STORIA DELLA MEDICINA
LE ORIGINI DELLA MEDICINA
INDICE
CAPITOLO UNO :
Le origini
La medicina primitiva
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

Medicina nella preistoria
La medicina primitiva presso i selvaggi
La medicina popolare
La medicina nelle antiche civiltà
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La medicina ebraica (1200 a.C.-550 a.C.)
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

La medicina
a.C.)
La medicina
La medicina
La medicina
La medicina
assiro-babilonese (1792 a.C.-323
egiziana (3000 a.C.-1000 a.C.)
mesopotamica (3000 a.C.-2000a.C.)
indiana (2500 a.C.-1500 a.C.)
cinese
CAPITOLO DUE :
La medicina in Grecia
Le scuole mediche


Scuola di Cnido
Scuola di Coo
o La figura del medico
o L’anatomia
o La patologia
o La clinica
o La chirurgia
o La terapia
o La dietetica
Il dogmatismo post-ippocratico
La scuola di Alessandria
La scuola empirica
CAPITOLO TRE :
La medicina nell’antica Roma



Medicina autoctona
Fase di transizione
Periodo delle scuole
o Medicina pre-galenica
o Galeno (138-201)
o Medicina post-galenica
Condizioni igienico-sanitarie nell’epoca
romana
L'epidemiologia
L'ospedalità a Roma
L'insegnamento della medicina
La medicina militare
CAPITOLO QUATTRO :
Il Medioevo




La scuola salernitana
Le università
Le pestilenze
L’ospedalità medioevale
CAPITOLO CINQUE :
Il rinascimento scientifico (sec. XVII)
CAPITOLO SEI :
Il sec. XVIII
CAPITOLO SETTE
IL XX SEC.
CAPITOLO UNO
Le origini
Se per medicina si intende qualsiasi atto o procedimento finalizzato
all’allontanamento di un agente patogeno, di un sintomo morboso, di un
qualsivoglia elemento che turbi lo stato di salute, allora si può
certamente dire che l’origine di questa scienza coincida con l’origine
stessa dell’uomo e che sia strettamente legata a risvolti di carattere
religioso,
filosofico,
paleontologico
ed
etnologico.
Inoltre è molto difficile fare un’adeguata ricostruzione scientifica dei
primi atti curativi in età preistorica, pochi i reperti di medicina vera e
propria a nostra disposizione non sono sufficienti (si tratta solamente di
crani trapanati e ossa con fratture consolidate risalenti a non prima di
100.000 anni fa). In realtà si possono solo fare semplici supposizioni
basate sull’osservazione di graffiti, pitture murali o di sculture. Potrebbe
venire spontaneo il paragone nel campo medico tra l’uomo della
preistoria e le moderne popolazioni selvagge (ad esempio i pigmei
africani), ma non bisogna dimenticare che anche il popolo più primitivo
di
oggi
ha
già
subito
millenni
di
evoluzione.
Durante il corso dei secoli la medicina ha attraversato diversi stadi che,
secondo gli storici, sono i seguenti: medicina istintiva, medicina
sacerdotale, medicina magica, medicina empirica, medicina scientifica.
Per medicina istintiva si intende quella serie di accorgimenti ed azioni
proprie della natura degli animali superiori ed insite nel loro
comportamento, quali ad esempio il leccamento della ferita, la posizione
antalgica di un arto dopo un trauma, l’eliminazione dei parassiti dal
corpo,
il
disbrigo
delle
occorrenze
del
parto.
La medicina sacerdotale nacque quando l’uomo primitivo, davanti alla
potenza e all’imponenza dei fenomeni naturali che trascendono ogni
possibilità umana, ebbe la sensazione della presenza di uno o più esseri
superiori responsabili di qualsiasi manifestazione della natura, anche di
quelle relative alle patologie da cui veniva colpito. Le uniche vie di
guarigione risultavano quindi essere la preghiera, l’implorazione e il
sacrificio.
Solo in un secondo tempo, con la corruzione del puro sentimento
religioso, si ebbe la concezione magica della medicina, in base alla
quale l’uomo credette di poter intervenire sui fenomeni e addirittura di
poterli comandare, sostituendosi così alla divinità fin dalle più antiche
testimonianze documentali di epoca storica in nostro possesso si evince
il fatto che la figura dello stregone o del mago è opposta ed in contrasto
con quella del sacerdote. Ciò significa che nel concetto di medicina
magica inclusa una ben definita connotazione di empietà: chi si occupa
di fatture e sortilegi avvalendosi delle forze occulte viene temuto come
un
essere
malefico
e
diabolico.
Non si può però non rilevare nell’operato di maghi e stregoni un primo
abbozzo di scienza in quanto essi seguivano principi sempre uguali che,
pur basandosi su correlazioni completamente sbagliate tra causa ed
effetto,
costituivano
comunque
un
ragionamento
guidato
da
un’apparente logica. Se quindi per scienza si definisce lo studio dei
fenomeni naturali al fine di stabilirne le leggi e di poterli riprodurre
applicando le leggi stesse, allora bisogna riconoscere che la magia
tende allo stesso scopo pur partendo da presupposti errati e utilizzando
mezzi
inadeguati.
Quando poi l’uomo, ampliando le sue conoscenze ed approfondendo gli
studi su di esse, si rese conto di non potere più sostituire la divinità pur
comprendendo la natura dei fenomeni intorno a lui, iniziò una prima
discriminazione
tra
magia
e
scienza.
Anche nella medicina empirica possiamo vedere una forma embrionale di
scienza: è vero che non si preoccupa di risalire al perchè dei fatti
osservati, ma è pur sempre la prima constatazione tra una causa ed un
effetto che permette la formulazione di successive ipotesi, quindi il
punto di partenza del ragionamento scientifico.
La medicina primitiva
Medicina nella preistoria.
Come detto in precedenza, gli unici reperti di paleopatologia a nostra
disposizione sono relativi a lesioni dello scheletro: si tratta di fratture
(spesso ben consolidate), affezioni dentarie, problemi reumatici,
rachitismo. Da ricordare il rinvenimento di crani trapanati che
presentano processi di rigenerazione ossea, per cui si può affermare che
l’intervento venne effettuato su un individuo vivo.
La medicina primitiva presso i selvaggi.
I popoli primitivi attualmente viventi uniscono l’interpretazione
soprannaturale a un empirismo spesso assai progredito. Tutte quelle
patologie che sono causate da agenti ben definibili (traumi, morsi di
animali, parassitosi ecc.) sono trattate con rimedi naturali dettati da una
ricerca empirica, mentre quelle la cui causa non è evidente (qualsiasi
patologia interna) sono attribuite all’ influenza di divinità, maghi o
stregoni. In ogni caso è sempre l’elemento magico ad avere il
sopravvento nella diagnosi e nella cura che sono esclusiva competenza
dei
guaritori.
L’eziologia di qualsiasi patologia è spesso associata a un peccato
commesso, anche involontariamente, dal paziente contro divinità,
stregoni, individui o oggetti dichiarati tabù (re, guerrieri, persone in lutto,
donne mestruate, puerpere, chiunque abbia a che fare con cadaveri,
alcuni animali) con i quali è proibito ogni contatto. Lo stregone ha poi la
facoltà di causare la malattia in moltissimi modi se ha a disposizione
parti del corpo della vittima (unghie, capelli ), oggetti o avanzi di cibo; in
mancanza di ciò può ricorrere ad altri procedimenti come l’infissione di
chiodi o spilli in feticci. Anche i demoni e le anime dei morti sono ritenuti
in
grado
di
provocare
malattie.
Per difendersi dalle malattie si fa ricorso ad abluzioni, all’uso di amuleti,
alla somministrazione di erbe medicamentose oppure anche a cerimonie
e riti collettivi a cui partecipa tutto il villaggio con a capo lo stregone:
talvolta si cerca di scacciare il demone responsabile della malattia
spaventandolo, talvolta allettandolo, altre volte ancora si ricorre al
sacrificio o all’allontanamento di un capro espiatorio.
La medicina popolare
E’ un miscuglio di medicina primitiva, empirismo, magia e religione.
Riconosce a determinate persone, quasi sempre donne (le streghe), la
capacità di fare il male e di toglierlo. Per provocare le più svariate
patologie si ricorre alle fatture che possono essere eseguite
indirettamente (operando un transfert della vittima designata su figure,
statuette o oggetti che la rappresentano) oppure direttamente
gettandole addosso o facendole ingoiare, senza che se ne accorga,
sostanze di vario genere di solito di carattere macabro e ripugnante
(ossa umane polverizzate, sperma, sangue mestruale). Spesso si usano
anche spilli, nodi e altri oggetti che vengono posti nel letto e nei vestiti.
Le malattie possono infine essere causate anche dalla semplice invidia e
dal malocchio, un fluido che viene emanato talvolta inconsapevolmente
dagli occhi delle persone che lo posseggono. C’è poi la magia del bene
sia per le malattie provenienti da fattura, sia per le affezioni più comuni:
nel primo caso se ne occupano le streghe, nel secondo invece persone
dotate di particolari virtù (settimini, appartenenti a certe famiglie ecc.)
mediante toccamenti ed enunciazione di determinate formule e
preghiere.
Da non dimenticare infine il ricorso alla sfera religiosa che talvolta,
nonostante il divieto della Chiesa, sconfina in un senso di magismo e
superstizione quando arriva a far ingoiare polvere di intonaco di alcune
cappelle o immagini di santi.
La medicina nelle antiche civiltà
La medicina ebraica ( 1200 a.C./500 a.C.)
E’ sicuramente il migliore esempio del concetto assolutamente teurgico
della medicina: Dio è l’unica fonte di malattia e di risanamento, per cui
solo il sacerdote, cioè l’uomo scelto dal Signore, è considerato
strumento di guarigione. E’ pur vero che il medico viene tenuto in grande
considerazione, ma alla base di tutto sta il fatto che è la divinità ad aver
creato le piante e tutti i medicamenti (fiele di pesce, il cuore, il fegato
ecc.). Il concetto igienico risulta quindi molto marginale rispetto al
precetto religioso.
La medicina assiro babilonese ( 1792 a.C./ 323 a.C.)
Rappresenta il punto di passaggio tra il concetto teurgico e quello
magico: la parte religiosa sta essenzialmente nell’eziologia in quanto
l’ira di una divinità verso una persona permette ai demoni maligni di
aggredirla causando in tal modo la malattia (c’è un demone per ogni
patologia); il concetto magico ha invece risalto nella parte terapeutica,
nell’attuazione cioè degli esorcismi. Nella fase diagnostica le due
concezioni vanno di pari passo e un ruolo preponderante è giocato
dall’ispezione del fegato, ritenuto l’organo più importante in quanto fonte
di sangue. Bisogna poi ricordare la parte dedicata alla chirurgia
compresa nel Codice di Hammurabi: vi è una vera e propria serie di
norme deontologiche in cui sono riportati compensi e pene per chi
esercita questa attività.
La medicina egiziana ( 3000 a.C./1000 a.C.)
Si passa da una fase teurgica-magica ad un empirismo estremamente
illuminato: notevoli sono la concezione biologica (concetto umorale
sanguigno e concetto pneumatico), la conoscenza dei vari quadri
sintomatologici e la farmacologia. Gli elementi che costituiscono la
sapienza medico empirica vengono trattati solo in libri sacri accessibili
unicamente agli iniziati. Nonostante quello che si potrebbe ipotizzare
alla luce delle pratiche di imbalsamazione in cui gli egiziani erano
maestri, l’anatomia non appare particolarmente progredita. Al contrario
risultano molto precise le indicazioni relative alla terapia (nel solo papiro
di Ebers sono menzionati 500 diversi medicamenti) ed alle sue varie
forme di confezionamento e di somministrazione: polveri, tisane, decotti,
macerazioni, pastiglie erano perfettamente conosciuti. Assai progredita
era
inoltre
la
chirurgia
e
la
sutura
delle
ferite.
Da notare infine la presenza di medici specialisti nelle malattie urinarie,
nelle patologie delle orecchie, degli occhi e della pelle.
La mesopotamica ( 3000 a.C. 2000 a.C)
E’ un tipo di medicina magico-teurgica dotata di un certo grado di
empirismo interpretato però sempre in senso mistico ed occulto. La
malattia è sinonimo ed effetto di impurità per cui le cure consistono in
lavacri e abluzioni, oltre che in sacrifici espiatori. Nonostante ciò vi sono
accenni riguardo al medico che cura con le piante (Aura Mazda, la
divinità del bene, ha creato almeno una pianta per guarire ogni malattia)
e a quello che cura con il "ferro".
La medicina indiana ( 2500 a.C. 1500 a.C.)
Ancora oggi vi sono scuole che studiano l’antica medicina indiana nella
sua forma originale, così come viene trattata negli antichi testi sacri (i
Veda): la loro completezza ed organicità ha fatto sopravvivere questa
concezione fino ai giorni nostri. Trattano molto accuratamente di grande
e piccola chirurgia, della cura delle malattie del corpo, di demonologia (è
presente una certa sfumatura di magia e religiosità), della cura delle
malattie infantili, della tossicologia, della preparazione di elisir e di
afrodisiaci.
Notevoli la perfezione e la varietà dello strumentario chirurgico, le
tecniche di medicazione, l’attenzione negli esami diagnostici e la
particolare abilità negli interventi di litotomia e rinoplastica.
La medicina cinese
I testi più antichi risalgono al 3500 a.C. e, come nella medicina indiana,
vengono ancora consultati e tenuti in considerazione. La malattia e la
salute sono determinate dall’armonia o meno dei due principi
fondamentali: lo Yang (il principio maschile) e lo Yin (quello femminile). I
medici cinesi introdussero per primi la rilevazione del polso: ne
conoscevano 200 tipi differenti tra cui 21 erano considerati indice di
esito letale; la farmacologia è senza dubbio la più avanzata tra tutte le
medicine antiche: comprende oltre 2000 farmaci e ne include molti
ufficialmente usati nella moderna terapia occidentale (ferro contro
l’anemia, l’oppio, il solfato di sodio come purgante ecc.). Da ricordare
inoltre il primo tentativo di immunizzazione attiva contro il vaiolo
insufflando polvere di croste disseccate nelle narici dei pazienti. Anche
la chirurgia era praticata a un buon livello: caratteristici gli interventi di
castrazione e quelli per limitare gli effetti della deformazione dei piedi.
Non si può tralasciare infine un accenno riguardo l’agopuntura: è l’arte di
penetrare con aghi di diversi materiali determinati canali che sono in
contatto con gli organi interni al fine di ottenere particolari benefici.
Essa fu introdotta nel 2700 a.C. ed è ancora in auge ai giorni nostri
sostanzialmente
immodificata.
CAPITOLO DUE
La medicina in Grecia
Anche se la nascita del pensiero scientifico si può far risalire alla
comparsa delle prime scuole mediche in Italia (Scuola di Crotone e
Scuola di Sicilia), è in Grecia che avviene la completa e definitiva
emancipazione del medico sul sacerdote con la costituzione del
concetto
di
"clinica".
Nell’antica Grecia la medicina veniva praticata nei ginnasi, nelle
palestre e negli jatreia: il ginnasio era il luogo in cui i giovani
venivano formati culturalmente e fisicamente, mentre nella
palestra si allenavano gli atleti veri e propri. L’uno e l’altra
consentirono un certo sviluppo della chirurgia in seguito alle non
infrequenti lesioni in cui gli atleti incorrevano nell’esecuzione degli
esercizi fisici. Tutti coloro che lavoravano in queste strutture
avevano conoscenze abbastanza approfondite di traumatologia e
massoterapia; i medici, che solitamente visitavano in strutture
pubbliche o private (jatreia), venivano chiamati dal ginnasiarca
solo nei casi più gravi
Le scuole mediche
Scuola di Cnido
Particolare fu l’interesse di questa scuola per l’anatomia; il
concetto di patologia appare invece piuttosto rudimentale in
quanto ogni malattia era considerata un fenomeno completamente
isolato e relativo al singolo organo che ne veniva colpito. Anche la
terapia era poco sviluppata: si basava essenzialmente su latte,
siero e succhi di alcune piante (euforbio, elleboro come
cardiotonico e diuretico, scammonea e coloquintide come purganti
drastici, oltre ai semi di dafne, detti anche granelli cnidici come
revulsivo).
Scuola di Coo
C’è il passaggio all’osservazione diretta del malato eseguita con
grande larghezza di vedute ed ottime intuizioni che distinguono
indiscutibilmente questa scuola da tutte le altre: nasce qui il vero
concetto di clinica e della conseguente diagnosi. Il medico è uomo,
e la sua opera non ha sfumature soprannaturali, mistiche, astratte
o filosofiche. La medicina deve essere una ricerca continua, serena
e disinteressata alla quale bisogna dedicarsi solo per amore di
essa
e
della
natura
umana.
Fondatore della scuola di Coo e personaggio di maggior spicco fu
Ippocrate (460 a.C.): egli apparteneva a una famiglia di medici che,
secondo la tradizione, discendeva direttamente da Esculapio (una
divinità minore che eccelleva nell’arte medica); dopo aver
trascorso la giovinezza viaggiando allo scopo di approfondire le
conoscenze e perfezionare la sua istruzione soprattutto in campo
medico, tornò in patria per dedicarsi all’insegnamento e per
mettere
a
frutto
tutto
ciò
che
aveva
appreso.
L’insieme dei libri che sono attribuiti ad Ippocrate va sotto il nome
di Corpus Hippocraticum o Collectio Hippocratica: si tratta di 53
opere per un totale di 72 libri che furono raccolti dai bibliotecari
alessandrini nel III sec. a. C.. Notevole senza dubbio lo stile molto
incisivo e diretto, senza troppi fronzoli, divagazioni filosofiche o
circonlocuzioni contorte, anche se talvolta l’eccessiva laconicità
del pensiero può rendere difficile la giusta interpretazione. E’
proprio questo, comunque, che distingue le vere opere del
caposcuola di Coo da quelle scritte probabilmente in seguito da
qualche suo parente, allievo o successore. Da non dimenticare
anche vari tentativi di falsificazione commerciale delle opere
ippocratiche quando si sparse la voce che la Biblioteca di
Alessandria stava inviando ricercatori e studiosi in tutto il mondo
allora conosciuto al fine di raccogliere qualsiasi materiale scritto
lasciato dal maestro di Coo. La questione sulla genuinità delle
opere di Ippocrate appassionò da subito i critici e i cultori
dell’antica medicina: Eroziano prima e Galeno in seguito
compilarono un glossario delle voci ippocratiche che venne
riesaminato poi in epoca umanistica e, a più riprese, anche da
autori
del
nostro
secolo.
Le opere del Corpus possono essere divise a seconda del loro
contenuto in diversi gruppi:
o
o
o
o
o
o
libri
libri
libri
libri
libri
libri
a contenuto etico
di clinica e patologia
di chirurgia
di ostetricia, ginecologia e pediatria
di anatomia e fisiologia
di terapeutica e dietetica.
La figura del medico
E’ l’unione del perfetto uomo con il perfetto studioso: calma
nell’azione, serenità nel giudizio, moralità onestà amore per la
propria arte e per il malato sono i cardini della personalità del
medico così come era concepito da Ippocrate. Ogni interesse
personale passa in secondo piano. Non è certo un essere
superiore ed infallibile come i sacerdoti degli antichi templi,
ma deve sopperire alla sua fallacità con il massimo
dell’impegno e della diligenza in modo da commettere solo
errori di lieve entità. Deve inoltre essere filosofo, ma non
tanto da farsi distogliere dalla vera scienza che è quella che
si appoggia su solide basi pratiche. Il suo abito, infine, deve
essere decoroso ed il suo aspetto denotare salute.
Con il passare dei secoli questa concezione rimase
sostanzialmente immutata al punto che il Papa Clemente VII
(Pontefice dal 1523 al 1534), in una sua bolla, stabilì che il
laureato in medicina si impegnasse solennemente ad
osservare
il
testo
del
giuramento
ippocratico.
L’anatomia.
Non fu molto approfondita dalla scuola di Coo per due motivi
principali: da una parte Ippocrate era più indirizzato verso il
lato pratico della medicina, aveva cioè una maggiore
propensione per la clinica; dall’altra la cultura greca aveva un
rispetto assoluto per i corpi dei morti, quindi non c’era la
possibilità di studiare l’anatomia esercitandosi direttamente
sui
cadaveri.
Si avevano nozioni di osteologia, soprattutto riguardo la
struttura delle ossa del capo, delle vertebre e delle costole;
molto poco si sapeva di miologia, anche se si conoscevano i
principali muscoli del dorso e degli arti; vene ed arterie
venivano confuse, così come nervi e legamenti. Di cuore e
cervello erano note le principali caratteristiche morfologiche
ma non le reali funzioni. Gli organi di senso erano
probabilmente oggetto degli studi più accurati, soprattutto
per
quanto
riguarda
la
struttura
dell’occhio.
La patologia
Alla base della medicina ippocratica stava l’integrazione tra
una concezione pneumatica della vita ed una umorale, ma
quest’ultima rivestiva senza dubbio un ruolo più importante.
Gli umori erano quattro: sangue (caldo umido) che proveniva
dal cuore, una sorta di muco detto flegma (freddo umido) dal
cervello, bile gialla (caldo secco) dal fegato, bile nera (freddo
secco) dalla milza. Lo stato di salute si aveva quando questi
umori erano perfettamente bilanciati tra loro; se invece la
crasi era alterata per l’eccesso, la corruzione o la
putrefazione anche di un solo componente, allora insorgeva la
malattia. Era la natura stessa con la sua capacità curativa ad
intervenire nel tentativo di ristabilire l’equilibrio tramite
l’espulsione degli umori in eccesso per mezzo di urina,
sudore, pus, espettorato e diarrea. Se invece la malattia
risultava più forte del processo autoriparativo dell’organismo
il paziente moriva. Per poter essere eliminati gli umori,
dovevano prima essere modificati con un processo che
Ippocrate definiva di "cottura". Il periodo intercorrente tra
questo processo e la guarigione prendeva il nome di "crisi".
Il predominio di uno dei quattro umori conferiva anche
particolari
caratteristiche
all’ndividuo
(principio
della
costituzione e dei temperamenti): si avevano così i
temperamenti sanguigno, biliare, flemmatico e atrabiliare.
Motivi dell’alterazione degli umori potevano essere le
intemperie, la dieta o, concezione nuova in assoluto, cause
fisiche
correlate
all’ambiente
di
vita.
Altra
novità
fondamentale introdotta dalla dottrina di Ippocrate fu il fatto
di considerare le patologie come fenomeni generali per
l’organismo e non relativi ad un singolo organo; quelle più
conosciute dalla scuola di Coo furono: la polmonite, la
pleurite, la tubercolosi (ma con un concetto ben differente da
quello attuale), la rinite, la laringite, la diarrea, alcune
malattie
del
sistema
nervoso,
l’epilessia, il tetano.
La clinica
L’epoca ippocratica segna la nascita della clinica intesa
come studio dei segni e dei sintomi osservabili sul paziente.
Vi sono 406 aforismi che racchiudono in frasi brevi e coincise
tutte le osservazioni e le esperienze del maestro di Coo; la
sua sapienza fu poi diffusa presso tutti i popoli allora più
evoluti attraverso traduzioni in arabo, ebraico e latino. Da
essi si evince che l’esame effettuato dal medico doveva
essere il più approfondito possibile e comprendeva non solo
l’ascoltazione, la palpazione e, forse, la percussione, ma
anche qualsiasi piccolo indizio che avrebbe potuto essere
utile per la diagnosi: diverse sfumatore di colore, variazioni di
comportamento, insolite contrazioni muscolari, quantità e
qualità di qualsiasi escrezione e secrezione ecc.. Da ricordare
l’accuratezza con cui veniva esaminata l’urina, valutata come
quantità,
colore,
sedimento
e
torbidità.
Assai
particolareggiata e minuziosa era inoltre l’anamnesi, pur
essendo rivolta essenzialmente a conoscere solo la
situazione presente del malato. La prognosi si basava sullo
studio degli esiti delle varie patologie: essa era considerata
infausta se si notavano fattori quali disturbi visivi, sudore
freddo, anemizzazione delle mani, cianosi delle unghie e stato
di agitazione, mentre il polso non veniva tenuto in nessuna
considerazuione.
La chirurgia
La scuola di Ippocrate disponeva di uno strumentario
abbastanza fornito comprendente coltelli e bisturi di varie
forme e dimensioni. Gli interventi più frequentemente eseguiti
erano la riduzione di lussazioni (con particolari macchine) e di
fratture (con stecche e fasciature), la trapanazione del cranio
in seguito a fratture delle ossa del capo e la cura dei piedi
torti. Assai particolareggiata era inoltre la tecnica delle
fasciature. Nella cura delle ferite era raccomandato il riposo
e l’applicazione di calore senza ricorrere ad olii o balsami
vari.
Limitati erano invece gli interventi in ginecologia e ostetricia:
tra questi è notevole il trattamento della deviazione del collo
dell’utero
con
obliterazione
e
soppressione
delle
mestruazioni. Era vietata la pratica dell’interruzione
volontaria della gravidanza.
La terapia
Varie erano le piante usate come farmaci; tra le più
importanti ricordiamo: l’elleboro nero e la scilla (cardiotonici
e diuretici), la coloquintide (purgante drastico), il veratro
bianco (antireumatico, ipotensivo, contro le affezioni
cutanee), l’issopo (espettorante), il giusquiamo (antidolorifico,
sedativo), l’oppio, la mandragora e la belladonna (narcotici,
analgesici locali), la ruta (abortivo), la menta (stomachico).
Pur conoscendo i principali gruppi di medicamenti, la scuola
di Ippocrate li usava con moderazione in quanto riponeva
molta fiducia nelle capacità autocurative del corpo umano.
Venivano inoltre praticati salassi, cure idroterapiche,
inalazioni, irrigazioni e lavaggi vaginali. Notevole l’uso di
ventose come antiflogistico: creando una depressione nella
zona infiammata si provoca una vasocostrizione da suzione
che riduce la quantità di essudato e trasudato. Interessante
infine l’uso di vesciche introdotte nelle ferite toraciche allo
scopo di tamponare la lesione e contenere l’emorragia.
Il principio terapeutico seguito però varia: a prescindere dal
fatto che è preferibile sconfiggere la malattia in modo
indiretto invece che drasticamente e violentemente, si passa
dal concetto del similia similibus (provocare fenomeni simili
alla sintomatologia del paziente per guarirlo) a quello
certamente più sensato del contraria contrariis (avvalersi di
mezzi ritenuti contrari alla causa della patologia). La febbre è
un ottimo mezzo per raggiungere la guarigione: il suo calore
facilita infatti l’evacuazione degli umori in eccesso
accelerandone
la
"cottura".
La dietetica
Ippocrate considerava la dieta come il complesso di regole e
prescrizioni che il malato era tenuto a seguire non solo
relativamente al suo regime alimentare che, comunque, era di
fondamentale importanza. Lo scopo ultimo era il ripristino
dell’equilibrio degli umori tramite la prescrizione di cibi che, a
seconda dei casi, erano umidi, caldi, freddi, o asciutti. Il
principio generale, come già accennato in precedenza, era
quello di aiutare le difese naturali dell’organismo a liberarsi
degli umori corrotti o in eccesso, per cui nella fase acuta
della malattia erano maggiormente indicati cibi leggeri e
bevande poco nutrienti al fine di non distrarre le forze
dell’organismo dalla "cottura" degli umori verso quella degli
alimenti.
Assai famose erano la tisana, cioè un decotto di orzo
macinato, e l’idromele, una bevanda data dalla fermentazione
di acqua e miele.
Il dogmatismo post-ippocratico
Da una parte è il riconoscimento della validità delle teorie e del pensiero
di Ippocrate, dall’altra è invece il ritorno a una concezione che sembrava
ormai superata: c’è nuovamente una certa quale sacralità nel concetto
di medicina, anche se l’elemento divino è sostituito da quello umano,
cioè
dalla
dottrina
del
maestro
di
Coo.
La scuola dogmatica, che vide come maggiori esponenti Diocle di
Caristo (grande studioso di anatomia) e Prassagora di Coo (famoso per i
suoi studi di semeiotica), ebbe tuttavia il merito di riconoscere il valore
di un nuovo sintomo fino ad allora tenuto in scarsa considerazione:
l’esame del polso. Tra i dogmatici va ricordato anche il filosofo Platone
che in due delle sue opere (il "Timeo" e il "Simposio") traccia una visione
d’insieme sul livello della medicina a quei tempi. La fine di questa scuola
si può collocare intorno al 310 a.C., quando la filosofia stoica vi si infiltrò
alterandone i principi e mutandone la fisionomia: la dialettica e la
speculazione astratta sostituirono infatti l’osservazione dei reali
fenomeni patologici.
La scuola di Alessandria
Dopo l’era della clinica rappresentata dalla scuola di Ippocrate, si apre
quella
caratterizzata
dall’esperimento
biologico:
iniziano
studi
sistematici su sezioni anatomiche e comincia la pratica della vivisezione
su animali. Prima della scuola di Alessandria fu però il filosofo Aristotele,
definito da molti come il fondatore dell’anatomia comparata, ad
intraprendere questo genere di studi fondendo scienza e filosofia in
ragionamenti basati sui suoi famosi sillogismi: studiò a fondo l’anatomia
con particolare attenzione per il sistema nervoso e per il cuore.
Alessandria fu indubbiamente il più importante centro culturale del IV
sec. a. C., e la medicina, come tutte le altre scienze e discipline,
raggiunse un elevato grado di specializzazione grazie alla scuola che
sorse appunto nella città fondata da Alessandro Magno. Partendo dalla
dottrina di Ippocrate approfondà gli studi sull’anatomia e sulla fisiologia
anche attraverso vivisezioni per conoscere meglio la struttura e la
funzione degli organi dando così il primo impulso all’anatomia
patologica. Nel periodo di massimo splendore riuscì ad integrare
perfettamente la parte clinica e quella scientifica tentando di colmare le
lacune
che
entrambe
presentavano.
Erasistrato fu uno dei più famosi esponenti di questa scuola: mise per
primo in dubbio la teoria umorale e ipotizzò che la causa delle malattie
fosse da ricercarsi in un’alterazione dei vasi o dei tessuti; dette
particolare valore all’esame del polso e fu inoltre assai rinomato per
l’accuratezza delle diagnosi; scoprì per primo i vasa vasorum, studiò le
valvole atriali e vasali, la vena e l’arteria plomonare, il fegato (notò la
correlazione
esistente
tra
cirrosi
epatica
ed
ascite).
Altro caposcuola fu Erofilo, che si distinse per le precise descrizioni del
cervello, dell’occhio e del nervo ottico. Fu inoltre famoso come
ginecologo e ostetrico.
La scuola empirica
Si sviluppò tra il 270 e il 220 a. C. grazie all’iniziativa di Filino di Coo e
Serapione di Alessandria all’interno della stessa scuola alessandrina.
Sorse come risposta sia allo sterile dogmatismo in cui erano caduti molti
dei successori di Erasistrato ed Erofilo, sia all’eccessivo indirizzo
sperimentale che aveva fatto almeno in parte trascurare l’attuazione
pratica della medicina: gli empirici ponevano infatti le cognizioni frutto
della loro diretta esperienza in contrapposizione a quelle acquisite da
altri.
L’esperienza si basava essenzialmente su tre punti: l’autopsia (cioè la
diretta osservazione), l’historicon (la storia delle osservazioni proprie e
altrui),
l’analogia
(il
confronto).
Gli esponenti di questa scuola si distinsero nella chirurgia (soprattutto
cura di lussazioni e fratture, cataratta e calcoli), nel trattamento delle
ferite e nella tecnica delle fasciature, anche se tralasciarono
completamente lo studio dell’anatomia e della fisiologia poichè le
ritenevano di secondaria importanza rispetto al problema del malato.
Persero quindi di vista il concetto di malattia come espressione di un
generale malessere dell’organismo, considerando solo la particolarità e
la
localizzazione
della
singola
patologia.
Poi, anche per il fatto che la ricerca e lo studio delle leggi naturali
sembravano giungere a conclusioni spesso troppo difficili da spiegare in
confronto alle teorie mistiche ed occultistiche che da sempre avevano
trovato terreno fertile in Egitto, tornò la tendenza a rivolgersi alla sfera
soprannaturale e magica che si sarebbe manifestata in Occidente con il
periodo alessandrino-romano.
CAPITOLO TRE
La medicina nell’antica Roma
Lo sviluppo della medicina in Roma si può dividere in tre periodi: il primo
è quello della medicina detta autoctona, di antica origine italica; il
secondo è caratterizzato dalla coesistenza dell’elemento autoctono e di
quello greco che andava infiltrando il mondo romano (fase di transizione)
ed il terzo consiste nel definitivo trapianto della medicina greca nel
mondo romano (periodo delle scuole).
Medicina autoctona
Comprende almeno i primi seicento anni di vita della città di Roma, in cui
più che di medici veri e propri si può parlare di persone (curatores) in
grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario in
condizioni di straordinaria emergenza come ad esempio guerre o
pestilenze. Due sono le espressioni della medicina in questa fase: quella
empirica
e
quella
sacerdotale.
La prima si basa su nozioni desunte dall’esperienza (erbe
medicamentose, infusi, decotti ecc.) unite a elementi di magia ed ha
come massimo esponente Catone il censore (234 a.C.-149 a.C.) che, pur
non essendo medico, era famoso per la conoscenza di parecchi
medicinali e per la pratica con apparecchi per ridurre lussazioni e
fratture.
La seconda è testimoniata dalla presenza di una serie di divinità, ognuna
delle quali proteggeva una parte del corpo o era preposta a singoli
aspetti
(patologici
e
non)
della
vita
fisiologica.
Da non dimenticare inoltre l’emanazione di leggi a sfondo igienicosanitario fin dai tempi dei sette re, e la figura del pater familias
(rappresentante della medicina domestica) che era deputato alla tutela
della salute di tutti i componenti del nucleo famigliare, dei dipendenti e
del bestiame.
Fase di transizione
E’ caratterizzata dall’arrivo a Roma di parecchi medici greci, molti dei
quali erano per la verità di scarsa abilità tecnica e di dubbia moralità: si
occupavano infatti principalmente di esecuzione di aborti, della
produzione e della vendita di filtri amorosi. Erano quasi tutti schiavi o
liberti, per cui inizialmente non godevano di grande prestigio.
Con Arcagato, arrivato dal Peloponneso intorno al 219 a.C., inizia invece
la pubblica professione medica esercitata in luoghi a metà strada tra
ambulatori, farmacie e scuole detti tabernae medicinae che ricordavano
molto da vicino gli jatreia greci descritti da Ippocrate.
Periodo delle scuole
E’ il momento di maggiore splendore della medicina a Roma: non a caso
coincide con l’età imperiale. Sotto l’influenza delle varie scuole che
tuttavia degeneravano spesso in vere e proprie sette in aperta
contraddizione tra loro, comincia a prendere forma un pensiero medico
vero
e
proprio.
Questo periodo abbraccia tre fasi ben distinte che hanno come punto di
riferimento la figura di Galeno: la fase pre-galenica, quella galenica e
quella post-galenica.
Medicina pre-galenica
Si estende quasi fino alla metà del II sec. d.C. (dall’arrivo a Roma di
Asclepiade fino alla nascita di Galeno) ed ha come principale
caratteristica la presenza di una moltitudine di scuole, dottrine e
tendenze varie tra cui vanno ricordate la scuola metodica, quella
pneumatica,
quella
eclettica
e
l’enciclopedismo.
La scuola metodica prese questo nome perchè si proponeva di
razionalizzare e semplificare la propria dottrina per renderla accessibile
anche alle menti meno brillanti. L’effetto che ottenne fu invece quello di
togliere scientificità alla medicina e di avvilirne il significato. Ebbe come
ispiratore Asclepiade di Bitinia (50 a.C. circa) il cui pensiero si basava
sul fatto che la materia fosse composta da atomi che unendosi
lasciavano tra loro dei pori attraverso i quali si muovevano altri atomi.
Lo stato di salute era dato dalla perfetta proporzione tra atomi e pori; la
malattia era data invece dall’eccessiva larghezza o strettezza degli
stessi (status laxus che provocava pallore, flaccidità e astenia e status
strictus che era caratterizzato da rossori, calori e sete ardente). Negava
inoltre il principio ippocrateo della natura guaritrice che non poteva in
alcun modo restringere o allargare i pori causa di malattia.
Abbandonando poi la teoria umorale ridusse anche l’uso dei medicinali
incentrando il suo modello di terapia su massaggi, idroterapia,
passeggiate e musica. A questa scuola non mancarono comunque validi
esponenti come Sorano d’Efeso e Celio Aureliano: essi andarono oltre la
concezione degli atomi e dei pori occupandosi di patologia, di clinica, di
terapia
e
di
igiene.
La scuola pneumatica rappresentò una reazione a quella metodica e il
ritorno ad alcuni principi cari ad Ippocrate. Deve il suo nome al fatto che
individuava il pneuma, cioè il respiro, come la base dell’economia vitale
dell’organismo anche se riteneva molto importante l’equilibrio degli
umori sia per la costituzione fisica che per il temperamento. Fu fondata
intorno al 50 d.C. da Ateneo di Attaleia, famoso per i suoi studi di
semeiotica e sul polso, che considerava indice dello stato del pneuma
nelle
arterie.
La scuola eclettica (dal 90 d.C.) tolse al sistema metodico la sua parte
più ipotetica e assoluta mettendo invece in evidenza ciò che aveva di
positivo e sperimentale, riprendendo inoltre la parte osservatrice di
Ippocrate. Agatino da Sparta fu il suo fondatore; tra gli altri va citato
Areteo di Cappadocia, famoso per l’accuratezza di alcune descrizioni
anatomiche
e
di
vari
quadri
patologici.
L’enciclopedismo consisteva nella trattazione di argomenti o tematiche
di qualsiasi genere. La medicina, essendo un settore ancora
relativamente inesplorato, attirò molti tra i più famosi scrittori romani
tra cui Cicerone, Vitruvio, Marco Terenzio Varrone, Lucrezio, Plinio il
Vecchio, Gellio e Seneca che, pur non essendo medici, se ne occuparono
comunque
in
maniera
abbastanza
approfondita.
Un discorso a parte merita per la portata dei suoi studi e della sua opera
Celso, uno tra i pochi medici originari di Roma; egli fu fondamentalmente
ippocratico anche se non disdegnò altre dottrine quando spiegavano in
modo sensato i fenomeni da lui presi in esame. Nelle sue opere trattò
approfonditamente di patologia, di clinica, di igiene, ma soprattutto di
chirurgia: da ricordare, tra tutte le altre cose, la legatura dei vasi nelle
emorragie più imponenti, la sutura delle ferite profonde, la toracotomia,
le ernie inguinali, ombelicali e scrotali, l’intervento per l’eliminazione dei
calcoli vescicali, la tecnica delle operazioni di emorroidi e varici, la
chirurgia plastica e ben 24 tipi procedure chirurgiche in oculistica.
Galeno ( 138/201 )
Si battè con decisione contro l’imperversare delle scuole che, in ultima
analisi, stavano portando la medicina verso un periodo di decadenza
ergendosi ad arbitro di tutto lo scibile medico: tentò di separare il vero
dal falso, indipendentemente dalla fonte di provenienza, riunificando i
vari sistemi di studio con la raccolta di tutto il materiale a sua
disposizione, esaminandolo e vagliandolo a fondo e cercando di
perfezionare il metodo sperimentale che stava alla base del suo
pensiero. Dal momento che dette anche particolare valore alla clinica ed
alla patologia, si può certamente dire che fu l’artefice della più completa
forma
di
medicina
mai
concepita
fino
a
quel
momento.
In anatomia non si limitò a sterili descrizioni morfologiche: cercò di
capire la funzione e la finalità di ogni singolo parte dell’organismo, anche
se sezionò più che altro corpi di animali (principalmente maiali, cani e
scimmie). La parti più minuziosamente trattate sono l’osteologia e la
neurologia.
In fisiologia quasi ogni studio fu suffragato dalla parte sperimentale:
scoprì la differenza tra nervi motori e sensitivi, distinse le lesioni degli
emisferi cerebrali da quelle del cervelletto, valutò la funzione escretrice
dei reni, la circolazione fetale e si occupò particolarmente degli organi di
senso. Si soffermò inoltre a lungo sulla funzione circolatoria che,
nonostante grossolani errori, avrebbe formato un caposaldo della
fisiologia medioevale fino al rinascimento; i suoi punti fermi erano i
seguenti: il fegato è il centro del sangue venoso e il cuore di quello
arterioso; il cuore destro e quello sinistro comunicano tra loro; il sangue
si esaurisce negli organi; le vene polmonari portano sangue sporco ai
polmoni
e
lo
riportano
purificato
al
cuore.
In patologia non raggiunse invece livelli di eccellenza in parte per la
costante preoccupazione di voler classificare ogni malattia, in parte per
una venetura di filosofismo che emergeva nei casi in cui non riusciva a
risalire alle reali cause del male. Partendo da due teorie abbastanza
semplici, e cioè da quella dell’alterazione dei pori che si trovano tra gli
atomi e da quella umorale, inserì nella sua dottrina una gran quantità di
termini astrusi, suddivisioni spesso artificiose, cause e concause,
portando talvolta la formulazione della diagnosi in un campo puramente
astratto tramite sillogismi aristotelici senza dar luogo all’esame diretto
del
malato.
In clinica fu invece assai minuzioso: grazie alla diretta osservazione del
malato, alla profonda conoscenza dell’anatomia ed all’esperienza
accumulata durante i suoi studi di fisiologia era in grado di spiegare fatti
e fenomeni che sfuggivano ai medici della sua epoca. Degna di essere
ricordata è la diagnosi differenziale tra emottisi, ematemesi e sputo
sanguigno da epistassi; descrisse inoltre vari tipi di febbre, i sintomi
dell’infiammazione e sottolineò l’importanza dell’esame delle urine e
della valutazione del polso di cui distinse non meno di 40 varietà.
Galeno fu poi il primo vero esperto di medicina legale: si occupò di morti
vere ed apparenti, iniziò la pratica della docimasia idrostatica polmonare
per constatare, in caso di sospetto infanticidio, se il feto avesse o no
respirato,
e
delle
simulazioni
delle
malattie.
In terapia partì dal concetto ippocratico della forza medicatrice della
natura basandosi sulla regola del contraria contrariis. Ogni medicamento
doveva poi essere di provata efficacia e prescritto per una ragione
plausibile; conosceva quasi 500 sostanze semplici di origine vegetale e
una vasta gamma di origine animale e minerale. Tra quelli composti i più
famosi erano la picra (purgante amaro a base di aloe) e la hjera
(purgante sacro a base di coloquintide). Frequente era anche il ricorso al
salasso.
Medica post-galenica
Generalmente con la morte di Galeno si rappresenta la chiusura del
periodo aureo della medicina romana, anche se per almeno altri tre
secoli la scienza medica sarebbe stata ancora sulla cresta dell’onda.
Dopo Galeno, ad ogni modo, si sviluppò una sorta di dogmatismo e uno
sterile canonismo portato avanti da figure a volte degne di nota che
tuttavia non aggiunsero nulla di nuovo a quanto già era noto.
Oltretutto iniziò la tendenza allo sconfinamento del conoscibile nel
campo dell’inconoscibile, caratteristica peculiare della medicina nel
medioevo. Da ricordare Leonida di Alessandria (studiò la filaria e fu
esperto negli interventi su ernia e gozzo), il famoso chirurgo Filagrio e
suo fratello Poseidonio (si occupò delle malattie del cervello
descrivendo molto accuratamente i deliri acuti, gli stati comatosi, quelli
catalettici, l’epilessia e la rabbia).
Condizioni igenico-sanitarie nell’antica Roma
Una delle caratteristiche più peculiari della psicologia romana fu senza
dubbio la preoccupazione per le norme igieniche allo scopo di formare
buoni soldati e proteggere la salute di tutti i cittadini: fin dai tempi della
repubblica iniziò la costruzione di acquedotti, bagni e piscine, si presero
provvedimenti atti a risanare luoghi malsani, si fecero studi per scegliere
oculatamente i luoghi dove costruire insediamenti urbani, vennero
emanate vere e proprie ingiunzioni legali al fine di moderare
l’alimentazione e di evitare malattie. Celso, ad esempio, si dilunga
parecchio su questo argomento nelle sue opere evidenziando
particolarmente l’importanza della dieta, della moderazione nei rapporti
sessuali, della necessità di scegliere un clima conveniente e di dedicarsi
all’esercizio fisico ed ai bagni. Tra gli aspetti di maggior rilievo trattati
dall’igiene romana vanno ricordati l’igiene dell’acqua, quella mortuaria,
quella alimentare e l’esercizio fisico.
L’acqua:
Fu probabilmente l’argomento principale in tutti i suoi aspetti: sia come
elemento di insalubrità (nei luoghi paludosi), sia come bisogno primario
di ogni agglomerato urbano, sia come elemento di pulizia e di
ritempramento delle forze fisiche, sia come sussidio terapeutico.
Già gli Etruschi iniziarono il risanamento di alcune zone malariche
attraverso canali di drenaggio che favorivano lo scolo delle acque
stagnanti, e cunicoli muniti di lastre di piombo bucherellate per filtrare e
depurare l’acqua. I Romani proseguirono queste opere di bonifica
iniziando con la costruzione della Cloaca Massima all’epoca di Tarquinio
Prisco e con la canalizzazione delle acque urbane reflue nel Tevere.
La sorveglianza dello smaltimento delle acque di rifiuto e delle rive del
fiume era ritenuta di fondamentale importanza ed era pertanto affidata a
particolari autorità civili: in un primo momento se ne occupavano Edili e
Censori, poi fu invece creato un vero e proprio apparato burocratico al
cui vertice stava il Comes Cloacarum da cui dipendevano i Consulares
Aquarum che arrivarono anche al numero di 700. Altra figura di primo
piano era il Curator Aquarium, responsabile della sorveglianza degli
acquedotti deteriorati e di quei tratti di terreno nei quali scorrevano le
condutture sotterranee; egli vigilava per impedire che si costruissero
case, che si piantassero alberi o che si accumulassero immondizie nelle
loro
immediate
vicinanze.
Fu Anco Marzio a portare per la prima volta l’acqua verso Roma
attraverso un sistema di incanalamento, ma il primo vero e proprio
acquedotto (che misurava 11 miglia romane) fu costruito dal censore
Appio Claudio nel 312 a.C.. Con il passare degli anni nella sola città di
Roma si arrivò al numero di 14 acquedotti per un totale di 600 Km con
una portata di ben 1,5 milioni di metri cubi giornalieri, e tantissimi altri
ne furono costruiti in tutte le città più importanti dell’impero (Nimes,
Tarragona,
Segovia,
Parigi,
Cartagine...).
Come accennato in precedenza gli acqedotti erano in parte sotterranei e
in parte scorrevano sopra strutture composte da arcate. Nel primo caso,
ad intervalli regolari, vi erano aperture dette putei che servivano per la
ventilazione e lo spurgo del canale. Il condotto che portava l’acqua era
detto specus ed era dotato di un rivestimento impermeabile. In tratti nei
quali l’acqua non era limpida venivano costruite infine alcune vasche
dette piscinae limariae allo scopo di far sedimentare il fango.
Altro segno tangibile della cultura romana e della sua attenzione
all’igiene pubblica sono le terme, costruzioni di cui l’Urbe fu ricchissima,
tanto che nell’epoca di maggior splendore se ne contavano circa 800
nella sola area della città. Anche se in seguito sarebbero state
probabilmente una tra le cause della decadenza della civiltà romana a
causa dell’uso smodato che si finì per farne, il principio che le aveva
ispirate era senza dubbio positivo. I romani erano soliti bagnarsi nel
Tevere già fin dai primi tempi dopo la fondazione della città; poi
cominciarono ad essere costruite piscine artificiali, pubbliche e private .
I lavaggi quotidiani si limitavano alle braccia e alle gambe, mentre ogni
nove
giorni
veniva
lavato
tutto
il
corpo.
Vitruvio codificò il sistema architettonico delle terme romane: a
prescindere dal fatto che l'orientazione della struttura doveva essere
tale da poter ricevere il sole in certe ore piuttosto che in altre e che si
doveva tenere nella giusta considerazione anche l'esposizione ai venti, i
tre elementi essenziali erano le vasche di acqua tiepida, calda e fredda,
ovvero il tepidarium, il calidarium e il frigidarium, mentre quelli
accessori il laconicum (la sauna) e gli apodicteria (gli spogliatoi). Poi, a
seconda della maggiore o minore lussuosità, si potevano aggiungere
anche altri ambienti totalmente estranei al concetto igienico come ad
esempio
la
biblioteca,
lo
stadio
o
la
palestra.
Le donne potevano accedere alle terme di mattina, gli uomini invece da
mezzogiorno fino a dopo il tramonto; gli ammalati potevano entrare
anche prima dell'orario di apertura. Solitamente il trattamento iniziava
con esercizi fisici, bagni di sole e massaggi; poi si passava nella vasca
calda, in quella tiepida, e per ultimo in quella fredda. Infine la seduta alle
terme prevedeva un ulteriore massaggio, la unzione con balsami ed oli
profumati.
Numeroso era il personale che lavorava alle terme: a parte il conductor
(appaltatore) e il balneator (amministratore), vi erano parecchi schiavi
addetti a vari servizi come l' arcarius (guardarobiere), il capsarius
(cassiere), l'unctor (untore), il tractator (massaggiatore), l'alipiles
(depilatore).
L’esercizio fisico
Uno dei caposaldi fondamentali nell'organizzazione sanitaria di Roma fu
l'educazione fisica che veniva impartita nei ginnasi e nelle palestre al
fine di irrobustire la gioventù e dare alla patria cittadini sani e soldati
forti. Da ricordare la Iuventus, un'associazione a carattere ginnico
premilitare a cui potevano iscriversi i giovani dai 6 ai 18 anni di età. Nei
ginnasi il sistarca si occupava di dirigere gli esercizi coadiuvato dal
gymnasta il quale non era un vero e proprio medico, ma doveva avere
anche nozioni di traumatologia ed ortopedia.
L’igene mortuaria
Molte erano le leggi riguardo le sepolture e i funerali, ma probabilmente
vanno
intese
più
in
senso
rituale
che
igienico.
Inizialmente i cadaveri venivano bruciati e le ceneri raccolte in urne che
venivano depositate in ampie tombe comuni, mentre con l'avvento del
cristianesimo iniziò l'uso di seppellire i morti: sia la cremazione che la
sepoltura dovevano essere effettuate fuori dalla città per impedire il
diffondersi di esalazioni provenienti dai corpi; l'inumazione si eseguiva
chiudendo la salma in una bara di marmo o di metallo. Gli schiavi, i
poveri e gli avanzi del circo venivano invece gettati in sorta di fosse
comuni a cielo aperto nei pressi del colle Esquilino (i puticoli) e spesso
diventavano cibi per corvi e cani randagi, almeno finchè Mecenate non
decise di bonificare tutta quella zona.
L’igiene alimentare
Esistevano leggi per la morigeratezza dei banchetti che stabilivano
persino la quantità dei cibi da usarsi a seconda delle persone presenti;
era punita inoltre l'ubriachezza, ma solo quella delle donne. Abbastanza
attenta era la vigilanza sui generi alimentari: gli Edili erano responsabili
del controllo sulla qualità dei prodotti in vendita all'interno dei mercati
ed avevano anche la facoltà di elevare contravvenzioni. Particolare cura
era riservata la sorveglianza sul grano e sulle carni.
Altre norme igieniche
Apposite leggi regolavano il servizio di nettezza urbana e altre
disposizioni riguardavano la manutenzione delle strade, dei luoghi dove
sorgevano le terme, delle fognature e delle latrine: ad esempio vi erano
disposizioni ben precise sugli appalti per lo svuotamento dei pozzi neri e
non era consentita la circolazione all'interno della città durante il giorno
ai
carri
che
trasportavano
i
materiali
di
rifiuto.
Da ricordare la legge contro il celibato (sia per scopi demografici che per
motivi igienici) e quella sulla prostituzione: le "case chiuse" potevano
essere aperte fuori città e solo di sera; inoltre le meretrici dovevano
essere iscritte in un apposito registro controllato dagli edili.
L'epidemiologia.
Il concetto di epidemiologia non si discostò molto da quello che già
esisteva in epoca greca: si pensava cioè alla costituzione epidemica
dell'atmosfera causata dagli eccessi di calore, umidità, secchezza e
freddo; si sospettava poi che una qualche sostanza velenosa non bene
identificata (ma che si pensava provenire dalla putrefazione dei cadaveri
insepolti) potesse penetrare nell'organismo principalmente attraverso le
vie
respiratorie.
Non mancavano però interpretazioni assolutamente fantastiche: le
pestilenze potevano avere origine tellurica (il veleno esalava dalla terra
dopo i terremoti), religiosa e astrologica. Contro di esse si accendevano
grandi fuochi in cui venivano bruciati fiori profumati ed unguenti
aromatici
in
modo
tale
da
rinnovare
e
purificare
l'aria.
L’ospedalità a Roma
Non si può certo parlare di vere e proprie cliniche o strutture di stampo
ospedaliero nell'antica Roma, tuttavia bisogna ricordare la presenza dei
valetudinaria, cioè infermerie private dove i patrizi erano soliti curare i
propri famigliari e gli schiavi. Qui trovavano impiego sia medici che
infermieri (servi a valetudinario). Inoltre erano famose le medicatrinae
adiacenti al tempio di Esculapio, sull'isola Tiberina, dove gli ammalati
erano tenuti sotto la diretta osservazione di medici e dei loro discepoli.
L’isegnamento della medicina
Ai tempi della medicina autoctona l'istruzione in questo ambito era
affidata al pater familias; nel periodo di transizione si apprendeva l'arte
medica, principalmente per imitazione, nelle tabernae; nel periodo
imperiale sorsero infine varie scuole private. Naturalmente non era
previsto nessun esame di idoneità alla professione: l'abilitazione veniva
attestata dal giudizio insindacabile del maestro. Solo in seguito lo stato
iniziò ad occuparsi dell'ordinamento degli studi stabilendo una parte di
insegnamento teorica ed una pratica. La teoria era trattata nelle
biblioteche e nelle scholae medicorum, mentre le lezioni pratiche in cui
si apprendevano i rudimenti della semeiotica, della clinica e della
chirurgia venivano impartite nei valetudinari e durante le visite private
che il maestro faceva nelle case dei suoi clienti. L'imperatore
Vespasiano istituì uno stipendio per coloro che si dedicavano
all'insegnamento, Adriano in seguito decise che spettava loro anche una
sorta di liquidazione una volta cessata l'attività didattica. Quest'ultimo
fece inoltre costruire un grande edificio scolastico ( atheneum) dove si
tenevano pubbliche lezioni, probabilmente anche di medicina. In realtà la
prima testimonianza di una cattedra statale di medicina si ebbe sotto
l'impero di Alessandro Severo nel III sec. d.C., e in seguito Giuliano
l'apostata decretò nel IV sec. d.C. la legge sull'idoneità dei medici
stabilendo un programma di studi comprensivo di frequenze obbligatorie.
La medicina militare
Nell'esercito romano c'era un medico per ogni coorte e due per quella in
prima linea. Dipendevano dal praefectus castrensis e da un medico capo
che spesso era anche il medico personale dell'imperatore, ma non
potevano passare al rango di ufficiali in quanto non partecipavano
direttamente alle battaglie. L'assistenza ai feriti veniva prestata
direttamente sul campo, all'aperto; per i casi più gravi c'era il
valetudinarium in castris, una sorta di ospedale da campo che poteva
contenere fino a 200 pazienti e in cui trovavano impiego anche
infermieri,
massaggiatori
ed
inservienti.
CAPITOLO QUATTRO
Il Medioevo
La scuola Salernitana
E' considerata la più antica ed illustre istituzione medievale medica del
mondo occidentale; in essa confluirono tutte le grandi correnti del
pensiero medico fino ad allora conosciuto: la leggenda narra infatti che
nacque dall'incontro di un medico romano, uno greco, uno ebreo ed uno
arabo. Le prime testimonianze storiche certe risalgono all'inizio del IX
sec.: in quel tempo lo studio della medicina a Salerno era principalmente
pratico e, anche se la tendenza di questa scuola è spiccatamente laica,
erano i monaci che tramandavano oralmente gli insegnamenti.
Una delle novità più importanti di questa scuola sta nel fatto di non
accettare passivamente la malattia: non solo non si arrende di fronte ad
essa, la combatte e la cura, ma soprattutto cerca di prevenirla con ben
precisi strumenti medici; si oppone inoltre alla teoria secondo la quale è
inutile curare il corpo in quanto la vera salvezza non appartiene al
mondo terrestre. Alla base del concetto di medicina della scuola di
Salerno stanno approfonditi studi anatomici sul corpo umano,
l'importanza dell'armonia psico-fisica e il valore di una dieta corretta ed
equilibrata, principi che ancora oggi sono ripresi e riaffermati dalla
medicina
psicosomatica
e
dalla
scienza
dell'alimentazione.
Altro grande progresso è il fatto che i maestri salernitani sono disposti a
scendere dalla cattedra per avvicinarsi al letto del paziente e discutere
con gli allievi degli aspetti clinici delle malattie. Non era comunque
facile diventare medico a Salerno: prima bisognava studiare la logica per
tre anni, poi altri cinque erano di scuola medica (non solo la teoria sui
classici greci, ma anche la pratica con autopsie per poter riconoscere i
vari organi e capirnela funzione) ed infine si sosteneva un esame sia con
il maestro del corso, sia alla presenza di un collegio composto da altri
medici. Se l'esame veniva superato il giovane medico riceveva un
attestato davanti al quale il re rilasciava la licenza per esercitare la
professione non prima però di avere trascorso un anno come tirocinante
presso un medico anziano. Da notare infine che la scuola era aperta
indistintamente a uomini e donne che tuttavia esercitavano soprattutto
la
ginecologia.
I precetti fondamentali della scuola salernitana sono raccolti nel Flos
Medicinae Salerni (detto anche Regimen sanitatis salernitanum o Lilium
medicinae): è un trattato igienico-profilattico a carattere divulgativo che
espone una serie di norme scritte in versi che individuava una serie di
elementi esterni all'organismo (alimentazione, luoghi, fattori climatici,
attività fisica...) che andavano controllati e regolati al fine di conservare
e migliorare la salute dell'individuo. Veramente notevole era la
conoscenza delle erbe medicinali; tra gli innumerevoli esempi può
essere ricordato l'issopo contro le bronchiti e le affezioni respiratorie, la
ruta per la vista (favorisce la microcircolazione oculare), il colchico
come antireumatico. Non si può poi dimenticare l'importanza che ebbe la
chirurgia: nella Practica chirurgiae di Ruggero Frugardi (il primo chirurgo
salernitano) sono menzionate tecniche come la sutura dei vasi sanguigni
usando fili di seta, le metodiche per la trapanazione del cranio, una sorta
di rudimentale anestesia effettuata con sostanze estratte dalla Spongia
somnifera e il consiglio di adoperare nella terapia medica del gozzo
spugne ed alghe contenenti iodio.
Le università
Le prime università sorsero a partire dal XIII sec. dove già esistevano
centri di studio sia laici, sia di ispirazione religiosa, famosi per l'abilità o
per il valore didattico di determinati insegnanti. Queste istituzioni erano
molto ben viste dai comuni e dai loro regnanti perchè contribuivano alla
loro fama: c'erano vere e proprie gare per avere i migliori insegnanti e il
maggior numero di studenti. Ai primi erano riservati lauti compensi,
onori, privilegi ed esenzioni; i secondi erano attirati non solo dall'amore
per la conoscenza, ma anche dalla possibilità di godere delle occasioni
di bella vita e di piacere offerti dall'ambiente goliardico. La prima
università in Italia fu quella di Bologna (1088) e i primi corsi di medicina
partirono nel XII sec. dando a chi li frequentava le qualifiche prima di
Magistri, poi di Medici fisici, quindi di Professori ed infine di Dottori.
L'ufficialità alla facoltà di medicina (all’interno di quella degli artisti) fu
concessa dal papa Onorio III nel 1219 provocando non poche proteste da
parte degli universiatari giuristi che fecero forti pressioni per impedire il
riconoscimento di uguali diritti ai nuovi arrivati, cercando di allontanarli
il più possibile verso altre città. Fu così che all’università di Bologna
fecero ben presto seguito quelle altrettanto famose di Padova (1222)
nata da un gruppo di insegnanti e studenti provenienti da Bologna, e di
Napoli
(1224).
Da ricordare all’estero l’università di Montpellier, che risentì molto sia
dell’influenza ebraica, sia di quella della scuola salernitana e l’università
di Parigi, riconosciuta ufficialmente nel 1200, entrambe sotto la diretta
dipendenza dell’autorità ecclesiastica; dall’esperienza di quest’ultima
nacquero poi le università di Oxford e Cambridge.
Le pestilenze
Con la parola pestilenza si indicava qualsiasi genere di malattia
epidemica rapidamente diffusibile anche per cause diverse dal contagio
vero e proprio (intossicazioni, carenze alimentari...). Per spiegare queste
morie l’epidemiologia medioevale ricorse ad interpretazioni naturali e
soprannaturali: l’opinone più diffusa era la presenza nell’aria di vapori
nocivi contenenti un veleno pestilenziale; un’altra ipotesi era quella di
giganteschi incendi scoppiati in oriente che producevano fumi velenosi,
oppure il morbo poteva provenire anche dalle viscere della terra o dal
cielo a causa di maligne congiunzioni astrali. Ci fu poi anche chi pensava
all’avvelenamento dei pozzi da parte di ebrei o di lebbrosi, scatenando
così vere e proprie persecuzioni soprattutto in Francia, credenza che
rimase radicata nella storia dando luogo alle dicerie sugli �untori�
in
epidemie
posteriori.
A partire dal XII sec. si può fare in Europa un conto approssimativo di
una pestilenza più o meno grave in media ogni 10-15 anni. Senza contare
la lebbra, una delle malattie più conosciute fin dall’antichità e di cui si
parlava già nella Bibbia, le patologie che più frequentemente causavano
queste morie erano: la malaria, il fuoco di S. Antonio, il vaiolo, il tifo, lo
scorbuto e soprattutto la peste bubbonica. Quest’ultima raggiunse il
massimo della mortalità nel 1348 manifestandosi nella forma polmonare
che dava esito letale già nel terzo o quarto giorno di malattia: il contagio
cominciò nel 1333 in Asia, si diffuse verso l’India ma colpì anche la
Crimea e le altre zone intorno al Mar Nero da una parte e la
Mesopotamia, l’Arabia e l’Egitto dall’altra; nel 1347 arrivò in Italia
penetrando attraverso la Sicilia e le repubbliche marinare; si diffuse poi
in Olanda, in Inghilterra, in Germania, in Polonia ed in Russia per
estinguersi nel 1353 sulle rive del Mar Nero, suo punto d’origine,
probabilmente perchè lì trovò i superstiti dell’episodio di 20 anni prima
ormai immunizzati. Solo in Italia morirono 60000 persone a Napoli, 40000
a Genova, 100000 a Venezia, 96000 a Firenze e 70000 a Siena: tenuto
conto di queste cifre e dei decessi in tutte le altre città,
complessivamente la nostra penisola perse la metà della sua
popolazione totale. Nel resto dell’Europa, in soli tre anni (dal 1347 al
1350) si ebbero ben 43 milioni di vittime a causa dell’epidemia.
Le difese adottate dai vari comuni contro le pestilenze furono
inizialmente dettate dal bisogno immediato, poi vennero codificate in
leggi da applicarsi nei casi di necessitò: fin dall’inizio i malati di peste
venivano espulsi dalle città; venne impedita l’usanza di accompagnare i
funerali e tutto ciò che comportava un eccessivo agglomerato di gente;
venne fatto obbligo di seppellire i cadaveri fuori dalla città anzichè nelle
chiese come era consuetudine; vennero stabiliti cordoni sanitari tra le
città colpite dalla pestilenza e quelle limitrofe che ancora ne erano
immuni; le persone che avevano assistito i malati dovevano stare
lontano dalla città per almeno dieci giorni senza avere rapporti con
nessuno; le case e le suppellettili degli appestati dovevano essere
distrutte; i sacerdoti avevano l’obbligo di denunciare tutti i malati di cui
avevano conoscenza; si obbligarono le navi che provenivano da regioni
sospette a trascorrere un periodo di 40 giorni fuori dai porti prima di
permettere loro l’attracco (da questa pratica nacque il termine di
quarantena). Si dovette però aspettare fino al 1403 per l’istituzione di
particolari luoghi di ricovero, costruiti a spese dello stato e grazie a
donazioni private, dove si potevano isolare i malati di peste (lazzaretti):
la prima città a dotarsi di tali strutture fu Venezia, in particolare
sull’isola di S. Maria di Nazareth dove i frati dell’ordine di S. Agostino
avevano edificato un monastero. Il termine di lazzaretto deriva infatti in
parte dall’errata pronuncia di Nazarethum, con cui si identificava il
suddetto monastero ed in parte dal fatto che su un’isola poco distante
(S. Lazzaro degli Armeni) già esisteva una sorta di ospedale per i
pellegrini.
Rapidamente tutte le altre città seguirono l’esempio di Venezia
seguendo particolari norme: anzitutto un’adeguata distanza dal centro
abitato per impedire il contagio, ma non eccessiva lontananza perché
non fosse troppo disagevole il trasporto degli ammalati; poi una cura
particolare era riservata all’orientamento al fine di evitare l’esposizione
ai venti occidentali ritenuti nocivi (erano detti anche �putridi�); era
infine consigliata la separazione dei lazzaretti dai centri abitati tramite
acqua di mare dove possibile, di fiume (come a Roma per quello istituito
sull’isola Tiberina) o di fossato (come a Milano). Senza dubbio i lazzaretti
più funzionali erano quelli per la quarantena portuale che consistevano
di quattro edifici isolati tra loro: uno serviva per il personale superiore
(ispettori, commissari, medici, speziali, sacerdoti ed ufficiali), uno per il
deposito di merci non sospette, per i malati comuni e per gli infermieri,
un terzo per i malati sospetti e per la merce proveniente da luoghi infetti,
l’ultimo, che era costruito ben più lontano dagli altri tre, per coloro che
venivano
colpiti manifestamente
dalla
malattia in questione.
Accanto ai mezzi sopra enunciati che potrebbero essere definiti di
profilassi, va ricordato l’unico metodo utilizzato per tentare di debellare i
morbi che causavano le varie pestilenze e cioè l’accensione di grandi
fuochi. In essi venivano gettati unguenti, resine ed erbe aromatiche per
depurare l’aria dai miasmi che si riteneva diffondessero il male in quanto
si contrapponevano al tanfo proveniente dai corpi abbandonati in
putrefazione. Tra le sostanze più usate vanno menzionate la resina di
pino bruciata su legno di larice, lo zolfo, l’aceto ed anche materiali
maleodoranti che comunque erano in grado di coprire il fetore dei
miasmi come ad esempio lo sterco di bovini, corna e peli di svariati
animali. Fu poi introdotto l’uso di tenere alle narici sostanze odorose per
purificare l’aria direttamente inspirata: si trattava di spugne imbevute di
aceto in cui erano stati tenuti in infusione chiodi di garofano, cannella ed
altre
spezie.
Molti furono gli autori che in questo periodo si dedicarono alla stesura di
opere che dettavano regole e norme per preservarsi dalle varie
pestilenze, in particolare dalla peste; tra essi va ricordato Dionisio Colle
che enumerò e descrisse nella sua opera molti dei sintomi ai quali
andavano incontro gli appestati, consigliando parecchi farmaci tra cui i
suffumigi di pino e larice.
L’ospedalità medievale
Già poco tempo dopo la nascita della religione cristiana iniziò la pratica
dell’assistenza caritativa agli ammalati e ai poveri in appositi ospizi e
ricoveri: si chiamavano xenodochia quelli riservati agli stranieri, ptochia
quelli per i poveri, gerontocomi erano dette le strutture per gli anziani,
brefitrofi erano i luoghi dove si curavano i bambini e orfanotrofi quelli
destinati
a
chi
aveva
perso
i
genitori.
Sorsero praticamente allo stesso tempo delle associazioni dette ordini
ospedalieri; essi avevano in realtà una triplice natura, e cioè erano
ospedalieri, militari e religiosi, visto che spesso svolgevano la loro
attività in terre straniere, tra gli infedeli e i nemici del cristianesimo.
La situazione di questo genere di strutture non era certamente rosea
sotto il profilo del rispetto delle norme igieniche o della qualità
dell’assistenza prestata: soprattutto il personale stipendiato lasciava
piuttosto a desiderare per comprensione e carità. Anche il tipo di
costruzione, sebbene impreziosito da sculture, pitture ed opere
d�arte, non appariva certo funzionale alle reali esigenze.
Il primo ospedale sorto in Italia fu quello di S. Spirito in Sassia, fatto
costruire dal papa Innocenzo III nel 1201 a Roma. A questo seguirono poi
gli ospedali di Pistoia (1271), quello di Firenze (1288) e poi via via tutti
gli altri nelle maggiori città della penisola.
CAPITOLO CINQUE
Il rinascimento scientifico (sec. XVII).
In questo periodo iniziarono ad essere gettate le fondamenta di un nuovo
tipo di scienza che fosse libera dal retaggio del medioevalismo galenico
e diretta alla formulazione di leggi e principi generali attraverso
l’esperimento, più che all’osservazione scolastica dei fenomeni. Sarebbe
veramente troppo lungo ricordare anche solo le principali scoperte di
questa epoca, ma, per far capire lo spirito che la animava, è sufficiente
menzionare gli studi con cui Galileo Galilei, tra lo scandalo generale,
contestò la teoria del geocentrismo, la determinazione della legge di
gravitazione universale da parte di Isacco Newton, le prime leggi sulla
pressione atmosferica stabilite da Pascal e la dimostrazione da parte di
Keplero che le orbite dei pianeti sono regolate da leggi matematiche.
Tutto questo fermento era inoltre supportato dal punto di vista filosofico
dalle teorie razionalistiche di Cartesio, Francesco Bacone, Tommaso
Campanella e Giordano Bruno: mettendo il ragionamento al di sopra della
pura sensazione, essi contribuirono ad aprire la strada al metodo
sperimentale.
Nonostante tutto non si registrarono inizialmente grandi scoperte né in
patologia, né in terapia, anche perché era difficile mettere ordine nel
calderone delle innumerevoli dottrine mediche e scuole di pensiero:
troppo lontane erano le posizioni dei seguaci della teoria umorale, di chi
si affidava alle capacità autoguaritrici dell’organismo umano, degli
interventisti, di chi propendeva per farmaci di origine animale o
vegetale. Un tentativo di applicare il principio sperimentale anche alla
medicina fu quello della sua interpretazione iatromeccanica e
iatrochimica: entrambe tentavano di applicare ai processi fisiologici
leggi
e
regole
proprie
dei
corpi
inorganici.
La prima cercava la spiegazione di tutti i fenomeni biologici in regole di
meccanica e di matematica, formule e calcoli numerici. Da ricordare la
figura di Santorio Santorio (1561-1636) che condusse approfonditi studi
sul metabolismo: grazie a una bilancia di straordinarie dimensioni (era in
grado di sorreggere una stanza con tanto di letto e scrivania) calcolava
la variazione del peso del corpo dovuta non solo alle normali attività di
vita, ma anche alla perdita dei materiali eliminati attraverso cute e
polmoni. Introdusse anche l’uso di strumenti che aiutassero il medico
nella formulazione della diagnosi quali il pulsimetro (o pulsilogio) che
misurava il ritmo e la frequenza del polso, ed il termometro ad aria.
La seconda interpretava la malattia come un’alterazione chimica, uno
squilibrio tra acidi e basi, sconfinando talvolta nel campo dell’alchimia.
Francesco de la Boe (1614-1672), meglio conosciuto come Sylvius, ne fu
il fondatore. Egli vedeva nella fermentazione la chiave di volta di tutti i
processi fisiologici. Tra i personaggi di spicco di questa scuola va inoltre
ricordato Giovanni Battista Van Helmont che teorizzò la presenza di tre
tipi di entità nel corpo umano: gli archei, ovvero i principi spirituali che
danno la vita ai vari organi; il gas, termine coniato dallo stesso
scienziato belga, che rappresentava la materia aeriforme derivante dai
processi fermentativi che si svolgono nell’organismo; il blas, cioè il
movimento che accompagna ogni trasformazione di energia. La malattia
era causata dal cattivo funzionamento degli archei e si manifestava con
anomale
fermentazioni.
Una ventata di novità arrivò grazie a personaggi come Marcello Malpighi
(1628-1694) che, utilizzando i primi rudimentali microscopi, potè
compiere indagini anatomiche piuttosto accurate osservando la
struttura cellulare e scoprendo tra l’altro la prova della comunicazione
tra vene ed arterie a livello degli alveoli polmonari. Grazie agli studi
condotti sugli insetti contribuì poi alla demolizione della dottrina della
generazione spontanea, un vero e proprio dogma proveniente dal
pensiero aristotelico: la loro struttura appariva infatti troppo complessa
e perfetta nel suo funzionamento perché derivassero semplicemente
dalla putrefazione di sostanze organiche come si era sempre pensato.
Da ricordare infine la nascita del concetto della natura vivente del
contagio: Giovan Cosimo Bonomo (1666-1696), ad esempio, individuò la
vera eziologia della scabbia con la scoperta del ruolo dell’acaro nella
malattia, anche se la medicina ufficiale ignorò i suoi studi fino quasi alla
metà
del
sec.
XIX.
CAPITOLO SEI
Il sec. XVIII
In questo secolo la scienza medica fu caratterizzata dall’affermazione
delle dottrine dei sistemi, cioè una serie di principi fisiologici, patologici
e terapeutici tenuti insieme da una solida base filosofica che continuava
a rivestire una certa importanza nel tentativo di spiegare alcuni
fenomeni naturali di non immediata comprensione. Nonostante le
numerose proposte portate avanti da alcuni autori che di volta in volta
sembravano fornire chiavi di lettura esatte e definitive su svariati
argomenti, limitati furono i riflessi pratici in campo medico-chirurgico: il
ruolo trainante spettava infatti ancora alle teorie filosofiche come quelle
di
Leibniz
e
Kant.
I principali sistemi urono quelli elaborati da Friederich Hoffmann (16601742) e da Georg Ernst Stahl (1660-1734). Hoffmann teorizzò un sistema
medico che poggiava su basi essenzialmente meccaniche: l’intero
organismo era composto da fibre che si contraevano e rilasciavano a
seconda di un fluido regolatore contenuto nel cervello. Le malattie erano
dovute alla modificazione del tono normale e si manifestavano con una
quantità eccessiva di sangue a livello dello stomaco o dell’intestino,
organi sui quali venivano così concentrate le maggiori attenzioni
terapeutiche.
Stahl sottolineava invece l’importanza dell’anima che ordinava ed
equilibrava ogni processo fisiologico; la morte dell’anima portava alla
putrefazione
del
corpo.
Altre teorie ebbero un discreto seguito in questo secolo: William Cullen
(1710-1790) sosteneva che l’origine della vita fosse da ricercare nel
sistema nervoso il cui equilibrio corrispondeva allo stato di salute.
Secondo John Brown (1735-1788) la vita era uno stato mantenuto da
continui stimoli che agivano sulla eccitabilità degli organi. Ogni altro
sintomo era da tralasciare, tanto che egli vedeva l’unica via di terapia in
sostanze
stimolanti.
La concezione del Vitalismo della scuola di Montpellier (De Bordeu,
Barthez) propugnava invece l’esistenza di una via intermedia tra materia
ed anima: ogni singolo organo aveva in sè una forza vitale.
Franz Anton Mesmer (1734-1815) era convinto che l’energia guaritrice
proveniva dallo stesso organismo umano (teoria del magnetismo
animale). Celebri sono i suoi studi sull’ipnotismo o sonnambulismo
artificiale.
In conclusione i reali progressi in questo periodo furono davvero pochi e
si possono elencare brevemente: Edward Jenner (1749-1823) studiò il
vaiolo ed osservò che le persone infettate una volta dalla forma vaccina
non contraevano più quella umana; decise quindi di produrre
artificialmente la prima infezione come misura profilattica ottenendo
così l’immunizzazione da una delle patologie in quel tempo più
pericolose.
Paolo
Mascagni
(1755-1815)
scoprì
il
sistema
linfatico.
Leopold Auenbrugger (1722-1809) introdusse il metodo della percussione
per individuare le alterazioni del polmone. Da ricordare infine, anche se
in campo non prettamente medico, gli studi di Carlo Linneo (1707-1778)
che concepì il metodo binomiale (genere e specie) nella classificazione
di
animali
e
piante.
CAPITOLO SETTE
Il sec. XX
Nel primo novecento furono oggetto di studi e ricerche soprattutto la
batteriologia, la parassitologia e la sierologia: si iniziavano a capire le
vere cause di molte malattie e le modalità con cui si trasmettevano.
Grande fu anche lo sviluppo della radiologia; purtroppo si ignorava
ancora la pericolosità delle radiazioni ionizzanti e di conseguenza vi si
faceva
ricorso
indiscriminatamente
e
senza
protezioni.
Laparoscopie, pleuroscopie, biopsie muscolari e spirometrie erano
prassi normale negli ospedali già nei primi dieci anni del secolo.
Negli anni venti si affermò l’elettroencefalografia, nei trenta il
microscopio elettronico, nei quaranta la diagnostica ecografica, la
registrazione continua degli ECG secondo Norman Jeffers Holter (19141983); dal punto di vista farmacologico si scoprirono i primi antibiotici,
alcuni antistaminici e anticoagulanti; negli anni cinquanta James
Watson e Francis Crick descrissero la struttura del DNA; apparvero
inoltre
diuretici,
cortisone,
psicofarmaci,
ipoglicemizzanti
ed
antiparkinsoniani.
La chirurgia, resa sempre più sicura ed affidabile grazie anche ai nuovi
farmaci, arricchiva sempre di più il suo strumentario (pinze emostatiche,
elettrocauteri, fili assorbibili, lampade scialitiche, placche, viti e chiodi
di acciaio...) iniziando così a suddividersi in vari rami: tra le prime scuole
specialistiche si annoverano l’oculistica, l’urologia, la traumatologia,
l’otorinolaringoiatria.
Sarebbe infine arduo descrivere in modo organico e compiuto anche solo
i principali progressi degli ultimi cinquanta anni, visto il susseguirsi di
studi, ricerche e scoperte in ogni settore della medicina, tali da rendere
superate ed obsolete le nuove acquisizioni anche a distanza di pochi
anni.