisone, psicofarmaci, ipoglicemizzanti ed antiparkinsoniani. La chirurgia, resa sempre più sicura ed affidabile grazie anche ai nuovi farmaci, arricchiva sempre di più il suo strumentario (pinze emostatiche, elettrocauteri, fili assorbibili, lampade scialitiche, placche, viti e chiodi di acciaio...) iniziando così a suddividersi in vari rami: tra le prime scuole specialistiche si annoverano l’oculistica, l’urologia, la traumatologia, l’otorinolaringoiatria. Sarebbe infine arduo descrivere in modo organico e compiuto anche solo i principali progressi degli ultimi cinquanta anni, visto il susseguirsi di studi, ricerche e scoperte in ogni settore della medicina, tali da rendere superate ed obsolete le nuove acquisizioni anche a distanza di pochi anni.