Assaggi di Filosofia - Liceo Classico Vittorio Emanuele II

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Assaggi di Filosofia
Assaggi di Filosofia
La capacità di stupirsi delle cose comuni
I presocratici e Socrate
Classe I sez. E
a.s. 2014/15
prof. Leopoldo Cicala
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Assaggi di Filosofia
Introduzione
Giornata soleggiata, eravamo appena usciti da scuola. Non era stato uno dei miei giorni migliori,
ma il solo uscire da quella ghiacciaia era qualcosa di magnifico. Come d’abitudine eravamo i soliti
cinque, che pur di non tornare a casa a sentire le quotidiane lamentele e qualche strigliata da parte
dei genitori, ci trattenevano fino ad ora di pranzo.
Era il mese di marzo, mancavano ancora alcuni mesi prima della fine dell’anno scolastico , ma per
noi la chiusura della scuola era solo l’inizio di un nuovo percorso. Bisognava necessariamente
scegliere cosa fare della nostra vita o quantomeno quale indirizzo scegliere per l’università.
A dire la verità quasi tutti avevano un propria idea o un proprio sogno , ma alcuni non erano pronti
a mettere a rischio il proprio futuro , altri non avevano le idee molto chiare e altri ancora non
volevano neanche pensarci. Però c’è da dire che non si parlava d’altro in classe e fuori scuola. Così
appena seduti a tavola in un ristorantino appartato in un piccolo vicoletto napoletano, tra le
macchine in corsa e il vociare della folla , ordinammo il nostro pranzo.
Si iniziava sempre con un discorsetto frivolo e scherzoso : “ Con chi è che sta quello?” “Davvero,
ma io non ce li vedo proprio insieme , secondo me non era il caso…” .
Ma alla fine si finiva sempre sullo stesso imminente argomento. Prima ancora di cominciare a
parlare, arrivò la prima portata , una bella spaghettata al ragù.
“Vi propongo un gioco: a turno ognuno di noi dice che decisione ha preso in queste settimane e ci
spiega il perché?” dissi per rompere il ghiaccio, visto che si era creato un silenzio imbarazzante. La
cosa di per sé era molto banale ma era l’unico modo per schiarirci le idee …
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Assaggi di Filosofia
“Dopo cinque anni di liceo classico non potevo non scegliere la classica giurisprudenza, forse
per quella vena polemica che mi appartiene, o semplicemente perché non sono mai riuscito a
capire realmente “ Che cosa è giusto e che cosa è sbagliato ?”
Il tema della giustizia è sempre stato presente nella mia vita come d’altronde tutte queste
domande…”
La libertà di pensiero
Di Alessandra Buonaiuto
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione.»
Costituzione Italiana, art. 21
Secondo Immanuel Kant la libertà di pensiero è “ la capacità di valersi del proprio intelletto senza la
guida di un altro”
Da sempre in ogni epoca storica la libertà di pensiero ha dovuto affrontare numerosi ostacoli
prima di affermarsi come diritto garantito. La lotta storica per l’affermazione di questo diritto
che è un bene e non un male per la società, è stata combattuta da una parte dalle autorità e dalla
furiosa necessità del controllo e dall’altra dal popolo e dalla consapevolezza delle coscienze che
l’unico modo per poter sopravvivere è preservare la mente e la propria libertà di opinione. Il
pregiudizio, le credenze religiose, il tradizionalismo, l’oscurantismo hanno spesso arginato la
capacità creativa della mente di spaziare.
Molti nel corso della storia hanno esercitato la facoltà della loro creatività per suggerire che certe
strade nelle quali andava la loro cultura erano sbagliate. Da Socrate a Galilei, a Gesu di Nazareth
fino a Giordano Bruno, da Savanarola a Lucilio Vanini.
Tuttavia nonostante la Costituzione Italiana al giorno d’oggi garantisca leggi che assicurino la
libertà di pensiero, è probabile che essa non sia ben radicata in una società governata da cosi tanti
mezzi di controllo.
In effetti il problema della libertà di pensiero non è molto sentito dalle masse bensì da piccoli
gruppi di persone che hanno il bisogno di esprimere la propria idea e il proprio dissenso. Uno di
questi fu sicuramente Socrate che in una società estremamente libertina e corrotta come quella di
Pericle, fungeva da minaccia per il sottile equilibrio creatosi in quel tempo. Siamo nel 399 a.C
quando Socrate, filosofo ed educatore ateniese, sostiene la supremazia di un governo aristocratico,
in netto contrasto quindi con la democrazia ateniese. Un vero e proprio pericolo considerando anche
il fatto che aveva strette amicizie con alcuni aristocratici che qualche anno prima avevano tentato un
colpo di stato. L’accusa di empietà, di aver corrotto i giovani e di aver introdotto nuovi culti ad
Atene, come spiega Platone nell’Apologia di Socrate sono solo pretesti:
“Inoltre, i giovani che hanno più tempo libero, cioè i figli dei più ricchi, mi frequentano per loro
scelta, si divertono a sentirmi mettere alla prova le persone, e spesso mi imitano essi stessi e
tentano di esaminarne altre. Così trovano - credo - una grande abbondanza di persone che sono
convinte di sapere qualcosa ma sanno poco o nulla. E quelli che essi mettono alla prova si
arrabbiano con me, invece che con se stessi, e dicono che un certo Socrate è oltremodo
abominevole e corrompe i giovani. E se qualcuno chiede loro "facendo o insegnando che cosa?",
non sanno che dire e per non apparire in imbarazzo, dicono tutto quello che hanno sottomano
contro chi fa filosofia: insegna "ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra", a "non credere negli
dei" e a "fare del discorso più debole il più forte". Perché la verità - venire scoperti come persone
che fanno finta di sapere ma non sanno - non gli piacerebbe dirla. Ed essendo - penso - ambiziosi,
violenti e numerosi e parlando di me in maniera concertata e persuasiva, vi hanno riempito gli
orecchi di robuste calunnie. Su questa base mi hanno attaccato Meleto, Anito e Licone: Meleto
irritato per i poeti, Anito per gli artigiani e gli uomini politici, Licone per i retori. Così, come
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dicevo in principio, mi stupirei se riuscissi a sradicare da voi, in così poco tempo, un pregiudizio
divenuto così grande. Questa è la verità, cittadini ateniesi, e vi parlo senza nascondervi nulla,
grande o piccolo che sia, e senza riserve. E so piuttosto bene che in questo modo mi rendo odioso ma ciò è anche prova che dico la verità, che la calunnia contro di me è questa e queste ne sono le
cause. E se le cercherete, ora o in futuro, vedrete da voi che è così. ”
Come si evince dal brano la necessità dello stato a quell’epoca era limitare la libertà di pensiero
per rafforzare le basi di un potere economico e politico “in bilico”.
In effetti nel corso della storia questo processo “costruito” non è stato l’unico. Possiamo ben
ricordare infatti, il processo a Galileo Galilei sostenitore della teoria copernicana
eliocentrica sul moto dei corpi celesti in opposizione alla teoria aristotelico-tomaica
sostenuta dalla Chiesa Cattolica. Galileo con la sua tesi scientifica metteva in discussione
ciò che era scritto nelle Sacre Scritture e quindi fu ritenuto eretico. Qui riportata la lettera
che Galileo spedì a Benedetto Castelli spiegando l’indipendenza della ricerca scientifica
dalle Sacre Scritture.
« potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi:
tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel
puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni,
ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani
e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco
talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future.
Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso
delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi
alI'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è
necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari
per che siano sotto cotali parole stati profferiti »
Tuttavia per la visione teocentrica e per l’assoluta fedeltà all’interpretazione allegorica-cristiana
delle Sacre Scritture, Galileo fu costretto a negare la sua tesi pur di continuare gli studi e non essere
esiliato. Qui riportata un frammento della sentenza:
“Roma, 22 giugno 1633.
Noi Gasparo del tit. di S.Croce in Gerusalemme Borgia; Fra Felice Centino del tit. di S.Anastasia,
detto d'Ascoli; Guido del tit. di S.Maria del Popolo Bentivoglio; Fra Desiderio Scaglia del tit. di S.
Carlo, detto di Cremona; Fra Ant.o Barberino. Detto di S.Onofrio; Laudivio Zacchia del tit. di
S.Pietro in Vincoli, detto di S.Sisto; Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso; Fabricio del tit. di
S.Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti; Francesco del tit. di S.Lorenzo in Damaso
Barberino; e Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi; per la misericordia di Dio, della S.ta
Romana Chiesa Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori
generali della S.Sede Apostolica specialmente deputati;
Essendo che tu, Galileo fig.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni 70, fosti
denunziato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa dottrina, da alcuni insegnata,
ch'il Sole sia centro del mondo e imobile, e che la Terra si muova anco di moto diurno; ch'avevi
discepoli, a' quali insegnavi la medesima dottrina; che circa l'istessa tenevi corrispondenza con
alcuni mattematici di Germania; che tu avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle
macchie solari, nelle quali spiegavi l'istessa dottrina come vera; che all'obbiezioni che alle volte ti
venivano fatte, tolte dalla Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo
senso; e successivamente fu presentata copia d'una scrittura, sotto forma di lettera, quale si diceva
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esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, e in essa, seguendo la posizione del
Copernico, si contengono varie proposizioni contro il vero senso e autorità della sacra Scrittura;
Volendo per ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui proveniva e
andava crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N. S.re e del'Eminen.mi e Rev.mi
SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le
due proposizioni della stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè: Che il Sole sia centro del
mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica,
per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura; Che la Terra non sia centro del mondo né
imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa nella
filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide. Ma volendosi per allora procedere
teco con benignità, fu decretato dalla Sacra Congre.ne tenuta avanti N.S. a' 25 di Febr.o 1616, che
l'Emin.mo S. Card. Bellarmino ti ordinasse che tu dovessi omninamente lasciar detta opinione
falsa, e ricusando tu di ciò fare, che dal Comissario di S. Off.io ti dovesse esser fatto precetto di
lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri, né difenderla né trattarne, al qual
precetto non acquietandoti, dovessi esser carcerato; e in essecuzione dell'istesso decreto, il giorno
seguente, nel palazzo e alla presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo esser
stato dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal P. Comissario del S. Off.o
di quel tempo fatto precetto, con notaro e testimoni, che omninamente dovessi lasciar la detta falsa
opinione, e che nell'avvenire tu non la potessi tenere né difendere né insegnar in qualsivoglia
modo, né in voce né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato. E acciò che si
togliesse così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiudizio della
Cattolica verità, uscì decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice, col quale furono proibiti li libri che
trattano di tal dottrina, e essa dichiarata falsa e omninamente contraria alla Sacra e divina
Scrittura. E essendo ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo
passato, la cui inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il titolo Dialogo di Galileo
Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; ed informata appresso la
Sacra Congre.ne che con l'impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede e si
disseminava la falsa opinione del moto della terra e stabilità del Sole; fu il detto libro
diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente la transgressione del predetto precetto
che ti fu fatto, avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata e in faccia tua per
tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii ragiri ti studii di persuadere che tu lasci
come indecisa e espressamente probabile, il che pur è errore gravissimo, non potendo in niun modo
esser probabile un'opinione dichiarata e difinita per contraria alla Scrittura divina.”
Successivamente con l’affermarsi del governo nazi-fascista in Germania con a capo Adolf Hitler,
Joseph Paul Goebbels, Ministro della propaganda e dell’informazione del governo dittatoriale di
Hitler, parlo cosi la notte del 10 maggio 1933 al rogo dei libri.
«Studenti, uomini e donne tedesche, l'era dell'esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine.
Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo
tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con
tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare
DIRETTAMENTE gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura
della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e
pertanto fate bene, in quest'ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del
passato. È un'impresa forte, grande e simbolica, un'impresa che proverà al mondo intero che le
basi intellettuali della repubblica di Novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine
sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito».
Bruciare i libri infatti era un’azione tanto forte quanto propedeutica al controllo delle menti
secondo il pensiero fascista. Riformare il “pensiero” ed eliminare la letteratura era un modo per
dominare le menti ed evitare che leggendo le masse potessero consapevolizzarsi a tal punto da
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ribellarsi. Erano gli anni trenta, quelli della condanna all’intellettualismo e alle filosofie astratte.
Anni di repressioni, della paura dell’autonomia di pensiero.
Ebbene in questo caso come negli altri due, nel caso di Socrate e Galileo, si evince la necessità da
parte della società di limitare la libertà di pensiero.
Negli anni però molti sono stati i martiri che hanno dato la vita al fine di rendere la società libera, e
in una repubblica democratica come la nosta è garantita la libertà di pensiero. E’ curioso tuttavia
capire quanto i mass media, i social network e il mondo della pubblicità influenzino enormemente
il libero pensiero. Come dice Roberto di Cosmo ( professore informatico) nell’intervista rilasciata
al programma televisivo “ Mediamente” della RAI, il potere informatico è potentissimo e “ la vera
ricchezza sarà il controllo dell’informazione”. In effetti il potere informatico ha la capacità di
accumulazione, memorizzazione, elaborazione e trasmissione dei dati personali, che conferisce un
potere conoscitivo prima sconosciuto e che consente di attuare una sorveglianza occulta,
onnipresente, pervasiva dei comportamenti privati. I mass media poi, sono strumenti di
comunicazione di massa necessari per la funzionalità di una grande democrazia, ma anche per una
buona dittatura. Influiscono sulle masse isolate particolarmente manipolabili al fine di raggiungere i
propri scopi. Ad esempio, il lancio di un documentario su Enrico Berlinguer, con l’apprezzamento
finale di Renzi che elogia e ammira il politico del partito comunista, lascia intendere che forse
l’intenzione comunicativa nascosta nel rilancio di un documentario su questo politico, sarà un
tentativo di presentare Renzi come il prossimo “ redentore” del governo italiano. Le pubblicità poi
ci illudono facendoci pensare che tutto ciò che è super “comodo” sia indispensabile all’uomo. Tutto
ciò induce al consumismo e ovviamente all’arricchimento di alcune èlite che sono al comando del
Paese.
Ad esempio quando si va a comprare un paio di scarpe, solitamente non si comprano quelle che a
primo impatto sembrano essere belle e neanche quelle che si adattano di più alle esigenze del
compratore o anche che rientrano in un certo budget economico, ma piuttosto quelle che
assomigliano di più a un tipo di scarpa che si usa, magari più costoso, magari che non non sarebbe
mai piaciuto se non si fosse visto addosso a molti.
Non è forse questa negazione del pensiero? Non si cerca attraverso la tecnologia di arginare la
libertà di pensiero per mantenere in piedi un sistema sociale-economico governato da pochi? Non è
forse più semplice governare una massa di stupidi, indirizzandoli sulle cose effimere?
Dal 399 a.C fino al 2015 d. C in situazioni diverse abbiamo trovato sempre la stessa costante: la
necessità di limitare la libertà di pensiero per mantenere il potere stabile.
Bibliografia

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
Platone, Apologia di Socrate, prima edizione Bompiani 2000 par. 10.
I documenti del processo di Galileo Galilei, Sergio Pagano Antonio G. Luciani, 1984,pp
XXVIII,280,tav.6 (asv.vatican.va).
F. Flora, Opere di Galileo Galilei, Riccardo Ricciardi Editore, 1953.
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Socrate
Uomo libero o libertino?
Di Francesca Frangipani
Atene, V secolo a.C. Secolo di rinnovamento politico, culturale e soprattutto segnato, per ciò che
riguarda la storia del pensiero greco da uno “spostamento”della riflessione filosofica. La mentalità
collettiva cambia, molte certezze crollano, e i cittadini non sono più tanto interessati alla
physis,quanto alle problematiche strettamente legate all’uomo e alla sua natura. Tuttavia ildèmos ha
pur sempre bisogno di un punto di riferimento che non si limiti al semplice possesso di capacità
tecniche non comuni come per i sofisti, ma che sappia anche tirar fuori da ognuno una coscienza
morale, allo stesso tempo pratica, che renda gli uomini in grado di agire sottoponendovi le proprie
azioni al fine di analizzarle. Occorreva indubbiamente qualcuno che fosse in grado di trasmettere
una praticità che non sfociasse nel materialismo, una praticità ponderata e ragionata, e, se vogliamo,
giusta. Qualcuno che istruisse il popolo al pensiero libero e corretto, una persona disinteressata, non
corrotta: una persona “libera”. Chi dunque si fece carico delle problematiche filosofiche legate
all’uomo promuovendo un vero e proprio ragionamento pratico sottoposto all’esame di una propria
coscienza? Chi se non Socrate, uomo “libero”? Ma come faceva Socrate ad essere una persona
libera e allo stesso tempo rispettosa delle leggi della pòlis,pur non condividendole pienamente?
Soprattutto, riusciva ad osservare veramente le leggi pur avendo un pensiero libero e indipendente?
Era dunque una persona realmente libera oppure semplicemente un contestatore che voleva far
prevalere la sua ideologia sulla legge? E, cosa più importante, chi è stato, allora, Socrate? Un
“libero”o ciò che oggi potremmo definire un “libertino”? Questi interrogativisono stati più volte
posti nel tempo e hanno ricevuto risposte indubbiamente diverse. Il perché di tutti questi
interrogativi e delle relative risposte è semplice; sono dovuti certamente alla novità, e quasi
ambiguità, di questo personaggio agli occhi dei suoi contemporanei che ne diedero numerose
interpretazioni talvolta giunte sino a noi.
“L’immagine di Socrate che possiamo scorgere all’orizzonte di tutte le testimonianze dei suoi
contemporanei è in effetti quella di una figura ambigua e paradossale che a seconda di come se ne
interpretino i tratti superficiali può trasformarsi in una buffa caricatura a metà tra filosofo e sofista
o nel paradigma di un uomo saggio e irreprensibile”[1]. C’è chi pensa che Socrate fosse senza alcun
dubbio un uomo “libero”. Questo è sicuramente il Socrate di Platone e Aristotele e per certi versi
anche di Senofonte. Platone in particolar modo fa di Socrate “l’eroe della sua filosofia”[2],
definendolo un uomo giusto con poche certezze come appunto quella che commettere ingiustizia è
sempre un male. Definendolo uomo “dalle poche certezze” Platone non intende ovviamente
sminuire la credibilità del suo maestro, ma è come se volesse definire quella di Socrate una “dotta
ignoranza”, l’ignoranza di chi non è sapiente, ma non crede nemmeno di esserlo; e una “sapienza
umana”, cioè” il riconoscimento che il proprio sapere (umano) non è nulla in confronto a quello
divino”[3]. Socrate è dunque un maestro dotato di una saggezza quasi dimessa, libero da ogni forma
di tracotanza.
Senofonte lo definisce “un modello di liberalità, giustizia e saggezza. “Qualcuno capace di
calcolare serenamente di fronte alla propria condanna a morte”[4], qualcuno, quindi, con una tale
capacità di ragionamento euna tale coscienza, intesa come quel “qualcosa che è come una voce la
quale ogni volta che si fa sentire sempre dissuade da qualcosa e non mai persuade ad alcuna”[5],
da sottoporre a questi ogni azione e avvenimento e da essere libero da ogni forma di demagogia o
condizionamento.
Capace di essere libero dalla paura tanto da affermare, sempre dopo una condanna a morte, che
“nemmeno questa va temuta perché d’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro
luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene
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ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? Che se uno, giunto nell’ Ade, libero ormai da coloro
che si spacciano per giudici qui da noi, troverà colà i giudici veri, quelli appunto che nell’Ade si
dice esercitino officio di giudici”[6].
Qualcuno, forse l’unico, capace di affermare in un periodo come il V secolo a.C. cose come:”tutto
preso come sono da quest’ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa veruna
considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema miseria”[7]. Sarebbe opportuno
soffermarsi particolarmente su quest’affermazione. Socrate è preso da “un’ansia di ricerca”, ma che
cosa significa? Egli stesso, dopo il noto vaticinio dell’oracolo di Delfi, si impegna a ricercare
qualcuno più sapiente di lui poiché non crede di meritarsi la fama di “sapiente tra i sapienti”; non si
tratta dunque di un “ansia di ricerca” finalizzata esclusivamente a trovare una risposta in quanto
tale, ma piuttosto a dimostrare ancora una volta che Socrate stesso mette in evidenza la parte
“umana” e certamente umile di sé, e a dimostrare ulteriormente anche la costante analisi a cui
sottopone la propria persona.
Così facendo, ovvero nel voler smentire il vaticinio, non va inoltre assolutamente a sminuire la
figura e la valenza divina dell’oracolo; anzi, la sua ricerca e la consequenziale “ansia” sono a
testimonianza della serietà con cui Socrate pesa le parole dell’oracolo; se avesse creduto che questo
fosse cosa di poco conto non vi avrebbe dato tutta questa importanza.
Ora andiamo avanti: “non gli rimane tempo di fare cosa veruna per la città”. Nel V secolo a.C.,
periodo noto anche per la diffusione della corruzione nelle cariche pubbliche, è certamente difficile
trovare qualcuno che non desideri prender parte alla vita politica quando questa sta diventando la
massima aspirazione per quasi ogni cittadino. Ebbene Socrate dimostra di essere libero anche da
questo. Libero dalla corruzione e dalla brama di ricchezza.
Ricordiamo inoltre che Socrate, al contrario di come accade in quel periodo per i sofisti, non riceve
pagamenti. Infatti, a testimonianza di ciò e del suo disinteresse al denaro oltre che alle cariche
politiche, basta proseguire nella lettura della frase. Socrate non fa nulla nemmeno “per la sua casa”
e “vive in miseria”.
“Socrate è per noi il primo uomo che ha saputo vivere senza mai tradire le proprie convinzioni per
viltà o convenienza, ma sottoponendole costantemente all’esame critico della ragione per
verificarne la bontà ed esser certo così di affidare ogni sua scelta e azione al miglior ragionamento
di cui fosse capace.“E’ stato il primo che ha saputo condurre questa coerenza tra pensiero e azione
fino alle sue estreme conseguenze, senza indietreggiare nemmeno di fronte alla morte, e che su di
essa ha fondato la propria felicità rendendola incorruttibile”[8].
Per altri invece Socrate era tutt’altro; un vero e proprio libertino. C’è chi afferma propriamente che
“Socrate era in tutto libertino: innumerevoli furono anche i suoi amori per i giovani”9.
Questo è senz’altro il Socrate basato sull’idea di Aristofane.Infatti nelle sue Nuvole testimonia che
“Socrate è il concentrato dei nuovi vizi e saperi della cultura periclea” [10] e contestatore della
tradizione.
“Aristofane mette poi in atto nel contempo il naturalista empio che crede nelle divinità del Caos,
delle Nuvole e non in Zeus, prefigurando inoltre le accuse che gli saranno mosse vent’anni
dopo“[11].
Socrate avrebbe dunque utilizzato un certo modo di pensare e ragionare in realtà ingiusto; avrebbe
affascinato il popolo con i “nuovi saperi” per danneggiare la tradizione e per far prevalere dunque le
proprie ideee “capricci” sulle leggi.
Veniamo ora forse al principale punto per cui Socrate potrebbe essere considerato un libertino:
anche i suoi amori per i ragazzi furono innumerevoli.
Socrate dunque non si faceva pagare per i suoi insegnamenti, per quale motivo? Scambiava forse la
“propria sapienza con la loro bellezza”[12]?
Potrebbe essere dal momento in cui sappiamo che nell’antichità greca Socrate veniva accusato
diatopìa. Nel mondo greco e soprattutto in ambito filosofico quest’accusa è paricolarmente grave
poiché i Greci sono fortemente deterministi e tutto ciò che è a-tòpos, cioè senza un luogo, qundi
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indefinito, quindi inclassificabile, non si può misurare, non ha un limite, dunque è di per sé
imperfetto.
Socrate viene accusato anche di eironeìa. Accusato quindi di essere un dissimulatore; di essere
qualcuno che cerca di far credere agli altri di essere l’opposto di ciò che in realtà è: un uomo
palesemente sapiente che cerca di dimostrare di non essere sapiente e quindi, essendo colpevole di
eironeìa, l’eironeìa non può manifestarsi in un solo carattere dell’essenza umana, se come lo stesso
Socrate sostiene, attraverso queste ci si può avvicinare a più di una verità.
Dunque se Socrate è un dissimulatore della sua sapienza tenderà ad essere un dissimulatore in
assoluto e se tenderà ad essere un dissimulatore in assoluto non può che essere verità il fatto che lui
sia in relatà un “ammaliatore”[13] per il fatto che lui avesse un brutto aspetto fisico e che sembrava
volersi rendere brutto di proposito.
Potrebbero esserne una dimostrazione la suddetta Nuvole di Aristofane e anche un’altra commedia,
gli Uccelli, antichissima testimonianza: qui Aristofane conia perfino un verbo (esokràton) per
indicare l’atteggiamento di chi “socratizza”, di chi cioè, come Socrate, porta i capelli lunghi e dà
scarsa importanza alla pulizia del corpo[14].
E la tecnica dell’ èlenchos? Perché verificare le credenze di tutti? Perché turbare le menti dei
cittadini Ateniesi e, più in generale, dei Greci? Forse per condizionare ancora una volta tutti con le
proprie idee da far prevalere sulla tradizione? Dunque forse Socrate è solo un contestatore di una
parte più conservatrice; oltre che un libertino.
Diamo innanzitutto una definizione di libertino: “con il termine libertino viene generalmente
definita una persona che conduce una vita interamente dedita ai piaceri, che segue solo i propri
capricci, fino alla sfrenatezza senza alcuna intenzione di sottomettrsi alla morale dominante
corrente”[15].
Diamo ora una definizione di uomo libero:esente da costrizione o limitazione sul piano morale,
sociale, politico[16].
Come si può allora pensare di affermare che Socrate fosse un libertino? Analizziamo la definizione.
“Una persona che conduce una vita interamente dedita ai piaceri, che segue solo i propri
capricci”; Come scrive il filosofo contemporaneo Robert Nozick, “la scelta di Socrate di andare in
contro alla morte anziché salvarsi rinnegando ciò in cui credeva più profondamente ha reso la sua
morte una parte essenziale della sua vita (….) a Socrate dobbiamo il primo, e forse unico, esempio
di vita consacrata alla filosofia”.
Socrate consacra dunque, nel senso pienamente letterale della parola, la sua vita al volere del dio e
alla filosofia. E’ dunque libertinaggio, la filosofia? Socrate si comporta quindi da uomo libero, da
uomo esente da costrizione o limitazione sul piano morale; non da libertino.
Per quanto riguarda le “accuse” che gli vengono mosse per ciò che concerne l’atopìa e l’ eironeìa e
dunque le sue presunte frequentazioni con i giovani che soleva istruire vi è una spiegazione. Socrate
è il primo intellettuale greco a rompere l’ideale di kalokagathìa, ovvero di “bellezza” e “bontà”
(intesa anche come credibilità o saggezza) come qualità inscindibili. Nel mondo greco un
intellettuale che non rinetri in questo ideale, ovvero che sia saggio e non di bell’aspetto proprio
come Socrate, suscita certamente incredulità. I Greci, contemporanei e non solo, di Socrate
dovevano quindi “giustificare” il fatto che Socrate fosse un intellettuale che si collocasse al di fuori
dell’ideale di kalokagathìa . “Aristòsseno, per esempio,giustifica la capacità persuasiva di Socrate
con la voce”17, altri invece provarono a giustificare la cosa dicendo che in realtà Socrate “era come
i Sileni, brutti ma ammaliatori(….) brutto fuori ma con un tesoro celato al suo interno”[18] . “Infatti
la prospettiva è chiara e rispetta fin troppo bene quel fraintendimento dell’opinione pubblica a cui
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Assaggi di Filosofia
Socrate è andato tristemente incontro (….) l’accusa di dissimulazione che è rivolta a Socrate
deriva, quindi, da un fraintendimento della sua vera natura, che si interessa ai giovani per educarli
e prendersi cura della propria anima”[19]. Di questo abbiamo perfino una testimonianza diretta
dell’allievo Platone; infatti Socrate era solito esortare i giovani rivolgendosi a ognuno di loro: “tu
che sei di Atene, non ti vergogni di curarti delle ricchezze, della fama e dell’onore, mentre di
intelligenza e di verità e dell’anima, non ti curi ne ti dai pensiero?” [20] Socrate si comporta quindi
ancora una volta da uomo libero, seguendo i propri ideali con coscienza ed essendo esente da
costrizione o limitazione sul piano oltre che morale anche sociale; non da libertino.
Andiamo avanti nell’analizzare la definizione di libertino. “Senza alcuna intenzione di sottomettersi
alla morale dominante corrente”. Socrate, come abbiamo precedentemente dimostrato, è
sicuramente una personalità di estrema coerenza morale. Nonostante la scelta di portare avanti i
suoi ideali, Socrate sceglie comunque di morire sotto una legge, quindi una morale corrente, pur
non condividendola. Socrate riesce incredibilmente aconciliare la lotta per i propri ideali con il
rispetto delle leggi, accettando con grande dignità e coraggio il fatto che, dopo aver sempre e
comunque contestato la sua condanna e dopo aver difeso sé stesso e i propri ideali con prove e
testimonianze concrete, i giudici, e quindi la legge del tempo, avessero deciso di non assolverlo.
Così anche se voi ora mi lasciaste libero di andare, non prestando fede ad Anito(….) se in rapporto
a ciò mi diceste: “Ora, Socrate, non presteremo fede ad Anito e ti lasceremo libero, a questa
condizione però che non devi più passare il tuo tempo in questa ricerca né a filosofare(….) io vi
risponderei:” O uomini di Atene, nutro per voi gratitudine e affetto, ma ubbidirò al dio piuttosto
che a voi, e fintanto che avrò respiro e ne sarò capace, non cesserò di fare filosofia, di esortarvi e
di esprimere il mio pensiero[21]. Socrate si comporta, ancora una volta, da uomo libero: capace di
essere esente da costrizione o limitazione sul piano morale, sociale e politico. Non da libertino.
In conclusione, dopo aver analizzato entrambi i punti di vista e dopo aver confutato il secondo
possiamo affermare che Socrate non era dunque un libertino e che, nonostante a volte sia
complesso, è possibile anzi addirittura necessario individuare il confine che divide la libertà e il
libertinaggio per evitare interpretazioni equivoche.
10
Assaggi di Filosofia
Note
[1]
U. Eco; Storia della Filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R.
Fedriga, editori Laterza pag. 57
[2]
Ibidem; pag. 77
[3]
Idem
[4]
U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R.
Fedriga, editori Laterza pag. 57
[5]
Platone; Apologia di Socrate, editori Laterza
[6]
Ibidem, pag.61.
[7]
Ibidem, pag. 21.
[8]
U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R.
Fedriga, editori Laterza, pag. 57
[9]
P. Pasolini, racconti corsari
[10]
R. Fedriga; Storia della filosofia 1. Dall’ antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R.
Fedriga, editori Laterza, pag. 78
[11]
Idem
[12]
U. Eco; ibidem, pag. 79
[13]
Idem
[14]
Ibidem; pag. 80
[15]
Treccani online
[16]
Idem
[17]
R. Fedriga; Storia della filosofia1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R.
Fedriga, editori Laterza, pag. 78
[18]
Idem
[19]
R. Fedriga; Ibidem
[20]
Platone; Aplogia di Socrate, editori Laterza
[21]
Idem
Bibliografia
Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori
Laterza
Apologia di Socrate; Platone, editori Laterza
Racconti Corsari; P. Pasolini
Treccani, enciclopedia online; www.treccani.it
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Assaggi di Filosofia
Aldilà delle apparenze:
giusto o sbagliato?
Di Francesca De Falco
È forse giusto smentire ciò che è dato per vero?c’è un limite tra il giusto e il sbagliato? È la causa o
il fine che ci permette di stabilirlo? Forse a cause giuste corrispondono giuste verità? O ad un giusto
fine? O per meglio dire, il fine giustifica i mezzi?
Il problema sta proprio qui, nello stabilire il limite tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma ancora
prima stabilire il significato di “giusto” poiché ciò che è giusto per il singolo non è necessariamente
giusto per la collettività e viceversa.
Consideriamo “giusto” e “sbagliato” dunque semplici convenzioni ma facciamo però un piccola
distinzione: distinguiamo un ‘’giusto impuro”, subdolo, con un fine scorretto per la collettività, e un
“giusto puro’’, volto con sincerità a mettere in luce una verità quanto più obiettiva possibile(in
quanto vera per il popolo),per così dire, alla maniera di Socrate.
Ora, sulla base di questa considerazione, si può dire che il lavoro dei sofisti è estremamente
corrotto, scorretto, ‘’ingiusto”?
e se li considerassimo semplicemente un effetto, piuttosto che la causa, di quel clima storico e
politico caratterizzato certamente da immoralità?
Magari dietro al loro uso ‘’scorretto’’ della retorica viveva un forte sentimento di adattamento a
quello scenario di vita devastato. Una sorta di arresa di fronte alle difficoltà quotidiane, un modo
per non alimentare problemi già presenti e riportare una pace che sia più che altro una sicurezza
apparente. E con tutto ciò, sicuramente, anche un conseguente desiderio di ricavarne qualcosa di
materiale, uno stipendio che gli permetteva di tirare avanti. Così i sofisti non sono “sapienti
ingiusti” e nemmeno politici, ma sono proprio a metà strada tra l’una e l’altra cosa.
Basti pensare a Gorgia, che affermando“Elena è senza colpa”1, per discolparla presenta una serie di
implicazioni logiche secondo le quali Elena non è realmente rea del conflitto tra i greci e i troiani.
L'encomio è una dimostrazione della forza della parola che è capace, mediante un opportuno
utilizzo, di ribaltare il convincimento popolare, risultato di secoli di tradizioni, a proprio
piacimento. Ma perché pensare che fare le cose “a proprio piacimento” sia necessariamente una
cosa negativa? Ovviamente non è detto!
Elena è innocente, poiché il movente del suo gesto è esterno alla sua responsabilità e può aver agito
per questi motivi:Per decreto degli dèi, oppure non si era potuta opporre al fato, o era stata rapita
con la forza, o era stata persuasa dalle parole di Paride, o era stata vinta dalla passione amorosa,o
anche per volere della sorte. Nel primo caso Elena non ha colpa, in quanto nemmeno gli dèi stessi
potevano opporsi al Fato. Se rapita, Elena è una vittima, e la colpa va data a Paride. Di nuovo, se
innamorata, Elena è una vittima, poiché fu Afrodite a farla innamorare, come ricompensa a Paride
per averla giudicata vincitrice della Mela d’oro. Infine, se persuasa dalle parole, ancora una volta è
da ritenersi innocente, soprattutto se queste sono pronunciate da un abile oratore.
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Assaggi di Filosofia
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Sempre per far percepire la potenza delle parole, il potere “d'ingannare”che esse celano, Gorgia
conclude ad effetto dicendo che la sua opera vale sì a difesa di Elena, ma per lui solo come gioco
dialettico.
È questo certamente un pericolo ma ad ogni modo è un arma e per questo motivo è più facile
criticare i sofisti piuttosto che riconoscergli una bravura e\o una debolezza che, come dicevamo
prima, è dovuta all’immoralità che li circonda che li spinge ad arrivare ad un fine “giusto e impuro”.
Centinaia e centinaia di critiche dovute specialmente arrivati ad una domanda essenziale: Giusto per
chi?e come prima si provava a dire, può essere giusto per la collettività, per un singolo e magari per
entrambi a seconda dell’ottica morale: relativa o assoluta
Diverse cose possono essere dette circa le argomentazioni sul relativismo morale (quello dei sofisti
ad esempio) che evidenziano la loro dubbiosa natura. In primo luogo, molte argomentazioni a
supporto del relativismo possono sembrare,inizialmente, buone, ma c’è poi una contraddizione
logica in esse, in quanto propongono uno schema morale “giusto”, il quale tutti dovremmo seguire.
Essi non direbbero che un assassino o un violentatore sia libero dalla colpa fino a che non ha violato
i “suoi” propri standard. Solitamente i relativisti argomentano che i differenti valori nelle varie
culture mostrano che la morale è relativa a seconda delle persone. Ma tale argomentazione
confonde le azioni degli individui con standard assoluti. Se è la cultura a definire ciò che è giusto e
ciò che è sbagliato, come avremmo potuto giudicare i nazisti? Dopo tutto essi stavano solo
seguendo la moralità della loro cultura. Si può affermare che il nazismo fu moralmente sbagliato
solo se l’omicidio è ritenuto universalmente sbagliato. Il fatto che essi avevano la “loro” moralità
non cambia nulla. Piuttosto siccome molte persone hanno diverse pratiche di moralità, condividono
una moralità comune. Ad esempio, aborzionisti e anti-aborzionisti sono d’accordo sul fatto che
l’omicidio sia sbagliato, ma non sono d’accordo sul fatto se l’aborto si possa considerare omicidio.
Ma il relativismo in questo caso non contamina l’assolutismo di partenza portando a due questioni
divergenti?
Alcuni ritengono che cambiare le situazioni porta ad un cambiamento della moralità, ma le varie
scelte morali in diverse situazioni, possono rivelarsi non adatte in altre circostanze. Ci sono tre
differenti cose per le quali possiamo giudicare un’azione: la situazione, l’azione e l’intenzione e ciò
dovrebbe farci capire che per trovare un giusto quanto più possibile equilibrato bisognerebbe
trovare il punto medio fra queste due morali.
Contrapposto ai sofisti come assolutista c’è Socrate. “Esiste un solo bene, la coscienza, e un solo
male, l’ignoranza”3. In un’unica frase ci spiega il pensiero degli assolutisti, ma quanto è corretto
questo criterio per stabile la giustizia o meno di una cosa? Non molto direi!
Certamente ora non si vuole eliminare l’immagine da paladino della giustizia generalmente
attribuita a lui, si vuole offrire solo un invito a riflettere. Socrate non scrisse nulla per rendersi in
parte inattaccabile dall’aristocrazia pronta a farlo fuori. Possiamo vederla così e possiamo dire che
magari anche lui, andando contro i ricchi e i potenti, rischiava molto facilmente di essere accusato
ed era un modo per potersela cavare qualora qualcuno l’avesse accusato.
Lettori, questa è una grossa questione e poi: se era veramente così sicuro del suo assolutismo,
perché celarsi dietro parole dette e annotate da qualcun’ altro? Non lo rende più attaccabile questo?
13
Assaggi di Filosofia
Se il suo intento era quello di portare avanti le sue idee contrastanti ma “giuste”, che senso aveva
non renderle leggibili a tutti? E se considerassimo il suo atteggiamento così ostile agli aristocratici
solo come un modo per crearsi un’immagine rivoluzionaria e indelebile?
4
I problemi che egli poneva erano sicuramente esistenti ed effettivamente nel suo modo di
rispondergli si riscontra una certa efficacia, ma anche la sua bravura doveva derivare da un’arte
retorica che in generale, parlando dei sofisti,si tende a condannare anche con una certa superficialità
dal momento che ,come abbiamo visto con l’encomio di Elena, non si è poi rivelata negativa
andando comunque contro una secolare tradizione.
Se si vuole considerare Socrate come colui che andando aldilà delle apparenze ha fatto cose giuste e
i sofisti come coloro che invece hanno fatto cose sbagliate ci inseriremmo in quella fascia di
superficiali che riescono a stabilire cos’è giusto e cosa no che vedono nella difesa della
maggioranza una giustizia il che, sia chiaro, è una cosa corretta, soprattutto in quel periodo in cui i
sofisti sembravano adagiarsi su quella situazione socio-politica, ma non è assoluta come cosa dal
momento che si da per certo che al contrario i sofisti ne abbiano fatto solo ed unicamente un uso
scorretto.
Note
1. Gorgia da Lentini, “L’encomio di Elena”.
2. Faccia A di un cratere a campana apulo a figure rosse, Elena e Paride, 380-370 a.C.
3. Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”.
4. Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1833.
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Assaggi di Filosofia
La concezione della morale in Socrate
Di Andrea Pascale
Introduzione
L’argomento di questo piccolo saggio è la concezione etica di Socrate. L’obiettivo è quello di
approfondire la conoscenza di tale concezione attraverso la presentazione di posizioni a sostegno e
contro. Cercheremo di capire se le accuse a Socrate di intellettualismo e di formalismo, nonché di
soggettivismo, siano o no giustificate.
1.Tesi
Per Socrate: virtù=sapienza e vizio=ignoranza; la virtù si identifica nella ricerca del sapere, una
conoscenza frutto di un lavoro di introspezione e di confronto con gli altri.
La virtù non è data alla nascita, ma si conquista con un faticoso lavoro interiore: questa tesi, in
comune con i sofisti, non apre al relativismo più spregiudicato, come avviene in questi ultimi,
perché Socrate comunque sente la necessità di una precisazione dei concetti. Grazie agli strumenti
di lavoro filosofico da lui proposti (l’ironia, il metodo delle definizioni, il ragionamento induttivo)
Socrate non abbandona l’ascoltatore nella confusione, ma lo invita a lasciare da parte le false
credenze, a cercare, a basarsi sull’esperienza diretta, a puntualizzare i concetti.
La virtù è una forma di sapere, un prodotto della mente: Socrate crede fermamente che riflettere
criticamente sull’esistenza sia l’unico modo per intendere ciò che è giusto e ciò che non lo è. Per
Socrate non bisogna agire secondo la tradizione o credendo di essere nel vero, ma bisogna dialogare
con se stessi e confrontarsi con gli altri per capire “quando è bene fare questa o quella azione, che
diviene buona quando so che, ora, è bene farla”1.
Il bene e la giustizia non sono entità metafisiche, ma valori umani frutto di una riflessione
consapevole che porta a conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie possibilità.
La vita è un’avventura disciplinata dalla ragione. Proprio per questo, la virtù può essere insegnata e
comunicata a tutti.
La virtù, secondo questo punto di vista, è unica perché tutte quelle che gli uomini chiamano virtù
non sono altro che modi di essere di quella scienza del bene che Socrate riconosce come unica
guida nell’esistenza. Per Socrate i valori veri non sono né la potenza e la ricchezza, né la forza
fisica e la bellezza, ma i valori dell’anima che si identificano nella conoscenza. Questo non vuol
dire un rifiuto dei valori “mondani” , ma la loro subordinazione alla virtù della conoscenza, perché
solo attraverso di essa si può raggiungere l’utile e la vita felice. Per Socrate la virtù non è rifiuto
dell’esistenza, ma calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita.
La virtù è anche l’arte della convivenza e del dialogo: per questo motivo Socrate ritiene importante,
oltre al dialogo interiore, anche il confronto con gli altri, in quanto l’uomo è un essere sociale e il
suo bene non può essere in contrasto con il bene degli altri.
Pensiero di collegamento
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Assaggi di Filosofia
Analizzeremo adesso tutte le critiche alla posizione di Socrate: l’accusa di intellettualismo etico, di
formalismo etico e di soggettivismo o relativismo morale.
2.Antitesi
Accusa di intellettualismo etico: nella visione socratica sembra che l’aspetto cognitivo-razionale del
comportamento umano sia sopravvalutato rispetto alla parte istintivo-affettiva. Spesso gli esseri
umani predicano bene, ma “razzolano male” proprio a causa di forze interiori che si oppongono al
giusto agire elaborato attraverso il processo di conoscenza, proposto da Socrate come unico mezzo
per perseguire il bene. Ad opporsi alla visone socratica sono sia i filosofi cristiani, che non
condividono la fiducia socratica nell’uomo e non intendono ignorare la potenza delle passioni
“maligne” rispetto alle buone intenzioni, sia tutti coloro che rivendicavano un ruolo importante alla
parte irrazionale dell’uomo(le emozioni e i sentimenti) nel determinare l’agire umano. Socrate viene
accusato da questi ultimi di ignorare la profonda spinta vitale che viene dalla nostra parte
“animale”.
Un’altra accusa fatta a Socrate è quella di formalismo etico. Si accusa Socrate di non arrivare a
nessuna conclusione pratica riguardo l’agire concreto, ma di offrire solo un’indicazione sul come
perseguire la virtù-sapere, rischiando di favorire un anarchismo morale e un soggettivismo
comportamentale.
Proprio di soggettivismo o relativismo morale viene ancora accusato Socrate per via del fatto di non
fornire saldi criteri etici, ma di abbandonare l’uomo alle sue vicissitudini. Il rifiuto sistematico di
elaborare dei principi etici validi una volta per tutte poteva, secondo i critici di Socrate, instaurare
un regime di totale amoralità.
La visione di Socrate, pur essendo stata accostata nei primi tempi del Cristianesimo alla visione
cristiana e Socrate stesso visto come un’anticipazione della figura di Cristo, diviene comunque
oggetto di critiche da parte dei Padri della Chiesa per il suo modo di intendere la verità più come
ricerca che come possesso di un sapere assoluto. Tertulliano, per esempio, sostenendo che non è
possibile scoprire la verità al di fuori di Dio, si oppone ad ogni uso della ragione che non riconosca
in primo luogo l’importanza della “rivelazione”. Contro la “curiositas” dei filosofi, Tertulliano
propone un uso della ragione al servizio della messaggio cristiano.
Altra critica contro il razionalismo etico di Socrate viene da Nietzsche, il quale attacca l’equazione
virtù=sapienza=uso della ragione perché, secondo lui, questo atteggiamento porterebbe a un
dominio spietato della razionalità sulla forza vitale della natura presente in ogni essere vivente.
Secondo Nietzsche, Socrate, sottomettendo l’istinto, le forze dell’inconscio, la spinta vitale della
parte animale dell’uomo al dominio della ragione avrebbe sottratto all’uomo la sua parte più
autentica dando inizio alla decadenza della cultura occidentale.
Anche la psicanalisi ha da ridire sul primato della ragione proposto da Socrate. Evidenziando il
ruolo fondamentale delle forze inconsce e delle pulsioni nella dinamica psichica, Freud sembra
assestare un colpo mortale alla fiducia socratica nella possibilità di una gestione ragionevole del
comportamento umano. La psicoanalisi mette in rilievo il continuo fallimento della volontà
razionale nel tentativo di venire a capo delle spinte istintuali. Il processo di civilizzazione dell’uomo
per Freud è sempre accompagnato da un disagio.
Pensiero di collegamento
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Assaggi di Filosofia
Cercheremo adesso di proporre argomenti capaci di confutare l’antitesi che abbiamo proposto
3. Confutazione dell’antitesi
Alla visione rigida e dogmatica di una verità del Cristianesimo intesa come possesso della verità si
può contrapporre la visione di Kierkegaard che considera invece Socrate come il filosofo più vicino
allo spirito cristiano col quale addirittura si identificherebbe. Per Kierkegaard l’ironia, esprimendosi
nel paradosso antidogmatico, dà la possibilità all’uomo di esporsi a se stesso e quindi di incontrare
Dio. Kierkegaard, identificandosi con Socrate, vuole svuotare il Cristianesimo dal suo contenuto
dottrinale e riportarlo a Cristo e alla sua spiritualità. Come per Socrate, anche per Kierkegaard la
filosofia non deve limitarsi a un aspetto puramente astratto e definitorio, ma deve incidere nel
profondo non solo di chi la ascolta, ma anche di chi la esprime e, in un certo senso, l’impersona. La
filosofia cioè, è anche pratica di vita. Come Cristo anche Socrate con la sua parola ha trasformato la
vita di chi lo ascoltava e ha impegnato la sua vita sino alla morte per mantenersi fedele a quanto
sostenuto. Proprio questa “coerenza” è il giusto antidoto al nichilismo morale, cui giungevano i
sofisti come frutto dell’esercizio sistematico del dubbio e di cui anche Socrate talvolta è stato
tacciato. Per Socrate in realtà l’esercizio della razionalità si articola in due momenti: prima un
momento dubitativo(dialettica), dove “dubitare”, cioè discutere e mettere in discussione, diviene la
norma, poi un momento limitativo aggiuntivo (coerenza) dove essere coerenti vuole dire bloccare,
fino a nuova evidenza contraria, l’infinita catena di dialettizzazione delle credenze.
Quanto alle accuse di soggettivismo e di relativismo, Merleau-Ponty nel suo ”Elogio della
filosofia”, richiamandosi a Socrate, scrive: ”il filosofo moderno è spesso un funzionario, ed è
sempre uno scrittore; e la libertà che gli è concessa per i suoi libri ammette una controparte: ciò
che dice entra immediatamente in un universo accademico nel quale le scelte di vita sono attutite e
le occasioni di pensiero sono velate.(…) Ora, la filosofia deposta nei libri ha cessato di interrogare
gli uomini. Ciò che in essa vi è di insolito e di quasi insopportabile si è nascosto nella vita decorosa
dei grandi sistemi”2. Invece tutta l’esperienza di Socrate, la sua vita e la sua morte sono la storia dei
suoi difficili rapporti con la città, con gli altri, con le leggi, con la divinità.
Anche Jankélévitch nel suo “L’ironia” invita a lasciarsi tentare dall’appello socratico al filosofare, a
prendere tutto sul serio con quel distacco che non significa indifferenza, ma il pudore del pensiero,
che ripropone ogni volta il dubbio su quei piccoli territori di sapere che crediamo di volta in volta di
avere conquistato alla certezza. Per Socrate l’ironia non è un’evasione ludica, ma uno stratagemma
per avvicinare il cuore delle cose, per cercare di rispondere all’interrogativo “che cos’è la virtù?”,
qual è l’eccellenza dell’essere umano. Scrive Jankélévitch “la nostra ingenuità ha una prodigiosa
resistenza. Non servono a nulla né la derisione, né l’insuccesso, né i lunghi inverni della diffidenza:
poiché il primo tepore primaverile ci ritrova sempre così follemente smemorati. È il mistero di una
generosità inesauribile che, ogni volta delusa, ritrova ogni volta la freschezza dell’infanzia. Sono i
giochi dell’amore e dell’ironia. L’ironia e l’amore girano in tondo senza tregua, l’una inseguendo
l’altro, secondo il ciclo delle morti e delle rinascite”3.
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Assaggi di Filosofia
4. Conclusioni
Per concludere non c’è nulla di meglio che citare P. Hadot, uno dei massimi specialisti della
filosofia antica, che nel suo “Elogio di Socrate” scrive: “… al di là del movimento dialettico del
logos, il cammino che Socrate e l’interlocutore percorrono insieme, la volontà comune di trovarsi
d’accordo, partecipano già dell’amore, e la filosofia sta assai più in questo esercizio spirituale che
non nell’elaborazione di un sistema. Il compito del dialogo consiste anzi, essenzialmente, nel
dimostrare i limiti del linguaggio, l’impossibilità per il linguaggio di comunicare l’esperienza
morale ed esistenziale. Ma il dialogo stesso, in quanto evento, in quanto attività spirituale, è già
sempre un’attività morale ed esistenziale. Sta di fatto che la filosofia socratica non è elaborazione
solitaria di un sistema, ma risveglio di coscienza, accesso a un livello dell’essere, che non possono
realizzarsi che nell’ambito di un rapporto da persona a persona”4. In sostanza non c’è nulla di più
morale che l’interrogarsi quando è necessario, il più spesso possibile, su che cosa sia morale, cioè
giusto, e non solo per me o per la mia cerchia di amici e conoscenti, ma per tutta l’umanità. Nulla è
più urgente nel mondo di oggi, se si vuole che la globalizzazione non diventi una occasione per
ulteriori violenze tra culture, ma apertura verso l’altro al fine di creare spazi di convivenza nella
libertà e nel rispetto di tutti.
Note
1.F. Adorno: “I Sofisti e Socrate”, Loescher, Torino 1962, pp. XLIV-XLV.
2. M. Merleau-Ponty: “Elogio della filosofia”, 1953, p. 42.
3.V. Jankélévitch: “L’ironia”, 1964, p. 184.
4.P. Hadot: “Elogio di Socrate”, 1974, p. 46.
Bibliografia

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F. Adorno: “I Sofisti e Socrate” Loescher, Torino 1962.
M. Merleau-Ponty: “Elogio della filosofia” , 1953.
V. Jankélévitch: “L’ironia”, 1964.
P. Hadot: “Elogio di Socrate”, 1974.
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Assaggi di Filosofia
Chi è l’uomo giusto?
Di Matteo Russo
Introduzione
In una società corrotta come quella di Atene nel V secolo, affetta da una profonda crisi, non
economica ma morale, chi può essere considerato un uomo giusto? Ma soprattutto, come tale uomo
riesce a convivere con il contesto che lo circonda?
Se oggi si cercasse il significato di questo aggettivo su un qualsiasi dizionario, si
troverebbe:“persona che conforma i propri giudizi e comportamenti a criteri di equità, di
imparzialità, fondata su ragioni moralmente valide, ispirata a ciò che è (giudicato) bene o
congruente con quanto la legge richiede.”1
È quasi incredibile come questo aggettivo si adatti perfettamente a Socrate, un uomo di 2500 anni
fa, capace di porre la giustizia davanti a tutto, anche alla sua stessa vita. Eppure la polis ha votato
per la morte di un uomo giusto, condannato per le sue idee: come è potuto accadere? E' certamente
uno schiaffo per l'etica. Un uomo giusto come Socrate è stato ucciso dalla polis nel pieno rispetto
delle leggi vigenti. Se la giustizia è solo la legge che conveniamo di darci, dobbiamo ammettere che
l'uccisione di Socrate è avvenuta secondo il diritto. Ma essa è giusta? Naturalmente la coscienza
morale si ribella di fronte ad un simile caso: non siamo forse alla ricerca di un autentico valore
oggettivo, superiore alle leggi?
1.Inquadramento e pensiero di Socrate
Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404
a.C. La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci
sui Persiani (battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle
seguirà, dopo il 404 a.C. con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita
di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino.
Probabilmente Socrate era di famiglia benestante, di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici
non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté
comeoplita nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel
dialogoSimposio di Platone che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta,
rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne
diguerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né
mantello.Nel 406 come membro del Consiglio dei Cinquecento (Bulé), Socrate fece parte
della Pritania quando i generali della battaglia delle Arginuse furono accusati di non aver soccorso i
feriti in mare e di non aver seppellito i morti per inseguire le navi spartane. Socrate ricopriva la
carica di epistate e unico nell'assemblea si oppose alla richiesta illegale di un processo collettivo
contro i generali. Nonostante pressioni e minacce bloccò il procedimento fino alla conclusione del
suo mandato quando infine sei generali ritornati ad Atene furono condannati a morte.
Nel 404, i Trenta Tiranni ordinarono a Socrate e ad altri quattro cittadini di arrestare il
democratico Leone di Salamina. Socrate si oppose all'ordine e la sua morte fu evitata solo dalla
successiva caduta dei Tiranni. Il nuovo regime democratico voleva riportare la città allo splendore
dell'età di Pericle instaurando un clima di pacificazione generale: infatti non perseguitò, com'era
abitudine, i nemici del partito avverso ma concesse un'amnistia. Si voleva tornare a creare in Atene
una compattezza e solidarietà sociale riproponendo ai cittadini gli antichi ideali e i principi morali
che avevano fatto grande Atene. Ma nella città si diffondeva l'insegnamento, seguito con
entusiasmo da molti, specie da giovani, dei sofisti i quali invece esercitavano una critica corrosiva
di ogni principio e verità che si volesse dare per costituita dalla religione o dalla tradizione.
19
Assaggi di Filosofia
Platone descrive Socrate come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che
era come quelle teche apribili, installate di solito ai quadrivi, raffiguranti spesso un satiro che
custodivano all'interno la statuetta di un dio. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate,
fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava
a discutere con lui. Egli non intende comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma soltanto
stimolare l’ascoltatore a ricercarne una personale dentro se stesso. Da ciò il metodo maieutico, o
arte del far partorire, di cui parla Platone dicendo che Socrate aveva ereditato dalla madre la
professione di ostetrico. Così come costei, essendo levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini,
allo stesso modo Socrate, ostetrico di anime, aiutava gli intelletti a partorire il loro genuino punto di
vista sulle cose : “La mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne differisce
in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai
corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la mente
del giovane partorisce fantasticheria o menzogna, oppure cosa vitale e reale. Poiché questo ho di
comune con le levatrici, che anch’io sono sterile, sterile di sapienza; e il biasimo che già tanti mi
hanno fatto, che interrogo sí gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio
pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi
costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che
sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo;
quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto
ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio
glielo permetta, straordinario profitto: come essi stessi e gli altri ritengono. Ed è chiaro che da me
non hanno imparato nulla, bensí proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e
generato.”2
In queste parole, dalle quali scaturisce anche il concetto della verità come conquista personale e
della filosofia come avventura della mente di ciascuno, si evince non solo la sua umiltà ma anche
uno dei principi fondamentali della pedagogia : la vera educazione è sempre autoeducazione, infatti
per Socrate il significato profondo del proprio essere uomo è conoscere se stesso. Socrate inoltre
dice che i valori veri non sono legati a cose esterne come la ricchezza, la fama, la potenza, ma quelli
più importanti sono quelli legati all’anima e sono i valori della conoscenza.
L’uomo virtuoso è felice perché il non-virtuoso, che non ragiona, si abbandona agli istinti, alle
passioni che con il tempo lo rendono infelice. La virtù, cioè “l’arte di saper vivere”, dato che
l’uomo è un essere sociale, cioè che è sempre con altri uomini, diventa “l’arte di saper vivere con
gli altri”. La virtù diventa quindi politicità. Chi fa il male lo fa solo perché non sa quale è il vero
bene. Infatti ogni persona agisce pensando a ciò che “per lui” è bene. Quindi il male è figlio
dell’ignoranza.
2.Protagora. La verità utile: un insulto per la coerenza
Il relativismo morale dei sofisti poteva condurre alla tesi dell’equivalenza ideale delle opinioni, cioè
alla dottrina secondo cui, in teoria, tutto è vero. Protagora si è interrogato a lungo sul principio di
scelta di tutte le verità ed ha affermato che l’unico criterio di scelta al quale l’uomo può attenersi è
il principio “debole” dell’utilità privata e pubblica delle credenze. In tal modo, alla concezione
oggettivistica e universale della verità, secondo cui il vero è qualcosa di già dato e scoperto una
volta per sempre, che si impone a tutti allo stesso modo, Protagora sostituisce una concezione
umanistica, secondo cui la verità è l’umanamente verificato come giovevole, ossia ciò che si è
dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo. Inoltre, nella teoria protagorea si può
scorgere anche un lungimirante invito a mettersi d’accordo almeno su ciò che, al di là delle varie
credenze o convinzioni ideali, può e deve unire gli individui e i popoli: la pubblica utilità. Quindi
l’uomo protagoreo, al contrario di Socrate, è pronto a macchiare la propria coerenza scegliendo una
verità che si adatta al contesto in cui vive al fine della propria sopravvivenza nella società.
20
Assaggi di Filosofia
3.Platone. “L’uomo giusto non ha bisogno di leggi”
Platone era rimasto deluso dalla democrazia ateniese, colpevole di aver condannato a morte il suo
cittadino più giusto, Socrate.Proprio per questo, l’ispirazione fondamentale della filosofia platonica
è di natura politica e mira a realizzare il miglior governo, lo Stato ideale, in cui l’uomo giusto possa
essere considerato per ciò che merita. Tuttavia Socrate, per un tragico paradosso, è l’uomo giusto
che è stato vittima della legge. Questa vicenda fa sorgere la domanda: non sarebbe stato meglio,
allora, che Socrate - condannato sulla base di false accuse - si sottraesse alla pena capitale nel
rispetto della vera giustizia? A questo punto Platone sembra quasi disposto a giustificare il fatto che
non si obbedisca ad uno Stato che, come la democrazia ateniese, manda a morte il suo cittadino
migliore. Ciò perché il buon cittadino non è colui che si sottomette supinamente alla legge positiva
ma chi osserva innanzitutto la legge giusta, quella dettata dalla visione del Bene: le leggi non sono
state fatte da una divinità, non sono insindacabili, bensì sono state fatte dagli uomini che per natura
non sono perfetti
e possono essere influenzati dai fattori che li circondano.
Platone, dunque, considera intollerabile che la legge positiva si mostri tanto distante dalla vera
giustizia. Di fronte a questo stesso problema, Socrate aveva insegnato che il compito degli uomini è
quello di rispettare sia la legge positiva sia la legge morale. Quando accade che il cittadino debba
contestare,o disapplicare, una legge emanata dallo Stato perché il suo demone gliene riveli
l’ingiustizia, egli deve farlo accettando di pagare la pena che il suo atto comporta. In tal modo
rispetterà la legge morale senza violare la legge positiva, la quale pur con le sue imperfezioni è
necessaria perché la città non precipiti nella barbarie.
“Vada come sta a cuore al dio. Alla legge si obbedisce. Difendersi si deve.”3
Ma Platone va oltre questo insegnamento. Per lui si tratta di impedire la possibilità stessa che una
legge condanni un uomo come Socrate e, quindi, occorre trovare il modo di far coincidere la legge
morale con la legge positiva. Ciò è possibile se si affida il compito di governare a uomini che siano
del tutto integri ed onesti: essi sono i filosofi, “custodi perfetti” , che posseggono il senso dello
Stato e l’idea del bene comune. Sono loro gli “uomini giusti” che non hanno bisogno delle leggi per
agire bene e, proprio per questo, sono i più idonei a creare le leggi giuste in grado di salvare la città
dagli abusi e dagli appetiti dei più forti. La città ideale di Platone è quindi necessariamente
aristocratica, in quanto governata da coloro che risultano essere i migliori nello svolgere tale
compito. Ma è anche ideocratica perché in essa ognuno svolge le mansioni in cui è competente. I
custodi perfetti devono infatti governare la città in quanto solo essi hanno appreso come non
lasciarsi trascinare dai piaceri e sanno come attuare la giustizia; gli altri cittadini dovranno svolgere
le attività per cui sono stati preparati.Si dice spesso che la repubblica platonica sia un’utopia, e
anche la sua massima (“l’uomo giusto non ha bisogno di leggi”) non ha trovato molti consensi, né
nella società greca del IV secolo avanti Cristo e ancor meno al giorno d’oggi. Platone è troppo
pessimista: egli vede la legge come qualcosa di necessario per punire coloro – e sono la
maggioranza - che non sanno comportarsi da cittadini onesti, perché non hanno l’idea della
giustizia. Ma è anche troppo ottimista, perché crede che esistano uomini infallibilmente giusti, che
conoscono il Bene. Oggi ci sembra più ragionevole affidare la formazione delle leggi all’intera
collettività, perché è accaduto spesso che ciò che veniva considerato giusto da pochi “illuminati”
sfociasse, con le migliori intenzioni, in un danno per l’intera comunità. Per questo il cittadino
esemplare ci sembra Socrate che mette il suo senso di giustizia e la sua coscienza morale al servizio
delle leggi della città - perché possano essere discusse e anche perfezionate - e non pretende, come
il suo grande discepolo, di essere il depositario della verità e la fonte della legge.
4.L’uomo più giusto mandato a morte
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Assaggi di Filosofia
Nel suo ultimo intervento, dopo il verdetto, Socrate fa notare le conseguenze del responso ai
giudici a lui avversi: egli, già molto avanti negli anni, sarebbe morto da sé entro poco tempo. Con la
condanna a morte, gli ateniesi avrebbero avuto fama di aver ucciso Socrate, uomo sapiente, anche
se tale non si considerava. Socrate sa che sarebbe stato considerato un martire dai suoi amici, e che
molti ne avrebbero seguito le orme: se prima era uno, a punzecchiare i potenti di Atene, in seguito
si sarebbero moltiplicati; il solo modo che i potenti avrebbero potuto avere di contrastare questi
"tafani”, sarebbe stato adoperarsi a conseguire la virtù, come ha fatto Socrate: egli non solo non ha
implorato pietà, ma non ha neppure usato belle parole, falsi argomenti e citazioni – proprie
dei sofisti – per ingannare i giudici: egli si è rimesso al loro giudizio per quel che è. Ai giudici che
votarono in suo favore egli rivolse ancora qualche parola. Né quando uscì di casa per recarsi al
tribunale, né durante tutta la sua difesa, il daimon gli impedì di parlare, come era suo solito quando
Socrate errava: egli stava agendo nel giusto, pertanto il destino gli avrebbe offerto dei beni: ma
quali beni può portare una condanna a morte? In questo caso, la morte sarebbe stata un piacevole
sonno, profondo e senza sogni o un ritrovarsi nell'Ade con i più grandi eroi dell'antichità; Socrate
non si smentisce, pensando al piacere che avrebbe provato in questo caso a esaminarli uno per uno,
per scoprire chi fosse sapiente e chi non lo fosse.
“Cerchiamo anche per altra via di vedere come c’è molto da sperare che la morte sia un bene.
Morire infatti è una delle due cose: o è un precipitare nel nulla, per cui il morto non ha più
sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione dell’anima da
questo luogo ad un altro. Quanto ame,se tali cose sono vere, preferirei morire mille volte. Oh!
Qualemeravigliosa conversazione sarebbe la mia quando mi imbattessi in Palamede e Aiace il
telamonio e in qualche altro dei tempi antichi morto per ingiusto giudizio! Raffronterei la mia sorte
alla loro; e ciò penso sarebbe per me motivo di dolcezza. E soprattutto amerei trascorrere il tempo
ad esaminare ed interrogare quelli di là, come sono solito esaminare questi di qua, per scoprire chi
di loro è sapiente e chi invece crede di esserlo e non lo è affatto. Quanto, infatti, non pagherebbe
ciascuno di voi, o giudici, per interrogare colui che guidò l’esercito contro Troia, o Ulisse, o Sisifo,
o tanti altri uomini e donneche potrei nominare? Quale inesprimibile beatitudine sarebbe parlare
con loro, vivere in loro compagnia, esaminarli!Non avverrebbe di certo, a causa di codesto esame,
che quelli di là mi uccidessero, poiché oltre ad essere per molteragioni più felici di noi, sono ormai
immortaliper tutto il restante tempo, se è vero ciò che si dice.”4
Con queste sue ultime parole, Socrate ricorda ai giudici che ad un uomo giusto non è possibile che
accadano dei mali, e li esorta ad interrogare i propri figli come avrebbe fatto lui, per avvicinarli alla
virtù: “Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere
liberato dalle angustie del mondoera per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato
l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i
miei accusatori,sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo
invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare. Tuttavia io li prego ancora di questo:
quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato
voi se vi sembrano di avere più cura del denaro o d’altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di
essere qualche cosa senza valere nulla, svergognateli come ho fatto io con voi per ciò che non
curano quello che conviene curare e credono di valere quando non valgono nulla. Se farete ciò,
avremo avuto da voi ciò che era giusto avere, io e i miei figli. Ma vedo che è tempo ormai di andar
via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che a
Dio.”5
La lealtà di Socrate verso la città e le sue leggi affonda le proprie radici nel pensiero del filosofo
che, analogamente a Protagora, ritiene che l’uomo sia tale solo in quanto rapportato alla società,
ossia che l’uomo emerga dall’animalità primitiva e si auto costituisca come essere umano solo in un
contesto comunitario retto da leggi. Da questo punto di vista, dire che “l’uomo è società” equivale a
dire che “l’uomo è uomo in quanto legge”, o meglio in quanto “figlio delle leggi”. Pertanto, chi
rifiuta le leggi del proprio Stato o della propria civiltà cessa di essere uomo. Le leggi si possono
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Assaggi di Filosofia
cambiare e migliorare, ma non violare, perché altrimenti verrebbe meno la stessa vita in società.
Questa tesi fondamentale di Socrate, che farà dire a Platone che il suo maestro, pur non essendo un
politico, era stato l’unico vero politico di Atene, ci permette di capire perché egli abbia scelto la
condanna al posto della fuga, preferendo morire rimanendo fedele alle leggi, anziché vivere
violandole. La morte di Socrate, al di là del caso personale di questo filosofo e del significato ideale
che egli le diede, manifesta anche il tragico soccombere intellettuale nei confronti del potere
organizzato delle forze politiche. Per questo motivo Socrate è apparso come il primo martire del
pensiero occidentale e dell’esigenza di una ricerca libera da condizionamenti: il suo nome,
attraverso i tempi, ha assunto il valore di un esplicito atto di condanna verso le prepotenze dei
politici, di coerenza, di lealtà e di giustizia.
23
Assaggi di Filosofia
I SOFISTI
di Valeria Speranza
Nel V secolo a.C. si assiste ad eventi storici epocali,la Grecia trionfa sulla Persia, la lotta fratricida
tra Atene e Sparta che sfocia nella guerra del Peloponneso e che coinvolge gran parte delle città
greche e determina la loro generale decadenza1. In pochi decenni,la tradizione si corrompe, lo Stato
perde il prestigio e la potenza, e forze disgreganti prendono il sopravvento portando alla
disgregazione e al più esasperato individualismo edonistico.
La democrazia, faro di Atene e altre città, si tramuta in pura demagogia e lotta di fazione.
Contemporaneamente la vita privata si concedea lusso e gusti prima sconosciuti o tenuti lontani,
portando a immoralità, sfrenatezze e lussuria.
Un clima sociale mutato nel quale si diffonde un’accesa necessità di “istruzione”. Le nuove classi
sociali emergenti della media e dell'alta borghesia desiderano affiancare, al potere del danaro, il
prestigio della cultura, indispensabile ed imprescindibile per imporsi nelle pubbliche assemblee e
nei tribunali, ai quali sempre più spesso si ricorre per risolvere le infinite questioni legali che
animano le assemblee.Si sviluppano e sorgono allo stesso tempo, innumerevoli attività professionali
di tipo specialistico, dalla medicina alle varie arti, dalla tattica militare alla ginnastica,
dall'urbanistica alla matematica, e così via.
Il termine sofista2,che originariamente significa genericamente “sapiente”, ora designa una precisae
definita categoria di intellettuali e risponde palesemente alle nuove e concrete esigenze sociali. Si
può a ragione dire che con i sofisti nasce la scuola, nel senso moderno del termine. Alle antiche
consorterie aristocratiche riservate a pochi eletti, quali erano le scuole dei maestri presocratici, si
sostituisce l'istruzione generalizzata, dietro pagamento. Furono proprio i sofisti i primi a chiedere,
in cambio dell'insegnamento, compensi in denaro, anche molto alti, e ciò determinò grande
scandalo e ricorrenti accuse di avidità e di immoralità3. Molti di loro accumularono considerevoli
fortune, fatto che dimostra l'utilità pratica della loro funzione. Quasi ovunque furono ostacolati e
criticati dalle pubbliche autorità , tratto distintivo dei sofisti era la mentalità cosmopolita,
viaggiavano e si trasferivano di continuo da una città all'altra cercando pubblico e clienti,
naturalmente questo era anche un modo per sfuggire alle accuse di immoralità, non appena la
situazione diventava insostenibile, ripartivano e cercavano ospitalità altrove.
I sofisti diedero vita a una vera e propria “moda”, entusiasmando ed accedendo soprattutto i
giovani.
Furono essi i creatori, i forgiatori del concetto di cultura. Il Greco aristocratico non distingue il
sapere, l'istruzione, dalla formazione morale e fisica complessiva; la “virtù” l’areté di un uomo è un
sinolo, un complesso unitario che comprende ovviamente anche la saggezza (sophia) e la facondia
(l'esser capace di “buone parole” e di “buone azioni” come ideale omerico dell'uomo perfetto), ma
non come acquisizioni specialistiche, nel senso, ad esempio, in cui noi oggi diciamo che un uomo è
fornito di “buona cultura”.L’educazione ovvero la ‘’paideia4’’antica è consegnata unicamente alla
religione, al mito e alla poesia incarnata soprattutto dai poemi di Omero e viene trasmessa di padre
in figlio di generazione in generazione.
1
2
La guerra del Peloponneso ,Garzanti Grandi Libri, Tucidide .
Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, 2007
Erano detti anche “mercenari del sapere” e poiché si facevano pagare per i loro insegnamenti, furono criticati
aspramente dai loro contemporanei (prima da Socrate, poi da Platone e da Aristotele) e vennero definiti offensivamente
“prostituti della cultura”. Da qui emerge una figura storica negativa.
4
I sofisti introducono il concetto di “paideia”, che assume il significato di pedagogia (che si occupa dell’educazione e
della formazione degli individui). Nella sofistica il concetto di educazione si pone come un concetto vicino alla società,
alla vita pubblica e politica, vicina alla polis, poiché i greci venivano educati per avere tutte le abilità di un personaggio
politico e importante.
3
24
Assaggi di Filosofia
Già le scuole presocratiche introdussero in questo campo una notevole rivoluzione, poiché il mito e
la poesia erano affiancati da una più personale e razionale ricerca di sapienza; ma furono i sofisti a
rivoluzionare il costume aristocratico antico e a fare del sapere una qualità “tecnica” e
“specialistica”.
I sofisti partivano dal principio che l’areté 5 è insegnabile e che chiunque può raggiungerla, con
l’impegno e naturalmente con il denaro. Questa asserzione non poteva che suonare scandalosa ad
una società di tradizione aristocratica abituata a considerare l'areté di un uomo come un fatto di
nascita e di sangue e un tratto di carattere e di costume, più che un'abilità pratica particolare, visto
che ogni abilità pratica o professionale appariva anzi qualcosa di plebeo e di non degno di un
autentico aristocratico. Ciò che principalmente insegnavano i sofisti era l'arte della parola e dei
discorsi (logoi) e cioè l'arte retorica6.
Il saper parlare, saper convincere, entusiasmare, infuocare, commuovere, erano tutte virtù essenziali
per dominare le assemblee popolari, determinare le votazioni, ottenere incarichi pubblici. La
retorica veniva quindi a coincidere con la scienza politica del tempo e la sua utilità pratica era
dunque grandissima: retorica e potere si fusero. I sofisti erano dei tecnici dell'arte del discorso e
della confutazione (utile anche nei tribunali) e insegnavano con quali artifici si potesse dimostrare
la veridicità di qualsivoglia tesi, anche la più paradossale, oppure insegnavano a sostenere con
apparentemente buoni argomenti sia la tesi che l'antitesi riguardo a una stessa questione (eristica).
Però alcuni sofisti erano anche competenti in discipline particolari come la grammatica, la
linguistica, l'etimologia, la sinonimica, la critica letteraria. Alcuni si interessarono anche di
questioni naturali e scientifiche, come già i presocratici, ma il loro prevalente interesse andava
all'aretésociale, piuttosto che all'alétheia per questo si sostiene che essi determinarono una
rivoluzione “antropologica” nella cultura, rivolgendosi all'uomo, al soggetto, piuttosto che alla
natura, all'oggetto. La sofistica scadeva spesso a causa di maestri mediocri, in puro illusionismo
verbale, in pretesa assurda di essere in tutto sapienti poiché su tutto sapevano parlare e improvvisare
discorsi. Cavillatori e disonesti, molti sofisti si preoccuparono di raggiungere una fama a buon
mercato e a farsi ricchi senza scrupolo approfittando anche dell’ingenuità dei loro clienti e uditori.
5
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno
Mondadori, Torino 1999
6A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, 1988
25
Assaggi di Filosofia
“Ma io sarei orientato su tutt’altro, sinceramente io credo mi indirizzerò per matematica.
Potrebbe sembrare fuori luogo, ma sento che è la mia strada, che poi detto tra noi anche io ho
sempre avuto un dubbio sul tema dell’infinito… voi non vi siete mai chiesti tutto questo?”
L’infinito,una sfida per il pensiero
Di Lorenza Pesacane
Introduzione
Oggi il termine “infinito” investe un’accezione
positiva, tanto da essere spesso collegata al
concetto di Dio o alle sue proprietà.
Il concetto di “finito”, invece, è associato
istintivamente a ciò che, essendo limitato, risulta
manchevole o difettoso. Nella cultura greca delle
origini, al contrario, era l’infinito a presentare una
connotazione negativa. Si riteneva infatti
conoscibile solo ciò che era finito e determinato e
di conseguenza impensabile un infinito attuale,
cioè concreto e visibile. Tale rifiuto ad ammettere
l’infinito attuale nella matematica greca e più
generalmente un diffuso disinteresse delle civiltà
antiche per l’infinito è detto “horror infiniti”.
Questo concetto compare in Occidente per la
prima volta con Anassimandro, che chiama tò
ápeiron 1 il principio metafisico, intendendo con
ciò esprimere la sua duplice infinità, perché il
principio non è limitato da nessun termine di
spazio né di tempo, e perché esso, come arché,
non possiede nessuna determinazione finita, non Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1815,
Kunstalle, Amburgo.
potendo esaurirsi in nessun oggetto particolare, ma L’uomo che si interroga dinanzi alla vastità dell’infinito.
dovendo
fungere
da
matrice
di
tutti.
Pitagora è forse il primo filosofo-matematico che realmente ha a che fare col concetto di infinito. La
matematica pitagorica è basata sul concetto di “discontinuità”, in quanto essa si fonda
esclusivamente sui numeri interi e non irrazionali e dunque l’accrescimento di una grandezza
procede per “salti discontinui”,essendo impossibile aggiungere qualcosa che sia minore dell’unità.
In questa visione del mondo tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di monadi,
particelle
minuscole
simili
agli
atomi.
Due grandezze, dunque, potevano essere espresse con un numero intero ed erano tra loro
commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore .Il pensiero pitagorico verrà messo in
crisi dalla scoperta delle grandezze incommensurabili, elaborata all’interno della scuola stessa e
custodita come un segreto inconfessabile. La scoperta partì del celeberrimo teorema di Pitagora :
applicando il teorema su un triangolo rettangolo isoscele,che risulta essere metà di un quadrato
,notiamo che il rapporto tra ipotenusa e cateto così come tra lato e diagonale del quadrato è uguale a
√2.
Questo numero è decimale, ma irrazionale: significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la
virgola,che
sono
del
tutto
casuali,sarà
necessario
procedere
nell’infinitamente
26
Assaggi di Filosofia
piccolo:1,414213562…
Ciò comporta che lato e diagonale
siano grandezze incommensurabili e che dunque non sono più come si pensava composti da un
numero finito di punti,ma da un infinità di punti. Per la prima volta si parla di un infinito concreto e
non potenziale.
1. Antitesi
Come detto sopra, questa scoperta è ritenuta talmente “scandalosa” da essere tenuta nascosta per
molto tempo, fino a quando Ippaso di Metaponto non la rende nota agli estranei. A tentare di
fornire una contro risposta è l’eleatismo, movimento affermatosi nelle colonie greche dell’Italia
meridionale. Gli eleatici infatti tendono a considerare le cose non come le si percepisce attraverso i
sensi, ma attraverso una logica rigorosa. Parmenide, il fondatore della scuola eleatica, infatti è
drastico nell'affermare che l'infinito non esiste, come conseguenza della immobilità dell'essere, che
è e può essere pensato, in opposizione al non essere, che invece non è e non può essere pensato.Egli
sostiene che il mondo in cui viviamo, poiché implica il non essere, risulta, in termini filosofici, pura
apparenza o illusione:
“ (…) è la stessa cosa pensare e pensare che è: perché senza l’essere, in ciò che è detto, non
troverai il pensare: null’altro infatti è o sarà eccetto l’essere, perché appunto la Moira lo forza ad
essere tutto intero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole, quanto i mortali hanno
stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiamento del luogo e
mutazione del brillante colore”.2
A difesa di Parmenide si schiera Zenone con i suoi paradossi, ossia argomentazioni che sono in
contrasto con l’opinione usuale e che pure scaturiscono da una serie di passaggi logicamente
ineccepibili.
Così Zenone si propone di confutare gli avversari di Parmenide non respingendo, ma accettando per
assurdo i loro presupposti, ossia dimostrando che se tali presupposti vengono svolti in modo
coerente fino al fondo, portano a conseguenze, appunto, assurde. Gli avversari di Parmenide infatti
l’avevano accusato di sostenere “cose ridicole”; ora Zenone mostra che non meno ridicole sono le
conseguenze dei concetti su cui si basano gli avversari di Parmenide: molteplicità, divisibilità ecc.
Gli argomenti più famosi di Zenone sono diretti contro la realtà del movimento:
“ [Secondo è l’argomento detto Achille] Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto
nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che insegue giunga in precedenza là di dove si
mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio.
Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il più lento non viene raggiunto e d ha lo stesso
fondamento della dicotomia(…) di modo che la soluzione sarà, per forza, la stessa”3.
“Il quarto ragionamento è quello delle masse uguali che si muovono lungo masse uguali in senso
contrario , le une dalla fine dello stadio, e le altre dalla metà con uguale velocità. In esso crede che
si provi che sono un tempo uguale il tempo metà e il tempo doppio” 4.
2. Tesi e Confutazione dell’Antitesi
Contro questa prospettiva filosofica del “limite” il primo a polemizzare aspramente è Melisso di
Samo, il quale, pur essendo discepolo di Parmenide, afferma il carattere illimitato dell’essere.
Facendo leva sul principio secondo cui dal nulla non può scaturire nulla, Melisso sostiene
l’ingenerabilità dell’essere:“Sempre era ciò che era e sempre sarà. Perché se fosse stato, sarebbe
necessario che prima di nascere fosse nulla. Ma se era nulla, dal nulla non sarebbe potuto nascere
nulla in alcun modo.” 5
L’essere è anche incorruttibile e immutabile, perché, se così non fosse, si dovrebbe ammettere la
possibilità che l’essere ad un certo punto svanisca nel nulla:
27
Assaggi di Filosofia
“In tal modo esso è dunque eterno e infinito e uno ed uguale tutto quanto. E neanche può perire ne
diventare maggiore ne modificarsi nella sua natura o nella sua disposizione, ne sente dolore o
tristezza. Perché se andasse soggetto a una qualsiasi di queste cose, non sarebbe più uno. Se infatti
si altera nella sua natura, è necessario che non sia più omogeneo, ma si distrugga quel che prima
esisteva, e si generi quel che non esisteva. Ora, se si alterasse di un solo capello in diecimila anni,
si distruggerebbe tutto quanto nella totalità del tempo. Ma neppure è possibile che muti
disposizione: infatti la disposizione che c'era prima non perisce e quella che non c'è non nasce.”6
Melisso infine difende l’infinità spazio- temporale dell’essere, sostenendo che, non essendo nato,
l’essere “è e sempre era e sempre sarà e non ha né principio né fine, ma è infinito. Se fosse nato
infatti avrebbe principio (perché avrebbe cominciato a nascere ad un momento determinato) e fine
(perché avrebbe finito di nascere ad un momento determinato); ma poiché non ha né cominciato né
terminato era sempre e sempre sarà. «e» non ha né principio né fine. Non è possibile infatti che sia
sempre ciò che non è tutto.”7
Egli afferma dunque che se l’essere fosse finito, sarebbe delimitato da qualcosa di diverso
dall’essere, cioè dal non essere, e ciò è impensabile.
Di conseguenza, dall’illimitatezza temporale e spaziale dell’essere si deduce la sua unicità.
Essendo infinito, l’essere è la totalità, perché non ammette nulla al di fuori di sé.
Dopo il filosofo di Samo, che lo ha inquadrato nell’ottica dell’ontologia parmenidea, il concetto di
“infinito” ha cominciato ad attirare l’interesse di altri filosofi.
Nella riflessione di Anassagora di Clazomene, esso riveste un ruolo centrale.
Gli elementi originari, permanenti e incorruttibili che costituiscono le cose sono infiniti. I “semi”,
come egli li definisce, non lo sono per numero, ma anche per grandezza, nel senso che insieme
formano un’infinità massa corporea, finché non interviene l’azione separatrice e ordinatrice del
nous, che a sua volta va concepita come forza infinita che tutto pervade.
Ogni seme non ha limiti neppure in piccolezza, perché è infinitamente divisibile: “Del piccolo
infatti non c'è il minimo ma sempre un più piccolo (in effetti è impossibile che ciò che è non sia) –
ma anche del grande c'è sempre un più grande: e per quantità è uguale al piccolo e in relazione a
se stessa ogni[cosa]è grande e piccola.”8
Ogni cosa quindi è infinitamente grande rispetto alle parti in cui è divisibile e infinitamente piccola
rispetto alle parti in cui è inclusa: “grande” e “piccolo” non sono termini assoluti, ma relativi.
Il procedimento di infinita divisione, così come quello di infinita addizione, è certamente un
processo mentale, ma può compiersi nella mente solo in quanto ha un fondamento nella realtà.
In questo senso, il filosofo di Clazomene è stato uno dei primi a pensare l’infinito come concetto
positivo e reale. Il calcolo infinitesimale ha preso avvio proprio da quest’ordine di considerazioni.
Oltre a Melisso e Anassagora, in epoca arcaica l’altro grande pensatore dell’infinito è Democrito di
Abdera. La concezione dell’universo da lui elaborata ha rappresentato una valida alternativa alla
visione del mondo della tradizione greca improntata sulla nozione del limite.
La sua è una delle visioni più “scientifiche” dell'antichità: l'atomismo infatti fu ripreso non solo da
altri pensatori greci, come Epicuro, ma anche da filosofi e poeti romani nonché da filosofi del tardo
medioevo, dell'età rinascimentale e del mondo moderno. Come è stato rilevato da Theodor
Gomperz e da altri studiosi, Democrito può essere considerato il “padre della fisica”. Ludovico
Geymonat afferma che “l’atomismo di Democrito (…) ebbe una funzione determinante, nel XVI e
XVII secolo, per la formazione della scienza moderna”9.
Con Democrito si ha una sorta di fisicizzazione del binomio eleatico-parmenideo di essere e non
essere, in quanto identifica l’essere con il pieno e il non essere con il vuoto. Il pieno è la materia, il
vuoto è lo spazio in cui essa si muove. La materia è costituita a sua volta da un insieme di atomi,
cioè di particelle indecomponibili, che egli pone come fondamento del suo pensiero: “Per
convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo,
per convenzione il colore, secondo verità gli atomi e il vuoto.”10 L’atomo, secondo Democrito, è
matematicamente divisibile in infinite parti, ma non è fisicamente decomponibile ulteriormente.
28
Assaggi di Filosofia
Dunque la materia si può dividere in atomi e in agglomerati di atomi separati dal vuoto, ma il
singolo atomo è indivisibile.
Gli atomi sono infiniti di numero, così come lo spazio in cui essi si muovono incessantemente, lo
spazio vuoto, è infinito in estensione.
Anche l’universo è spazialmente illimitato, come mostra il poeta romano Lucrezio, seguace
dell’atomismo: “Ma ambedue le soluzioni ti chiudono ogni via di scampo, e ti costringono ad
ammettere che il Tutto si estende senza limite. Infatti, sia che esista qualcosa che si opponga, e
impedisca che il dardo giunga là dove è stato mandato, e quivi si vada a situare, sia che possa
giungere oltre, non è partito dal confine. E in questo modo ti verrò sempre dietro e, ovunque le rive
estreme tu collochi, ti domanderò che accadrà alla fine, alla lancia. Accadrà che il confine non
potrà in nessun luogo essere fissato, e il poter fuggire via protrarrà per sempre il fuggire”11 .
3. Bilancio conclusivo
Tra le voci dissonanti rispetto alla generale “paura dell’infinito” che ha animato gli antichi
pensatori greci, quella di Democrito è stata senza dubbio tra le più significative.
Dopo di lui sono dovuti trascorrere altri sei secoli prima che l’infinito assumesse una connotazione
positiva, questa volta di carattere teologico.
È quanto avviene con Plotino (III secolo d.C.), erede e rinnovato interprete del pensiero di Platone:
Dio è infinito perché esso è l'unità unissima da cui procede la sterminata molteplicità delle forme
finite, nessuna delle quali può adeguarlo. Dio è dunque trascendente e inconoscibile; ma in un certo
senso egli è pure l'infinità positiva di quella finitezza negativa, propria d'ogni prodotto naturale
emanato dal principio supremo.
Questa concezione sarà poi ripresa da Giordano Bruno. Secondo Bruno l'infinito è il principio
divino, che, incarnandosi nella natura, la rende anch'essa infinita: onde questo universo è eterno e
illimitato, constando d'innumerevoli mondi moventisi in uno spazio infinito. L'universo dunque è
Dio stesso, ma esplicato e disperso, come Dio è l'universo implicato e involuto: quello è piuttosto
indefinito e interminato che infinito, mentre questo è la sostanza unica che non consente più parti, è
l'assoluta unità trascendente, che accoglie indifferentemente nel suo seno tutti i contrari.
Note
1.Giovanni
Semerano,
L’infinito,
un
equivoco
millenario,
Mondadori,
2001.
In quest’opera il noto filologo ha ipotizzato la derivazione del termine dall’accadico eperu, che
significa “terra”, “polvere”, e che sua volta deriverebbe dal biblico ,afar. In base a questa
suggestiva e innovativa interpretazione, ciò da cui tutto deriva e in cui tutto ritorna sarebbe per
Anassimandro non un generico “infinito”, ma, più concretamente, la “terra indistinta”, secondo
un’idea che ricorda la massima biblica: “polvere sei e polvere ritornerai” (Gn, 3, 19).
2.Parmenide di Elea, Poema sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti,vol. I (a
cura di P.Albertelli).
3. Aristotele, Fisica, VI 9, in I Presocratici, op.cit.
4. ibidem.
5. Melisso di Samo, Sull’essere, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di A.
Pasquinelli).
6. ibidem.
7. ibidem.
8. Anassagora di Clazomene, Sull’essere, in I Presocratici, op.cit.
9. Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1,Milano, Garzanti, 1970.
29
Assaggi di Filosofia
10. Democrito di Abdera, Frammenti, in I Presocratici, op.cit.
11. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, I, vv. 976-984.
Bibliografia

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F.Adorno, T.Gregory, V. Verra, Storia della filosofia, vol. I, Laterza, 1982.
N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. 1A, Paravia, 2012.
A.A.V.V:, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, 2004.
Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, 1975.
G. Reale, Introduzione a Melisso, La Nuova Italia, 1970.
D. Lanza, Introduzione a Anassagora, La Nuova Italia, 1966.
L. Geymonat , Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1, Garzanti, 1970.
G. Micheli, Voce Infinito in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, 1980.
F. D’amato, F.Enriques, Voce Infinito in Enciclopedia Treccani.it.
C.Marchini, Il problema ed il ruolo dell’infinito, Lezioni di epistemologia, Università degli studi di
Parma.
F.M.Pace, saggio su La filosofia antica.
L’infinito, il vuoto… e la ragione!
Di Marino Bianco
Democrito nacque e visse ad Abdera, città della Tracia, dal 460 a.C. al 370 a.C.. Essendo vissuto a
lungo fu contemporaneo non solo di Socrate, ma anche dei suoi primi discepoli, come Platone.
Pertanto, sebbene sia collocato fra i pre-socratici, è più giusto ritenerlo un post-socratico7. Infatti,
nonostante nell’atomismo domini il problema della natura (questo giustifica la sua inclusione tra i
prescocratici), la presenza in Democrito riguardo i problemi della morale, della storia, del
linguaggio dimostra che egli sentì l’influenza della nuova cultura di tipo sofistico-socratica.
Fondatore dell’atomismo si dice che sia stato Leucippo, maestro di Democrito, ma il teorico della
filosofia atomistica greca fu Democrito, che può definirsi il filosofo atomista per eccellenza.
“L’atomismo di Democrito… costituisce il patrimonio più prezioso che i greci trasmisero, nel
campo delle interpretazioni generali della natura, alle epoche successive, ed ebbe una funzione
determinante, nei secoli XVI e XVII, per la formazione della scienza moderna” 8 . Democrito è,
quindi, considerato il primo filosofo greco a porsi “sulla direzione della strada maestra della
scienza occidentale moderna”9.
Con Democrito e gli atomisti si ha la “fisicizzazione” del binomio di essere e non essere: essi
identificano l’essere con il pieno, il non essere con il vuoto. Il pieno è la materia, il vuoto è lo
spazio in cui essa si muove. La materia è costituita da un insieme di atomi, particelle
indecomponibili.
Il pensiero di Democrito viene così descritto dal dossografo Simplicio: “Analogamente, anche il suo
[di Leucippo] discepolo Democrito di Abdera pose come principi il pieno e il vuoto, chiamando
30
Assaggi di Filosofia
essere il primo e l’altro non essere: essi, infatti considerando gli atomi come materia dei corpi,
fanno derivare tutte le altre cose dalle differenze degli atomi stessi. Le differenza sono: misura,
direzione, contatto reciproco, che è quanto dire forma, posizione e ordine. Essi ritengono infatti
che per natura il simile è posto in movimento dal simile e che le cose congeneri sono portate le une
verso le altre e che ciascuna delle forme, andando a disporsi in un altro complesso, produce un
altro ordinamento; di modo che essi, partendo dall’ipotesi che i principi sono infiniti di numero,
promettevano di spiegare in modo razionale le modificazioni e le sostanze e da che cosa e come si
generano i corpi; perciò essi anche dicono che soltanto per coloro che considerano infiniti gli
elementi tutto si svolge in modo conforme a ragione. Ed affermano che è infinito il numero delle
forme negli atomi perché nulla possiede questa forma qui a maggior ragione di quest’altra: tale è
infatti la causa che essi adducono della loro infinità”10.
Dunque, i concetti base del pensiero di Democrito sono il pieno (l’atomo) ed il vuoto.
Democrito e gli atomisti giungono all’idea di atomo attraverso il ragionamento, non certo grazie
all’aiuto di strumenti scientifici appropriati come avviene nella scienza moderna. La loro deduzione
razionale cerca di risolvere il problema della divisibilità all’infinito delle grandezze geometriche
rivelate da Zenone. Infatti, secondo il nucleo logico del paradosso di Zenone circa il molteplice,
l’infinita indivisibilità del segmento dimostra che esso è costituito da infiniti punti; sennonché
quando si ammetta che ognuno di questi punti ha una grandezza diversa da zero, se ne ricava che la
loro somma (quindi il segmento) deve risultare infinitamente grande; quando invece si ammetta che
ogni punto ha una grandezza nulla, se ne ricava che anche la loro somma è nulla e il segmento
scompare. “Per sfuggire a questa antinomia Democrito introduce l’ipotesi fondamentale
dell’atomismo: la distinzione cioè fra il suddividere matematico ed il suddividere fisico” 11 . La
divisibilità all’infinito di Zenone può valere solo in campo matematico, che non trova rispondenza
nella realtà, ma non in campo fisico. Infatti è impossibile pensare di dividere all’infinito la realtà
materiale percepita dai sensi, poiché continuando a dividere all’infinito la materia, la realtà si
dissolverebbe nel nulla, e quindi si passerebbe dalla materia alla non materia. Se alla base della
natura vi fosse il nulla, non si capirebbe come dal nulla possa derivare la realtà concreta e materiale
dei corpi. Quindi secondo Democrito esistono dei costituenti ultimi della materia, ovvero delle
particelle non ulteriormente decomponibili e divisibili (cioè atomi). Egli per descrivere gli atomi
riprende anche alcuni aggettivi dell’essere parmenideo poiché gli atomi sono pieni, immutabili,
ingenerati ed eterni. Tra essi non vi sono differenze qualitative poiché sono fatti tutti della stessa
materia, ma si distinguono per le differenze quantitative della forma geometrica e della grandezza.
Gli atomi, quindi, in quanto particelle quantitative costituiscono il pieno, che rimanda
necessariamente alla realtà di un vuoto in cui potersi collocare, in cui poter esistere. Il vuoto infinito
costituisce, pertanto, anch’esso una realtà originaria analoga a quella degli atomi, poiché rende
possibile la loro esistenza. In un altro passo di Simplicio, infatti, si legge: “…Essi [gli atomisti]
dicevano che i principi sono infiniti di numero e ritenevano che fossero atomi, cioè indivisibili, ed
inalterabili pel fatto che sono solidi e cioè non contengo vuoto: giacché dicevano che la divisione è
possibile nei corpi in ragione del vuoto che c’è in essi…”12.
In Democrito il vuoto è l’assenza di materia e se la materia è atomi, il vuoto sarà assenza di atomi.
Democrito fu il primo ad affermare l’esistenza di uno spazio senza cose e ammette l’esistenza del
vuoto come spazio privo di oggetti in cui gli atomi sono liberi di muoversi. Egli pone una differenza
tra spazio e materia, distinguendo le due cose come separate.
Aristotele, nella Metafisica, nell’esporre il pensiero atomistico ricorda: “Leucippo e il suo discepolo
Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, chiamando l'uno essere e l'altro non essere, e
precisamente chiamano essere il pieno ed il solido, non essere il vuoto ed il raro (onde essi
affermano che l’essere non è affatto più reale del non essere perché neanche il vuoto è [meno
31
Assaggi di Filosofia
reale] del corpo e pongono questi [elementi] come cause materiali degli esseri” 13 . Aristotele
ammette che l’atomismo è conforme ai fenomeni, affermando che “Leucippo e Democrito hanno
spiegato la natura delle cose sistematicamente, per lo più, e ambedue come una medesima teoria,
ponendo un principio che è proprio conforme alla natura [in accordo con l'evidenza dei
fenomeni]”14, ma poi, dichiarando “E questi corpi [gli atomi] sono in movimento nel vuoto (per lui
infatti esiste il vuoto) …” 15 , sostanzialmente critica l’atomismo, in quanto egli non crede
nell’esistenza del vuoto e quindi, implicitamente, nega validità teorica all’atomismo. Infatti,
Aristotele dice: “Per cui essi dicono [gli atomisti] che sia vuoto ciò che invece è pieno di aria, e
non vi è proprio bisogno di dimostrare che l'aria è qualcosa di reale, bensì che non esiste, né
separabile né in atto, nessun intervallo di natura diversa da quella dei corpi16. Pertanto, Aristotele
ritenendo che Democrito consideri il vuoto come l’essere, critica l’atomismo. Se però fosse fondata
la critica di Aristotele, non si riuscirebbe a spiegare perché il filosofo atomista distingue tra essere
(pieno) e non essere (vuoto). In effetti, l’errore di Aristotele sta nel non considerare che Democrito
distinguendo tra essere e spazio non identifica assolutamente il vuoto con l’essere. Vuoto e spazio
sono strettamente collegati tra loro: se non esistesse il vuoto gli esseri non si potrebbero spostare,
ma poiché gli esseri si possono spostare, ne consegue che lo spazio in cui si spostano è vuoto. Il
vuoto assume, quindi, un valore fondamentale poiché senza il vuoto non vi sarebbe spostamento. Il
vuoto è anche una condizione necessaria del movimento. L’esistenza del vuoto è funzionale anche
per affermare l’esistenza del moto. Si supponga ancora una volta se non ci fosse il vuoto: ciò è
ancora una volta impossibile da pensare perché senza il vuoto non ci sarebbe né alcun mutamento
né gli atomi sarebbero pensabili senza uno spazio vuoto infinito entro cui potersi muovere
incessantemente.
Gli atomi, poi, muovendosi in tutte le direzioni, possono urtarsi e rimbalzare mutando velocità.
Simplicio così descrive il movimento per Democrito: “Questi atomi, che nel vuoto infinito sono
separati tra loro e che differiscono per forme e per grandezze e per ordine e per posizione, si
muovono nel vuoto e, incontrandosi, si urtano: e parte rimbalzano e vengono spinti dove capita,
parte invece si collegano a seconda della convenienza di forma, grandezza, ordine e posizione, e
restano uniti; e così si svolge la generazione di tutto ciò che è composto”17. Quando l’urto avviene
di striscio, ha origine un vortice: proprio questo vortice, incrementato da altri opportuni urti, potrà
dar luogo a movimenti rotatori sempre più vasti, capaci di generare corpi e mondi. A tal proposito si
riportano le parole di Metrodoro di Chio, discepolo di Democrito, che espone il pensiero del suo
maestro riguardo l’infinità dei mondi: “I mondi sono infiniti e sono differenti per grandezza: in
taluni non vi è né sole né luna, in altri invece sono più grandi che nel nostro mondo, in altri ancora
ci sono più soli e più lune. Le distanze tra i mondi sono diseguali, sicché in una parte ci sono più
mondi, in un’altra meno, alcuni sono in via di accrescimento, altri al culmine del loro sviluppo,
altri ancora in via di disfacimento, e in una parte nascono mondi, in un’altra ne scompaiono. La
distruzione di un mondo avviene per opera di un altro che si abbatte su di esso. Alcuni mondi sono
privi di esseri viventi e piante e di ogni umidità (…)”18.
Cadendo gli infiniti atomi nello spazio infinito a differente velocità, infinite sono le possibilità di
combinazione e, quindi, anche i mondi sono infiniti e, come afferma Metrodoro di Chio, vi sono
mondi di ogni genere: mondi con più soli e più lune, mondi simili al nostro, ma anche mondi
senz’acqua, quindi privi di esseri viventi, senza piante e senza umidità. Anche l’universo,
considerato nella sua totalità, è spazialmente infinito, poiché non è pensabile un limite oltre il quale
non si possa procedere.
32
Assaggi di Filosofia
Gli atomi, il vuoto e il movimento diventano inizio e fine di ogni cosa ed in questo processo
perpetuo di nascita e morte si genera l’infinità dei mondi. A tal riguardo Teofrasto così descrive il
processo democriteo: “Il nascere è un aggregarsi degli atomi, il morire è un disgregarsi o
sciogliersi del composto atomico, senza che in tali processi nulla derivi dal nulla né vada nel nulla:
nulla si produce a caso, non tutto con ragione e necessariamente, nulla viene dal non essere, nulla
può perire e dissolversi nel non essere dato che la materia è composta di atomi, di particelle
originarie immutabili, allora tutti i mutamenti devono essere il risultato dei loro movimenti, e
requisito necessario al movimento è il vuoto, cioè uno spazio interamente privo di materia nel
quale una particella possa spostarsi da un luogo all’altro(…) La materia e il vuoto sono
completamente separati l’uno dall’altra. Allo stesso modo il movimento deriva non da altro che
dallo stesso movimento, nel senso che gli atomi sono originariamente ed eternamente in movimento
per loro stessa natura ” 19 . E’ evidente che tutta la teoria atomistica è sospesa al postulato del
movimento originario degli atomi. Democrito afferma che la materia abbia in se stessa la sua causa
motrice e che il movimento sia una proprietà strutturale, e quindi eterna, di essa. Egli ritiene che
non ha senso chiedersi quale sia la causa del movimento della materia, poiché data la materia ne
segue il movimento e quindi la materia è uguale al movimento. Aristotele afferma che in Democrito
non era chiaro “il perché del movimento, né di quale specie esso sia né la causa per cui il
movimento avviene in un modo o in un altro” 20 , giungendo alla conclusione sbagliata che
Democrito attribuisca al caso il verificarsi degli eventi. Democrito, invece, “ritiene che tutto abbia
una causa e che perciò si produca per necessità naturale e non a caso”21.
In virtù di questo insieme intercollegato di teorie può affermarsi che l’atomismo rappresenta la
prima forma di materialismo, ovvero la materia (vuoto incluso) costituisce l’unica sostanza e
l’unica causa delle cose. Collegato al materialismo è l’ateismo: Democrito afferma che alla base del
mondo non vi è alcuna intelligenza. Fa parte del materialismo e dell’ateismo il meccanicismo, che è
opposto al finalismo. Per il finalismo comprendere un oggetto significa spiegare per quale scopo
esso esista, invece per il meccanicismo spiegare un oggetto significa chiedersi per quale causa esso
esista. Al meccanicismo è collegato il causalismo che è ben spiegato attraverso il frammento 2 di
Leucippo: “nulla si produce senza ragione, ma tutto avviene per un motivo e in forza della
necessità”.
Democrito, dunque, attraverso i concetti, di pieno, vuoto, movimento, infinito giunge all’ “idea” di
atomo; “idea” in quanto gli atomi costituendo una cosa impercettibile sono invisibili e, quindi, non
sono conosciuti dall’esperienza, ma sono conosciuti a partire dalla ragione. Per questo motivo Marx
afferma che la conoscenza degli atomi per Democrito è tutta una “ipotesi di laboratorio”, perché il
filosofo di Abdera non può arrivare a una dimostrazione né attraverso prove né per ragionamento
dell’esistenza degli atomi. Per questa conoscenza indimostrabile Marx tratteggia Democrito come il
“viaggiatore alla ricerca di un tesoro invisibile, impalpabile” e, di fatto, introvabile22.
Al di là di questo limite, i meriti di Democrito anche per le generazioni future sono stati notevoli.
Con lui l’essere ed il non essere diventano due fenomeni fisici. Il vuoto, l’infinito e la ragione
fondano la sua idea della costituzione atomica della materia; teoria che fu, poi, successivamente
ripresa, su base sperimentale, dalla scienza moderna. Fu il primo ad introdurre la distinzione tra il
suddividere matematico ed il suddividere fisico, cercando di dimostrare che solo quello matematico
può essere diviso all’infinito, in quanto non trova rispondenza nella realtà. Probabilmente
l’intuizione più grande di Democrito fu, però, studiare la natura non chiedendosi “lo scopo” dei
fenomeni ma la loro “causa”, rappresentando il suo pensiero la prima forma di materialismo. Per
19
TEOFRASTO, De Sensu, 60-61 = = DK 68 A 135, in I presocratici…, cit., p. 126.
N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,
Paravia, Milano-Torino, 2012, p. 90.
22K.MARX,Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D. FUSARO,
Bompiani, Milano, 2004.
21
33
Assaggi di Filosofia
questo gli venne attribuita la fama di voler assegnare leggi casuali alla natura, tanto che Dante lo
definì come “Democrito, che ’l mondo a caso pone” 23 e per questo “dovette subire la sorda
lotta(…) condotta da tutte le correnti idealistiche (a partire da Platone fino agli hegeliani)”24 .
Quando, però, avverrà nel Rinascimento la “conciliazione tra il metodo meccanicistico-scientifico e
il finalismo religioso”25, l’atomismo sarà riscoperto, Democrito sarà rivalutato e tornerà ad ispirare
filosofi e scienziati.
Note
1. L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980, p. 47.
2 .L. GEYMONAT, op. cit., p. 48.
3.
C.
SINI,
Storia
della
filosofia,
Morano,
Napoli,
1973,
p.
90.
4. DK 68 A 38, trad. it. di V. E. ALFIERI, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G.
GIANNANTONI, Laterza, Bari, 1969.
5. L. GEYMONAT, op. cit., p. 49.
6. DK 67 A 14, in I presocratici. Lettura e interpretazione dei frammenti e delle testimonianze, a
cura di P. IMPARA, Armando Editore, Roma, 1997, p. 124.
7.
ARISTOTELE, Metafisica, I 4, 985 b 4 = DK 67 A 6, in I presocratici…, cit., p. 122.
8. ARISTOTELE, De generatione et corruptione, A, 8, 324 b, inhttp://it.wikipedia.org/wiki/Atomismo.
9. ARISTOTELE, De generatione et corruptione, cit..
10. ARISTOTELE, Fisica, IV, 6, 213 a-b, in http://it.wikipedia.org/wiki/Atomismo.
11. DK 67 A 14, cit..
12. DK 68 A 40, trad. it. di V. E. ALFIERI, in op. cit.. 23TEOFRASTO, De Sensu, 60-61 = = DK 68 A
135, in I presocratici…, cit., p. 126.
13. N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,
Paravia, Milano-Torino, 2012, p. 90.
14. K.MARX,Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D.
FUSARO, Bompiani, Milano, 2004.
15. Inferno, Canto IV, v. 136.
16. L. GEYMONAT, op. cit., p. 48.
17. B. RUSSEL, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano, 1966-1967, p. 106.
Bibliografia
 AA.VV., I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. GIANNANTONI, Laterza,
Bari, 1969.
AA.VV., I presocratici. Lettura e interpretazione dei frammenti e delle testimonianze, a cura
di P. IMPARA, Armando Editore, Roma, 1997.
 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della
filosofia, Paravia, Milano-Torino, 2012.
 ARISTOTELE, Fisica.
 ARISTOTELE, De generatione et corruptione.
 ARISTOTELE, Metafisica.
 DANTE, Divina Commedia, Inferno.
 L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980.
 K. MARX, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D.
FUSARO, Bompiani, Milano, 2004.
 B. RUSSEL, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano, 1966-1967
 C. SINI, Storia della filosofia, Morano, Napoli, 1973.
 TEOFRASTO, De Sensu .

34
Assaggi di Filosofia
Mentre la discussione continuava , arrivò il secondo piatto , che dividevamo a causa del nostro
budget limitato.
“Io sicuramente scienze politiche , alla fine sento di non poter fare altro se non quello in cui credo.
Non posso che sentire il tema dei valori quello più vicino alla mia persona ed ora vi dirò il
perché!”.
La rivalutazione della sofistica
Di Diletta Bergamo
Introduzione
La sofistica è una corrente filosofica che si sviluppa intorno alla seconda metà del V secolo a.C. in
Grecia, in particolare ad Atene; in polemica con la filosofia della scuola eleatica, pone al centro
della sua riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non
si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata
al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di
«maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni
differenti e a volte tra loro contrastanti.
Il nome di sophistés ha, nella grecità più antica, un significato simile a quello di sophόs «sapiente,
esperto». Tra la metà del 5° e la fine del 4° sec. a.C. il significato si precisa, designando coloro che
sono capaci di rendere gli altri sophoi, nei vari campi di conoscenze teorico-pratiche, utili perché il
cittadino possa avere successo politico.
Che cosa caratterizza la sofistica? Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol
dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo,
scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo.
1.Analisi delle caratteristiche della sofistica
Occorre ora di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. I sofisti costituiscono un
momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i
naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di
Platone. La sofistica era uno sviluppo necessario.
I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le
cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: che segue un filo di sviluppo ben saldo. Il
primo momento della storia della filosofia è rappresentato dai naturalisti presocratici,
dall’attenzione al mondo oggettivo, al mondo naturale; è spiegabile che successivamente
all’attenzione per il mondo oggettivo esteriore, segua un periodo invece di attenzione rivolta sul
soggetto, sull’uomo. I sofisti sono gli autori di una “rivoluzione antropologica” nella filosofia, nel
senso che all’attenzione verso la natura, ciò che è fuori di noi, fanno seguire una filosofia che si
rivolge al mondo propriamente umano. In che senso la sofistica era uno sviluppo necessario?
Al pensiero parmenideo viene contrapposta la conoscenza sensibile, ma Questa è una forma di
conoscenza fortemente legata all’individuo: l’individuo sano o l’individuo malato percepiscono una
stessa pietanza come dolce o come amara a seconda appunto del loro stato di salute, anzi nello
stesso individuo si può avere una mutazione del gusto proprio perché sopraggiunge una malattia, e
quello che era percepito prima come dolce viene percepito poi come amaro. Affidarsi ai sensi vuol
dire affidarsi a una forma di conoscenza, che porta inevitabilmente a posizioni di carattere
individuale. Quindi: caduta la fiducia nel pensiero, eretti i sensi a unico criterio di conoscenza , si
cade nella conoscenza relativa all’individuo, nel relativismo, nel soggettivismo. Ma se si è
35
Assaggi di Filosofia
soggettivisti nella conoscenza, lo si sarà anche nella morale: la morale sofistica si presenta pertanto
centrata sull’individuo, quindi prende l’aspetto o di edonismo (vale a dire che il bene viene
identificato col piacere, che è qualche cosa ovviamente di individuale), o di utilitarismo (il bene
viene fatto coincidere con l’utile). La morale sofistica sarà dunque una morale o edonistica o
utilitaristica.
Dunque l’insieme dei concetti della sofistica sono: abbandono della verità, trionfo dell’opinione,
quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, individualismo, edonismo, utilitarismo, tutte cose
che sono perfettamente coerenti tra di loro. Infatti, se non esiste la verità, esisteranno le opinioni, e a
questo punto la sofistica diventa contraddittoria. Se non esiste un criterio oggettivo per trovare la
verità, ma soltanto le opinioni, come farò a stabilire quale opinione sia corretta? Ne consegue quindi
che tutte le opinioni sono ugualmente degne e si equivalgono. Se tutte le opinioni sono equivalenti,
che cosa ne consegue? Che si cercherà di imporre la propria opinione sull’altro: non si potrà
discriminare tra l’opinione di uno e quella di un altro in base a quale è più vera, e si cercherà
semplicemente di prevaricare l’altro. La prima forma di prevaricazione è la retorica. Non c’è verità,
allora si cercherà di imporsi non con un ragionamento vero, ma semplicemente muovendo gli
affetti, tentando di commuovere, di entusiasmare, di far leva sull’invidia, sulla gelosia, sullo spirito
di vendetta, sullo slancio emotivo, cioè sui sentimenti e sulle passioni, che sono sempre qualche
cosa di ambiguo, di soggettivo. La retorica, come arte del persuadere, come arte del ben parlare, si
sostituisce alla filosofia. Quindi la sofistica è qualcosa di negativo perché innalza l’opinione contro
la verità, il soggettivismo contro l’oggettività, tuttavia apre la strada per poter capire la verità su un
piano molto più alto, che sarà il piano di Socrate e di Platone. La sofistica costituisce un momento
di perdita di valori e di ideali, ma, introducendo l’elemento critico, sebbene in modo distruttivo,
introduce nuove forme di ragionamento che saranno le forme di ragionamento di Platone. La
sofistica costituisce quindi un’antitesi rispetto alla filosofia naturalistica, un momento negativo, ma
nella storia della filosofia non c’è mai un momento completamente negativo, in cui tutto è da
buttare via. Nella sofistica, col suo raffinamento nella capacità di argomentare, di ragionare, si
presenta qualche cosa di molto positivo, che Socrate e Platone faranno proprio.
2.La rivoluzione sofistica
Nella Grecia prima dei sofisti ci sono stati grandi pensatori naturalisti, ma non si proponevano di
diffondere le loro conoscenze o di educare i giovani, né questo veniva fatto dalla casta sacerdotale,
che era dedita solo ai sacrifici, alle cerimonie sacre, ecc. I sofisti sono i primi maestri dell’umanità,
cioè sono i primi uomini di cultura che cercano di diffondere la cultura, per questo Hegel li
definisce “maestri della Grecia” e li chiama “illuministi”, nel senso che sono i primi che intendono
mettere tutto a confronto con la luce dell’intelletto, col pensiero, anche se mettendo tutto a
confronto col pensiero, inteso in maniera soggettiva, distruggono tutto. Ma qual è più precisamente
il loro ruolo positivo? Fino a loro, per quanto riguarda lo studio della natura c’erano stati i
naturalisti, per quanto riguarda il mondo dell’uomo, la morale, la politica, che non erano state
oggetto di indagine filosofica, era valsa l’autorità della tradizione, delle caste sacerdotali,
dell’aristocrazia; i sofisti rompono l’autorità della tradizione, rifiutano l’atteggiamento di fede
indiscussa nelle divinità olimpiche. I sofisti introducono una capacità di ragionamento al posto
dell’accettazione passiva di contenuti morali; purtroppo distruggono questi contenuti morali, ma
introducono una mentalità critica, abituano al confronto col pensiero. L’elemento positivo della
sofistica consiste dunque nel fatto che essa è ‘illuminismo’, tentativo di illuminare col pensiero il
dogma, cioè le credenze non dimostrate. La sofistica è contro l’atteggiamento fideistico e
dogmatico di ossequio all’autorità, di ossequio alla tradizione: si possono accettare contenuti e
conoscenza solo se sottoposti all’attenta analisi del pensiero raziocinante. Questo pensa il sofista, e
in questo svolge un’azione fortemente innovativa nella storia della civiltà. In proposito dice
Hegel:«Il termine di ‘cultura’ è indeterminato, significa in generale ‘coltivare’, ‘elevare coltivando’,
36
Assaggi di Filosofia
se lo vogliamo precisare ha questo significato: ciò che il pensiero libero deve conquistare lo deve
trarre da sé come propria convinzione». I sofisti stabiliscono questo di importante: posso accettare
solo quello di cui sono convinto, non posso accettare la regola tramandata fideisticamente o
l’imperativo; l’autorità e la tradizione li debbo filtrare alla luce del mio pensiero, devono diventare
una mia convinzione. «Non si crede quindi più, ma si investiga»: all’atteggiamento fideistico si
sostituisce l’atteggiamento riflessivo. «Insomma si tratta di ciò che nei tempi moderni è stato
chiamato illuminismo». Illuminismo significa richiesta di legittimazione: se mi si vuol imporre
qualche cosa, mi si deve addurre il motivo della sua validità, non me lo si può imporre sulla base di
un’autorità quale che sia. «Il pensiero va in cerca di princìpi generali coi quali giudicare tutto ciò
che deve valere per noi; e per noi non ha valore se non ciò che si conforma a tali princìpi. Il
pensiero prende dunque a comparare il contenuto positivo con se stesso, a dissolvere la precedente
concretezza della fede». Il pensiero diventa il punto di riferimento.
3. Conclusione
I primi che hanno iniziato a introdurre la riflessione all’interno dei rapporti umani, quindi nella
sfera della morale, della politica e della società, sono stati i sofisti.
Hanno dato vita alla “rivoluzione antropologica”, mettendo l’uomo al centro della realtà. La
ragione non investiga più l’essere, la natura, ma gli stessi rapporti umani. Tutto deve essere
spiegato, non può restare immediato, senza spiegazione: «E ciò che alla rappresentazione appare
saldo, nel pensiero si dissolve, e lascia così da un lato che la soggettività particolare faccia di se
stesso un primo e un saldo e riferisca tutto a sé». La sofistica è soggettivistica, ma porta un
avanzamento nella storia del pensiero: la centralità del pensiero anche riguardo alle cose umane.
Bibliografia




Hegel, G.W.F (1837) Lezioni sulla filosofia della storia. Editori Laerza, 2009.
Maffiotti, L (anno accademico 2011-2012) SOFISTA E VERITA’: origine e significato di un
problema storico filosofico.
Gargano, A. I sofisti, Socrate, Platone.
Bonazzi, M. I sofisti, Roma: Carocci, 2007.
37
Assaggi di Filosofia
Etica: un viaggio da Democrito ai primi sofisti
Di Federica D’Alterio
Introduzione
L’etica o morale è quella parte della filosofia che studia il comportamento di noi uomini e le
norme a cui obbediamo, sia descrivendo come di fatto agiamo , sia prescrivendo come dovremmo
agire.
E’ importante finalizzare il nostro agire al raggiungimento della ricchezza d’ animo che è la sola
che può portarci alla vera felicità. Per raggiungere tale scopo è ancora più necessario comprendere
a fondo ciò che è giusto per noi, e seguire sempre quella strada ma vivere anche nel completo
rispetto per cosa è visto come giusto dagli altri.
1. Democrito
Il filosofo del secolo V a.C. Democrito sosteneva che il più alto bene per l’ uomo è la felicità ; e
“questa non risiede nelle ricchezze ma nell’ anima sola” (fr.171). Per ottenerla l’ uomo si deve
affidare completamente alla giustizia e alla ragione ,e là dove la ragione difetta , non si sa né godere
della vita né superare il timore della morte. La gioia nasce dalla misura del godimento e dalla
proporzione della vita : i difetti e gli eccessi tendono a sconvolgere l’anima e a generare in essa
movimenti intensi ( cioè forti passioni, negative e positive). E le anime che si muovono dal positivo
al negativo non sono costanti né contente (fr.191). La felicità spirituale (“eutymia”), dunque, non
ha nulla a che vedere con il piacere (“edonè”). Democrito suggerisce agli uomini di comportarsi
secondo ragione e con moderazione . Egli dice:”Il bene e il vero sono identici per tutti gli uomini ;
il piacere è diverso per ognuno di essi “(fr.69). Perciò il piacere non è bene in se stesso: bisogna
scegliere solo quello che deriva dal bello (fr. 207). Il che,per i filosofi greci, equivaleva al bene .
La guida delle azioni morali è , per il filosofo, il rispetto verso se stessi.”Non devi aver rispetto per
gli altri uomini più che per te stesso , né agir male quando nessuno lo sappia più che quando gli
altri lo sappiano ; ma devi avere per te il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge :
non fare ciò che non si deve fare “ (fr264). Qui la legge morale è posta nella pura interiorità della
persona umana , la quale legge è stata creata mediante una ben approfondita ricerca interiore e con
il rispetto verso se stessi.
Il pensiero etico democriteo può essere interpretato come esempio di soggettivismo morale.
La visione di Democrito appare incompleta in quanto il bene e il vero non sono uguali per tutti gli
uomini . I Sofisti , infatti, sostenevano una tesi diametralmente opposta.
2. I Sofisti
La parola sofista non ha alcun significato filosofico determinato e non indica una scuola
La nascita di questo genere di filosofi è dovuta al bisogno di una cultura adatta all’ educazione
politica delle classi dirigenti , essenziale ad un’ Atene al centro della cultura greca della metà del V
sec. fino alla fine del IV.
I sofisti insegnavano la sapienza dietro compenso. La loro creazione fondamentale fu la retorica
che affermava l’ indipendenza da ogni valore assoluto conoscitivo o morale ;e l’ onnipotenza dell’
uomo rispetto ad ogni fine da raggiungere . La retorica era ,cioè, l’arte di persuadere , di convincere
attraverso l’ uso della parola chiunque su un determinato argomento, indipendentemente dalla
validità etica delle ragioni addotte.
Segno distintivo della sofistica è , dunque, il relativismo sia morale che culturale.
38
Assaggi di Filosofia
Un esempio di ciò è reso dalla famosa tesi del filosofo Protagora :”L’uomo è misura di tutte le cose
, delle cose che sono in quanto sono , delle cose che non sono in quanto non sono “(fr.1 Diels.)
Basandoci sull’ interpretazione di Platone, Protagora intendeva dire che “ quali le singole cose
appaiono a me , tali sono per me ,e quali appaiono a te tali sono per te : giacchè uomo sei tu e
uomo sono io “(Teet, 152a); pertanto il filosofo identificava apparenza e sensazione affermando che
queste sono sempre vere anche se variano da uomo a uomo perché “ la sensazione è sempre di
cosa che è”(ib.,152 c) L’ uomo , però, non è misura solo delle cose che si percepiscono , ma anche
del bene, del giusto , del bello e di tanti altri valori.. Senza dubbio anche tali valori sono ritenuti
diversi da uomo a uomo , ma sempre veri perché tali “appaiono”.
Ma l‘ eterogeneità e l’ equivalenza delle opinioni non significa la loro immutabilità : le opinioni
umane ,secondo il filosofo,sono modificabili e in realtà si modificano e si correggono .Queste
continue modifiche certamente non sono legate al vero o al giusto, perché dal punto di vista del
vero o del giusto tutte le opinioni sono equivalenti . Esse devono andare invece , nel senso dell’
utile per il privato o per il pubblico.
3. Antitesi
I Sofisti , quindi,(come abbiamo appena visto con l’ esempio di Protagora) insistevano volentieri
sulla diversità e l’ eterogeneità dei valori che reggono la convivenza umana . Un trattato di filosofia
sofista dal titolo “Ragionamenti doppi”composto da autore anonimo si propone di dimostrare che le
stesse cose possono essere belle e brutte, giuste e ingiuste e così via . Quindi in esso viene spiegato
ciò che oggi si intende per “relativismo culturale” (cioè il riconoscimento della disparità dei valori
che presiedono alle diverse civiltà umane ). Ecco alcuni esempi :”I Macedoni credono bello che le
ragazze siano amate e si uniscano con un uomo prima di sposarsi , ma brutto dopo che si sono
sposate ; per i Greci è brutta sia l ‘ una che l ‘ altra cosa “ e ancora :” I Massageti fanno a pezzi i
cadaveri dei genitori e li mangiano e si crede che sia una cosa bellissima venir seppelliti nei propri
figli ; invece in Grecia questo è inaccettabile” , e infine “I Persiani giudicano bello che anche gli
uomini si adornino come le donne e che si congiungano con la figlia , la madre e la sorella : i
Greci invece giudicano queste azioni brutte e immorali”. “( Diels ,90 ,2[12],[14] ;[15])
Lo scritto si conclude con questa ipotesi:”Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in
un sol luogo tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle ,
neppure una ne resterebbe , ma tutti si ripartirebbero tutto”(Diels,2,18).
Questi costumi, portati qui come esempi, sono definiti da Erodoto, che ebbe rapporti con l’
ambiente sofistico,in questo modo:.” Così sono queste leggi avite e io credo che ha ben detto
Pindaro nei suoi versi che <la legge è regina di tutte le cose>” (Hist.,III ,38). Ma per Protagora e i
Sofisti le leggi e ancor di più la giustizia, fondamentale invece per l’ etica democritea , cioè l’
ordine e l’ accomodamento reciproco degli uomini , possono assumere forme diverse , che l’
accortezza , l’ ingegnosità e la persuasione umana possono scoprire o far valere nelle differenti
comunità umane.
Tutto questo era appunto possibile attraverso l’ uso della retorica. Quindi della parola ,che ha, per i
Sofisti , forza necessitante perché non trova limiti al suo potere in alcun criterio o valore oggettivo.
Tutto questo è ancor meglio spiegato da un Sofista contemporaneo di Protagora, Gorgia, che giunse
ad un “nihilismo” estremo, in quanto egli sosteneva l’ inesistenza di “idee” come criteri o valori
assoluti. Pertanto anche la verità e la giustizia per Gorgia non esistono , e quindi l’ etica è dettata a
ciascuno dalla parola necessitante , unica forza a cui l’ uomo può obbedire.
Entrambe le teorie sull’ etica, sia quella di Democrito sia quella dei Sofisti, qui esposte sono
insoddisfacenti e incomplete. La prima teoria presuppone il raggiungimento della felicità seguendo
sempre ciò che è bene e rispettando se stessi. Democrito però commette un errore sostenendo che il
bene è uguale per tutti gli uomini, infatti, come dimostrato prima riportando l’ esempio del manuale
39
Assaggi di Filosofia
“Ragionamenti doppi”, i costumi e le usanze , e più ampiamente “il bene e il vero”, variano da
comunità a comunità e anche da individuo ad individuo.
Dall’ altra parte la posizione dei Sofisti è troppo radicale, perché sostenendo che le idee come criteri
e valori morali possano variare in direzione dell’ utile o ancor più drasticamente che esse non
esistano , la giustizia perde il suo valore fondamentale .
Loro stessi dimostrano di non possedere il più minimo senso morale , accettando e ritenendo vero
qualsiasi tipo di valore o atteggiamento , e ancor peggio decidere di promuoverlo alle masse
attraverso l’ uso della parola e di utilizzarlo nel senso dell’ utile. Questo potrebbe degenerare fino
ad arrivare ad accettare l’ omicidio o la schiavitù come mezzo giusto per raggiungere dei fini
individuali o collettivi.
In conclusione gli uomini non devono scegliere né la prima né la seconda teoria per raggiungere la
felicità dell’ anima ,bene fondamentale di ogni individuo e fine di ogni giusta etica. Essi perciò
devono trovare una via intermedia , che concilii il fare sempre ciò che ognuno ritiene giusto per se
stesso e il rispettare le leggi della propria comunità, in quanto queste ultime sono l’ espressione
della cultura della comunità stessa .Trova una parte importante in questa via intermedia tener conto
l’ esistenza di usi e costumi diversi dai propri di altre società o anche di individui della propria
comunità senza mai far prevalere la propria morale sulle altre, che però non devono influenzare ciò
che riteniamo giusto per noi o ancora più le nostre leggi.
Bibliografia su Democrito


Frammenti di Democrito in DIELS , cap. 68, traduzione in italiano di V.E.Alfieri , Bari ,
1936(trad, anche in I Presocratici . Testimonianze e frammenti , Roma-Bari 1986)
La teoria della percezione di Democrito , Firenze , 1978, Democrito e l’ atomismoantico , a
cura di F.Romano, Catania ,1980, Democrito dall’ atomo alla città , a cura di G,Casertano,
Napoli,1983.
Bibliografia sui sofisti




Sul nome e concetto di Sofista da Sofisti . Testimonianze e frammenti, di M.Untersteiner,,
1949-62, 1972.
I frammenti di Protagora, in DIELS, cap80;Untersteiner , cap.2.
I Discorsi doppi, in DIELS, cap.90.
I frammenti di Gorgia, in DIELS, cap82 e Untersteiner , cap.2.
40
Assaggi di Filosofia
Il filosofo che ride e il filosofo che piange
Di Myriam Buonfino
Nell’immaginario collettivo i due
filosofi Democrito ed Eraclito
sono stati interpretati come i due
possibili approcci da parte degli
intellettuali (per citare un termine
eracliteo i “desti”) alla vita. Di
fronte
alla
piccolezza
dell’universo e alla miserabilità
dell’uomo il primo ride poiché la
ragione insegna a prendere
commiato dalle passioni del
mondo, il secondo ne è
terrorizzato
e
piange.
"Eraclito, ogni volta che usciva di
casa e si vedeva attorno tanti
individui che vivevano male, anzi
morivano male, piangeva ed aveva compassione di quanti gli si facevano incontro contenti e felici:
era d’animo mite, ma troppo debole, era degno anche lui di compianto. Dicono invece che
Democrito non sia mai comparso in pubblico senza scoppiare a ridere: fino a questo punto non gli
pareva serio nulla di ciò che era stato fatto sul serio. "1 Questa è la testimonianza di Seneca, nel De
Ira,
dove
appunto
descrive
le
loro
diverse
posizioni.
Più largo spazio è loro concesso invece da Luciano di Samosata, ne “Dialoghi” dove immagina che
Zeus ed Hermes vendano le vite dei filosofi del passato e presentano al possibile compratore “quel
baione di Abdera insieme con il piagnone d’Efeso”:
Compratore. O Giove! Che contrasto! Questi non finisce di ridere, e quegli par che pianga
qualcuno. Oh, ei piange davvero. E tu, che vuol dir questo? Perché ridi?
Democrito. Mel dimandi? Perché mi par tutto ridicolo, le opere vostre, e voi stessi.
[…]Così è: non c'è niente di serio in esse: tutto è vuoto, concorso di atomi, immensità.
Compratore. Vuoto se' tu, e immensamente sciocco. Oh, mi dai la baia, e non cessi di ridere? E tu
perché piangi, o caro? Credo che con te potrò parlare.
Eraclito. O forestiero, io credo che tutte le cose umane sono triste e deplorabili, e tutte sono
soggette alla morte: però sento pietà di voi, e piango. Il presente non mi par bello; il futuro mi
scuora assai, e vi dico che il mondo andrà in fiamme ed in rovine. Io piango che niente è stabile,
tutto si rimescola e si confonde: il piacere diventa dispiacere; la scienza, ignoranza; la grandezza,
piccolezza; tutto va sossopra, e gira, e cangia nel giuoco del secolo”.2
Per evitare di fare confusione, sarà dunque opportuno informare il lettore riguardo le diverse
filosofie di Democrito ed Eraclito.
41
Assaggi di Filosofia
1.Caducità della vita umana secondo Eraclito
Eraclito visse a Efeso tra il VI e il V secolo a.C. e della sua biografia sappiamo pochissimo. Pare
avesse origini aristocratiche, infatti nella sua filosofia c’è una forte distinzione tra i non filosofi,
“dormienti” e i filosofi, i cosiddetti “desti”. Scrisse un’opera di cui ci sono rimasti poco più di un
centinaio di frammenti intitolata Perì Physeose formata da aforismi e brevi sentenze, tuttavia legate
tra loro da un filo logico, e scritte in maniera molto
enigmatica e difficile da comprendere, per questo è stato
denominato il filosofo “oscuro”. Per Eraclito la filosofia è
il solo mezzo che può condurre alla verità e per
raggiungerla ha bisogno di solitudine per poter ricercare a
fondo nell’anima che è senza confini, come ci è spiegato
dal frammento 45:"Per quanto tu possa camminare, e
neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare
i confini dell'anima: così profondo è il suo
lógos"3.
Perciò secondo il filosofo di Efeso siamo insieme
infinitamente piccoli e insignificanti e infinitamente
grandi e profondi. La realtà in cui viviamo è puramente
illusoria, minuscola se paragonata alla grandezza
dell'intero universo. Ma questo diventa il più piccolo
granello di sabbia se paragonato alla grandezza della
nostra mente, che tutto può, ed è costretta, imprigionata,
nella cattività della dimensione in cui viviamo.
È forse questo il motivo per cui Eraclito piange? La causa
della sua tristezza è la consapevolezza di essere rinchiusi nella prigione del corpo? Questo è
sicuramente uno dei motivi, ma non l’unico e ultimo.
Filosofo vero è colui che ha una visione profonda della
realtà, che sa elevarsi a una veduta complessiva dell’essere.
Non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli
occhi; lo stesso stile eracliteo, così oscuro, può allora essere
inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una
convinzione di fondo: che l'intera realtà sia governata da un
solo principio, a cui tutto è collegato. Dirà che questi
legami che legano la natura sono dettati dal Lògos: nel
mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso
che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio
tradotti ambedue con lògos, termine che riveste una miriade
di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito
consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta
come espressione adeguata del logos cosmico.
Quest’ultimo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perché restano
rinchiusi nel loro orizzonte privato. Da qui la contrapposizione tra “desti” e “dormienti”, di cui solo
i primi riescono a fare uso del logos cosmico mentre i secondi sono bloccati in un eterno sogno
illusorio, qual è la realtà.
Il logos, per Eraclito, diventa quindi il principio del mondo, ciò che tutto governa. Da cosa è dato
questo “tutto”? Dai contrari, che in quanto opposti lottano tra loro, nella cosiddetta Pòlemos (guerra
42
Assaggi di Filosofia
in greco) che è governata appunto dal logos, che tutto crea, tutto distrugge e a cui tutto ritorna. Lo
indentifica perciò con il fuoco terreno, simbolo di movimento incontrollabile crescente e
decrescente. Proprio l’identificazione con quest’elemento naturale ha fatto pensare ad Eraclito come
filosofo cosmologico. Questo movimento incessante e incontrollabile, la ragione, il logos, è ciò che
governa il mondo e le sue leggi e l’uomo non ha alcun potere per poter prolungare le proprie opere
o la propria vita sulla terra. Ed è questa consapevolezza che rende il filosofo triste e malinconico, la
consapevolezza della caducità della vita umana.
Democrito invece per quale motivo ride?
Analizziamone la filosofia
2. La casualità degli avvenimenti per Democrito
Democrito nacque ad Abdera nel 460 a.C. e fu un atomista. Tradizionalmente viene fatto
corrispondere ai filosofi pluralisti presocratici, ma è inesatto in quanto è contemporaneo di Socrate
e anche dei suoi discepoli. Essendo pluralista la sua
teoria mirava a spiegare il cosmo senza escludere la
teoria ontologica parmenidea, che descriveva l’essere
come ingenerato, imperituro, eterno, immutabile,
immobile, unico, omogeneo e finito. Da ciò bisogna
distinguere la verità dall’opinione, l’alèteia dalla
dòxa, e ricercare solo la prima in quanto la seconda
regola il mondo dell’illusione, fatto del non essere.
Tuttavia è sbagliato irrigidire troppo questo dualismo;
Democrito è il primo che riesce a far combaciare
sensibilità e intelletto in quanto riconosce che si
trovano in un rapporto di reciproca continuità e
implicanza. Per arrivare alle sue conclusioni fa uso di
un metodo che consiste di tre punti:



Comincia dalla constatazione attraverso i sensi, quindi l’osservazione
Elabora con l’aiuto dell’intelletto i dati forniti dalla sensibilità
Perviene ad una teoria che spieghi ciò che i sensi mostrano
Democrito, come prima di lui aveva fatto Anassagora, pone le basi
della scienza moderna: teorizza l’esistenza di particelle invisibili e
indivisibili, gli atomi, costituenti la materia nell’universo, che sono
immersi nel vuoto. Vi è così una fisicizzazione dell’essere e del
non essere parmenideo, il primo identificato con il pieno, la
materia, costituita da atomi, il secondo con il non pieno, il vuoto,
dentro cui gli atomi volteggiano caoticamente in tutte le direzioni.
Le caratteristiche degli atomi risultano quindi essere le stesse
dell’essere parmenideo: pieni, immutabili, ingenerati ed eterni.
Il loro moto è caotico e casuale: dà origine a incessanti contatti e a
continue aggregazioni di atomi che costituiscono la materia delle
cose e, poiché sono infiniti, infiniti lo sono anche i mondi da loro
costituiti che perpetuamente nascono e muoiono. E così l’universo,
preso nella sua totalità, è spazialmente infinito.
43
Assaggi di Filosofia
Da ciò si evince che la teoria atomistica è basata tutta sull’intesa degli atomi che, in quanto dotati di
un loro movimento casuale, sono semoventi (contrariamente a ciò che dice Anassagora, che
suppone sia una mente divina, il noùs, a dare origine al moto dei suoi “semi”).
Democrito, guardando l’uomo che si affannava sulla Terra a vivere e a fare in modo di lasciare
tracce di sé, non poteva far altro che riderne, pensando a come tutti i suoi problemi siano scaturiti in
maniera del tutto casuale e a come verranno risolti in maniera altrettanto casuale.
3.Lettura dei quadri
Le figure accanto rappresentano i due quadri
realizzati in maniera complementare da Rubens,
pittore del XVI secolo. Eraclito, a sinistra, è
rappresentato come un monaco triste e pensoso, con
i pugni serrati. Sembra sia stato raffigurato in una
grotta con un’apertura luminosa che si scorge alle
spalle del soggetto, ma Eraclito è troppo assorto ed
infelice per accorgersi del mondo che lo circonda,
anzi forse non vuole immergersi nella realtà che gli
sembra illusoria e fonte di immensa tristezza;
Democrito, al contrario, è rappresentato vestito da
ricco aristocratico, felice, dallo sguardo sereno, le
mani che indicano e accarezzano un mappamondo,
come chi ha capito il mistero dell’esistenza e non
ne è affatto spaventato. L’opposizione di questi due
personaggi può essere intesa come un Eraclito che
rappresenta il Medioevo, il disprezzo del mondo e
la chiusura intima dell’individuo, contrapposto ad
un Democrito che invece sembra invitare alla
modernità, alla vita e ai suoi piaceri.
Nella lettura moderna di questi due emblematici
personaggi si è teso a preferire l’atteggiamento
positivo e aperto di Democrito a quello apparentemente chiuso e negativo di Eraclito.
Il reale problema sta nel fatto che i loro atteggiamenti sono assunti in merito a due questioni
differenti, come spiegato nelle pagine precedenti.
Eraclito ha un volto angosciato in quanto si è reso conto della caducità della vita, dei suoi inevitabili
e inafferrabili cambiamenti, di quanto poco l’uomo possa fare la differenza, di quanto piccolo e
insignificante sia il suo corpo e di quanto al contrario la sua enorme e potente mente possa fare, ma
non può perché imprigionata nella dimensione del mondo irreale e mutevole. Il filosofo di Efeso ha
compassione dell’umanità che vive insulsamente senza rendersi conto di come le cose di cui oggi
gioisce potrebbero essere le stesse di cui un giorno piangerà, senza che possa fare alcunché per
evitare questo radicale cambiamento. Ed è comprensibile, dunque, il pensiero di Eraclito, giacché
ognuno di noi, nonostante possa capire alcuni cambiamenti, non riesce poi ad evitare che
avvengano.
44
Assaggi di Filosofia
Il “baione” di Abdera invece trova ridicola l’umanità che si affanna freneticamente per essere
ricordata, per creare qualcosa di importante, in quanto tutto ciò che siamo e in cui viviamo non è
altro che un miscuglio di insulsi atomi, che a caso si sono legati fra di loro e a caso potrebbero
disgregarsi per dare origine a qualcosa di diverso. Trova ridicolo come l’uomo si senta potente,
importante e padrone dell’universo, quando altro non è che semplice materia aggregatasi per caso.
Persino lo stesso pensiero di Democrito non è da attribuirsi a lui, ma sempre al volteggio degli
atomi. Allo scopo di far comprendere meglio al lettore, riporto qui una citazione dello studioso
tedesco Reinhard Brandt nel suo libro “Filosofia nella pittura”:
Il materialista, che prende tutto per una danza di atomi priva di ragione, dev’essere egli stesso
pazzo: infatti, da dove potrebbe venirgli la ragione? Un vortice “casuale” di atomi nello spazio
infinito; anche il pensiero in questo mondo non può più essere ragionevole, ma precipita, dopo
l’autodiagnosi, nella follia.4
Il dipinto di Ribera potrebbe essere letto secondo questa
nuova interpretazione, in quanto il sorriso enigmatico di
Democrito, così come ci è suggerito dalle sue vesti stracciate,
cela un’antica angoscia, ma non quella che anima Eraclito,
non quella dell’inevitabile cambiamento o dell’inutilità dei
gesti umani, bensì una nuova consapevolezza, quella di
essere piccoli, microscopici, insignificanti, tutti uguali agli
altri, inseriti in un mondo infinito e immensamente
incomprensibili per esseri tanto poco importanti. Un mondo
in cui i pensieri non sono che frutto di un movimento degli
atomi che nessuno comanda e nessuno potrà mai comandare.
In conclusione non si può affermare che bisognerebbe
prendere la vita in modo positivo, come Democrito, giacché è
il primo che sorride nascondendo l’angoscia più grande che
esista; né si può dire che bisognerebbe seguire l’esempio di
Eraclito il quale, chiuso in se stesso e ripudiando le gioie
della vita, rende i suoi gesti (incompiuti) più vani di quelli
degli altri che almeno hanno il coraggio di compiere.
I suddetti “desti”, cioè le persone che vogliono essere consapevoli e dotte, dovrebbero prendere
esempio da entrambi i filosofi, non alternativamente ma in modo complementare: l’uomo deve
sapere che la vita presenta degli imprevisti, dei cambiamenti che spesso non potrà capire né fare in
modo che non avvengano ma, nonostante questo, deve comunque cercare di condurre al meglio la
sua esistenza; e per non cadere nella superbia di potere tutto deve anche sapere che altro non è che
un aggregato di atomi, di cui nessuno ha voluto l’unione e nessuno ne vorrà la separazione, se non
gli stessi atomi semoventi.
"Al saggio tutta la Terra è aperta, perché patria di un'anima bella è il mondo intero".5
Note
1. Seneca, De Ira, pg. 1.
2. Luciano di Samosata, Dialoghi, pg. 1.
45
Assaggi di Filosofia
3. Eraclito, fr. 45, Diels-Kranz, pagina 2.
4. R. Brandt, Filosofia nella pittura, pagina 5.
5. Democrito, aforisma.
46
Assaggi di Filosofia
Verità relativa o Assoluta ?
Di Giovanna Olivieri
Introduzione
“Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come
di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo
modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non
ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.” 1
La ricerca della verità si può definire uno dei motivi che spinge a fare filosofia . Abbiamo visto fin
dall’antichità come il mito fosse stata la prima forma di aletheia degli uomini e in seguito ad un
senso di incompletezza e di inquietudine , l’abbiamo visto evolversi nelle grandi domande della
filosofia : “Chi siamo?” , “Da dove veniamo?” , “Perché siamo qui?” , “Esiste Dio?” , “Il mondo è
reale? “ecc. Dall’archè siamo arrivati all'uomo . Ma c’è stato un momento nella storia della filosofia
in cui l’uomo e la società si sono trovati di fronte ad una crisi. Si parla specificamente del V secolo
a.C. con la nascita della sofistica in cui si perdono i valori morali e l’idea stessa di cosa è veritiero. I
sofisti furono chiamati i “prostituti” della filosofia in quanto vendevano il sapere e con l’arte della
retorica riuscivano a persuadere l’interlocutore. Un problema dibattuto per secoli e ancora irrisolto
riguarda l’idea di una verità relativa e di una verità assoluta . La domanda è: “esiste una verità
assoluta o tutto è relativo ? da cosa sono regolate le due parti ?”
Ma se tutto è relativo come si distingue una realtà oggettiva o una cosa che venga accettata da tutti
in una società ? Cosa è giusto e cosa è sbagliato? Come si può arrivare ad una verità ? Come si
possono sostenere tante verità quante sono gli uomini oppure una sola per tutti ?Il metodo
conoscitivo è induttivo o deduttivo? La verità è assoluta o relativa ?.
La tesi è che la verità è relativa sul piano dell’essere, della conoscenza e dell’etica.
1. L’uomo misura di tutte le cose
L’emblema del relativismo greco, di tante verità quanti sono gli uomini ,ce lo propone Protagora
con questa massima “di tutte le cose è misura l’uomo ; di quelle che esistono ,in quanto esistono; di
quelle che non esistono in quanto non esistono” 2 .La realtà o l’irrealtà delle cose e il loro modo di
essere possono determinarsi solo attraverso la rappresentazione che l’uomo ne ha . L’oggetto è
necessariamente connesso al soggetto . .Ad esempio, parlando di cibi, l’uomo inteso come misura è
l’individuo ; parlando della mentalità occidentale in contrapposizione con quella orientale l’uomo,
inteso come misura, è la civiltà ; paragonando gli uomini con la natura l’uomo è inteso come specie.
Protagora con questa massima si occupa di umanismo , fenomenismo e relativismo partendo dal
particolare per arrivare al generale ovvero l’uomo , l’umanità e la comunità. Parlando di relativismo
conoscitivo e morale si afferma che ogni verità è relativa al contesto e ai vari punti di vista. La
conoscenza avviene per esperienza e più precisamente per percezione “quali le singole cose
appaiono a me , tali sono per me e quali appaiono a te , tali sono per te” 3.
“Di tutte le cose è misura l’uomo.delle cose che esistono .che esistono,delle cose che non esistono
,che non esistono.(…)Quali le singole cose appaiono a me , tali esse sono per me , e quali esse
appaiono a te ,tali sono per te ;e uomini siamo tu e io..Non avviene talora che quando soffi lo
stesso vento ,uno di noi senta freddo e un altro no ,e uno abbia freddo un poco e un altro assai?
Dobbiamo allora dire che il vento in sé stesso è freddo o non freddo ,o ammetteremo con Protagora
che il vento è freddo per chi sente freddo ,non freddo per chi non sente freddo ? Apparenza dunque
e sensazione sono la stessa cosa se consideriamo gli oggetti caldi ed altre cose di simil natura
,perché nel mondo con cui ciascuno sente una cosa ,tale sembra che sia per ciascuno” . 4
Inoltre lo scritto anonimo dei Ragionamenti doppi , il quale si ritiene molto vicino a Protagora, ci
presenta la relatività dei valori e il relativismo culturale “Presso i Macedoni si ritiene bello che le
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Assaggi di Filosofia
fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso
i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un
uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne
indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si
vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e
se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece
se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose
turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si
congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge.
Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i
Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui
è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne
facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è
bello, ma per noi è tutto il contrario”. 5
Così come la cultura può diventare un problema e non si distingue il giusto dallo sbagliato , ancor
più difficile diventa stabilire il problema morale delle leggi “Se qualcuno ordinasse a tutti gli
uomini di radunare in un sol loco tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che
ciascuno crede belle ,neppure una ne resterebbe ,ma tutti si ripartirebbero tutto .” 6
“ Nessuna cosa in sé è una sola, né correttamente si potrebbe definire alcuna cosa, né si può
definire la qualità di qualcosa, ma, se tu la proclami grande, appare anche piccola, e se tu dici che
è pesante, può sembrare anche leggera, e così per tutte le altre, perché niente è uno, né
determinato, né di una data qualità. Dallo spostarsi, dal muoversi, dal congiungersi delle cose fra
di loro, deriva tutto ciò che noi chiamiamo esistente, esprimendoci in maniera non corretta. Infatti
nulla è mai, ma sempre diviene.” 7
Per questo non esiste una verità che valga per tutti gli individui e anche se si volesse fissare
andrebbe a intralciare i cambiamenti delle realtà , non solo della natura del cosmo ma anche
dell’uomo stesso . La dottrina che Eraclito ci propone afferma“ tutto scorre” tutto è in movimento .
“Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo , siamo e non siamo” 8. Quindi l’essere , le cose sono
soggetti a cambiamenti , sempre di versi gli uni dagli altri e sarebbe impossibile individuare una
sola realtà perché i nostri stati d’animo e le nostre percezioni variano sempre.
Gorgia , contemporaneo di Protagora , propone un paradosso a chi sostiene che l’essere sia unico e
immutabile e quindi crede in una verità assoluta . Lui sostiene una sorta di parodia di Parmenide
affermando che nulla esiste .Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a
trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica,e
come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene
Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli
eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione
dell'essere, cosicché egli giunge alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere.
Egli conclude che “l'essere non è” partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è né uno né molti,
né generato né ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più
interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare
tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile
dire ad altri come realmente stiano le cose. Supponiamo che l'essere ci sia; prendiamo un quaderno
blu: io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico “è blu”; ma non è che
nella testa dell'altro c'è lo stesso colore, magari è un blu più tendente al verde; fatto sta che non
potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io: l'essere, oltre a non esistere, non è pensabile e non
è dicibile. Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il “nichilismo”. Gorgia
sostiene che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe
comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non
“tutto è vero”, come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia,
essere ribaltate attraverso l’arma del logos : la parola può tutto. Gorgia con questa sua corrente di
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Assaggi di Filosofia
pensiero arriva a porre le basi del nichilismo filosofico. Noi ci serviamo del suo paradosso
semplicemente per dimostrare come l’essere non possa essere unico ed assoluto in quanto quando
pur fosse conoscibile ,non potrebbe essere espresso con parole e quel che noi conosciamo ,il
sensibile,è così soggettivo così strettamente legato alla coscienza dell’individuo,che è
assolutamente incomunicabile ad altri. Quindi ognuno potrebbe intendere qualcosa di diverso
dall’altro,quindi è inutile cercarlo.
Ma se nulla esiste e la ricerca è inutile perché comunque non veritiera: come si avrebbe il progresso
della società?. Se avessimo ragionato così ,ancora oggi sosterremo che il mondo è piatto, perché
non avremo mai esplorato il mondo che ci circonda , o addirittura le grandi epidemie ci avrebbero
annientato perché non avremo cercato una cura . La ricerca è fondamentale non sono per il
progresso della società ma dell’uomo stesso. Quindi non bisogna portare all’estremo il pensiero di
Gorgia,altrimenti si corre il rischio di arrivare ad una vera e propria paralisi.
Se tutto è vero e tutto è falso , cosa è giusto e cosa è sbagliato? Come si può applicare una legge o
condannare un uomo ?
Se non ci fosse un criterio logico si finirebbe in un soggettivismo anarchico , invece Protagora
credeva in un principio di scelta. Quale può essere il criterio per scegliere un punto di vista piuttosto
che un altro? E’ Il principio debole, ovvero dell’utile inteso come il bene del singolo e della
comunità. La verità è l’umanamente verificato come giovevole , ossia ciò che si è dimostrato
storicamente e socialmente utile all’individuo ,alla comunità e alla specie.
Ma per definire ciò che è realmente utile , non bisogna stabilire un criterio di verità?
Assolutamente , ma Protagora non si contraddice infatti afferma che non esistano “verità assolute”
o “ razionalità forti” ma non esclude una razionalità “debole”. Per esempio come abbiamo visto le
leggi variano in società in società ,sono relative alla condizioni alle quali esse sorgono , sono frutto
di convenzioni e punti di incontro che rispettano pienamente l’utile protagoreo che è finalizzato al
benessere comune della polis.
2. E se invece esistesse una verità?
Cambiando punto di vista si può intendere che la verità sia unica e oggettiva.
Sul piano dell’essenza concorderemo con Parmenide che “l’essere è e non può non essere , il non
essere non è, e non può non essere.” Quindi sarà ingenerato,imperituro , eterno
,immutabile,immobile unico,omogeneo e finito. Ma il paradosso di Gorgia , se non viene portato
all’estremo, ci fa bene intendere come questo essere assoluto sia difficile da definire in termini
pratici e sia incomunicabile . Mettendo in discussione la realtà stessa che ci circonda e
contraddicendosi all’interno della sua stessa descrizione: se è eterno ed è infinito allora non esiste ,
in quanto non è percepibile.
L’assolutismo gnoseologico invece viene sostenuto da Socrate che può definirsi secondo Aristotele
lo scopritore del “ concetto “ ;“ Due cose si possono a buon diritto attribuire a Socrate : i
ragionamenti induttivi e la definizione Universale ; e tutte e due riguardano il principio della
scienza” . 9
Al contrario di chi sostiene il relativismo, per Socrate la conoscenza avviene in maniera induttiva.
Dalle cose si estrae ciò che esse hanno in comune mettendo da parte le diversità, si trova ciò che le
caratterizza per quello che esse sono. Così Socrate con il “che cosa è ?“ cercava di spingere
l’interlocutore a cercare una verità oggettiva e di arrivare ad una definizione. Anche in campo
conoscitivo ,la descrizione di un oggetto,come per esempio di un albero,non può essere
relativa,l’albero lo si può disegnare in modo diverso ma resta pur sempre lo stesso albero.
“Anche se le virtù sono molte e diverse, è in tutte un’identica specie ideale per cui sono virtù; è
appunto affidandosi in questa specie ideale che uno ha la possibilità,rispondendo a chi lo
interroghi,di chiarire bene la questione sul cosa sia la virtù”. 10
49
Assaggi di Filosofia
In campo etico Protagora alla domanda : come si distingue il giusto dallo sbagliato e il bene dal
male ? Risponde con il principio di ciò che è più utile e di ciò che più giova alla società , Socrate
invece risponde con il valore della virtù. Questa è intesa come scienza del bene che porterà
l’individuo al perseguimento della felicità (eudemonismo). Così l’uomo guidato dalla ragione e
dalla
coscienza
saprà
ricercare
la
verità
.
“Il possesso delle altre scienze , se non si possiede anche la scienza del bene, rischia di essere
raramente utile, anzi il più delle volte è un vero e proprio danno (…)chi (..) possegga anche la
scienza del bene –la quale, infine, coincide con quella dell’utile-(…) ebbene, un simile uomo lo
chiameremo assennato , capace di consigliare la Città e se stesso”. 11
Socrate definisce la coscienza un “demone” che lo consiglia. La coscienza è unica? Può essere
influenzata dal contesto in cui uno vive? La coscienza socratica può essere un criterio solido di
valutazione per distinguere il bene dal male ? Poniamo l’esempio delle religioni: ciò che è
moralmente giusto per un cristiano non uccidere , non lo sarà per chi crede nel principio “occhio per
occhio dente per dente”.Ancora oggi nel mondo troviamo stati con la pena di morte,che quindi si
basa su concetti di coscienza diversi dai nostri.
Chi sostiene l’assolutismo crede in una essenza definita dell’essere , di un concetto universale
dettato dalla conoscenza induttiva delle cose e moralmente si affiderà alla virtù e alla coscienza
dell’uomo per arrivare alla verità assoluta . Possono esserci tante coscienze quanti sono gli uomini o
credere in principi differenti e cadere così nel relativismo ? Affidarsi alla ragione e alla coscienza
non diventerebbe un discorso utopistico in quanto sarebbe sempre condizionato dall’utile o da altre
esigenze ?
Oppure sostenere il relativismo porterà a credere che l’essere non è unico ,che la conoscenza è
deduttiva quindi si da molta importanza ai nostri sensi e l’etica è regolata dal principio debole
dell’Utile protagoreo.
3. Bilancio conclusivo
Queste due tesi filosofiche sono dibattute da secoli e sarebbe impossibile decretare quale delle due
sia valida o più giusta perché come per tutta la filosofia non è importante di per sé la risposta ma
come si ragione su di essa. Queste due correnti di pensiero hanno influenzato periodi diversi della
storia dell’umanità . L’Ottocento è sempre stato alla ricerca di una verità assoluta ,spesso
condizionato anche dalla religione che afferma una propria dottrina ed una propria verità, da gran
parte della letteratura e dalle scoperte scientifiche date oramai per certe .Invece il novecento è
l’emblema del relativismo . Dal punto di vista scientifico :La fisica della fine dell'Ottocento e del
primo Novecento mise in crisi questa concezione del sapere scientifico. Einstein, ad esempio,
dimostrò che le scoperte di Galileo e Newton non erano definitive neppure nel campo
apparentemente più solido, la dinamica del punto materiale. Non che fossero sbagliate, la fisica
classica era semplicemente un'approssimazione valida in un certo ambito di condizioni. Si è quindi
reso evidente che il metodo scientifico è per l'appunto un metodo, una via. Un metodo
straordinariamente efficace per descrivere certi ambiti di fenomeni. Alla sua base, il concetto più
importante: nessuna scoperta è mai definitiva, nessuna formulazione è valida in modo universale. E'
possibile procedere verso una conoscenza sempre migliore dei fenomeni, ma non si può mai avere
la conoscenza assoluta. La meccanica quantistica ha mostrato come una teoria scientifica può
descrivere con grande precisione i fenomeni rimanendo intraducibile nel linguaggio ordinario. E dal
punto di vista letterale abbiamo Pirandello che esaltò il soggettivismo ed espresse il relativismo
psicologico.
E il nostro secolo si affida ad una verità assoluta o relativa ?
“Solo gli imbecilli non hanno dubbi.
Ne sei sicuro? Non ho alcun dubbio!” (Luciano De Crescenzio,Il Dubbio)
50
Assaggi di Filosofia
Note
1.Luigi Pirandello,uno,nessuno e centomila, pag 12.
2. Platone,Teeteto,151d-152e.trad.di M Valmigli,Laterza, Roma-Bari 1971.
3. Platone,Teeteto,ibidem.
4.Platone,Teeteto, ibidem.
5. Diels-Kranz 90, 2; trad.: M. Timpanaro Cardini
6. Diels ,2,18 ibidem.
7. Platone,Teeteto,ibidem.
8. DK 22 B 49°,trad.it.diG.Giannantoni, I presocratici.Testimonianze e frammenti.
9.Aristotele,Metafisica,XIII,4,1078b.
10. Platone, Menone,72c.
11.Platone,Alcibiade II,144d ss.
Bibliografia



N. Abbagnano , La ricerca del pensiero,I, Paravia, 2012.
E. Paolo Lamanna,Letture Filosofiche,I felice le monnier-firenze
Treccani , il relativismo gnoseologico.
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Assaggi di Filosofia
“La fisica mi ha sempre affascinato, le caratteristiche e la natura delle cose, ma non so ..sono
anche attirata dall’essenza delle persone , come si relaziona il tutto a noi, l’indole e il carattere
degli uomini. Sono molto combattuta e il tema dell’essere tra fisica e metafisica è un mio grande
blocco interiore, so per certo che mi pentirei di non aver scelto entrambi!”
Conflitti apparenti: Parmenide ed Eraclito si escludono a vicenda?
Di Matteo Biccari
Introduzione
La filosofia è la necessità e la ricerca di rispondere a domande inevitabili che l’uomo si pone. La
prima domanda posta dai filosofi è quella riguardo all’origine di tutte le cose, l’arché, alla quale
hanno dato risposta, mediante un metodo induttivo, cioè ricavando dalla speculazione particolare
una regola generale, molti tra i quali Talete, che ne è l’iniziatore, Anassimandro, Eraclito, Pitagora
ecc.
La vera e propria cesura nei cosiddetti filosofi presocratici è rappresentata dal saggio di Elea,
Parmenide. Egli per primo si pone una domanda diversa, cioè: cos’è l’essere?Per l’eleatico l’essere
è una verità (alétheia) unica, eterna ed immutabile, che va oltre la superficie terrena, di cui, tra
l’altro, essa è solo apparenza ingannevole.
L’innovazione portata da Parmenide non è tanto quella di aver delineato le caratteristiche di un
nuovo argomento filosofico, tò eìnai (l’essere), quanto quella di essere passato dal succitato metodo
induttivo a un metodo deduttivo, cioè arrivando alla risposta partendo da una regola generale (e
inconfutabile), ovvero l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, per
poi spiegarla suffragata da esempi e dimostrazioni.
Sembra quindi che Parmenide, per le sue idee, sia inevitabilmente in contrasto con i suoi
predecessori e in particolare con Eraclito di Efeso: egli vede il mondo “come un flusso perenne in
cui tutto scorre, analogamente a quanto fa la corrente di un fiume, le cui acque non sono mai le
1
stesse” .
Queste due posizioni, quella del pànta rheì e quella dell’immutabilità dell’essere, appaiono quindi
inconciliabili, eppure forse vi è una terza strada, ovvero un discorso che ammetta entrambe le
teorie.
La domanda quindi nasce spontanea: è davvero possibile conciliare l’essere immutabile e
perfetto di Parmenide con l’incessante divenire della realtà di Eraclito?
1. Analisi dei due punti di vista
Per comprendere meglio da cosa nasce la disputa fra critici di Eraclito e di Parmenide, ritengo
opportuno chiarire in maniera più precisa i due punti di vista, così da non far cadere il lettore nel
timore di non comprendere a fondo la dimostrazione della tesi, perché mancante delle competenze
necessarie alla sua comprensione.
1.1.
Analisi del pensiero ontologico parmenideo
Come detto nell’Introduzione, Parmenide delinea le caratteristiche di un essere ontologica-mente
perfetto. Egli identifica in esso la verità (alétheia), cioè una realtà inconfutabile, poiché la sua
definizione non lascia spazio a contraddizioni ed imprecisioni, ed ultraterrena, poiché il mondo
sensibile, soggetto a molteplici interpretazioni, risulta fallace ed illusorio.
52
Assaggi di Filosofia
L’unica via per arrivare all’essere è quella del lógos, cioè della ragione, poiché la nostra mente è in
grado di pensare solo quest’ultimo, al contrario del non essere, che risulta inesprimibile per la
nostra mente e il nostro linguaggio.
Tramite una logica rigorosa, egli ricava gli attributi dell’essere. Esso è, secondo Parmenide:
 Ingenerato e imperituro, poiché se non fosse tale, nascerebbe dal non essere e morirebbe
dissolto nel nulla;

Eterno, di conseguenza, poiché non ammette passato (ciò che non è più) e futuro (ciò che non è
ancora);

Immutabile e immobile, poiché se mutasse e si muovesse, si troverebbe in luoghi o forme in
cui prima non era;

Unico ed omogeneo, poiché qualora fosse molteplice, ammetterebbe spazi di non essere.
L’uomo però ha l’opportunità di imboccare un’altra strada, quella che porta all’opinione (dóxa),
cioè alla conoscenza di un essere apparente e illusorio: basandosi sui sensi e non sulla ragione, il
mondo appare molteplice e soggetto a plurime interpretazioni e quindi non vero. Egli dice che
“saranno soltanto parole, quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e
2
perire, essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore” .
1.2 Analisi della teoria del divenire eraclitea
Eraclito è noto come “filosofo del divenire”, poiché pone alla base del suo pensiero la concezione
della realtà vista come continuo mutamento delle cose che la compongono.
In realtà, la teoria del pánta rheí (tutto scorre) non sarebbe dello stesso filosofo efesino, ma dei
suoi discepoli, poiché nei suoi frammenti manca tale espressione né viene spiegata e dimostrata. È
comunque poco utile distinguere il maestro dai propri discepoli, in quanto ciò che importa a noi è
l’idea e non tanto l’attribuzione di questa, quindi non perderemo tempo ulteriore.
Vedendo la realtà come continuo cambiamento, tramite un ragionamento induttivo, sostiene che il
principio di tutte le cose è il fuoco, l’elemento mobile per eccellenza.
Ciò che dà la vita, secondo Eraclito, è la stretta connessione e la lotta (pólemos) fra i contrari,
che lottano, perché opposti, ma non possono stare l’uno senza l’altro, perché il primo vive in
funzione dell’altro e viceversa, infatti: “Congiungimenti sono intero e non intero, concorde e
3
discorde, armonico e disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose” .
Questa continua contrapposizione, che genera la vita, è governata da un principio razionale che è il
lógos, grazie al quale un opposto non può esistere indipendentemente dall’altro.
Secondo Eraclito è attraverso il lógos e alla sua intelligenza che l’uomo passa da dormiente, cioè
privo di coscienza, a sveglio, e quindi capace di conoscere e comprendere le leggi del mondo, che
si impongono ad ogni mente investita di ragione: infatti dice che “Chi vuol parlare con intelligenza
4
deve farsi forte di ciò che è comune a tutti” , ergo deve uscire dallo stato di sonno, che fa restare
l’uomo escluso dalla comprensione autentica della realtà.
2. Eraclito e Parmenide non si escludono a vicenda
Ad un’analisi sommaria, le due teorie sembrano escludersi a vicenda, in quanto Eraclito vede il
mondo delle cose come continuo divenire, mentre Parmenide vede l’essere come immutabile,
immobile ed eterno.
53
Assaggi di Filosofia
Proprio in questa motivazione risiede l’errore: esso può essere causato da un ragionamento
superficiale fatto su ciò che viene preso in analisi. Proviamo quindi a ragionare sui termini di
entrambi i discorsi.
Quando Eraclito parla di pánta rheí, egli si riferisce al ragionamento compiuto su dati ottenuti dai
sensi. Si usi come dimostrazione il frammento 91: “Non è possibile discendere due volte nello
stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del
5
movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e tutto va” .
Quest’affermazione si potrebbe analizzare attraverso due parole chiave: discendere e toccare.
Quando si discende un fiume, l’azione è registrata attraverso i sensi, primo fra tutti la vista; l’atto di
toccare una sostanza mortale è compiuto attraverso i sensi proprio perché il tatto è uno dei cinque e
ogni dimostrazione è perciò ovvia.
In questo discorso quindi Eraclito parla di una realtà che è quella sensibile (infatti egli la definisce
come mondo delle cose), che secondo Parmenide non porta alla conoscenza di un essere vero.
Inoltre l’intento di Eraclito, a differenza di Parmenide, non è quello di fare un discorso ontologico
sulla realtà, proprio perché iniziatore dell’ontologia è lo stesso filosofo eleatico.
Qualcuno, nonostante tali dimostrazioni, potrebbe dire che, siccome in Eraclito il mondo è
governato dalla continua opposizione dei contrari, dalla cosiddetta guerra (in greco pólemos) che
avviene fra di loro, è impossibile congiungere questa idea con quella di un essere unico e
immutabile come quello parmenideo.
In realtà tale affermazione è confutabile, poiché in Eraclito l’opposizione che genera la vita delle
6
cose è governata dal lógos, che è una “realtà eterna” , e si riconduce a esso, proprio come l’essere
parmenideo: quindi con Eraclito assistiamo solo alla coincidenza fra essere e lógos, che Parmenide
non contempla, anche se non abbiamo gli elementi necessari per escluderla.
Prendiamo, inoltre, a dimostrazione della tesi un frammento molto interessante di Eraclito:
7
“Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno” .
Si può ritenere tale frammento come prova principale della tesi, giacché Eraclito si “riconcilia” con
il saggio di Elea proprio grazie ad esso, poiché, come quest’ultimo, qui ammette che il seguito della
ragione porta a rendersi conto che tutto si riconduce all’unità essenziale.
Come in precedenza dimostrato, quindi, il suo pánta reí si riferisce al mondo molteplice delle cose,
al mondo sensibile, mentre il lógos è la via per arrivare a quella stessa unità espressa da Parmenide.
Per tirare le somme, è da ritenersi giusto riallacciarsi al filosofo eleatico, poiché abbiamo visto
come ciò che in apparenza sensibile è discorde, sotto il filtro ineluttabile della ragione, confluisce in
una verità unica e onnicomprensiva.
Note
1. da N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della
filosofia, vol.1 A, ed. Paravia
2. da G. Giannantoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, 1969,
trad. it. Di P. Albertelli, DK 28 B 8, vv. 5-8
3. Ibidem, DK 22 B 10
4. Ibidem, DK 22 B 114
5. Ibidem, DK 22 B 91
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Assaggi di Filosofia
6. da N. Abbagnano e G. Fornero, in op. cit., pag. 37
7. da G. Giannantoni (a cura di), in op. cit., DK 22 B 50
Bibliografia

N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della
filosofia, vol. 1A, ed. Paravia, 2012

G. Giannantoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. Laterza, 1969

Luciano De Crescenzo, Storia della filosofia greca - I presocratici, ed. Mondadori, 1983
55
Assaggi di Filosofia
L’essere: statico o dinamico?
Di Maria Teresa Casiello
"Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero / né l'abitudine, nata da numerose esperienze,
su questa via ti forzi / a muover l'occhio che non vede, l'orecchio che rimbomba e la lingua, ma con
la ragione giudica la prova molto discussa / che da me ti è stata fornita. / Resta solo da
pronunciarsi sulla via / che dice ciò che è."1 Con questo Parmenide ci dice di ricercare, valutare e
osservare le cose con la ragione. Per lui la vera via è questa, e quella dei sensi (quella dell’occhio
che in realtà non vede) è fallimentare ed illusoria. Il pensiero parmenideo risulta una sfida radicale
al senso comune: arriva per vie razionali a contraddire ciò che sembra più evidente e naturale,
ovvero che esistano più entità che nascono (si creano dal nulla) e si distruggono (che ritornano nel
nulla). Parmenide afferma che nulla può generarsi dal nulla, né tanto meno ridiventare nulla…
semplicemente il nulla non esiste. L’essere parmenideo è quindi fuori dalle categorie su cui si basa
il mondo: il tempo e lo spazio. Per la sua filosofia, Parmenide si è trovato ad entrare in polemica
con vari filosofi, tra i quali Eraclito. Per Parmenide la realtà eraclitea è falsa, in quanto, sostenendo
il continuo mutare delle cose, si fa ingannare dai sensi, non arrivando a vedere la realtà delle stesse.
D’altro canto parliamo di due filosofi con due visioni del mondo e dell’essere diametralmente
opposte; da un lato vi è la staticità più totale, e dall’altro l’ininterrotta mobilità delle cose. Il punto
è: quale delle due visioni è quella giusta? Spesso mi sono interrogata su questo, ma come sappiamo
non si può mai arrivare ad una risposta sicuramente giusta in filosofia, ma a quella che può essere
più giusta per noi. Può sembrare di sfociare in un eterno relativismo, ma esso, rimanendo contenuto
in determinati ambiti, è necessario per mantenere l’equilibrio tra le persone. Per questo bisogna
confrontarsi con altri, e una persona con una visione del mondo che potremmo definire parmenidea,
potrebbe affermare che la visione eraclitea del divenire conduce ad una specie di nichilismo e che il
continuo mutare delle cose conduce all'impossibilità di formulare giudizi autentici sulla realtà.
Prendiamo come esempio Zenone; con dei paradossi lui riusciva a far apparire assurde le dottrine
filosofiche che ammettono la molteplicità e il mutamento. Questa visione evidenzia una teorica
incapacità dell’uomo nel dare giudizi o affermazioni obiettivi, derivante dall’inconsistenza
dell’essere eracliteo, in quanto, essendo in continuo movimento, non è né quello che era poco prima
né quello che sarà poco dopo. Viene da chiedersi, l’essere parmenideo nella sua staticità trova
ragione della propria essenza? Ossia l’essere è perché concepibile come statico e non dinamico?
Dunque l’essere è, in quanto ente o in forza delle qualità che lo caratterizzano? Parlare di staticità o
dinamicità significa evidenziarne una qualità. Si potrebbe inoltre dire che il concetto di
cambiamento dell’essere che Eraclito voleva trasmettere, sia da riferirsi alle qualità che lo
caratterizzano,
e
che
quindi
definiscono
la
sua
essenza.
Ritengo quindi che il pensiero eracliteo dia una spiegazione esaustiva al fine della comprensione
dell’essenza dell’esistenza mondo, in quanto si basa sulle categorie di spazio e tempo, che sono
fondamentali per la comprensione di un mondo reale e non apparente. Ciò che oggi esiste è per ciò
che è stato, pur differenziandosi da esso, ed è potenzialmente ciò che sarà ma che ancora non è. In
base a ciò il “tutto scorre” di Eraclito sta ad indicare il divenire e il mutamento come processi propri
dell’essere, sui quali poi si erge la sua essenza.
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Assaggi di Filosofia
Parmenide tra realtà e illusione
Di Federica Santoro
Essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere! Forse a molti
quest'affermazione risulterà familiare ma è bene per chi non ne avesse mai sentito parlare fare una
breve premessa. Si tratta del pensiero del famoso filosofo Parmenide, nato in Magna Grecia ad Elea
e fondatore della scuola filosofica eleatica. Dunque, cosa intendeva dire Parmenide riguardo al
concetto sull'essere? Parmenide afferma che adottando la via della ragione e non quella dei sensi si
giunge alla verità e cioè alla consapevolezza che solo l'essere esiste ed ha ragione di essere pensato
mentre il non essere non esiste e di conseguenza non può essere pensato. Da questo ne derivarono
due principi: il principio di identità, per cui ogni cosa è se stessa, e il principio di non
contraddizione, per cui una cosa non può essere e allo stesso tempo non essere ciò che è. A questo
punto Parmenide espone la sua concezione dell'essere descrivendolo con tutta una serie di attributi.
L'essere , dunque , è:
-ingenerato e imperituro perchè se nascesse o morisse significherebbe crearsi dal nulla e dissolversi
nel nulla e quindi implicherebbe il non essere;
-eterno poiché altrimenti implicherebbe il non essere del passato e il non essere del futuro
-immutabile e immobile perché se cambiasse o si muovesse significherebbe trovarsi in stati o in
situazioni in cui prima non si trovava
-unico perché se fosse molteplice implicherebbe intervalli di non essere
-finito poiché per Parmenide la finitudine è perfezione
Parmenide potè, inoltre, contare sull’appoggio di alcuni sostenitori tra i quali ricordiamo in
particolare Zenone, suo allievo, che più volte ribadì le tesi del suo maestro. Nello specifico presentò
tutta una serie di paradossi contro la pluralità e il movimento come ad esempio il paradosso “della
freccia”: secondo Zenone, una freccia in movimento è in realtà immobile. La freccia infatti in un
determinato istante occupa uno spazio pari alla sua lunghezza e quindi per ogni istante del tempo in
cui la freccia si muove , questa è in realtà immobile. Altro sostenitore è Emanuele Severino,
ordinario di filosofia teoretica all’ Università di Venezia. Questo , interrogato da Renato
Parascandolo, dichiarò l’importanza del filosofo Parmenide e parlò del pensatore Karl Popper il
quale proprio in merito a Parmenide disse la sua paragonandolo ad Einstein. Anche Einstein ,infatti,
credeva che gli eventi della vita fossero istantanei e che non vi fosse un passato né tantomeno un
futuro negando così il processo del divenire.
Dopo questa breve parentesi sui sostenitori di Parmenide, viene però spontaneo chiedersi: quindi se
noi nasciamo, muoriamo, siamo soggetti al tempo e alle trasformazioni, non siamo forse reali?
Parmenide, infatti, dovendo affrontare una realtà che implica il non essere afferma che essa
rappresenta solo un'illusione. Ma noi realmente possiamo definirci frutto di un'immaginazione?
Noi possiamo credere che la nostra esistenza non sia reale e che tutto ciò che vediamo, tocchiamo,
sentiamo, tutto ciò che appartiene ai sensi sia una completa e assoluta apparenza? Su questo c'è da
dissentire sicuramente. Le affermazioni di Parmenide scatenarono non poche discussioni dove molti
misero in dubbio la veridicità di ciò che dicevano Parmenide e i suoi sostenitori. Ma da chi
provenivano queste critiche? I suoi accusatori erano principalmente i filosofi sofisti. Come ci dice
in un’intervista il professor Giannantoni, questi, essendo anche oratori, erano ostacolati dalla
pretesa di Parmenide di non pronunciare nulla che fosse diverso dal discorso che dice “ è “. Per
questo le loro orazioni diventavano povere verbalmente e poco efficienti. I sofisti dunque
iniziarono, oltre ad esprimere il loro disaccordo sulle tesi parmenidee, a farne un’ironia proprio
come fece il sofista Giorgia in una sua opera intitolata “ Sull’Essere” di cui però non ci è rimasto
nulla se non due parafrasi : una di Sesto Empirico e l’altra di un aristotelico. Pienamente
condivisibile poi è la critica di Platone. Egli nella sua opera IL SOFISTA si sofferma sui concetti di
57
Assaggi di Filosofia
essere e Non essere chiarendo che l’espressione “non è” rappresenta semplicemente una diversità .
Platone dice infatti: “ se dico che il tavolo non è la sedia intendo dire che il tavolo è diverso dalla
sedia e quindi quel “ non è” non va a indicare la falsità del molteplice come per Parmenide. Platone
dunque sostiene che il concetto di Non essere si risolve completamente nel concetto di alterità.
Ancora più specifica e completa è la critica di un altro grande esponente filosofico: Aristotele. Egli
si oppone anche alla concezione da parte di Parmenide di un essere unico affermando che invece
l’essere si dice in molti modi e che quindi il diverso non è altro che uno dei tanti modi dell’essere (
Molteplicità dell’Essere).
Abbiamo esposto ciò che sommariamente riguarda il filosofo Parmenide e abbiamo espresso la
nostra contrarietà sulla sua teoria alla luce delle affermazioni di Aristotele e Platone. Abbiamo
cercato di essere alquanto oggettivi, motivo per cui si è anche parlato dei sostenitori di Parmenide in
modo da fornire gli elementi necessari a capire e conoscere meglio Parmenide. Lo scopo di tutto ciò
era quello di rendere chiara a tutti i lettori l’assurdità delle idee del filosofo nel caso in cui ci fossero
persone che non conoscendo tutti i retroscena potessero appoggiare Parmenide. Speriamo di essere
riusciti nell’intento!
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Assaggi di Filosofia
L’uomo e la verità: dal relativismo protagoreo al principio di
non contraddizione aristotelico
di Clara Fabricatore
Introduzione
Se gli intellettuali sono espressione e manifestazione dell’epoca a cui appartengono, i sofisti
rappresentano a pieno il particolare clima del mondo greco, ma soprattutto di Atene, a partire dal V
secolo a. C. Il primo e il più importante esponente della sofistica fu Protagora di Abdera, al cui
pensiero viene fatta risalire la prima forma di relativismo gneosologico, una concezione fondata sul
riconoscimento del valore soltanto relativodella conoscenza incapace di comprendere la realtà
nella sua assolutezza oggettiva e nega, perciò, la possibilità di verità assolute. Affermare che le
verità sono relative può significare tutto quanto niente, se prima non si precisa il quadro concettuale
di riferimento e ogni valore, che tale dottrina filosofica vuole esprimere. La contestualizzazione,
come l’analisi parola per parola dei frammenti pervenutici, acquista un ruolo fondamentale per la
piena comprensione di una concezione filosofica così complessa e discussa come quella del
relativismo. Basti pensare come, nel tempo, al solo termine stesso siano state attribuite forti
connotazioni dispregiative da parte di quelle culture, che ritenevano sotto il profilo etico e politico,
oltre che gnoseologico, insostenibili alcune sue posizioni basilari. Dunque, nel seguente saggio si
cercherà di analizzare e sostenere, lungo un percorso storico – temporale, le tesi relativistiche
gneosologiche sostenute da Protagora a discapito di tutto ciò quello che verrà successivamente
affermato da filosofi, come Socrate, Platone e Aristotele.
1.Può l’uomo essere misura di tutte le cose?
“L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in
1
quanto non sono”.
Così sembra iniziasse l’opera di Protagora intitolata, su testimonianza di Platone, Αλήθεια. Tale
frammento, che è fondamentale all’interno del pensiero protagoreo e letteralmente vuol significare
chel’uomo è il metro della realtà o irrealtà delle cose, del loro modo di essere e del loro significato,
va a sottolineare il ruolo ineliminabile dell’opinione nella conoscenza umana, negando la possibilità
di conseguire una conoscenza oggettiva e immutabile. Il suo preciso senso filosofico, fin da sempre
molto discusso, fu chiarito per la prima volta da Platone, la cui interpretazione ha continuato e
continua ad essere la più accreditata. Secondo quest’ultimo, il sofista, intendendo per“uomo”
l’individuo singolo e per “cose”gli oggetti percepiti attraverso i sensi, voleva dire che «quali le
singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo
2
sei tu e uomo sono io» . Una successiva interpretazione sosteneva che la parola “uomo” avesse il
significato universale di “umanità” e la parola “cose” quello di “realtà in generale”, intendendo che
gli individui giudicassero la realtà attraverso parametri comuni tipici della specie razionale cui
appartengono. È stato anche sostenuto che i termini in questione significassero rispettivamente la
comunità cui l’individuo appartiene e i valori che ne stanno alla base, così che il frammento
intendesse dire che ognuno valuta le cose secondo la mentalità del gruppo sociale cui appartiene.
Non è possibile affermare che una di queste interpretazioni sia più valida dell’altra, in quanto è
difficile stabilire con precisione ciò che voleva veramente intendere Protagora, ma è probabile che
voleva riferirsi complessivamente e indistintamente a tutte. Ergo si pensa che l’uomo protagoreo sia
misura di tutte le cose ai vari livelli della sua umanità: in primo luogo come singolo, poi come
comunità e infine come specie. La variabilità della conoscenza, sostenuta dal sofista di Abdera,
dipende dalla indeterminazione sia del soggetto sia dell’oggetto. In questo modo egli insegna ai suoi
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Assaggi di Filosofia
contemporanei ad avere “paura” della verità assoluta e inconfutabile, la quale è sempre destinata a
diventare dogma e a necessitare di un forte culto e, quindi, rifiuta proprio il carattere assolutistico,
magico e sacrale della verità, che era tanto caro a tutta una tradizione filosofica. Inoltre, sostituisce
alla concezione oggettivistica e assolutistica una umanistico – storicistica, secondo la quale la verità
è ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo, alla comunità e alla specie.
La verità, allora, si fa interamente umana, si concede concretamente alla polis, al dibattito pubblico,
alla politica, al rapporto educativo e pedagogico, come viene attestato dal seguente estratto del
dialogo platonico Protagora.
“Protagora, intendi per caso le cose che non sono utili a nessun uomo, o quelle che non sono utili
in assoluto? Anche queste tu chiami buone?”
“Assolutamente no. Ma conosco molte cose che sono dannose agli uomini, cibi, bevande, farmaci e
mille altre e alcune che invece sono utili. Altre poi non sono né utili né dannose agli uomini, mentre
sono utili ai cavalli; altre solo ai buoi, altre ai cani; altre a nessuno di questi, ma agli alberi.
Quelle che sono buone per le radici degli alberi sono dannose per i germogli. Il letame, ad
esempio, se dato alle radici è utile a tutte le piante, se invece fosse usato per i germogli e i
ramoscelli giovani, li distruggerebbe completamente. L’olio poi è assolutamente dannoso per tutte
le piante e ancora più dannoso per i peli di tutti gli animali, eccetto l’uomo; è infatti utile ai peli
dell’uomo e al resto del corpo. Il bene è così variegato e multiforme che la stessa sostanza è utile
all’uomo per le parti esterne del corpo, mentre è molto dannosa per quelle interne. Per questo
motivo tutti i medici impongono agli ammalati di non usare olio, se non in piccolissime quantità nei
3
cibi, quanto basta ad attenuare l’odore fastidioso dei cibi e delle bevande”.
L’individuo è variabile e le sue sensazioni sono ugualmente vere ciascuna nel momento del suo
accadere e, quindi, l’unica conoscenza possibile non sarà la verità assoluta, ma la doxa. Inoltre, è
misura e può conoscere soltanto quando può misurarsi, confrontarsi con l’oggetto e, soprattutto, può
entrare in rapporto con esso, ma ciò non può assolutamente avvenire con gli dei. "Riguardo agli dei,
non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che non sono: molte sono infatti le difficoltà che
4
si frappongono: la grande oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana". (frammento 4)
Gli dei vanno oltre la misura possibile all’uomo, il quale è impossibilitato, dal momento che non
può stabilire un rapporto con ciò che esula dall’esperienza personale e non può essere oggetto di
conoscenza. In altri termini ciò che l’uomo vedeva era certo, mentre ciò che non trovava prova
nell’esame diretto non poteva essere conosciuto. Oggi, però questo dato subisce notevoli eccezioni,
perché specie in relazione ai progetti della scienza e della conoscenza in genere ci sono stati
notevoli progressi e ,infatti, vi sono una serie di eventi e fatti, che non sono percepibili all’uomo,
ma di cui si è certi: non vediamo l’atomo, ma abbiamo la certezza che esso esista. Comunque
Protagora non negava il problema degli dei, ma lo riteneva irrisolvibile, affermando così la prima
professione filosofica di agnosticismo religioso, secondo cui Dio non è razionalmente affermabile o
negabile, in quanto non si possiedono strumenti mentali adeguati per ammetterne o escluderne
l’esistenza. Naturalmente ciò comporta che gli dei non possono essere disposti come termine di
differenziazione per caratterizzare l'uomo, come fin ad allora era accaduto, e, quindi, Protagora è
“costretto” a individuare questo secondo termine di paragone negli animali.
Il relativismo protagoreo è lo sviluppo logico di alcune teorie sostanzialmente ontologiche di
Eraclito e ne affonda radici in dottrine come quella dei contrari, secondo la quale: “L’opposto
5
concorde e dai discordi bellissima armonia” . Infatti, il sofista sostenne il fluire ed il divenire
delle cose come dati innegabili della realtà, che ci circonda, e allo stesso tempo accolse l'idea della
diversità delle sensazioni e dei gusti. Invece di opporre a questa realtà dominata dalla doxa, cioè
dall'opinione, un mondo di verità ideali o addirittura il granitico concetto di essere parmenideo,
accettò la realtà del mondo e si persuase che era anche possibile istruire gli uomini a comprendere
la diversità ed il valore della diversità, avendo come fine non un generico riconoscimento del
pluralismo, ma una maggiore comprensione reciproca per poi arrivare a decisioni concordi e,
soprattutto, utili al singolo e alla comunità. Nonostante Protagora non si presenti come un negatore
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Assaggi di Filosofia
della verità, ma come il filosofo che ha ridefinito questa come pluralità di verità, Socrate si oppone
alla sua deriva relativisitica con la sua appassionata ricerca della verità su di ogni argomento. La
ricerca socratica con la scoperta del “concetto” è arrivata a stabilire che su di ogni argomento
l’uomo attraverso un dialogo sincero, è in grado di concepire un concetto, valido per tutti e perciò
comunicabile. Come per i sofisti la verità si riduce alla doxa, che si riferisce all’estrema variabilità
del soggetto conoscente, dando luogo ad una sorta di relativismo assoluto, per Socrate la verità si
ripropone come percorso di ricerca intersoggettivo e in quanto tale universale, rivolto
all’eliminazione delle false opinioni. Lo scopo della conoscenza si configura così come un percorso
di approssimazione alla verità che lascia sempre aperta la strada ad ulteriori sviluppi, in un
processo ad indefinitum, ma che lo contrappone veramente ai sofisti e al relativismo gnoseologico
è la fiducia nella capacità razionale dell’uomo di seguire il medesimo percorso di approssimazione
alla verità universale. Ma questo viene veramente messo in discussione e, dunque, crolla con
Platone, in quanto nel platonismo non è più l’uomo a misurare la verità, ma è la verità, cioè le
cosiddette idee, a misurare l’uomo e a fornirgli le regole del pensare e del vivere. Così la
conoscenza torna ad avere un valore assoluto e cessa di essere relativa all’uomo e al soggetto
giudicante. Inoltre egli nel Teetetosostenne che, se tutto fosse vero, dovrebbero essere vere pure le
tesi false, poiché affermare qualcosa di diverso significa necessariamente cadere nell’errore. Ne
consegue che è vero ritenere che ciò che dice Protagora è falso, dal momento che tutto è vero.
Ciò che la critica platonica non riesce proprio a concepire è, quindi, la doxa di Protagora, che
appare come l’esatto contrario della verità. Ma il filosofo che criticò fermamente il sofista di
Abdera e la sua tesi fondamentale, cioè che l’uomo fosse metro di tutte le cose, fu Aristotele, il
quale, affermando l’esistenza di indiscutibili verità di ragione, si colloca sul versante opposto
rispetto ad ogni forma di relativismo. Egli all’interno del quinto e del sesto libro della sua opera
intitolata Metafisica definisce quella di Protagora come una figura complessa, i cui interessi
possono essere collocati tra filologia e filosofia.
“Se le cose stessero come dice Protagora [cioè ognuno ha la sua verità], allora tutti avrebbero
sempre ragione, nessuno penserebbe il falso, perché ognuno è certo in un dato momento di quello
6
che gli sembra, di quello che gli appare” .
Come attesta tale estratto, in primo luogo, viene rivolta l’ accusa di contraddittorietà, perché se
l'uomo fosse misura di tutte le cose non ci sarebbe alcun criterio per distinguere il vero dal falso.
Secondo il principio di non-contraddizione sostenuto da Aristotele, il quale regge tutto il nostro
pensiero e il nostro modo di agire, la verità su di un argomento e sul medesimo aspetto di
quell’argomento non può che essere una sola. Inoltre, è inconcepibile che ogni qual volta che gli
uomini hanno opinioni differenti riguardo ad un medesimo oggetto, tutto ciò che viene sostenuto, in
quanto scaturito da sensazioni, è vero. Ciò porterebbe a considerare vere nel medesimo tempo
anche le enunciazioni contrastanti, ma da ciò ne conseguirebbe l’affermazione del principio di non
contraddizione, perché chi nega quest’ultimo in realtà lo afferma. Un’ulteriore contraddizione nel
pensiero protagoreo, che viene riscontrata da Aristotele, sta nel dover ammettere che anche gli
animali, in quanto pieni possessori di forti sensazioni, abbiano una visione parimenti sostenibile a
quella umana e possano essere sapienti al pari degli uomini.
Inoltre, egli afferma che “in ordine alla verità non tutto ciò che appare è vero”. Ciò vuol dire che
Protagora fondamentalmente commetteva un’ulteriore errore, considerando verità ciò che appare,
poiché egli prima di tutto ignorava la sostanziale differenza tra verità e opinione. Quando egli
afferma che ognuno ha la sua verità, egli in realtà dice che ognuno ha una sua “opinione”, che può
essere sbagliata o vera.
Non è possibile considerare il pensiero protagoreo giusto a discapito di quello aristotelico, o
viceversa, perché entrambi possono essere ritenuti validi. Però bisogna fare molta attenzione, ogni
qual volta si sostiene uno dei duo o, comunque, qualsiasi cosa, nel non estremizzare e, quindi,
rendere immorali le tesi in cui si crede. Pertanto, non è affermabile una verità assoluta, che potrebbe
essere tale solo “rationis temporibus”, dal momento che, modificate le condizioni obiettive, è molto
probabile che cambierebbe. A tal riguardo può essere esemplificativo anche l’esame di fatti di
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Assaggi di Filosofia
cronaca o di giustizia, si pensi ad un imputato dichiarato colpevole per un grave reato sulla base di
prove ritenute certe, che, a distanza di anni e con la scoperta di nuove tecniche investigative, si
scoprono essere false. Quest’ultimo può essere un banale esempio per sottolineare ancor di più
quanto la verità sia relativa, così da poter sostenere, almeno in parte, al tesi del sofista Protagora.
Infatti, il principio “rebus sic stantibus” non deve condurre a una situazione di incertezza assoluta
per l’essere umano in ragione della possibilità che, mutando le condizioni obiettive, si cambi idea e,
quindi, si ottenga un risultato di verità diverso. In conclusione, non si può stabilire quale delle
dottrine filosofiche, su cui si è discusso, sia la più valida e applicabile alla realtà, perché ognuno di
essa contiene e sostiene un verità, che, per quanto possa essere relativa, deve, comunque essere
tenuta in considerazione.
Note
1. Platone, Teeteto, 151d – 152e, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971.
2. Ibidem.
3. da Platone, Protagora, 334 a-c, trad. di M.L. Chiesara, ed. Rizzoli, 2010
4. Diogene Laerzio,Vite dei filosofi, libro IX, cap. VIII, trad. di Marcello Gigante, Mondadori,
2009.
5. N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia,
pag. 48, ed. Paravia, 2012.
6. Aristotele, Metafisica, 1062, b 14.
Bibliografia

N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.
1A, ed. Paravia, 2012.




Diogene Laerzio,Vite dei filosofi, trad. di Marcello Gigante, Mondadori, 2009.
Platone , Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971.
Platone, Protagora, trad. di M.L. Chiesara, ed. Rizzoli, 2010.
Aristotele, Metafisica.
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Assaggi di Filosofia
Democrito: l’atomismo può essere una forma di materialismo?
Di Sara La Torraca
Introduzione
Secondo il geografo Strabone, il quale a sua volta cita Posidonio, l’atomismo greco può essere
riconducibile ad una figura conosciuta come Mosco o Moco di Sidone, vissuto al tempo della
guerra di Troia.1 Tuttavia il primo filosofo a cui può essere riferita con sicurezza la teoria atomistica
è Leucippo di Mileto, maestro di Democrito, che ricevette ad Elea l’insegnamento di Zenone. Le
sue idee furono riprese e sistematizzate dal suo allievo Democrito.
Democrito distingue la materia e il vuoto. È questa la fisicizzazione del binomio eleatico di essere e
non essere: l’essere è inteso come pieno e il non essere come vuoto. Il pieno viene identificato da
Democrito come materia e il vuoto come lo spazio nel quale essa si muove. L’unica differenza
rispetto alla visione parmenidea è l’ammissione dell’esistenza del vuoto e di conseguenza del non
essere. Come ha osservato Gabriele Giannantoni, filosofo scomparso nel 1998: “Questo potrebbe
sembrare strano, perché se il vuoto esiste, se lo spazio è reale, perché Democrito lo chiama “non
essere”? Lo chiama “non essere” perché è “privo di essere”, cioè privo di atomi. (…) Questo
modo di esprimersi, questo modo di presentare le cose sul piano linguistico, non può non
richiamare Parmenide e l’eleatismo: la contrapposizione di essere e di non essere era tipica
dell’eleatismo. Democrito in qualche modo la riprende, ma sempre tenendo fermo il principio
costante dei pluralisti che la caratteristica dell’essere è quella di rimanere eternamente identico a
se stesso, mentre tutto ciò che diviene, che nasce, che muore e si trasforma è soltanto mera
opinione.” 2
1. La materia è dunque costituita da atomi, ossia da particelle indivisibili
“Il termine “atomo” indica ciò che indivisibile, e quindi “atomo” è l’ultima realtà a cui io posso
pensare di pervenire scomponendo il mondo fenomenico, il mondo che io vedo. Il mondo che io
vedo è il risultato dell’aggregazione degli atomi, la nascita delle cose è l’aggregarsi degli atomi, la
loro morte è la separazione degli atomi”.3 Infatti la divisibilità all’infinito può valere soltanto in
campo logico matematico, non nella realtà, poiché se noi dividessimo all’infinito la materia non
rimarrebbe più nulla: “Gli atomi si oppongono a questa infinita divisibilità, non perché io non
possa pensare gli atomi come entità ulteriormente divisibili, ma perchè in realtà io non sarei mai in
grado di dividerli, perché essi oppongono a questa divisione una pienezza e una durezza che li
rende indivisibili. Quindi è una indivisibilità reale, rispetto alla quale nulla può la divisibilità che
io posso immaginare con il pensiero.” 4
Democrito riteneva che l’atomo avesse delle caratteristiche essenziali. Riprendendo l’essere
Parmenideo, affermava che gli atomi sono: pieni, immutabili, ingenerati ed eterni. Essi, in effetti,
non presentano differenze dal punto di vista qualitativo, ma differiscono soltanto per forma
geometrica e grandezza; determinano la diversità e il mutamento con i loro rapporti d’ordine e
posizione: “la forma è una categoria misurabile e quindi rientra nel mondo della quantità. È
Aristotele che ci informa su questo aspetto della dottrina democritea. Democrito diceva che gli
atomi sono diversi per forma, per posizione e via dicendo e Aristotele fa l’esempio delle lettere
alfabetiche: la lettera “e lunga”, la “eta” dell’alfabeto greco, si scrive maiuscola come un’acca: H.
Se messa verticalmente ha una figura; se messa invece orizzontalmente assomiglia di più ad una Z.
Questa varietà di forme è quella che spiega perché gli atomi non rimbalzano tra loro e si
ridisperdono, ma si possono uncinare e aggregare e formare i composti solidi.”5
Ma queste particelle ultime erano di dimensioni estremamente piccole? Non necessariamente la
piccolezza era un connotato importante degli atomi. Come osserva ancora Giannantoni: “nella
tradizione atomistica antica ci furono anche ammissioni di atomi molto grandi. Gli atomi non
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Assaggi di Filosofia
cadono sotto la conoscenza sensibile, sono conoscibili solo mediante la conoscenza razionale e non
mediante la conoscenza sensibile, appunto perché gli atomi sono realtà non solo semplici ma
sprovviste anche di ogni qualità: quindi non sono percepibili.”6
Riguardo al movimento degli atomi vi è qualche incertezza. Si pensa che il movimento delle
particelle sia rappresentato da “un volteggiare caotico in tutte le direzioni” fino a formare
aggregazioni i. Inoltre, essendo gli atomi infiniti, secondo Democrito da essi si generavano infiniti
mondi che nascevano e morivano in continuazione. “La cosmogonia di Leucippo, che non si può
distinguere da quella che Democrito espose nei suoi due Diacosmoi o Sistemi del Mondo, è fedele
allo schema Milesiano: una massa infinita da cui sarà prelevata la materia di innumerevoli mondi,
che si producono successivamente o simultaneamente; affinché un mondo si formi, basta che un
frammento si distacchi da questa massa e che sia animato da un movimento vorticoso (…)
L’ammasso di atomi è, lo abbiamo detto, un movimento vorticoso di cui l’origine è peraltro oscura;
l’effetto di questo movimento è quello di produrre vari scontri tra atomi di qualsiasi peso. Come si
verifica in una raffica di vento o di acqua, gli atomi più leggeri sono respinti verso l’esterno, invece
gli atomi compatti si riuniscono al centro, dove formano un piccolo raggruppamento sferico; in
questa sfera si distinguerà poco a poco un involucro anch’esso sferico, che si assottiglia sempre
più e un nucleo centrale al quale si aggregano gli atomi strappati alla membrana”.7
2.Ma l’atomismo può essere considerato come una forma di materialismo?
Come si è già detto, secondo l’atomismo la materia è composta da atomi. Il materialismo
concepisce la materia come unica sostanza e causa delle cose. Partendo da questi presupposti
possiamo dedurre che, se le cose reali sono formate da materia, e a sua volta la materia sarà
composta da atomi, l’atomismo può essere considerato come una forma di materialismo. Dato che
gli atomi compongono la materia aggregandosi, si potrebbe dire che l’atomismo è una sorta di
branca del materialismo.
Un filosofo antico, per esempio, avrebbe potuto credere nella materia, ma non negli atomi, oppure
poteva essere convinto di entrambe le ipotesi; sarebbe risultato incoerente però credere agli atomi
ma non alla materia. Anche se in quest’ultimo caso Epicuro rappresenta un’eccezione: egli, pur
accettando sia la teoria atomistica sia quella materialista, ammette l’esistenza delle divinità, sebbene
confinate in un’area chiamata intermundia, dove esse vivono beate, disinteressandosi
completamente del genere umano.
Questi due sistemi di pensiero, atomismo e materialismo, sono strettamente collegati fra di loro per
una semplice ragione: entrambi condividono l’idea che non ci sia nessuna verità metafisica o
spirituale. Infatti per Democrito ogni cosa è materia e ha una sua realtà, egli crede che persino
l’anima sia composta da atomi (quindi che sia materiale) e che dopo la morte essa si disgreghi
esattamente allo stesso modo del corpo; secondo la sua convinzione non esiste vita spirituale dopo
la morte del corpo. Si ha un modello materialistico dell’uomo dotato di un’anima corporea fatta di
atomi “psichici”, di natura ignea mobile e sottile.
3. Bilancio conclusivo
Anche secondo Giannantoni l’atomismo può essere considerato una forma di materialismo, ma egli
afferma: “Si dice comunemente - o è diventato consuetudine ripetere - che l’atomismo sia una
forma di materialismo. In un certo senso questo è vero, perché sia Democrito e poi anche Epicuro,
rifiutano ogni distinzione tra mondo naturale e mondo spirituale: l’anima sia per Democrito che
per Epicuro, ma anche gli dei per Epicuro, sono composti atomici come qualunque altra realtà.
Tuttavia bisogna fare attenzione quando si adoperano queste categorie. Nel Sofista Platone
presenta un grande contrasto tra due visioni del mondo: una è quella materialistica e l’altra è
quella che egli attribuisce alle “idee”. Nel descrivere la concezione materialistica Platone dice che
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Assaggi di Filosofia
essa è propria di uomini che credono solo in quello che toccano, quindi il materialismo è fondato
su una conoscenza di tipo sensibile: quello che non si tocca, quello che non si vede, quello che non
si odora, non esiste. Ora, se noi dovessimo applicare questo criterio anche a Democrito, ci
accorgeremmo che gli atomi di Democrito (…) non dovrebbero essere materiali. Potremmo dire lo
stesso delle idee di Platone; e come Platone ritiene veramente reali le idee, ugualmente Democrito
ritiene veramente reali gli atomi. Da questo punto di vista, contrapporre la filosofia di Democrito
alla filosofia di Platone come materialismo e idealismo è al di fuori del quadro storico del V e IV
secolo a. C.; tanto peggio, poi, se addirittura si sostiene che la filosofia di Democrito è superiore a
quella di Platone perché materialista o se si dice che quella di Platone è superiore a quella di
Democrito perché è idealista. In realtà, la tradizione ci dice che Platone nutrì una profonda
inimicizia per Democrito (…)La ragione di questa inimicizia, però, forse va ricercata non nella
contrapposizione di atomi e idee, perché i punti di affinità sono molto maggiori, ma nel fatto che
Democrito propone una concezione deterministica della realtà, cioè una realtà determinata dalle
cause e dalle condizioni precedenti e quindi legata ad una situazione di necessità, mentre Platone
propone una visione del mondo finalistica, cioè determinata non dalle cause che precedono, ma dal
fine verso cui tutta la realtà converge. Quindi, sul piano storico, è molto più adeguata una
contrapposizione tra determinismo e finalismo che non una contrapposizione tra materialismo e
idealismo.” 8
Note
1.S. BERRYMAN, “Ancient Atomism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2011
Edition),
Edward
N.
Zalta (ed.),
URL
=
<http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/atomism-ancient/>.
2. G. GIANNANTONI, L’atomismo nel mondo antico, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze
Filosofiche, URL= <http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_168.htm>
3.IBIDEM.
4.IBIDEM.
5.IBIDEM.
6.N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,
vol. 1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014, p. 77.
7.É. BRÉHIER, Histoire de la philosophie, Paris, 2004, pp. 69-70.
8. GIANNANTONI, op. cit.
Bibliografia




N. ABBAGNANO, G. FORNERO, , La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della
filosofia, vol. I, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014.
BERRYMAN, S., “Ancient Atomism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter
2011
Edition),
Edward
N.
Zalta (ed.),
URL
=
<http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/atomism-ancient/>.
BRÉHIER, É., Histoire de la philosophie, Paris, 2004.
GIANNANTONI, G., L’atomismo nel mondo antico, in Enciclopedia Multimediale delle
Scienze Filosofiche, URL= <http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_168.htm>
65
Assaggi di Filosofia
L'uno. Il tutto.
Di Raffaella Cardellicchio
Introduzione
Simbolo dell’Inizio, l’Uno è per eccellenza il numero dal quale scaturisce un'idea.
“L'uno è proprietà del reale. A seconda che l’uno sia considerato o in quanto realtà o in quanto
connotazione di ciò che esiste, si diversificano concezioni che vi riconoscono un principio
sovraontologico, ossia prioritario e superiore rispetto all’essere, e prospettive ontologiche, in cui
l’uno si risolve nell’essere” (Dizionario Treccani definizione di uno in filosofia).
La sua nascita risale al 250 AC circa, ed è dovuta al logico stoico Crisippo. Prima di allora i numeri
interi venivano considerati come la “misura di una molteplicità” mentre l’unità veniva percepita
come il contrario di una molteplicità.
In particolare, non come l’inizio della serie dei numeri, bensì come il loro “arché”, “principio” o
“origine”. Una differenza sottolineata dal fatto che la moltiplicazione per uno non ha nessun
effetto, diversamente dalla moltiplicazione per qualunque altro numero.
Nella ''Metafisica'' Aristotele cercò di mediare fra le due posizioni, distinguendo da un lato “l'unità
di misura”, e dall’altro la “molteplicità del misurato”. Ma Crisippo capì che non c’era bisogno di
mediazioni: bastava considerare l’unità come la misura di una molteplicità “degenere”, e dunque
come un numero a tutti gli effetti.
Quegli zeri primordiali che sono il Nessuno e il Nulla ammettono sia negazioni come Qualcuno e
Qualcosa, sia contrari come Tutti e Tutto. Benché queste distinzioni risalgano al trattato
sull’interpretazione di Aristotele, i filosofi e i letterati tendono a ignorarle, e quando parlano
dell’Uno finiscono spesso col fare una gran confusione. Infatti lo intendono a volte in maniera
relativa, come unità o unicità di un “tutto unico”. E altre volte in maniera assoluta, come totalità del
“tutto esistente”, all’insegna del motto “Uno per Tutto, e Tutto per Uno”.
1. Tesi
La mancanza del numero uno non aveva comunque impedito in precedenza agli uomini di
considerarne degli analoghi nei campi più disparati, come già era successo per lo zero.
Se Qualcuno e Qualcosa vengono presi in un senso sufficientemente generico, possono comunque
indicare qualunque persona e qualunque cosa. Ma a volte vengono intesi in un senso più specifico,
come nella popolare e diffusa religione del qualcosismo, basata sulla vaga e incerta credenza che
“qualcosa ci dev’essere”, “qualcosa c’è”, o “qualcosa ci sarà”. E spesso il cerchio si chiude,
quando quel “qualcosa” viene identificato con un “qualcuno”, che è il dio venerato nel
qualcunismo.
Una versione teologicamente più elaborata del “qualcunismo” è il monoteiteismo.
La qualifica è però ambigua, può indicare in senso assoluto, che "c'è un unico Dio”, e altri non ce
ne sono. O, in senso relativo, che c'è un unico vero Dio”, e tutti gli altri sono “falsi e bugiardi”.
Il monoteismo è oggi largamente praticato in Occidente, ma ha un'origine mediorientale. La sua
invenzione si deve ad Akhenaton, "Servo di Aton", verso il 1350 A.C. sostituì il variopinto pantheon
egizio, popolato da una schiera di creature mitologiche capitanate da una sorta di Giove chiamato
Amon, con il culto di un unico principio vitale, identificato nel disco solare e chiamato Aton.26
66
Assaggi di Filosofia
Viceversa, il politeismo è spesso il travestimento di un monoteismo, quando trascende le distinzioni
tra i propri dèi. Ad esempio, nell’induismo Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente Creatore,
Presentatore e Distruttore dell’universo, sono tre forme di un unico Brahman. Nell’antica religione
egizia, Iside assommava tutte le divinità e veniva chiamata “colei che ha diecimila nomi”. E nella
tarda religione greca, Apollo era una sorta di super divinità dell’ecumenismo panellenico, dagli
innumerevoli epiteti: in particolare, secondo l’Oracolo di Delfi di Plutarco, il suo stesso nome
veniva interpretato come “a-polloi”, “non molti”, e dunque letteralmente “uno”.
In filosofia il monoteismo prende le forme del monismo, che afferma la vera realtà del solo Uno, in
contrapposizione alla falsa apparenza della molteplicità. Ciò nonostante, e paradossalmente, di
questo “Uno” ce ne sono molti, a seconda di come lo si declina. Ad esempio:
•Per il monismo materialista l’Uno è la materia, per il monismo idealista lo spirito, e per il monismo
neutro qualcos’altro da specificare.
•Per il monismo sostanziale l’Uno è una sostanza, ma per il monismo individuale è un individuo.
Parola, questa, che significa letteralmente “indivisibile” o “inseparabile”: dunque, appunto, “uno”,
come sottolinea l’inglese one-self per “se stessi”.
•Per il monismo assoluto l’Uno è tutto, ma per il monismo relativo è solo qualcosa: ovviamente
sempre con l’articolo determinativo e la maiuscola, cioè quel particolare Qualcosa.
In Occidente la dottrina che “l’Uno è il Tutto” ha trovato i suoi primi seguaci nella “Banda dei tre
P greci”, ciascuno con il suo stile letterario: Parmenide nel poema Sulla natura, Platone nel dialogo
Parmenide, e Plotino nei saggi delle Enneadi. A loro ha fatto seguito una lunga lista di predicatori,
dai neoplatonici rinascimentali agli idealisti tedeschi, che a seconda dei casi hanno chiamato l’Uno:
Anima Mundi, Monade delle Monadi, Spirito Assoluto, Essere, Materia, Energia, Natura,
Universo...
Parmenide, parlando dell'essere affermò il valore unico di quest'ultimo 27. Egli giunge al culmine
della “via” a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza del non essere, e la
parimenti assoluta esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero.
All’essere non potrà venire riferito – sempre per l'opposizione ora accennata – alcun attributo che
possa in qualche modo diminuire la positività, assimilandolo al non-essere. Ci si dovrà limitare a
dire che esso è uno, invariabile, immobile, eterno.
Qualche critico moderno però (come Untersteiner) ha ritenuto che Parmenide avesse concepito
l'essere come “totalità” e non come “unità”. L'erronea interpretazione del suo pensiero sarebbe
dovuta alla falsa testimonianza di Teofrasto che attribuisce a Parmenide il famoso sillogismo:
“Quello che oltre l'essere non esiste; quello che non esiste è nulla; dunque l'essere è uno.”
L'attributo dell'unità, con cui polemizzò Aristotele, risalirebbe soltanto a Melisso.
Come possiamo conciliare la concezione parmenidea dell'essere col fatto incontrovertibile che
l'esperienza ci presenta ogni momento degli esseri molteplici, variabili, temporanei? Di fronte a
questo stato di cose – risponde Parmenide – non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea
fiducia nell'esperienza, riconoscendo che essa costituisce per l'uomo un esperienza fallace e
illusoria.
Venne notato dai pitagorici come l'uno avesse diverse particolarità rispetto agli altri numeri.
Questo aveva una posizione particolare nella serie numerica: preso in senso ristretto questo
appartiene alla categoria del dispari; ma, in senso più largo guardando la generazione di tutta la
serie, esso ne costituisce il principio formatore, poiché, aggiungendosi al pari, produce il dispari, al
dispari, il pari. Perciò la sua natura trascendente la dicotomia: esso è la sintesi di due termini, questo
è il parìmpari. Questa considerazione lo distacca a poco a poco al di sopra del livello degli altri
numeri e ne prepara l'assunzione in una sfera filosofica più elevata, dove lo troveremo in seguito.
67
Assaggi di Filosofia
Per Filolao tutto era generato dal “Uno”, e governato da leggi che sempre all’”Uno” potevano
portarsi senza contraddizione, il numero era tuttavia atto a fungere da limite al molteplice perché ne
rifletteva in se la struttura; ma la rifletteva in modo tale da renderla omogenea all’”Uno” e alla sua
legge. Si consideri ad esempio la decade ( il numero dieci): secondo l'analisi di Filolao essa
comprende in sé tutti i possibili rapporti aritmo-geometrici che si originano a partire dall'unità ed è
perciò stesso atta a comprendere ed ad organizzare in modo molteplice28.
Si hanno tracce del pensiero di Filolao anche nella cosmologia. Egli diceva, infatti, che l’”Uno”,
ipostatizzato fisicamente nel “fuoco”, sta al centro del cosmo; dal suo rapporto con l'infinito
circostante – un rapporto paragonabile al processo della inspirazione ed espirazione – si è generato
tutto quanto il cosmo, che, come abbiamo visto, consta di una sintesi inscindibile di “Uno” e molti,
di limitante e limitato.
Eraclito29,nonostante abbia delle idee opposte ai suoi precedenti, anche per lui il divenire sembra
consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: “Tutte le cose sono Uno e
l'Uno tutte le cose”; “questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà”.
Da questa visione immanentistica del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo.
Dopo Eraclito è comunque Empedocle a riassumere i caratteri dell'Uno dentro lo Sfero, nel quale i
quattro elementi costitutivi della natura si trovavano originariamente uniti insieme dalla forza
attrattiva dell'Amore.
A grandi linee potremmo definire l'Uno come il principio indicante l'unità del Tutto.
Come si può immaginare dalle vicende della teologia negativa, anche la dottrina che “l’Uno è il
Nulla” ha avuto i suoi predicatori. Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato Edgar Allan Poe, che
nel poema in prosa “Eureka” (1848) ha temporaneamente abbandonato i racconti dell’orrore per
dedicarsi a un saggio dello stesso genere.I risultati delle sue ricerche li ha riassunti lui stesso nel
1848, in una lettera a George Isbell:
“lo mostro che l’Unità è il Nulla. Tutta la materia, che origina dall’Unità, è originata dal Nulla,
nel senso che è stata creata. E tutta ritornerà all’Unità, cioè al Nulla”.
Naturalmente, le due dottrine messe insieme riportano per transitività al nichilismo del “Tutto è
Nulla”, che era appunto il succo della speculazione di Plotino. L’identificazione di Uno, Nulla e
Tutto ha poi trovato una rappresentazione metaforica nel libro “Uno, nessuno e centomila” di Luigi
Pirandello (1926), che la applica alla coscienza del protagonista: in un processo di graduale
disfacimento, essa parte dall’unicità e approda alla frammentazione, passando per l’annullamento.
In antitesi all'idea di Poe vi è quella di Antoine Lavoisier che con la legge di conservazione della
massa dice:
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Lavoisier, elimina così l'idea che qualcosa possa nascere o morire nel nulla. Si viene così a
concepire l'Unità come il Tutto.
Condivide questa idea anche Edwin Abbot nella Puntolandia nel racconto Flatlandia (1884)
“Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro
adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo. Non può concepire altri, fuor
di se stesso. Non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza. Non ha
cognizione nemmeno del numero Due, né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo
Uno e il suo Tutto”.
2. Bilancio conclusivo
68
Assaggi di Filosofia
In fisica, le unità individuali sono i quanti e le particelle elementari. In chimica, gli atomi e le
molecole. In biologia, le cellule e gli individui delle varie specie. In astronomia, i vari corpi celesti:
pianeti, comete, asteroidi e stelle. In musinologia, i sistemi stellari e le galassie. Ma anche e
soprattutto l'universo, che letteralmente significa “a senso unico”, e dunque dovrebbe essere uno
solo per definizione, in una nuova versione della millenaria tensione fra Uno e Tutto. Oggi però la
teoria dei pluriversi, anticipata da William James in Un universo pluralistico (1909), postula
l’esistenza di molti ossimorici “universi”, per ora soltanto ipotetici.
In aritmetica, anche prima di venir considerato come un numero alla pari degli altri, l'uno è stato
percepito come il loro principio generatore, e per estensione come un’immagine dell’Uno
filosofico.
La monade, primordiale ed eterna, s'identifica immediatamente con l'immagine stessa di questa
totalità, che prendeva il nome di Completamento, Perfezione, o addirittura Divinità: ciò al di qua e
al di là del quale non si poteva pensare niente.
“L'uno è solitudine, due è il numero che separa, tre il numero che supera la separazione; l'uno e il
molteplice si trovano riuniti e circoscritti nella Trinità: è l'ordine ineffabile nella Divinità dove
ciascuna delle Persone è nelle altre. (Pavel Nikolaevič Evdokimov)”
“Va osservato che il numero non è qualcosa di fisso e determinato, che esista realiter nelle cose.
Esso è esclusivamente una creatura dello spirito. Così accade che risultino: una finestra = 1; una
casa, in cui vi siano molte finestre, = 1; una città, formata da molte case, sempre = 1. (George
Berkeley)”.
Note
1. Qualche secolo dopo Mosè, o chi per esso, introdusse il monoteismo fra gli Ebrei. Il decalogo
ebraico è però ambiguo al proposito, perché il primo comandamento recita testualmente: “Non
avrai altri dèi di fronte a me”, e sembra dunque incitare all’adorazione di un solo Dio, più che
all’affermazione della sua unicità.Il Credo cristiano professa invece un monoteismo trinitario, in cui
un unico Dio si presenta nella forma di tre persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo. Molti però
ritengono il “monoteismo trinitario” un ossimoro, e lo considerano una forma di politeismo
mascherato. Non tutti i Cristiani sono però d’accordo sul Credo: ad esempio, gli antichi Ariani e i
moderni Unitari ritengono che il Figlio non sia Dio, ma solo un mediatore tra il Padre e l’uomo.
2 .“L'essere … è infatti un intero tutt'uno, immobile e senza fine. Non era mai o sarà, perché è ora
tutto insieme Uno, continuo”. (Parmenide di Elea, Sulla natura, fr. 7).
3.Più efficaci di ogni spiegazione critica sono le parole di Filolao sulla decade: “L'essenza e le
opere del numero devono essere giudicate in rapporto alla potenza insita nella decade; grande è
infatti la potenza (del numero) e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina, celeste e
umana, in quanto partecipe della potenza della decade; senza questo tutto sarebbe
interminato,incerto ed oscuro. Conoscitiva è la natura del numero, direttrice e maestra per ognuno
in ogni cosa che gli sia dubbia o sconosciuta. Perciò nessuna delle cose sarebbe chiara ad alcuno
né per se stessa né il rapporto alle altre, se non ci fosse il numero e la sua essenza. Per questo,
armonizzando tutte le cose con la sensazione nell'interno dell'anima, le rende conoscibili e tra loro
commensurabili secondo la natura dell'uomo, in quanto compone o scompone i singoli termini delle
cose, così delle interminate come delle terminanti. Né solo nei fatti demonici e divini tu puoi vedere
la natura del numero e la sua potenza dominatrice, ma anche in tutte e sempre le opere e parole
umane sia che riguardino le attività tecniche in generale, sia propriamente la musica”. Da varie
testimonianze risultano le ingegnose soluzione di natura sia aritmetica e geometrica, sia fisica, dalle
quali Filolao trovava conferma al dominio della decade.
4.“Uno e identico è il vivo e il morto ,lo sveglio e il dormiente il giovane e il vecchio, in quanto nel
suo muoversi l'uno diviene l'altro e l'altro a sua volta uno” (fr.76).
69
Assaggi di Filosofia
L'unità è nell'ente da cui si diramano e di cui ognuno vorrebbe essere espressione unica e totale; per
esempio, nella vita, che è gioventù e vecchiaia e diviene teatro del contrasto tra due forze che
tentano di sopraffarsi a vicenda. In una fase filosofica più matura, la dialettica eraclitea che è ancora
malsicura nella sua formulazione concettuale, troverà una espressione adeguata nell'idea del genere
che nella propria realizzazione dinamica si polarizza in specie opposte le quali sono spinte a lottare
fra loro, in forza dell'universalità che è alla loro radice e che sorpassa il particolarismo di ciascuno.
Unità dei contrari non identità di essi e tanto meno dei contraddittori: tale è il senso e il limite della
dialettica.
Bibliografia




L. Geymonat, Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico- Antichità e Medioevo.
De Ruggero, La filosofia greca.
Dizionario di Filosofia Garzanti.
Odifreddi, Il museo dei numeri: Da zero verso l’infinito, storie dal mondo della matematica.
70
Assaggi di Filosofia
L'origine "astratta" di un mondo concreto
Di Aristidea Cavaliere
Introduzione
Nel VI secolo a.C i primi filosofi iniziavano a dare una propria teoria sulla creazione dell'universo,
ponendo come principi fondatori elementi perlopiù concreti come l'acqua, l'aria e materia indistinta
( l'apeiron) e la forza che li muovesse inclusa al loro interno. Solo con il filosofo pluralista
Empedocle si pensò che alla base di ogni realtà ci fossero ben quattro elementi: aria, acqua, fuoco,
terra, e che questi fossero animati da due forze esterne, l'amore e l'odio.
1. Possono due astrazioni generare il concreto?
L'amore o amicizia e l'odio o contesa sono in continuo movimento e si alternano tra di loro
determinando nei momenti in cui c'è un equilibrio nell'universo che interessa le due forze la
formazione delle cose che sono nel nostro mondo. Non basta però riconoscere che il divenire è
dovuto al rapportarsi in certe forme degli elementi materiali, ma si deve anche chiarire perché ciò
avvenga. Cosi' come Anassimandro aveva reso la capacità generativa dell'infinito attraverso un
vortice ( testimonianza di Simplicio) qui per la prima volta si riconosce alla forza la stessa dignità
della materia, che è principio. Si riconduce però la dinamica della nascita e della morte non ad una
ma a due cause: diverse e ciascuno con una propria natura immutabile e distinta. Sono forze però di
natura divina, astratta, ma vengono intese come sostanze corporee (manca ancora infatti la
distinzione tra astratto e concreto) che vengono unite ad altre cose. Amore e odio non sono
un'allegoria o un rimando divino come avveniva nella mitologia dell'età classica, ma sono intese
come davvero esistenti. E' difficile stabilire il perché della scelta del filosofo di ben quattro
elementi; si è ipotizzato che questi si ricollegassero ai quattro colori , ritenuti fondamentali e che
oggi sappiamo essere primari. Le radici sono da considerarsi prime e non vi è derivazione reciproca
dell'uno dall'altro, come afferma Aristotele ( Sulla generazione e la corruzione I,8,325b). Come
afferma Denis O' Brien: "Empedocle appare in effetti il primo autore dell'Antichità a voler riunire
contemporaneamente in un solo e medesimo sistema concezioni filosofiche e credenze
religiose.[....]nessun pensatore prima di lui aveva inserito all'interno di un quadro filosofico questa
corrente di idee mistiche delle quali si troverà più tardi l'eco nelle iscrizioni funerarie dell'Italia
Meridionale e nei dialoghi di Platone: per Empedocle, infatti, l'uomo essendo di origine divina, non
raggiungerà la vera felicità che dopo la morte, quando si riunirà alla compagnia degli dèi."
Nell'opera "Sulla Natura", Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero immobile uguale a sé
stesso e infinito. Egli è Dio e le quattro radici le sue "membra", e quando Odio distrugge lo Sfero: "
Tutte, l'una dopo l'altra, fremevano le membra del Dio". Si da cosi origine al cosmo e alle sue
creature viventi, prima bisessuate, sotto l'azione di Odio, si differenziano ulteriormente in maschi e
femmine, e ancora in mostri e infine in membra isolate per poi ripetersi nuovamente in un ciclo
incessante. Nel poema successivo " Purificazioni", gli esseri viventi, parti costitutive dello Sfero di
Amore divengono demoni errando nel cosmo; è cosi che il ciclo diviene ancor più complesso e
spazio di un'infinita contesa.
1.1 Il concreto genera il concreto
I predecessori del pensiero filosofico-religioso di Empedocle riconoscevano come principi del
cosmo, elementi già esistenti e concreti, mossi da una forza interna non spiegata. Nel primo libro
della Metafisica di Aristotele si presenta il filosofo Talete che riconosce nell'acqua il principio
71
Assaggi di Filosofia
materiale da cui tutte le cose derivano e che permane al di là del mutare di tutte le cose: " Talete
sosteneva che la Terra sta sopra l'acqua; prendeva forse argomento dal vedere che il nutrimento
d'ogni cosa è umido e persino il caldo si genera e vive nell'umido; ora ciò da cui tutto si genera è il
principio di tutto. Perciò si appigliò a tale congettura, ed anche perché i semi di tutte le cose hanno
una natura umida e l'acqua è nelle cose umide il principio della loro
natura"(Metafisica,1,3,983b,20). Anche Plutarco da una testimonianza del pensiero del primo
filosofo: "Talete suppone che tutto derivi dall'acqua e in essa si risolva, perché, allo stesso modo
che il seme d'ogni vita come principio di questa è umido, cosi anche ogni altra cosa ha il suo
principio dell'umidità; perché tutte le piante traggono dall'acqua il loro nutrimento, e se essa
manca inaridiscono ; perché perfino il fuoco del sole e delle stelle, e lo stesso mondo, sono
alimentati dalle evaporazioni dell'acqua"(PLUTARCO,citato in Hegel, 1, 196). Cosi come Talete
anche Anassimandro identifica una sostanza unica primordiale, l'apeiron. Il principio che egli
afferma è una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti, che ha al suo interno una forza
che la muove:"[...] principio è l'indeterminato...da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi hanno
anche la distruzione secondo necessità, poiché essi debbono pagare (l'uno all'altro) la pena e
l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo". Ma Anassimandro affermava che
dall'apeiron si generasse il cosmo e non direttamente gli uomini; egli infatti traeva la loro origine da
altri animali, in particolare dai pesci. Sono queste ovviamente teorie primitive, che manifestano
l'esigenza di cercare una spiegazione puramente naturalistica del mondo, e che prendono in
considerazione solo l'elemento concreto in quanto quello astratto era ancora visto misteriosamente,
faceva paura, suggeriva richiami ultraterreni, magici, divini. Anche Anassimene come Talete
riconosce come principio una materia determinata: l'aria:" L'aria si distingue per via di rarefazione
e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece
diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi
pietra"(TEOFRASTO in Simplicio, Fisica, 24, 26). Ciascun filosofo, servendosi sempre della
natura riconosce un principio alla base di ogni cosa e che si conserva al suo interno, però non tutti
concordano quanto al numero e alla specie di tal principio.
1.2 Come fanno questi principi a generare?
Talete, Anassimandro e Anassimene non spiegano la forza che muove ciascun principio, e che
permette di generare il cosmo, la considerano dunque interna al principio stesso, non
necessariamente da dover spiegare. Questo atteggiamento può però portare a rendere l'affermazione
solo parzialmente affidabile; spiegare la forza e quindi tutto il processo che dal principio porta alla
formazione di tutte le cose è necessario per comprendere a pieno il ragionamento fatto, in caso
contrario può divenire discutibile. Ad esempio Talete con l'acqua identifica una sostanza che non è
un'acqua primigenia dotata di peculiare dignità rispetto a quella empirica, ma proprio quella che ci
bagna, con cui ci laviamo e che beviamo; viene presentata tuttavia con una funzione che diviene
totalizzante, e la rende origine non solo dell'acqua dei fiumi e dei mari, ma anche di tutte quelle
cose che non sono liquide. Ma la forza , il motore che la fa agire è ignoto, cosi come l'insieme delle
fasi della creazione del cosmo stesso. In Anassimandro l'attenzione al "motore" del processo
creativo è parzialmente riconosciuta; la materia viene divisa da questa forza e il processo stesso
viene identificato nella separazione. Si parla di un eterno movimento in virtù dal quale si separano i
contrari, e si generano cosi infiniti mondi. La forza anche qui è implicita ma rispetto a Talete è
posta più in rilievo. Anassimene, invece riconosce all'aria sia la qualità di materia come principio
72
Assaggi di Filosofia
che la sua peculiarità di essere forza che anima il mondo; il primo tra i tre filosofi che parla
chiaramente di forza, e questa sua caratteristica secondo il filosofo si percepisce dall'azione del
soffio, ma in particolare dai processi di condensazione e rarefazione. Può però un principio essere
anche una forza? Anassimene è il primo che ci pone questo connubio in un mondo che fino a quel
momento era dominato dalla convinzione di un unico principio e che la forza non la considerava
proprio o almeno in minima parte. In realtà bisogna soffermarsi sul concetto di forza attribuito
all'acqua; egli afferma che è " una forza che anima il mondo", dunque analizzando il verbo,
"animare", si comprende che non fa riferimento alle fasi che, dal principio, portano a generare il
mondo, ma affronta la questione della forza, in un momento successivo, in cui la creazione è gia
avvenuta e siamo in presenza di un mondo a tutti gli effetti. La forza che dice Anassimene è quindi
una forza che agisce dopo, e per questo può "abitare" nel principio stesso, perchè anche la
concezione dell'aria cambia; essa è un'insieme di gas presenti nell'atmosfera del mondo, è una
"sostanza" come le altre componenti. Tutti e tre i filosofi sono "innovativi" perché cercano un
qualcosa che avesse generato tutto, ma, probabilmente anche per le conoscenze limitate del tempo
non hanno saputo convincere a pieno con le loro tesi, ancora causa di dibattiti e studi filosofici e
scientifici.
2. Alla base di tutto ci devono essere delle forze
Il mondo deve quindi necessariamente essere stato generato almeno da una forza che agisce sul
principio. Anche il principio però è improbabile che sia solo uno considerata la grandezza e la
molteplicità del mondo in cui viviamo. Deve quindi essere stato generato da più principi, e le
quattro radici di Empedocle sono la perfetta combinazione di quattro sostanze, che sono alla base di
ogni attività ed ogni cosa presente sulla superficie terrestre e non solo. Le forze, Amore e Odio,
sono da considerare non nel significato che ne attribuiamo oggi, quello strettamente emotivo e
sentimentale, ma al concetto di due forze tanto potenti singolarmente ma che non possono fare a
meno di non "aiutarsi" e rapportarsi; l'una anche se potenzialmente in grado non può in effetti
vivere senza l'altra e agire senza il suo appoggio. Se guardiamo al loro significato ai tempi di
Empedocle notiamo che non sono altro che manifestazioni di una realtà che, avanzando e
modificandosi nel tempo, è oggi esistente: quando due persone, unite dalla forza di Amore si
accoppiano, generano vita; durante la vita però è normale che vi siano dei periodi in cui Odio o
comunque un suo derivato, la Discordia, si presentano e portano nuove situazioni in cui però nello
stesso modo in cui agisce Amore , agiscono e generano cose. In realtà le cose effettive vengono
generate nei momenti in cui vi è una sorta di intervallo tra i due, dove nessuno primeggia ma
entrambi sono protagonisti. Quando visse Empedocle ovviamente il significato di Amore e Odio era
molto più "superficiale" , viste le conoscenze limitate del tempo e considerando il fatto che egli
adottò questa tesi spinto prevalentemente da motivi divini e non prettamente filosofici e umani, ma
tentò comunque, dando spiegazioni, di adattarli al mondo terreno. La grandezza delle due forze sta
nel fatto che queste sono i soggetti di un ciclo che va al di là della nostra immaginazione, ma che,
per quelli che sono i limiti umani, possiamo riconoscere come un ripetersi continuo, incessante e
complesso; in particolare la complessità del fenomeno risiede nel fatto che, non solo entrambe le
forze sono già di per sè grandiose e uniche, ma il modo in cui agiscono è uno dei primi esempi di
ciclo cosmico, sistema studiato sin dall'antichità e ancora oggi preso in esame con il progresso della
scienza; qui ancora si riconosce la singolarità del pensiero formulato da Empedocle, reso ancora più
unico dal distacco che egli applica rispetto alle teorie dei filosofi che lo precedono.
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Assaggi di Filosofia
La mia tesi è quindi che alla base di tutto devono esserci due forze, che "lavorano" insieme e che
aiutano più principi a generare il mondo, e che queste forze devono essere necessariamente in
partenza "astratte", ma che poi, nelle fasi di creazione diventano concrete per la consapevolezza e la
conoscenza degli uomini delle loro azioni.
Amore e Odio nel ciclo cosmico
Bibliografia

Simplicio, Anassimandro.

Aristotele, Sulla generazione e la corruzione, I,8,325b.

Denis O' Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario critico, vol 2. Torino, Einaudi,
2007, p.80.

Empedocle, Purificazioni.

Empedocle, trad. it. di G. Giannantoni, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti.

Talete, trad.it.di R. Laurenti, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti.

Aristotele, Metafisica, 1,3,983b,20.
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Assaggi di Filosofia

Anassimandro,trad. it. di R. Laurenti, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti.

Plutarco,citato in Hegel, 1, 196.

Teofrasto in Simplicio, Fisica, 24, 26.
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Assaggi di Filosofia
Eraclito filosofo del divenire
Di Daniil D’Alessio
Vissuto tra il VI e il V secolo a. C., Eraclito è noto come l’oscuro di Efeso, per la profondità del suo
pensiero e i toni oracolari che caratterizzano i suoi frammenti (quanto ci è pervenuto del suo Perì
physeos), secondo alcuni influenzati anche da qualche frequentazione dei culti orfico - dionisiaci.
Al centro della sua riflessione si colloca l’idea del divenire, del flusso dinamico che costituisce
l’intima essenza di tutte le cose, dalla realtà fisica a quella delle vicende umane all’interiorità
dell’io. Panta rei è la brevissima sintesi delle sue idee che più spesso viene ripetuta, con
riferimento alle acque di un fiume, apparentemente sempre uguali, ma in effetti sempre diverse, e
non solo. L’essenza stessa del fiume, come per qualunque altro ente, è il suo eterno trasformarsi,
escludendo l’immobilità, la quiete, il riposo. Piuttosto che l’acqua, l’aria o l’ ápeiron, è il fuoco –
secondo Eraclito - l’elemento archetipico che di tutto partecipa e che tutto alimenta, sia pure in
diversa misura, rigenerandosi di continuo e rinascendo dalla cenere.
Il cambiamento perenne comporta il riavvicinamento degli opposti, destinati a coincidere, come
l’inizio e la fine di un circolo. I contrari, così, si identificano e si invertono l’uno nell’altro: La via
in su e la via in giù sono una unica e medesima via – scrive. Si tratta di un incontro-scontro, che
include tutte le modalità del vero e proprio conflitto, di una guerra che è madre ti tutte le cose e di
tutte regina. L’impatto violento e caotico, però, non può non convertirsi e rigenerarsi nella
dimensione dell’armonia, secondo la legge di un lόgos terreno e divino insieme, che governa la
natura e insieme anche l’anima.
Gli animali e le piante, uomini e gli dei (Zeus compreso), sono
completamente calati nella opposizione composizione di giorno – notte, fame – sazietà, malattia –
salute, gioventù - vecchiaia, sonno – veglia, vita – morte, mortalità – immortalità.
Consapevole della difficoltà di comprensione che le sue affermazioni comportavano, Eraclito
esclude categoricamente che gli ignoranti – coloro che si rivelano incapaci di andare oltre
l’evidenza sensibile - possano penetrarne l’autentico significato, riuscendo a percepire la voce del
lόgos stesso. Un simile privilegio, a suo parere, è riservato ai soli saggi: emerge quindi una visione
aristocratica della filosofia che ha autorizzato alcuni storici a considerarlo appartenente ad una
classe sociale decisamente elevata.
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Assaggi di Filosofia
Oramai erano più di 3 ore che stavamo li a chiacchierare e tra un po’ ci cacciavano con male parole,
quindi dovemmo spostare la nostra interminabile conversazione in bar li accanto , piccolo e
appartato ..almeno per poter dire la mia a riguardo.
“Io sono più che certa che sceglierò filosofia ,alla fine vedo in tutte queste meravigliose discipline ,
un ricavo di un ragionamento filosofico , di una vostra inquietudine e dei vostri dubbi. Io voglio
fare questo , voglio pensare e insegnare agli altri come farlo . Cogito ergo sum”.
Le origini della filosofia greca: il passaggio dal mythos al lògos
Di Antonio Lucerino
Introduzione
Nello studio della storia della filosofia antica un campo di importanza decisiva è quello
dell’interpretazione delle sue origini. La filosofia antica nasce dal superamento del mythos
favorendo l’avanzamento del lògos come indagine razionale della realtà, una volta liberatasi dalle
figure delle teogonie mitologiche.
Un supporto bibliografico fondamentale è il filosofo italiano Emanuele Severino, che oggi è
principalmente noto per aver dato origine al pensiero che è stato definito “neoparmenidismo”.
Anzitutto, è assolutamente necessario parlare del termine logos, del termine mythos e della
differenza tra ambedue i termini.
1.Tesi e antitesi
La parola lògos, da considerare un termine fondamentale del greco antico, è traducibile ed
interpretabile in numerosi modi, ma il modo che ci interessa è “ ragione”1. Pongo l’attenzione
principalmente su questo modo di traduzione perché sia nel linguaggio colloquiale sia nel
linguaggio cristiano necessariamente il logos era inteso come parola o discorso (èrgo koù lògo
tekmàiroumai, “ lo deduco dai fatti, non da parole” di Tucidide2, o ti dèi màkru lògu, “che bisogno
c’è di molte parole?” nel Fedro di Platone3; verbum (parola) dacché “ In principio era il Verbo, e
il verbo era con Dio, e il verbo era Dio”4). Ora sarebbe assolutamente decisivo ricordare che i
Greci non solo non erano cristiani, ma che anche tutto il pensiero greco non era portatore di una
dottrina creazionista in tutte le sue varianti. Quindi, è possibile considerare improbabile la
traduzione di lògos come “parola” nel campo degli scritti dei filosofi greci. In aiuto
dell’affermazione inziale sostenuta, sono presenti le due derivazioni verbali: lègo e loghìzomai.
Lègo “introduce” l’interpretazione di lògos come prodotto del ragionare. Il termine esaminato
dunque appare in gran parte riconducibile alla parola “ragione”.
Invece, la parola mythos è traducibile in “racconto” poiché essa nasce come la narrazione di eventi
eroici, di racconti satirici, sacri e mitologici. Indubbiamente, ha un’accezione un po’ diversa da
come la intendiamo noi oggi: consisteva soltanto nella tecnica dell’oralità. Era un modo di
raccontare davanti ad un pubblico le gesta eroiche narrate, in versi, nei poemi. E’ proprio dal
mythos che nascono i poemi epici, come quelli omerici. Solo nel 513 a.C., ad opera di Pisistrato,
tiranno di Atene, i poemi epici in generale vennero messi per iscritto: si ha appunto la
trasformazione da mythoi in poemi. Inoltre, il mito può essere considerato come un racconto sacro
che rivela misteri e che dà la risposta a molti interrogativi degli uomini, per esempio “Come sono
nati l’universo e l’uomo?” oppure “Come hanno avuto origine gli astri e la terra?”. Addirittura un
filosofo neoplatonico scriveva nel IV secolo a.C.: «(…) Il mondo stesso lo si può chiamare mito, in
quanto corpi e cose vi appaiono, mentre le anime e gli spiriti vi si nascondono».
I presocratici usavano il mythos come forma di comunicazione più semplice per arrivare al logos.
Per esempio, il presocratico Talete era convinto che l’elemento dell’acqua generasse la vita, ogni
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Assaggi di Filosofia
esser vivente poteva trarre la sua origine dall’acqua, dunque l’acqua veniva considerata da costui
come il principio di tutte le cose: l’arché. Quindi, solo attraverso il mito si poteva prendere reale
coscienza delle caratteristiche specifiche del logos. Il mythos era diverso dal logos, però
quest’ultimo, dopo aver ampliato il suo raggio di azione, poteva permettere di comprendere i
meccanismi che governavano la produzione del mythos.
2.“Perché si passa dal mythos al lògos?”
Il mythos era nato dal sentimento di paura e di stupore degli uomini primitivi difronte ai fenomeni
naturali e nel creare il questo si era guidati dal sentimento religioso. Come dice Severino: “ Il
mythos nasce come un insieme di prospettive che guida sin dall’inizio la vita dell’uomo”5. Il
mondo, grazie al mito, si sentiva protetto contro la minaccia della morte e del dolore. Allora, è
inevitabile che, ad un certo momento, l’uomo non rimanga più soddisfatto del rimedio costituito dal
mythos. L’uomo primitivo non lo vive come favola ma come situazione reale in cui egli crede e,
proprio perché è voluto dall’uomo, quest’ultimo vuole uscire dal sogno ,cioè, vuole che il rimedio
contro la morte e il dolore sia qualcosa che non possa essere smentito o che abbia una verità e
questa verità è appunto la filosofia.
Una parola significativa che mostra il transito dal mythos alla filosofia, o meglio al lògos, è
“thèoria”. Inizialmente significa “festa” perché era la contemplazione della cerimonia salvifica:
infatti, l’uomo arcaico nella festa celebrava la propria capacità di salvarsi dal dolore. Come dice
Severino: “Quando la filosofia non vuole più sognare, allora la thèoria diventa la contemplazione
di ciò che sta in luce”6. Questa parola significa anche “sguardo”: quest’ultimo penetra l’oscurità
della cose e, di conseguenza, consente di approntare veri rimedi, proprio come il logos.
Fissiamo l’ultimo punto da analizzare per arrivare allo scopo di tutto ciò. I pensatori presocratici
furono i primi che, senza ricorrere al mythos, ma grazie alla pura osservazione della realtà ed
elaborando conoscenze provenienti dall’esperienza, hanno cercato di formulare il mistero
dell’essere. E così hanno detto: l’acqua è ciò che viene prima di tutto. Oppure anche l’aria, che si
trasforma ora in vento e in tempesta, ora in pioggia o in nebbia, insomma in una infinita variazione
di fenomeni alterni, mantenendosi però identica a se stessa; persino la terraferma può essere
considerata come una sorta di deposito espulso dall’elemento umido. Si passa dunque dal mythos al
lògos, con la fatica consapevole del pensiero che rende conto delle cose, rinunciando a tutto quel
sapere mitico di cui si aveva conoscenza a partire dal principio, smettendo quindi di scomodare gli
dei, costretti ad agire per spiegare le esperienze della vita. È un intento poderoso e audace che vi
aggiunse, come novità, il lògos, vale a dire il bisogno di dimostrare ciò che si riconosce per vero.
3.“Che cos’è il mythos per i filosofi successivi?”
Il mythos non è un racconto sacro e una narrazione di imprese eroiche, ma è uno strumento per
esprimere in modo piacevole verità profonde. Infatti, Platone, filosofo del V secolo a.C., definisce il
mythos «immortale ed irrispettoso della religione». Il mythos assume una funzione prettamente
comunicativa, persuasiva e complementare all’argomentazione filosofica: esso è un mezzo per
parlare di realtà che stanno al di là della capacità di indagare della ragione, per superare i confini del
pensabile e proseguire i «sentieri interrotti» della Filosofia.
Il mythos è anche un qualcosa di «assurdo, insulso ed inconcepibile», come riteneva Erodoto,
perché non resiste ad un confronto con la realtà nota e perché frutto di ignoranza. Altresì, il mito è
ancora una fonte da interpellare e da vagliare; invece, per Tucidide esso è qualcosa da
«dimenticare».
Il mythos appartenendo ad un tempo remoto, non può essere verificato e, quindi, non ha valore
storico: meglio espungerlo completamente dal lavoro del filosofo e lasciarlo ai poeti e ai “narratori
di miti”.
78
Assaggi di Filosofia
4.Conclusione
In questo saggio, ho voluto spiegare, inizialmente, che cosa significa la parola lògos dandogli una
traduzione più inerente al contesto; ho fatto la medesima cosa con il termine mythos affinché potessi
dopo illustrare la differenza tra ambedue i termini. Dopodiché mi sono soffermato principalmente
sul discorso riguardante il passaggio radicale dal mythos al lògos, quindi dal mythos alla filosofia
presocratica: esso ha avuto una lunghissima storia, è proprio da quest’ultimo che è nata la filosofia
ed anche perché senza, non sarebbe nato il lògos e, allo stesso modo, i principi dei filosofi
presocratici. Per spiegare questi concetti, ho aggiunto delle frasi del filosofo Emanuele Severino nel
documentario “Il caffè filosofico”.
Note
1. L. Rocci, Vocabolario Greco antico-italiano, pagg. 1156-1157.
2. L. Rocci, Vocabolario Greco antico-italiano, pagg. 1156-1157.
3. Platone, Fedro, Il dialogo.
4. Giovanni, Vangelo, 1, 1-14
5. E. Severino, Il caffè filosofico, I presocratici.
6. E. Severino, Il caffè filosofico, I presocratici.
Bibliografia



Vocabolario Greco antico-italiano
Vangelo
Fedro

Il caffè filosofico
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Assaggi di Filosofia
La filosofia della polis e come essa influisce sui primi pensatori
Di Edoardo Quarantelli
Introduzione
In questo testo voglio dimostrare che la ricerca di una causa unica nasce dal cambiamento della
società greca di quel periodo che con la poleis ricerca la qualità unificatrice della legge che i filosofi
rivedono nell’ archè.
1. Tesi
Nella storia della filosofia presofistica , come sappiamo , il tema centrale è l’ universo e la sua
origine , quello che lo sostiene e lo governa , infatti all’ epoca dei primi filosofi non era stata ancora
elaborata la teoria dell’ essere di conseguenza i filosofi cercavano in qualcosa d’ altro la materia
delle cose : chi nell’ aria chi nell’ acqua , chi nel fuoco , la tendenza era sempre quella di cercare l’
origine delle cose negl’ elementi più presenti nell’ambiente , contemporaneamente a questa
tendenza se ne sviluppa un’ altra a cercare l’ origine delle cose in una sostanza non visibile , è stato
proprio uno di questi filosofi a coniare il termine che descriveva la causa prima dell’ universo che
ancora oggi noi usiamo : l’ archè . Perché proprio su questo si basa gran parte della filosofia di quel
tempo? La risposta secondo me) si può trovare nel cambiamento che la società greca stava
attraversando in quel periodo , infatti proprio in quegli anni si sviluppava la poleis , con la polis
democratica si diffonde l’ idea della funzione unificatrice della legge , per questo i primi filosofi
avevano sviluppato una visione monistica della realtà: ovvero erano convinti che alla base della
multiforme e mutevole realtà naturale vi fosse un unico sostrato materiale e che in qualche modo
costituisse la sostanza di ogni cosa . Infatti come ci fa notare Nicola Abagliano 1: “In Omero si
trova per la prima volta il concetto di una legge che dà unità al mondo umano: l’Odissea è tutta
dominata dalla fede in una legge di giustizia, di cui gli dei sono custodi e garanti, che determina
nelle vicende umane un ordine provvidenziale per il quale il giusto trionfa e l’ingiusto viene punito.
Esiodo personifica tale legge nella dea Dìke (Giustizia), figlia di Zeus, che siede accanto al padre e
vigila affinché siano puniti gli uomini che commettono ingiustizia. L’infrazione di questa legge
appare nello stesso Esiodo come tracotanza (hybris), dovuta alla sfrenatezza delle passioni e in
generale a forze irrazionali … Il poeta tragico Eschilo (VI-V secolo a.C.) è, infine, il profeta
religioso di questa legge universale di giustizia, della quale la sua tragedia vuole esprimere il
trionfo”. Allo stesso modo i primi filosofi avevano cercato di trovare nel mondo reale quella legge
unificatrice che trovavano nella polis . Un altro effetto importante che ha l’ affermazione della polis
sul pensiero dei primi filosofi , è l’ ateismo: le forze che governavano il mondo secondo essi erano
intrinseche appunto per non incappare in analisi teologiche del proprio pensiero infatti se questi
avessero esternato la forza che governava la materia primordiale avrebbero dovuto necessariamente
spiegare il carattere di tale forza , da questo processo scaturisce il carattere ilozoistico dell’ arche .
2. Bilancio conclusivo
L’arche greca non è soltanto la materia in se ma anche la forza che la governa e la fa muovere . La
forza che i filosofi credono che muova la materia primordiale è governata proprio da quella legge
universale di cui abbiamo parlato prima . In conclusione, possiamo dire che il principio (arché)
cercato dai primi filosofi è, al tempo stesso, materia, forza che la anima e legge che la governa.
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Assaggi di Filosofia
Note
1. N. Abbagnano, I primi filosofi e la ricerca dell’archè.
Bibliografia

N. Abbagnano, I primi filosofi e la ricerca dell’archè.
81
Assaggi di Filosofia
L’importanza dell’acqua
Di Laura Campanella
Perché l’acqua è uno degli elementi principali, senza il quale l’umanità e con essa tutti gli essere
viventi si estinguerebbero?
Partendo da teorie filosofiche, si può citare Talete che fu, probabilmente, uno tra i primi uomini
antichi ad aver capito l’importanza di quest’elemento. Infatti egli sosteneva che il principio di tutto
è l’acqua e che la Terra si trovasse sopra di essa; probabilmente prese spunto dal vedere che il
nutrimento di ogni cosa è umido e persino il caldo si genera dall’umido. Anche Aristotele la
pensava allo stesso modo, come si può notare nel seguente passo: << Ci dev’essere una qualche
sostanza, o una, più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma
riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di
tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli
ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo
stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui,
dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e
l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli
antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse
idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione (delle
cose)>>.
Ma analizziamola ora sotto un profilo prettamente scientifico:l'acqua è la sostanza più diffusa sulla
Terra. I soli oceani ricoprono più del 70% della superficie terrestre e contengono l'incredibile
quantità di 1.350.000.000 di chilometri cubici d'acqua. Altri 770.000.000 di chilometri cubici si
trovano nella litosfera sotto forma di acqua di e 28.000.000 di chilometri cubici sono contenuti nelle
calotte polari e nei ghiacciai. Attorno alla Terra, l'acqua è presente in una regione dello spazio, detta
‛idrosfera', che si estende nell'atmosfera sino ad una quindicina di chilometri di altezza e nella
litosfera
sino
alla
profondità
media
di
un
chilometro.
E’ anche il costituente principale di tutti gli organismi viventi e senza di essa non ci sarebbe vita,
poiché essa dipende proprio da quest’ elemento. Ogni organismo vivente è costituito, infatti, in
massima parte d'acqua. Il corpo umano ne contiene circa per il 65% del suo peso e un uomo
morrebbe in breve tempo non appena perdesse il 12% dell'acqua presente nel proprio corpo. Quasi
ogni organismo è condizionato completamente dall'acqua per più del 50% del proprio peso
corporeo. La vita stessa potrebbe avere avuto origine nell'acqua e precisamente nell'acqua salata del
mare. Il sapore salso del sangue, del sudore e delle lacrime suggerisce chiaramente una tale
possibilità.
L'acqua ha cominciato a plasmare la forma della Terra dal momento stesso della sua comparsa. La
pioggia martella il terreno ed erode il suolo, le onde del mare si riversano sulle coste, cesellando gli
scogli e trasportano via la terra. I fiumi formano le valli e i delta alluvionali. I ghiacciai fendono le
montagne
e
solcano
le
valli.
L'importanza dell'acqua non è limitata alle funzioni vitali di sostentamento degli organismi e alla
determinazione della morfologia terrestre. L'acqua è un fattore chiave nel condizionamento
climatico della Terra, per l'esistenza dell'uomo e per lo sviluppo della civiltà. Oggi si considera
spesso l'acqua alla stregua di un bene di consumo che possiede un proprio valore economico ed è
oggetto di dispute legali, sociali e politiche.
Già analizzando l’aspetto scientifico dell’argomento si è potuto capire quanto l’acqua abbia avuto (e
ha tutt’ora) un ruolo fondamentale sì nell’ambiente e nella morfologia, ma soprattutto per gli esseri
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Assaggi di Filosofia
umani, che non solo vivono grazie ad essa, ma la usano anche come mezzo di arricchimento per la
civiltà; non a caso le prime popolazioni antiche si insediarono presso fonti di acqua:
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Civiltà egizia:secondo Erodoto, hanno sviluppato la geometria e l’astronomia con lo scopo di
governare e prevedere le piene del Nilo, centro e motore di tutta la loro vita. È ancora in uso in
Egitto la noria, un sistema per il sollevamento dell’acqua dai pozzi, per poterla poi trasportare
dove le piene del grande fiume non giungono
Civiltà mesopotamiche: sono sorte sulla lingua di terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate. Grazie
alle piene e all’irrigazione ,la terra era fertile e sostentava una florida agricoltura; il commercio
sfruttava le due vie d’acqua per l’esportazione e l’importazione di numerose merci.
Esperti ingegneri idraulici progettavano sistemi di irrigazione ed elevazione dell’acqua
permettendo così una sua capillare distribuzione .
Civiltà romana: Benché altri popoli prima avessero costruito strutture per trasportare l’acqua, i
Romani svilupparono una conoscenza scientifica e una perizia tecnica senza eguali nelle terre
appartenute all’impero costruendo ingegnosi acquedotti.. Le basi teoriche per la realizzazione di
queste spettacolari opere si sono diffuse in tutto il Mediterraneo.
Civiltà ebraico-cristiana: Già nella Bibbia si ritrovano testimonianze dell’usanza (comune a
tutti i popoli del Mediterraneo) da parte delle donne di incontrarsi al pozzo o alla fontana del
villaggio. Proprio presso un pozzo avviene l’incontro e il dialogo tra Gesù e la Samaritana.
L’acqua ha una funzione purificatrice, infatti Dio sommerge il mondo con le acque (Diluvio
Universale) per liberarlo dall’umanità corrotta e permettere, attraverso Noè, la nascita di una
nuova
umanità.
Per i Cristiani l’acqua è fonte di vita, come dice Tertulliano, un apologeta cristiano: “...l’acqua
era la prima sede dello spirito divino, che la preferì a tutti gli altri elementi...Fu l’acqua che per
prima ebbe il compito di generare creature viventi...Fu l’acqua che, prima di tutto, produsse ciò
che è vita...”
Civiltà islamica: La tradizione islamica ha elaborato regole per l’uso e il controllo
dell’acqua e principi per governarne la gestione ed evitare conflitti. Le tribù di Beduini
mantengono un ordine di priorità tra le famiglie nell’uso dei pozzi e delle sorgenti .
Civiltà Hindu (India): Nei quattro Veda (libri sacri indiani) l’acqua è descritta come
“incarnazione di Dio”, “nettare”, “la protettrice della terra e dell’ambiente”. I saggi
nell’Yajurveda pregano così: “O Acqua, tu sei la fonte del benessere e della prosperità, ci
aiuti a divenire forti. Noi guardiamo a te per ricevere in dono il dolce nettare su questa terra.
O Acqua, ci rivolgiamo a te per liberarci dalle nostre colpe. Possa l’acqua purificare la terra e
la terra purificare me. Possano le sacre acque tenermi lontano dalle colpe. Possano le acque
rimuovere le mie cattive azioni.... Le acque che generano ogni prosperità sulla terra e nel
cielo e quelle che dimorano in forme differenti nell’atmosfera, quelle che irrigano la terra,
possano quelle acque essere benevole con noi e benedirci. O Acqua, toccami amorevolmente
con il tuo divino essere e produci in me forza, splendore, intelletto e saggezza.”
Civiltà degli Indiani d’America: Per le tribù del Nord America anche l’acqua è permeata
dello Spirito che permea tutti gli esseri viventi, uomo compreso. L’arrivo delle piogge era
atteso e invocato con canti.
Civiltà dell’oasi: Nelle zone più aride e apparentemente ostili alla vita si sono sviluppate
civiltà capaci di riconoscere il “valore delle cose minime” e di utilizzare efficacemente le
risorse rare, l’acqua in particolare. Le oasi, “luoghi abitati circondati da vasti deserti, come
isole nel mare aperto” , sono frutto dell’ingegno umano che riesce ad integrare componenti
ambientali, architettoniche e sociali in un unico sistema basato sulla struttura ordinata di
cisterne e canalizzazioni per la ripartizione e l’utilizzazione delle risorse idriche.
Un rapporto costante con il deserto permette alle genti dell’oasi di conoscerne le leggi
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Assaggi di Filosofia
ecologiche e di imparare quindi a scoprire le potenzialità di sussistenza insite in un ambiente
“implacabile e impercorribile”.
Alla fine di tutte queste considerazioni, possiamo affermare con certezza dunque che l’acqua
è un elemento essenziale per la sopravvivenza dell’uomo, dell’intera umanità e anche del
nostro pianeta e non solo; essa riesce anche a modificare l’aspetto del territorio e le abitudini
delle popolazione arricchendone inoltre anche la cultura.
Note
1.N. ABBAGNANO ,G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol.
1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014, p. 77.
Bibliografia



‘’La ricerca del pensiero’’ di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero.
Enciclopedia online ‘’Treccani’’http://www.treccani.it/enciclopedia/
‘’La civiltà e l’acqua’’, documento online http://www.ferraris.org/
84
Assaggi di Filosofia
Indice
Introduzione
I- GIUSTIZIA
2
La libertà di pensiero , di Alessandra Buonaiuto
3
Socrate ,di Francesca Frangipani
7
Aldilà delle apparenze: Giusto o sbagliato ?, di Francesca Defalco
12
La concezione morale di Socrate,di Andrea Pascale
15
Chi è l’uomo giusto ?,di Matteo Russo
19
I Sofisti , di Valeria Speranza
24
II -L’INFINITO
L’infinito:una sfida per il pensiero ,di Lorenza Pesacane
26
L’infinito ..il vuoto ..e la ragione!,di Marino Bianco
30
III - LA LIBERTà
La rivalutazione della sofistica ,di Diletta Bergamo
35
Etica :un viaggio da Democrito ai primi sofisti ,di Federica D’Alterio
38
Il filosofo che ride e il filosofo che piange,di Myriam Buonfino
41
Verità relativa o assoluta? , di Giovanna Olivieri
47
IV -L’ESSERE
Conflitti apparenti :Parmenide ed Eraclito si escludono a vicenda ?,di Matteo Biccari
52
L’essere : statico o dinamico ?,di Maria Teresa Casiello
56
Parmenide tra realtà e illusione,di Federica Santoro
57
L’uomo e la verità:dal relativismo protagoreo al principioal principio di non contraddizione
aristotelico ,di Clara Fabricatore
59
Democrito : l’atomismo può essere una forma di Materialismo ?,di Sara LaTorraca
63
L’uno.Il tutto,di Raffaella Cardellicchio
66
L’origine“astratta”di un mondo concreto ,di Aristidea Cavaliere
71
Eraclito filosofo del divenire ,di Daniil D’Alessio
76
V -LE ORIGINI
Le origini della filosofia greca :il passaggio dal mythos al logos,di Antonio Lucerino
77
La filosofia della polis e come essa influisce sui primi pensatori,di Edoardo Quarantelli
80
L’importanza dell’acqua ,di Laura Campanella
82
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