Assaggi di Filosofia Assaggi di Filosofia La capacità di stupirsi delle cose comuni I presocratici e Socrate Classe I sez. E a.s. 2014/15 prof. Leopoldo Cicala 1 Assaggi di Filosofia Introduzione Giornata soleggiata, eravamo appena usciti da scuola. Non era stato uno dei miei giorni migliori, ma il solo uscire da quella ghiacciaia era qualcosa di magnifico. Come d’abitudine eravamo i soliti cinque, che pur di non tornare a casa a sentire le quotidiane lamentele e qualche strigliata da parte dei genitori, ci trattenevano fino ad ora di pranzo. Era il mese di marzo, mancavano ancora alcuni mesi prima della fine dell’anno scolastico , ma per noi la chiusura della scuola era solo l’inizio di un nuovo percorso. Bisognava necessariamente scegliere cosa fare della nostra vita o quantomeno quale indirizzo scegliere per l’università. A dire la verità quasi tutti avevano un propria idea o un proprio sogno , ma alcuni non erano pronti a mettere a rischio il proprio futuro , altri non avevano le idee molto chiare e altri ancora non volevano neanche pensarci. Però c’è da dire che non si parlava d’altro in classe e fuori scuola. Così appena seduti a tavola in un ristorantino appartato in un piccolo vicoletto napoletano, tra le macchine in corsa e il vociare della folla , ordinammo il nostro pranzo. Si iniziava sempre con un discorsetto frivolo e scherzoso : “ Con chi è che sta quello?” “Davvero, ma io non ce li vedo proprio insieme , secondo me non era il caso…” . Ma alla fine si finiva sempre sullo stesso imminente argomento. Prima ancora di cominciare a parlare, arrivò la prima portata , una bella spaghettata al ragù. “Vi propongo un gioco: a turno ognuno di noi dice che decisione ha preso in queste settimane e ci spiega il perché?” dissi per rompere il ghiaccio, visto che si era creato un silenzio imbarazzante. La cosa di per sé era molto banale ma era l’unico modo per schiarirci le idee … 2 Assaggi di Filosofia “Dopo cinque anni di liceo classico non potevo non scegliere la classica giurisprudenza, forse per quella vena polemica che mi appartiene, o semplicemente perché non sono mai riuscito a capire realmente “ Che cosa è giusto e che cosa è sbagliato ?” Il tema della giustizia è sempre stato presente nella mia vita come d’altronde tutte queste domande…” La libertà di pensiero Di Alessandra Buonaiuto «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.» Costituzione Italiana, art. 21 Secondo Immanuel Kant la libertà di pensiero è “ la capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro” Da sempre in ogni epoca storica la libertà di pensiero ha dovuto affrontare numerosi ostacoli prima di affermarsi come diritto garantito. La lotta storica per l’affermazione di questo diritto che è un bene e non un male per la società, è stata combattuta da una parte dalle autorità e dalla furiosa necessità del controllo e dall’altra dal popolo e dalla consapevolezza delle coscienze che l’unico modo per poter sopravvivere è preservare la mente e la propria libertà di opinione. Il pregiudizio, le credenze religiose, il tradizionalismo, l’oscurantismo hanno spesso arginato la capacità creativa della mente di spaziare. Molti nel corso della storia hanno esercitato la facoltà della loro creatività per suggerire che certe strade nelle quali andava la loro cultura erano sbagliate. Da Socrate a Galilei, a Gesu di Nazareth fino a Giordano Bruno, da Savanarola a Lucilio Vanini. Tuttavia nonostante la Costituzione Italiana al giorno d’oggi garantisca leggi che assicurino la libertà di pensiero, è probabile che essa non sia ben radicata in una società governata da cosi tanti mezzi di controllo. In effetti il problema della libertà di pensiero non è molto sentito dalle masse bensì da piccoli gruppi di persone che hanno il bisogno di esprimere la propria idea e il proprio dissenso. Uno di questi fu sicuramente Socrate che in una società estremamente libertina e corrotta come quella di Pericle, fungeva da minaccia per il sottile equilibrio creatosi in quel tempo. Siamo nel 399 a.C quando Socrate, filosofo ed educatore ateniese, sostiene la supremazia di un governo aristocratico, in netto contrasto quindi con la democrazia ateniese. Un vero e proprio pericolo considerando anche il fatto che aveva strette amicizie con alcuni aristocratici che qualche anno prima avevano tentato un colpo di stato. L’accusa di empietà, di aver corrotto i giovani e di aver introdotto nuovi culti ad Atene, come spiega Platone nell’Apologia di Socrate sono solo pretesti: “Inoltre, i giovani che hanno più tempo libero, cioè i figli dei più ricchi, mi frequentano per loro scelta, si divertono a sentirmi mettere alla prova le persone, e spesso mi imitano essi stessi e tentano di esaminarne altre. Così trovano - credo - una grande abbondanza di persone che sono convinte di sapere qualcosa ma sanno poco o nulla. E quelli che essi mettono alla prova si arrabbiano con me, invece che con se stessi, e dicono che un certo Socrate è oltremodo abominevole e corrompe i giovani. E se qualcuno chiede loro "facendo o insegnando che cosa?", non sanno che dire e per non apparire in imbarazzo, dicono tutto quello che hanno sottomano contro chi fa filosofia: insegna "ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra", a "non credere negli dei" e a "fare del discorso più debole il più forte". Perché la verità - venire scoperti come persone che fanno finta di sapere ma non sanno - non gli piacerebbe dirla. Ed essendo - penso - ambiziosi, violenti e numerosi e parlando di me in maniera concertata e persuasiva, vi hanno riempito gli orecchi di robuste calunnie. Su questa base mi hanno attaccato Meleto, Anito e Licone: Meleto irritato per i poeti, Anito per gli artigiani e gli uomini politici, Licone per i retori. Così, come 3 Assaggi di Filosofia dicevo in principio, mi stupirei se riuscissi a sradicare da voi, in così poco tempo, un pregiudizio divenuto così grande. Questa è la verità, cittadini ateniesi, e vi parlo senza nascondervi nulla, grande o piccolo che sia, e senza riserve. E so piuttosto bene che in questo modo mi rendo odioso ma ciò è anche prova che dico la verità, che la calunnia contro di me è questa e queste ne sono le cause. E se le cercherete, ora o in futuro, vedrete da voi che è così. ” Come si evince dal brano la necessità dello stato a quell’epoca era limitare la libertà di pensiero per rafforzare le basi di un potere economico e politico “in bilico”. In effetti nel corso della storia questo processo “costruito” non è stato l’unico. Possiamo ben ricordare infatti, il processo a Galileo Galilei sostenitore della teoria copernicana eliocentrica sul moto dei corpi celesti in opposizione alla teoria aristotelico-tomaica sostenuta dalla Chiesa Cattolica. Galileo con la sua tesi scientifica metteva in discussione ciò che era scritto nelle Sacre Scritture e quindi fu ritenuto eretico. Qui riportata la lettera che Galileo spedì a Benedetto Castelli spiegando l’indipendenza della ricerca scientifica dalle Sacre Scritture. « potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti » Tuttavia per la visione teocentrica e per l’assoluta fedeltà all’interpretazione allegorica-cristiana delle Sacre Scritture, Galileo fu costretto a negare la sua tesi pur di continuare gli studi e non essere esiliato. Qui riportata un frammento della sentenza: “Roma, 22 giugno 1633. Noi Gasparo del tit. di S.Croce in Gerusalemme Borgia; Fra Felice Centino del tit. di S.Anastasia, detto d'Ascoli; Guido del tit. di S.Maria del Popolo Bentivoglio; Fra Desiderio Scaglia del tit. di S. Carlo, detto di Cremona; Fra Ant.o Barberino. Detto di S.Onofrio; Laudivio Zacchia del tit. di S.Pietro in Vincoli, detto di S.Sisto; Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso; Fabricio del tit. di S.Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti; Francesco del tit. di S.Lorenzo in Damaso Barberino; e Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi; per la misericordia di Dio, della S.ta Romana Chiesa Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori generali della S.Sede Apostolica specialmente deputati; Essendo che tu, Galileo fig.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni 70, fosti denunziato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa dottrina, da alcuni insegnata, ch'il Sole sia centro del mondo e imobile, e che la Terra si muova anco di moto diurno; ch'avevi discepoli, a' quali insegnavi la medesima dottrina; che circa l'istessa tenevi corrispondenza con alcuni mattematici di Germania; che tu avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle macchie solari, nelle quali spiegavi l'istessa dottrina come vera; che all'obbiezioni che alle volte ti venivano fatte, tolte dalla Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo senso; e successivamente fu presentata copia d'una scrittura, sotto forma di lettera, quale si diceva 4 Assaggi di Filosofia esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, e in essa, seguendo la posizione del Copernico, si contengono varie proposizioni contro il vero senso e autorità della sacra Scrittura; Volendo per ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui proveniva e andava crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N. S.re e del'Eminen.mi e Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due proposizioni della stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè: Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura; Che la Terra non sia centro del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide. Ma volendosi per allora procedere teco con benignità, fu decretato dalla Sacra Congre.ne tenuta avanti N.S. a' 25 di Febr.o 1616, che l'Emin.mo S. Card. Bellarmino ti ordinasse che tu dovessi omninamente lasciar detta opinione falsa, e ricusando tu di ciò fare, che dal Comissario di S. Off.io ti dovesse esser fatto precetto di lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri, né difenderla né trattarne, al qual precetto non acquietandoti, dovessi esser carcerato; e in essecuzione dell'istesso decreto, il giorno seguente, nel palazzo e alla presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo esser stato dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal P. Comissario del S. Off.o di quel tempo fatto precetto, con notaro e testimoni, che omninamente dovessi lasciar la detta falsa opinione, e che nell'avvenire tu non la potessi tenere né difendere né insegnar in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato. E acciò che si togliesse così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiudizio della Cattolica verità, uscì decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice, col quale furono proibiti li libri che trattano di tal dottrina, e essa dichiarata falsa e omninamente contraria alla Sacra e divina Scrittura. E essendo ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo passato, la cui inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; ed informata appresso la Sacra Congre.ne che con l'impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede e si disseminava la falsa opinione del moto della terra e stabilità del Sole; fu il detto libro diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente la transgressione del predetto precetto che ti fu fatto, avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata e in faccia tua per tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii ragiri ti studii di persuadere che tu lasci come indecisa e espressamente probabile, il che pur è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser probabile un'opinione dichiarata e difinita per contraria alla Scrittura divina.” Successivamente con l’affermarsi del governo nazi-fascista in Germania con a capo Adolf Hitler, Joseph Paul Goebbels, Ministro della propaganda e dell’informazione del governo dittatoriale di Hitler, parlo cosi la notte del 10 maggio 1933 al rogo dei libri. «Studenti, uomini e donne tedesche, l'era dell'esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare DIRETTAMENTE gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest'ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un'impresa forte, grande e simbolica, un'impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di Novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito». Bruciare i libri infatti era un’azione tanto forte quanto propedeutica al controllo delle menti secondo il pensiero fascista. Riformare il “pensiero” ed eliminare la letteratura era un modo per dominare le menti ed evitare che leggendo le masse potessero consapevolizzarsi a tal punto da 5 Assaggi di Filosofia ribellarsi. Erano gli anni trenta, quelli della condanna all’intellettualismo e alle filosofie astratte. Anni di repressioni, della paura dell’autonomia di pensiero. Ebbene in questo caso come negli altri due, nel caso di Socrate e Galileo, si evince la necessità da parte della società di limitare la libertà di pensiero. Negli anni però molti sono stati i martiri che hanno dato la vita al fine di rendere la società libera, e in una repubblica democratica come la nosta è garantita la libertà di pensiero. E’ curioso tuttavia capire quanto i mass media, i social network e il mondo della pubblicità influenzino enormemente il libero pensiero. Come dice Roberto di Cosmo ( professore informatico) nell’intervista rilasciata al programma televisivo “ Mediamente” della RAI, il potere informatico è potentissimo e “ la vera ricchezza sarà il controllo dell’informazione”. In effetti il potere informatico ha la capacità di accumulazione, memorizzazione, elaborazione e trasmissione dei dati personali, che conferisce un potere conoscitivo prima sconosciuto e che consente di attuare una sorveglianza occulta, onnipresente, pervasiva dei comportamenti privati. I mass media poi, sono strumenti di comunicazione di massa necessari per la funzionalità di una grande democrazia, ma anche per una buona dittatura. Influiscono sulle masse isolate particolarmente manipolabili al fine di raggiungere i propri scopi. Ad esempio, il lancio di un documentario su Enrico Berlinguer, con l’apprezzamento finale di Renzi che elogia e ammira il politico del partito comunista, lascia intendere che forse l’intenzione comunicativa nascosta nel rilancio di un documentario su questo politico, sarà un tentativo di presentare Renzi come il prossimo “ redentore” del governo italiano. Le pubblicità poi ci illudono facendoci pensare che tutto ciò che è super “comodo” sia indispensabile all’uomo. Tutto ciò induce al consumismo e ovviamente all’arricchimento di alcune èlite che sono al comando del Paese. Ad esempio quando si va a comprare un paio di scarpe, solitamente non si comprano quelle che a primo impatto sembrano essere belle e neanche quelle che si adattano di più alle esigenze del compratore o anche che rientrano in un certo budget economico, ma piuttosto quelle che assomigliano di più a un tipo di scarpa che si usa, magari più costoso, magari che non non sarebbe mai piaciuto se non si fosse visto addosso a molti. Non è forse questa negazione del pensiero? Non si cerca attraverso la tecnologia di arginare la libertà di pensiero per mantenere in piedi un sistema sociale-economico governato da pochi? Non è forse più semplice governare una massa di stupidi, indirizzandoli sulle cose effimere? Dal 399 a.C fino al 2015 d. C in situazioni diverse abbiamo trovato sempre la stessa costante: la necessità di limitare la libertà di pensiero per mantenere il potere stabile. Bibliografia Platone, Apologia di Socrate, prima edizione Bompiani 2000 par. 10. I documenti del processo di Galileo Galilei, Sergio Pagano Antonio G. Luciani, 1984,pp XXVIII,280,tav.6 (asv.vatican.va). F. Flora, Opere di Galileo Galilei, Riccardo Ricciardi Editore, 1953. 6 Assaggi di Filosofia Socrate Uomo libero o libertino? Di Francesca Frangipani Atene, V secolo a.C. Secolo di rinnovamento politico, culturale e soprattutto segnato, per ciò che riguarda la storia del pensiero greco da uno “spostamento”della riflessione filosofica. La mentalità collettiva cambia, molte certezze crollano, e i cittadini non sono più tanto interessati alla physis,quanto alle problematiche strettamente legate all’uomo e alla sua natura. Tuttavia ildèmos ha pur sempre bisogno di un punto di riferimento che non si limiti al semplice possesso di capacità tecniche non comuni come per i sofisti, ma che sappia anche tirar fuori da ognuno una coscienza morale, allo stesso tempo pratica, che renda gli uomini in grado di agire sottoponendovi le proprie azioni al fine di analizzarle. Occorreva indubbiamente qualcuno che fosse in grado di trasmettere una praticità che non sfociasse nel materialismo, una praticità ponderata e ragionata, e, se vogliamo, giusta. Qualcuno che istruisse il popolo al pensiero libero e corretto, una persona disinteressata, non corrotta: una persona “libera”. Chi dunque si fece carico delle problematiche filosofiche legate all’uomo promuovendo un vero e proprio ragionamento pratico sottoposto all’esame di una propria coscienza? Chi se non Socrate, uomo “libero”? Ma come faceva Socrate ad essere una persona libera e allo stesso tempo rispettosa delle leggi della pòlis,pur non condividendole pienamente? Soprattutto, riusciva ad osservare veramente le leggi pur avendo un pensiero libero e indipendente? Era dunque una persona realmente libera oppure semplicemente un contestatore che voleva far prevalere la sua ideologia sulla legge? E, cosa più importante, chi è stato, allora, Socrate? Un “libero”o ciò che oggi potremmo definire un “libertino”? Questi interrogativisono stati più volte posti nel tempo e hanno ricevuto risposte indubbiamente diverse. Il perché di tutti questi interrogativi e delle relative risposte è semplice; sono dovuti certamente alla novità, e quasi ambiguità, di questo personaggio agli occhi dei suoi contemporanei che ne diedero numerose interpretazioni talvolta giunte sino a noi. “L’immagine di Socrate che possiamo scorgere all’orizzonte di tutte le testimonianze dei suoi contemporanei è in effetti quella di una figura ambigua e paradossale che a seconda di come se ne interpretino i tratti superficiali può trasformarsi in una buffa caricatura a metà tra filosofo e sofista o nel paradigma di un uomo saggio e irreprensibile”[1]. C’è chi pensa che Socrate fosse senza alcun dubbio un uomo “libero”. Questo è sicuramente il Socrate di Platone e Aristotele e per certi versi anche di Senofonte. Platone in particolar modo fa di Socrate “l’eroe della sua filosofia”[2], definendolo un uomo giusto con poche certezze come appunto quella che commettere ingiustizia è sempre un male. Definendolo uomo “dalle poche certezze” Platone non intende ovviamente sminuire la credibilità del suo maestro, ma è come se volesse definire quella di Socrate una “dotta ignoranza”, l’ignoranza di chi non è sapiente, ma non crede nemmeno di esserlo; e una “sapienza umana”, cioè” il riconoscimento che il proprio sapere (umano) non è nulla in confronto a quello divino”[3]. Socrate è dunque un maestro dotato di una saggezza quasi dimessa, libero da ogni forma di tracotanza. Senofonte lo definisce “un modello di liberalità, giustizia e saggezza. “Qualcuno capace di calcolare serenamente di fronte alla propria condanna a morte”[4], qualcuno, quindi, con una tale capacità di ragionamento euna tale coscienza, intesa come quel “qualcosa che è come una voce la quale ogni volta che si fa sentire sempre dissuade da qualcosa e non mai persuade ad alcuna”[5], da sottoporre a questi ogni azione e avvenimento e da essere libero da ogni forma di demagogia o condizionamento. Capace di essere libero dalla paura tanto da affermare, sempre dopo una condanna a morte, che “nemmeno questa va temuta perché d’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene 7 Assaggi di Filosofia ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? Che se uno, giunto nell’ Ade, libero ormai da coloro che si spacciano per giudici qui da noi, troverà colà i giudici veri, quelli appunto che nell’Ade si dice esercitino officio di giudici”[6]. Qualcuno, forse l’unico, capace di affermare in un periodo come il V secolo a.C. cose come:”tutto preso come sono da quest’ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema miseria”[7]. Sarebbe opportuno soffermarsi particolarmente su quest’affermazione. Socrate è preso da “un’ansia di ricerca”, ma che cosa significa? Egli stesso, dopo il noto vaticinio dell’oracolo di Delfi, si impegna a ricercare qualcuno più sapiente di lui poiché non crede di meritarsi la fama di “sapiente tra i sapienti”; non si tratta dunque di un “ansia di ricerca” finalizzata esclusivamente a trovare una risposta in quanto tale, ma piuttosto a dimostrare ancora una volta che Socrate stesso mette in evidenza la parte “umana” e certamente umile di sé, e a dimostrare ulteriormente anche la costante analisi a cui sottopone la propria persona. Così facendo, ovvero nel voler smentire il vaticinio, non va inoltre assolutamente a sminuire la figura e la valenza divina dell’oracolo; anzi, la sua ricerca e la consequenziale “ansia” sono a testimonianza della serietà con cui Socrate pesa le parole dell’oracolo; se avesse creduto che questo fosse cosa di poco conto non vi avrebbe dato tutta questa importanza. Ora andiamo avanti: “non gli rimane tempo di fare cosa veruna per la città”. Nel V secolo a.C., periodo noto anche per la diffusione della corruzione nelle cariche pubbliche, è certamente difficile trovare qualcuno che non desideri prender parte alla vita politica quando questa sta diventando la massima aspirazione per quasi ogni cittadino. Ebbene Socrate dimostra di essere libero anche da questo. Libero dalla corruzione e dalla brama di ricchezza. Ricordiamo inoltre che Socrate, al contrario di come accade in quel periodo per i sofisti, non riceve pagamenti. Infatti, a testimonianza di ciò e del suo disinteresse al denaro oltre che alle cariche politiche, basta proseguire nella lettura della frase. Socrate non fa nulla nemmeno “per la sua casa” e “vive in miseria”. “Socrate è per noi il primo uomo che ha saputo vivere senza mai tradire le proprie convinzioni per viltà o convenienza, ma sottoponendole costantemente all’esame critico della ragione per verificarne la bontà ed esser certo così di affidare ogni sua scelta e azione al miglior ragionamento di cui fosse capace.“E’ stato il primo che ha saputo condurre questa coerenza tra pensiero e azione fino alle sue estreme conseguenze, senza indietreggiare nemmeno di fronte alla morte, e che su di essa ha fondato la propria felicità rendendola incorruttibile”[8]. Per altri invece Socrate era tutt’altro; un vero e proprio libertino. C’è chi afferma propriamente che “Socrate era in tutto libertino: innumerevoli furono anche i suoi amori per i giovani”9. Questo è senz’altro il Socrate basato sull’idea di Aristofane.Infatti nelle sue Nuvole testimonia che “Socrate è il concentrato dei nuovi vizi e saperi della cultura periclea” [10] e contestatore della tradizione. “Aristofane mette poi in atto nel contempo il naturalista empio che crede nelle divinità del Caos, delle Nuvole e non in Zeus, prefigurando inoltre le accuse che gli saranno mosse vent’anni dopo“[11]. Socrate avrebbe dunque utilizzato un certo modo di pensare e ragionare in realtà ingiusto; avrebbe affascinato il popolo con i “nuovi saperi” per danneggiare la tradizione e per far prevalere dunque le proprie ideee “capricci” sulle leggi. Veniamo ora forse al principale punto per cui Socrate potrebbe essere considerato un libertino: anche i suoi amori per i ragazzi furono innumerevoli. Socrate dunque non si faceva pagare per i suoi insegnamenti, per quale motivo? Scambiava forse la “propria sapienza con la loro bellezza”[12]? Potrebbe essere dal momento in cui sappiamo che nell’antichità greca Socrate veniva accusato diatopìa. Nel mondo greco e soprattutto in ambito filosofico quest’accusa è paricolarmente grave poiché i Greci sono fortemente deterministi e tutto ciò che è a-tòpos, cioè senza un luogo, qundi 8 Assaggi di Filosofia indefinito, quindi inclassificabile, non si può misurare, non ha un limite, dunque è di per sé imperfetto. Socrate viene accusato anche di eironeìa. Accusato quindi di essere un dissimulatore; di essere qualcuno che cerca di far credere agli altri di essere l’opposto di ciò che in realtà è: un uomo palesemente sapiente che cerca di dimostrare di non essere sapiente e quindi, essendo colpevole di eironeìa, l’eironeìa non può manifestarsi in un solo carattere dell’essenza umana, se come lo stesso Socrate sostiene, attraverso queste ci si può avvicinare a più di una verità. Dunque se Socrate è un dissimulatore della sua sapienza tenderà ad essere un dissimulatore in assoluto e se tenderà ad essere un dissimulatore in assoluto non può che essere verità il fatto che lui sia in relatà un “ammaliatore”[13] per il fatto che lui avesse un brutto aspetto fisico e che sembrava volersi rendere brutto di proposito. Potrebbero esserne una dimostrazione la suddetta Nuvole di Aristofane e anche un’altra commedia, gli Uccelli, antichissima testimonianza: qui Aristofane conia perfino un verbo (esokràton) per indicare l’atteggiamento di chi “socratizza”, di chi cioè, come Socrate, porta i capelli lunghi e dà scarsa importanza alla pulizia del corpo[14]. E la tecnica dell’ èlenchos? Perché verificare le credenze di tutti? Perché turbare le menti dei cittadini Ateniesi e, più in generale, dei Greci? Forse per condizionare ancora una volta tutti con le proprie idee da far prevalere sulla tradizione? Dunque forse Socrate è solo un contestatore di una parte più conservatrice; oltre che un libertino. Diamo innanzitutto una definizione di libertino: “con il termine libertino viene generalmente definita una persona che conduce una vita interamente dedita ai piaceri, che segue solo i propri capricci, fino alla sfrenatezza senza alcuna intenzione di sottomettrsi alla morale dominante corrente”[15]. Diamo ora una definizione di uomo libero:esente da costrizione o limitazione sul piano morale, sociale, politico[16]. Come si può allora pensare di affermare che Socrate fosse un libertino? Analizziamo la definizione. “Una persona che conduce una vita interamente dedita ai piaceri, che segue solo i propri capricci”; Come scrive il filosofo contemporaneo Robert Nozick, “la scelta di Socrate di andare in contro alla morte anziché salvarsi rinnegando ciò in cui credeva più profondamente ha reso la sua morte una parte essenziale della sua vita (….) a Socrate dobbiamo il primo, e forse unico, esempio di vita consacrata alla filosofia”. Socrate consacra dunque, nel senso pienamente letterale della parola, la sua vita al volere del dio e alla filosofia. E’ dunque libertinaggio, la filosofia? Socrate si comporta quindi da uomo libero, da uomo esente da costrizione o limitazione sul piano morale; non da libertino. Per quanto riguarda le “accuse” che gli vengono mosse per ciò che concerne l’atopìa e l’ eironeìa e dunque le sue presunte frequentazioni con i giovani che soleva istruire vi è una spiegazione. Socrate è il primo intellettuale greco a rompere l’ideale di kalokagathìa, ovvero di “bellezza” e “bontà” (intesa anche come credibilità o saggezza) come qualità inscindibili. Nel mondo greco un intellettuale che non rinetri in questo ideale, ovvero che sia saggio e non di bell’aspetto proprio come Socrate, suscita certamente incredulità. I Greci, contemporanei e non solo, di Socrate dovevano quindi “giustificare” il fatto che Socrate fosse un intellettuale che si collocasse al di fuori dell’ideale di kalokagathìa . “Aristòsseno, per esempio,giustifica la capacità persuasiva di Socrate con la voce”17, altri invece provarono a giustificare la cosa dicendo che in realtà Socrate “era come i Sileni, brutti ma ammaliatori(….) brutto fuori ma con un tesoro celato al suo interno”[18] . “Infatti la prospettiva è chiara e rispetta fin troppo bene quel fraintendimento dell’opinione pubblica a cui 9 Assaggi di Filosofia Socrate è andato tristemente incontro (….) l’accusa di dissimulazione che è rivolta a Socrate deriva, quindi, da un fraintendimento della sua vera natura, che si interessa ai giovani per educarli e prendersi cura della propria anima”[19]. Di questo abbiamo perfino una testimonianza diretta dell’allievo Platone; infatti Socrate era solito esortare i giovani rivolgendosi a ognuno di loro: “tu che sei di Atene, non ti vergogni di curarti delle ricchezze, della fama e dell’onore, mentre di intelligenza e di verità e dell’anima, non ti curi ne ti dai pensiero?” [20] Socrate si comporta quindi ancora una volta da uomo libero, seguendo i propri ideali con coscienza ed essendo esente da costrizione o limitazione sul piano oltre che morale anche sociale; non da libertino. Andiamo avanti nell’analizzare la definizione di libertino. “Senza alcuna intenzione di sottomettersi alla morale dominante corrente”. Socrate, come abbiamo precedentemente dimostrato, è sicuramente una personalità di estrema coerenza morale. Nonostante la scelta di portare avanti i suoi ideali, Socrate sceglie comunque di morire sotto una legge, quindi una morale corrente, pur non condividendola. Socrate riesce incredibilmente aconciliare la lotta per i propri ideali con il rispetto delle leggi, accettando con grande dignità e coraggio il fatto che, dopo aver sempre e comunque contestato la sua condanna e dopo aver difeso sé stesso e i propri ideali con prove e testimonianze concrete, i giudici, e quindi la legge del tempo, avessero deciso di non assolverlo. Così anche se voi ora mi lasciaste libero di andare, non prestando fede ad Anito(….) se in rapporto a ciò mi diceste: “Ora, Socrate, non presteremo fede ad Anito e ti lasceremo libero, a questa condizione però che non devi più passare il tuo tempo in questa ricerca né a filosofare(….) io vi risponderei:” O uomini di Atene, nutro per voi gratitudine e affetto, ma ubbidirò al dio piuttosto che a voi, e fintanto che avrò respiro e ne sarò capace, non cesserò di fare filosofia, di esortarvi e di esprimere il mio pensiero[21]. Socrate si comporta, ancora una volta, da uomo libero: capace di essere esente da costrizione o limitazione sul piano morale, sociale e politico. Non da libertino. In conclusione, dopo aver analizzato entrambi i punti di vista e dopo aver confutato il secondo possiamo affermare che Socrate non era dunque un libertino e che, nonostante a volte sia complesso, è possibile anzi addirittura necessario individuare il confine che divide la libertà e il libertinaggio per evitare interpretazioni equivoche. 10 Assaggi di Filosofia Note [1] U. Eco; Storia della Filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza pag. 57 [2] Ibidem; pag. 77 [3] Idem [4] U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza pag. 57 [5] Platone; Apologia di Socrate, editori Laterza [6] Ibidem, pag.61. [7] Ibidem, pag. 21. [8] U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza, pag. 57 [9] P. Pasolini, racconti corsari [10] R. Fedriga; Storia della filosofia 1. Dall’ antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza, pag. 78 [11] Idem [12] U. Eco; ibidem, pag. 79 [13] Idem [14] Ibidem; pag. 80 [15] Treccani online [16] Idem [17] R. Fedriga; Storia della filosofia1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza, pag. 78 [18] Idem [19] R. Fedriga; Ibidem [20] Platone; Aplogia di Socrate, editori Laterza [21] Idem Bibliografia Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevoediz. 2014, a cura di U. Eco e R. Fedriga, editori Laterza Apologia di Socrate; Platone, editori Laterza Racconti Corsari; P. Pasolini Treccani, enciclopedia online; www.treccani.it 11 Assaggi di Filosofia Aldilà delle apparenze: giusto o sbagliato? Di Francesca De Falco È forse giusto smentire ciò che è dato per vero?c’è un limite tra il giusto e il sbagliato? È la causa o il fine che ci permette di stabilirlo? Forse a cause giuste corrispondono giuste verità? O ad un giusto fine? O per meglio dire, il fine giustifica i mezzi? Il problema sta proprio qui, nello stabilire il limite tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma ancora prima stabilire il significato di “giusto” poiché ciò che è giusto per il singolo non è necessariamente giusto per la collettività e viceversa. Consideriamo “giusto” e “sbagliato” dunque semplici convenzioni ma facciamo però un piccola distinzione: distinguiamo un ‘’giusto impuro”, subdolo, con un fine scorretto per la collettività, e un “giusto puro’’, volto con sincerità a mettere in luce una verità quanto più obiettiva possibile(in quanto vera per il popolo),per così dire, alla maniera di Socrate. Ora, sulla base di questa considerazione, si può dire che il lavoro dei sofisti è estremamente corrotto, scorretto, ‘’ingiusto”? e se li considerassimo semplicemente un effetto, piuttosto che la causa, di quel clima storico e politico caratterizzato certamente da immoralità? Magari dietro al loro uso ‘’scorretto’’ della retorica viveva un forte sentimento di adattamento a quello scenario di vita devastato. Una sorta di arresa di fronte alle difficoltà quotidiane, un modo per non alimentare problemi già presenti e riportare una pace che sia più che altro una sicurezza apparente. E con tutto ciò, sicuramente, anche un conseguente desiderio di ricavarne qualcosa di materiale, uno stipendio che gli permetteva di tirare avanti. Così i sofisti non sono “sapienti ingiusti” e nemmeno politici, ma sono proprio a metà strada tra l’una e l’altra cosa. Basti pensare a Gorgia, che affermando“Elena è senza colpa”1, per discolparla presenta una serie di implicazioni logiche secondo le quali Elena non è realmente rea del conflitto tra i greci e i troiani. L'encomio è una dimostrazione della forza della parola che è capace, mediante un opportuno utilizzo, di ribaltare il convincimento popolare, risultato di secoli di tradizioni, a proprio piacimento. Ma perché pensare che fare le cose “a proprio piacimento” sia necessariamente una cosa negativa? Ovviamente non è detto! Elena è innocente, poiché il movente del suo gesto è esterno alla sua responsabilità e può aver agito per questi motivi:Per decreto degli dèi, oppure non si era potuta opporre al fato, o era stata rapita con la forza, o era stata persuasa dalle parole di Paride, o era stata vinta dalla passione amorosa,o anche per volere della sorte. Nel primo caso Elena non ha colpa, in quanto nemmeno gli dèi stessi potevano opporsi al Fato. Se rapita, Elena è una vittima, e la colpa va data a Paride. Di nuovo, se innamorata, Elena è una vittima, poiché fu Afrodite a farla innamorare, come ricompensa a Paride per averla giudicata vincitrice della Mela d’oro. Infine, se persuasa dalle parole, ancora una volta è da ritenersi innocente, soprattutto se queste sono pronunciate da un abile oratore. 12 Assaggi di Filosofia 2 Sempre per far percepire la potenza delle parole, il potere “d'ingannare”che esse celano, Gorgia conclude ad effetto dicendo che la sua opera vale sì a difesa di Elena, ma per lui solo come gioco dialettico. È questo certamente un pericolo ma ad ogni modo è un arma e per questo motivo è più facile criticare i sofisti piuttosto che riconoscergli una bravura e\o una debolezza che, come dicevamo prima, è dovuta all’immoralità che li circonda che li spinge ad arrivare ad un fine “giusto e impuro”. Centinaia e centinaia di critiche dovute specialmente arrivati ad una domanda essenziale: Giusto per chi?e come prima si provava a dire, può essere giusto per la collettività, per un singolo e magari per entrambi a seconda dell’ottica morale: relativa o assoluta Diverse cose possono essere dette circa le argomentazioni sul relativismo morale (quello dei sofisti ad esempio) che evidenziano la loro dubbiosa natura. In primo luogo, molte argomentazioni a supporto del relativismo possono sembrare,inizialmente, buone, ma c’è poi una contraddizione logica in esse, in quanto propongono uno schema morale “giusto”, il quale tutti dovremmo seguire. Essi non direbbero che un assassino o un violentatore sia libero dalla colpa fino a che non ha violato i “suoi” propri standard. Solitamente i relativisti argomentano che i differenti valori nelle varie culture mostrano che la morale è relativa a seconda delle persone. Ma tale argomentazione confonde le azioni degli individui con standard assoluti. Se è la cultura a definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, come avremmo potuto giudicare i nazisti? Dopo tutto essi stavano solo seguendo la moralità della loro cultura. Si può affermare che il nazismo fu moralmente sbagliato solo se l’omicidio è ritenuto universalmente sbagliato. Il fatto che essi avevano la “loro” moralità non cambia nulla. Piuttosto siccome molte persone hanno diverse pratiche di moralità, condividono una moralità comune. Ad esempio, aborzionisti e anti-aborzionisti sono d’accordo sul fatto che l’omicidio sia sbagliato, ma non sono d’accordo sul fatto se l’aborto si possa considerare omicidio. Ma il relativismo in questo caso non contamina l’assolutismo di partenza portando a due questioni divergenti? Alcuni ritengono che cambiare le situazioni porta ad un cambiamento della moralità, ma le varie scelte morali in diverse situazioni, possono rivelarsi non adatte in altre circostanze. Ci sono tre differenti cose per le quali possiamo giudicare un’azione: la situazione, l’azione e l’intenzione e ciò dovrebbe farci capire che per trovare un giusto quanto più possibile equilibrato bisognerebbe trovare il punto medio fra queste due morali. Contrapposto ai sofisti come assolutista c’è Socrate. “Esiste un solo bene, la coscienza, e un solo male, l’ignoranza”3. In un’unica frase ci spiega il pensiero degli assolutisti, ma quanto è corretto questo criterio per stabile la giustizia o meno di una cosa? Non molto direi! Certamente ora non si vuole eliminare l’immagine da paladino della giustizia generalmente attribuita a lui, si vuole offrire solo un invito a riflettere. Socrate non scrisse nulla per rendersi in parte inattaccabile dall’aristocrazia pronta a farlo fuori. Possiamo vederla così e possiamo dire che magari anche lui, andando contro i ricchi e i potenti, rischiava molto facilmente di essere accusato ed era un modo per potersela cavare qualora qualcuno l’avesse accusato. Lettori, questa è una grossa questione e poi: se era veramente così sicuro del suo assolutismo, perché celarsi dietro parole dette e annotate da qualcun’ altro? Non lo rende più attaccabile questo? 13 Assaggi di Filosofia Se il suo intento era quello di portare avanti le sue idee contrastanti ma “giuste”, che senso aveva non renderle leggibili a tutti? E se considerassimo il suo atteggiamento così ostile agli aristocratici solo come un modo per crearsi un’immagine rivoluzionaria e indelebile? 4 I problemi che egli poneva erano sicuramente esistenti ed effettivamente nel suo modo di rispondergli si riscontra una certa efficacia, ma anche la sua bravura doveva derivare da un’arte retorica che in generale, parlando dei sofisti,si tende a condannare anche con una certa superficialità dal momento che ,come abbiamo visto con l’encomio di Elena, non si è poi rivelata negativa andando comunque contro una secolare tradizione. Se si vuole considerare Socrate come colui che andando aldilà delle apparenze ha fatto cose giuste e i sofisti come coloro che invece hanno fatto cose sbagliate ci inseriremmo in quella fascia di superficiali che riescono a stabilire cos’è giusto e cosa no che vedono nella difesa della maggioranza una giustizia il che, sia chiaro, è una cosa corretta, soprattutto in quel periodo in cui i sofisti sembravano adagiarsi su quella situazione socio-politica, ma non è assoluta come cosa dal momento che si da per certo che al contrario i sofisti ne abbiano fatto solo ed unicamente un uso scorretto. Note 1. Gorgia da Lentini, “L’encomio di Elena”. 2. Faccia A di un cratere a campana apulo a figure rosse, Elena e Paride, 380-370 a.C. 3. Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”. 4. Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1833. 14 Assaggi di Filosofia La concezione della morale in Socrate Di Andrea Pascale Introduzione L’argomento di questo piccolo saggio è la concezione etica di Socrate. L’obiettivo è quello di approfondire la conoscenza di tale concezione attraverso la presentazione di posizioni a sostegno e contro. Cercheremo di capire se le accuse a Socrate di intellettualismo e di formalismo, nonché di soggettivismo, siano o no giustificate. 1.Tesi Per Socrate: virtù=sapienza e vizio=ignoranza; la virtù si identifica nella ricerca del sapere, una conoscenza frutto di un lavoro di introspezione e di confronto con gli altri. La virtù non è data alla nascita, ma si conquista con un faticoso lavoro interiore: questa tesi, in comune con i sofisti, non apre al relativismo più spregiudicato, come avviene in questi ultimi, perché Socrate comunque sente la necessità di una precisazione dei concetti. Grazie agli strumenti di lavoro filosofico da lui proposti (l’ironia, il metodo delle definizioni, il ragionamento induttivo) Socrate non abbandona l’ascoltatore nella confusione, ma lo invita a lasciare da parte le false credenze, a cercare, a basarsi sull’esperienza diretta, a puntualizzare i concetti. La virtù è una forma di sapere, un prodotto della mente: Socrate crede fermamente che riflettere criticamente sull’esistenza sia l’unico modo per intendere ciò che è giusto e ciò che non lo è. Per Socrate non bisogna agire secondo la tradizione o credendo di essere nel vero, ma bisogna dialogare con se stessi e confrontarsi con gli altri per capire “quando è bene fare questa o quella azione, che diviene buona quando so che, ora, è bene farla”1. Il bene e la giustizia non sono entità metafisiche, ma valori umani frutto di una riflessione consapevole che porta a conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie possibilità. La vita è un’avventura disciplinata dalla ragione. Proprio per questo, la virtù può essere insegnata e comunicata a tutti. La virtù, secondo questo punto di vista, è unica perché tutte quelle che gli uomini chiamano virtù non sono altro che modi di essere di quella scienza del bene che Socrate riconosce come unica guida nell’esistenza. Per Socrate i valori veri non sono né la potenza e la ricchezza, né la forza fisica e la bellezza, ma i valori dell’anima che si identificano nella conoscenza. Questo non vuol dire un rifiuto dei valori “mondani” , ma la loro subordinazione alla virtù della conoscenza, perché solo attraverso di essa si può raggiungere l’utile e la vita felice. Per Socrate la virtù non è rifiuto dell’esistenza, ma calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita. La virtù è anche l’arte della convivenza e del dialogo: per questo motivo Socrate ritiene importante, oltre al dialogo interiore, anche il confronto con gli altri, in quanto l’uomo è un essere sociale e il suo bene non può essere in contrasto con il bene degli altri. Pensiero di collegamento 15 Assaggi di Filosofia Analizzeremo adesso tutte le critiche alla posizione di Socrate: l’accusa di intellettualismo etico, di formalismo etico e di soggettivismo o relativismo morale. 2.Antitesi Accusa di intellettualismo etico: nella visione socratica sembra che l’aspetto cognitivo-razionale del comportamento umano sia sopravvalutato rispetto alla parte istintivo-affettiva. Spesso gli esseri umani predicano bene, ma “razzolano male” proprio a causa di forze interiori che si oppongono al giusto agire elaborato attraverso il processo di conoscenza, proposto da Socrate come unico mezzo per perseguire il bene. Ad opporsi alla visone socratica sono sia i filosofi cristiani, che non condividono la fiducia socratica nell’uomo e non intendono ignorare la potenza delle passioni “maligne” rispetto alle buone intenzioni, sia tutti coloro che rivendicavano un ruolo importante alla parte irrazionale dell’uomo(le emozioni e i sentimenti) nel determinare l’agire umano. Socrate viene accusato da questi ultimi di ignorare la profonda spinta vitale che viene dalla nostra parte “animale”. Un’altra accusa fatta a Socrate è quella di formalismo etico. Si accusa Socrate di non arrivare a nessuna conclusione pratica riguardo l’agire concreto, ma di offrire solo un’indicazione sul come perseguire la virtù-sapere, rischiando di favorire un anarchismo morale e un soggettivismo comportamentale. Proprio di soggettivismo o relativismo morale viene ancora accusato Socrate per via del fatto di non fornire saldi criteri etici, ma di abbandonare l’uomo alle sue vicissitudini. Il rifiuto sistematico di elaborare dei principi etici validi una volta per tutte poteva, secondo i critici di Socrate, instaurare un regime di totale amoralità. La visione di Socrate, pur essendo stata accostata nei primi tempi del Cristianesimo alla visione cristiana e Socrate stesso visto come un’anticipazione della figura di Cristo, diviene comunque oggetto di critiche da parte dei Padri della Chiesa per il suo modo di intendere la verità più come ricerca che come possesso di un sapere assoluto. Tertulliano, per esempio, sostenendo che non è possibile scoprire la verità al di fuori di Dio, si oppone ad ogni uso della ragione che non riconosca in primo luogo l’importanza della “rivelazione”. Contro la “curiositas” dei filosofi, Tertulliano propone un uso della ragione al servizio della messaggio cristiano. Altra critica contro il razionalismo etico di Socrate viene da Nietzsche, il quale attacca l’equazione virtù=sapienza=uso della ragione perché, secondo lui, questo atteggiamento porterebbe a un dominio spietato della razionalità sulla forza vitale della natura presente in ogni essere vivente. Secondo Nietzsche, Socrate, sottomettendo l’istinto, le forze dell’inconscio, la spinta vitale della parte animale dell’uomo al dominio della ragione avrebbe sottratto all’uomo la sua parte più autentica dando inizio alla decadenza della cultura occidentale. Anche la psicanalisi ha da ridire sul primato della ragione proposto da Socrate. Evidenziando il ruolo fondamentale delle forze inconsce e delle pulsioni nella dinamica psichica, Freud sembra assestare un colpo mortale alla fiducia socratica nella possibilità di una gestione ragionevole del comportamento umano. La psicoanalisi mette in rilievo il continuo fallimento della volontà razionale nel tentativo di venire a capo delle spinte istintuali. Il processo di civilizzazione dell’uomo per Freud è sempre accompagnato da un disagio. Pensiero di collegamento 16 Assaggi di Filosofia Cercheremo adesso di proporre argomenti capaci di confutare l’antitesi che abbiamo proposto 3. Confutazione dell’antitesi Alla visione rigida e dogmatica di una verità del Cristianesimo intesa come possesso della verità si può contrapporre la visione di Kierkegaard che considera invece Socrate come il filosofo più vicino allo spirito cristiano col quale addirittura si identificherebbe. Per Kierkegaard l’ironia, esprimendosi nel paradosso antidogmatico, dà la possibilità all’uomo di esporsi a se stesso e quindi di incontrare Dio. Kierkegaard, identificandosi con Socrate, vuole svuotare il Cristianesimo dal suo contenuto dottrinale e riportarlo a Cristo e alla sua spiritualità. Come per Socrate, anche per Kierkegaard la filosofia non deve limitarsi a un aspetto puramente astratto e definitorio, ma deve incidere nel profondo non solo di chi la ascolta, ma anche di chi la esprime e, in un certo senso, l’impersona. La filosofia cioè, è anche pratica di vita. Come Cristo anche Socrate con la sua parola ha trasformato la vita di chi lo ascoltava e ha impegnato la sua vita sino alla morte per mantenersi fedele a quanto sostenuto. Proprio questa “coerenza” è il giusto antidoto al nichilismo morale, cui giungevano i sofisti come frutto dell’esercizio sistematico del dubbio e di cui anche Socrate talvolta è stato tacciato. Per Socrate in realtà l’esercizio della razionalità si articola in due momenti: prima un momento dubitativo(dialettica), dove “dubitare”, cioè discutere e mettere in discussione, diviene la norma, poi un momento limitativo aggiuntivo (coerenza) dove essere coerenti vuole dire bloccare, fino a nuova evidenza contraria, l’infinita catena di dialettizzazione delle credenze. Quanto alle accuse di soggettivismo e di relativismo, Merleau-Ponty nel suo ”Elogio della filosofia”, richiamandosi a Socrate, scrive: ”il filosofo moderno è spesso un funzionario, ed è sempre uno scrittore; e la libertà che gli è concessa per i suoi libri ammette una controparte: ciò che dice entra immediatamente in un universo accademico nel quale le scelte di vita sono attutite e le occasioni di pensiero sono velate.(…) Ora, la filosofia deposta nei libri ha cessato di interrogare gli uomini. Ciò che in essa vi è di insolito e di quasi insopportabile si è nascosto nella vita decorosa dei grandi sistemi”2. Invece tutta l’esperienza di Socrate, la sua vita e la sua morte sono la storia dei suoi difficili rapporti con la città, con gli altri, con le leggi, con la divinità. Anche Jankélévitch nel suo “L’ironia” invita a lasciarsi tentare dall’appello socratico al filosofare, a prendere tutto sul serio con quel distacco che non significa indifferenza, ma il pudore del pensiero, che ripropone ogni volta il dubbio su quei piccoli territori di sapere che crediamo di volta in volta di avere conquistato alla certezza. Per Socrate l’ironia non è un’evasione ludica, ma uno stratagemma per avvicinare il cuore delle cose, per cercare di rispondere all’interrogativo “che cos’è la virtù?”, qual è l’eccellenza dell’essere umano. Scrive Jankélévitch “la nostra ingenuità ha una prodigiosa resistenza. Non servono a nulla né la derisione, né l’insuccesso, né i lunghi inverni della diffidenza: poiché il primo tepore primaverile ci ritrova sempre così follemente smemorati. È il mistero di una generosità inesauribile che, ogni volta delusa, ritrova ogni volta la freschezza dell’infanzia. Sono i giochi dell’amore e dell’ironia. L’ironia e l’amore girano in tondo senza tregua, l’una inseguendo l’altro, secondo il ciclo delle morti e delle rinascite”3. 17 Assaggi di Filosofia 4. Conclusioni Per concludere non c’è nulla di meglio che citare P. Hadot, uno dei massimi specialisti della filosofia antica, che nel suo “Elogio di Socrate” scrive: “… al di là del movimento dialettico del logos, il cammino che Socrate e l’interlocutore percorrono insieme, la volontà comune di trovarsi d’accordo, partecipano già dell’amore, e la filosofia sta assai più in questo esercizio spirituale che non nell’elaborazione di un sistema. Il compito del dialogo consiste anzi, essenzialmente, nel dimostrare i limiti del linguaggio, l’impossibilità per il linguaggio di comunicare l’esperienza morale ed esistenziale. Ma il dialogo stesso, in quanto evento, in quanto attività spirituale, è già sempre un’attività morale ed esistenziale. Sta di fatto che la filosofia socratica non è elaborazione solitaria di un sistema, ma risveglio di coscienza, accesso a un livello dell’essere, che non possono realizzarsi che nell’ambito di un rapporto da persona a persona”4. In sostanza non c’è nulla di più morale che l’interrogarsi quando è necessario, il più spesso possibile, su che cosa sia morale, cioè giusto, e non solo per me o per la mia cerchia di amici e conoscenti, ma per tutta l’umanità. Nulla è più urgente nel mondo di oggi, se si vuole che la globalizzazione non diventi una occasione per ulteriori violenze tra culture, ma apertura verso l’altro al fine di creare spazi di convivenza nella libertà e nel rispetto di tutti. Note 1.F. Adorno: “I Sofisti e Socrate”, Loescher, Torino 1962, pp. XLIV-XLV. 2. M. Merleau-Ponty: “Elogio della filosofia”, 1953, p. 42. 3.V. Jankélévitch: “L’ironia”, 1964, p. 184. 4.P. Hadot: “Elogio di Socrate”, 1974, p. 46. Bibliografia F. Adorno: “I Sofisti e Socrate” Loescher, Torino 1962. M. Merleau-Ponty: “Elogio della filosofia” , 1953. V. Jankélévitch: “L’ironia”, 1964. P. Hadot: “Elogio di Socrate”, 1974. 18 Assaggi di Filosofia Chi è l’uomo giusto? Di Matteo Russo Introduzione In una società corrotta come quella di Atene nel V secolo, affetta da una profonda crisi, non economica ma morale, chi può essere considerato un uomo giusto? Ma soprattutto, come tale uomo riesce a convivere con il contesto che lo circonda? Se oggi si cercasse il significato di questo aggettivo su un qualsiasi dizionario, si troverebbe:“persona che conforma i propri giudizi e comportamenti a criteri di equità, di imparzialità, fondata su ragioni moralmente valide, ispirata a ciò che è (giudicato) bene o congruente con quanto la legge richiede.”1 È quasi incredibile come questo aggettivo si adatti perfettamente a Socrate, un uomo di 2500 anni fa, capace di porre la giustizia davanti a tutto, anche alla sua stessa vita. Eppure la polis ha votato per la morte di un uomo giusto, condannato per le sue idee: come è potuto accadere? E' certamente uno schiaffo per l'etica. Un uomo giusto come Socrate è stato ucciso dalla polis nel pieno rispetto delle leggi vigenti. Se la giustizia è solo la legge che conveniamo di darci, dobbiamo ammettere che l'uccisione di Socrate è avvenuta secondo il diritto. Ma essa è giusta? Naturalmente la coscienza morale si ribella di fronte ad un simile caso: non siamo forse alla ricerca di un autentico valore oggettivo, superiore alle leggi? 1.Inquadramento e pensiero di Socrate Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404 a.C. La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci sui Persiani (battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle seguirà, dopo il 404 a.C. con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino. Probabilmente Socrate era di famiglia benestante, di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté comeoplita nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel dialogoSimposio di Platone che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta, rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne diguerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello.Nel 406 come membro del Consiglio dei Cinquecento (Bulé), Socrate fece parte della Pritania quando i generali della battaglia delle Arginuse furono accusati di non aver soccorso i feriti in mare e di non aver seppellito i morti per inseguire le navi spartane. Socrate ricopriva la carica di epistate e unico nell'assemblea si oppose alla richiesta illegale di un processo collettivo contro i generali. Nonostante pressioni e minacce bloccò il procedimento fino alla conclusione del suo mandato quando infine sei generali ritornati ad Atene furono condannati a morte. Nel 404, i Trenta Tiranni ordinarono a Socrate e ad altri quattro cittadini di arrestare il democratico Leone di Salamina. Socrate si oppose all'ordine e la sua morte fu evitata solo dalla successiva caduta dei Tiranni. Il nuovo regime democratico voleva riportare la città allo splendore dell'età di Pericle instaurando un clima di pacificazione generale: infatti non perseguitò, com'era abitudine, i nemici del partito avverso ma concesse un'amnistia. Si voleva tornare a creare in Atene una compattezza e solidarietà sociale riproponendo ai cittadini gli antichi ideali e i principi morali che avevano fatto grande Atene. Ma nella città si diffondeva l'insegnamento, seguito con entusiasmo da molti, specie da giovani, dei sofisti i quali invece esercitavano una critica corrosiva di ogni principio e verità che si volesse dare per costituita dalla religione o dalla tradizione. 19 Assaggi di Filosofia Platone descrive Socrate come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che era come quelle teche apribili, installate di solito ai quadrivi, raffiguranti spesso un satiro che custodivano all'interno la statuetta di un dio. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate, fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava a discutere con lui. Egli non intende comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma soltanto stimolare l’ascoltatore a ricercarne una personale dentro se stesso. Da ciò il metodo maieutico, o arte del far partorire, di cui parla Platone dicendo che Socrate aveva ereditato dalla madre la professione di ostetrico. Così come costei, essendo levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini, allo stesso modo Socrate, ostetrico di anime, aiutava gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose : “La mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la mente del giovane partorisce fantasticheria o menzogna, oppure cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile, sterile di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sí gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come essi stessi e gli altri ritengono. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensí proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato.”2 In queste parole, dalle quali scaturisce anche il concetto della verità come conquista personale e della filosofia come avventura della mente di ciascuno, si evince non solo la sua umiltà ma anche uno dei principi fondamentali della pedagogia : la vera educazione è sempre autoeducazione, infatti per Socrate il significato profondo del proprio essere uomo è conoscere se stesso. Socrate inoltre dice che i valori veri non sono legati a cose esterne come la ricchezza, la fama, la potenza, ma quelli più importanti sono quelli legati all’anima e sono i valori della conoscenza. L’uomo virtuoso è felice perché il non-virtuoso, che non ragiona, si abbandona agli istinti, alle passioni che con il tempo lo rendono infelice. La virtù, cioè “l’arte di saper vivere”, dato che l’uomo è un essere sociale, cioè che è sempre con altri uomini, diventa “l’arte di saper vivere con gli altri”. La virtù diventa quindi politicità. Chi fa il male lo fa solo perché non sa quale è il vero bene. Infatti ogni persona agisce pensando a ciò che “per lui” è bene. Quindi il male è figlio dell’ignoranza. 2.Protagora. La verità utile: un insulto per la coerenza Il relativismo morale dei sofisti poteva condurre alla tesi dell’equivalenza ideale delle opinioni, cioè alla dottrina secondo cui, in teoria, tutto è vero. Protagora si è interrogato a lungo sul principio di scelta di tutte le verità ed ha affermato che l’unico criterio di scelta al quale l’uomo può attenersi è il principio “debole” dell’utilità privata e pubblica delle credenze. In tal modo, alla concezione oggettivistica e universale della verità, secondo cui il vero è qualcosa di già dato e scoperto una volta per sempre, che si impone a tutti allo stesso modo, Protagora sostituisce una concezione umanistica, secondo cui la verità è l’umanamente verificato come giovevole, ossia ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo. Inoltre, nella teoria protagorea si può scorgere anche un lungimirante invito a mettersi d’accordo almeno su ciò che, al di là delle varie credenze o convinzioni ideali, può e deve unire gli individui e i popoli: la pubblica utilità. Quindi l’uomo protagoreo, al contrario di Socrate, è pronto a macchiare la propria coerenza scegliendo una verità che si adatta al contesto in cui vive al fine della propria sopravvivenza nella società. 20 Assaggi di Filosofia 3.Platone. “L’uomo giusto non ha bisogno di leggi” Platone era rimasto deluso dalla democrazia ateniese, colpevole di aver condannato a morte il suo cittadino più giusto, Socrate.Proprio per questo, l’ispirazione fondamentale della filosofia platonica è di natura politica e mira a realizzare il miglior governo, lo Stato ideale, in cui l’uomo giusto possa essere considerato per ciò che merita. Tuttavia Socrate, per un tragico paradosso, è l’uomo giusto che è stato vittima della legge. Questa vicenda fa sorgere la domanda: non sarebbe stato meglio, allora, che Socrate - condannato sulla base di false accuse - si sottraesse alla pena capitale nel rispetto della vera giustizia? A questo punto Platone sembra quasi disposto a giustificare il fatto che non si obbedisca ad uno Stato che, come la democrazia ateniese, manda a morte il suo cittadino migliore. Ciò perché il buon cittadino non è colui che si sottomette supinamente alla legge positiva ma chi osserva innanzitutto la legge giusta, quella dettata dalla visione del Bene: le leggi non sono state fatte da una divinità, non sono insindacabili, bensì sono state fatte dagli uomini che per natura non sono perfetti e possono essere influenzati dai fattori che li circondano. Platone, dunque, considera intollerabile che la legge positiva si mostri tanto distante dalla vera giustizia. Di fronte a questo stesso problema, Socrate aveva insegnato che il compito degli uomini è quello di rispettare sia la legge positiva sia la legge morale. Quando accade che il cittadino debba contestare,o disapplicare, una legge emanata dallo Stato perché il suo demone gliene riveli l’ingiustizia, egli deve farlo accettando di pagare la pena che il suo atto comporta. In tal modo rispetterà la legge morale senza violare la legge positiva, la quale pur con le sue imperfezioni è necessaria perché la città non precipiti nella barbarie. “Vada come sta a cuore al dio. Alla legge si obbedisce. Difendersi si deve.”3 Ma Platone va oltre questo insegnamento. Per lui si tratta di impedire la possibilità stessa che una legge condanni un uomo come Socrate e, quindi, occorre trovare il modo di far coincidere la legge morale con la legge positiva. Ciò è possibile se si affida il compito di governare a uomini che siano del tutto integri ed onesti: essi sono i filosofi, “custodi perfetti” , che posseggono il senso dello Stato e l’idea del bene comune. Sono loro gli “uomini giusti” che non hanno bisogno delle leggi per agire bene e, proprio per questo, sono i più idonei a creare le leggi giuste in grado di salvare la città dagli abusi e dagli appetiti dei più forti. La città ideale di Platone è quindi necessariamente aristocratica, in quanto governata da coloro che risultano essere i migliori nello svolgere tale compito. Ma è anche ideocratica perché in essa ognuno svolge le mansioni in cui è competente. I custodi perfetti devono infatti governare la città in quanto solo essi hanno appreso come non lasciarsi trascinare dai piaceri e sanno come attuare la giustizia; gli altri cittadini dovranno svolgere le attività per cui sono stati preparati.Si dice spesso che la repubblica platonica sia un’utopia, e anche la sua massima (“l’uomo giusto non ha bisogno di leggi”) non ha trovato molti consensi, né nella società greca del IV secolo avanti Cristo e ancor meno al giorno d’oggi. Platone è troppo pessimista: egli vede la legge come qualcosa di necessario per punire coloro – e sono la maggioranza - che non sanno comportarsi da cittadini onesti, perché non hanno l’idea della giustizia. Ma è anche troppo ottimista, perché crede che esistano uomini infallibilmente giusti, che conoscono il Bene. Oggi ci sembra più ragionevole affidare la formazione delle leggi all’intera collettività, perché è accaduto spesso che ciò che veniva considerato giusto da pochi “illuminati” sfociasse, con le migliori intenzioni, in un danno per l’intera comunità. Per questo il cittadino esemplare ci sembra Socrate che mette il suo senso di giustizia e la sua coscienza morale al servizio delle leggi della città - perché possano essere discusse e anche perfezionate - e non pretende, come il suo grande discepolo, di essere il depositario della verità e la fonte della legge. 4.L’uomo più giusto mandato a morte 21 Assaggi di Filosofia Nel suo ultimo intervento, dopo il verdetto, Socrate fa notare le conseguenze del responso ai giudici a lui avversi: egli, già molto avanti negli anni, sarebbe morto da sé entro poco tempo. Con la condanna a morte, gli ateniesi avrebbero avuto fama di aver ucciso Socrate, uomo sapiente, anche se tale non si considerava. Socrate sa che sarebbe stato considerato un martire dai suoi amici, e che molti ne avrebbero seguito le orme: se prima era uno, a punzecchiare i potenti di Atene, in seguito si sarebbero moltiplicati; il solo modo che i potenti avrebbero potuto avere di contrastare questi "tafani”, sarebbe stato adoperarsi a conseguire la virtù, come ha fatto Socrate: egli non solo non ha implorato pietà, ma non ha neppure usato belle parole, falsi argomenti e citazioni – proprie dei sofisti – per ingannare i giudici: egli si è rimesso al loro giudizio per quel che è. Ai giudici che votarono in suo favore egli rivolse ancora qualche parola. Né quando uscì di casa per recarsi al tribunale, né durante tutta la sua difesa, il daimon gli impedì di parlare, come era suo solito quando Socrate errava: egli stava agendo nel giusto, pertanto il destino gli avrebbe offerto dei beni: ma quali beni può portare una condanna a morte? In questo caso, la morte sarebbe stata un piacevole sonno, profondo e senza sogni o un ritrovarsi nell'Ade con i più grandi eroi dell'antichità; Socrate non si smentisce, pensando al piacere che avrebbe provato in questo caso a esaminarli uno per uno, per scoprire chi fosse sapiente e chi non lo fosse. “Cerchiamo anche per altra via di vedere come c’è molto da sperare che la morte sia un bene. Morire infatti è una delle due cose: o è un precipitare nel nulla, per cui il morto non ha più sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione dell’anima da questo luogo ad un altro. Quanto ame,se tali cose sono vere, preferirei morire mille volte. Oh! Qualemeravigliosa conversazione sarebbe la mia quando mi imbattessi in Palamede e Aiace il telamonio e in qualche altro dei tempi antichi morto per ingiusto giudizio! Raffronterei la mia sorte alla loro; e ciò penso sarebbe per me motivo di dolcezza. E soprattutto amerei trascorrere il tempo ad esaminare ed interrogare quelli di là, come sono solito esaminare questi di qua, per scoprire chi di loro è sapiente e chi invece crede di esserlo e non lo è affatto. Quanto, infatti, non pagherebbe ciascuno di voi, o giudici, per interrogare colui che guidò l’esercito contro Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donneche potrei nominare? Quale inesprimibile beatitudine sarebbe parlare con loro, vivere in loro compagnia, esaminarli!Non avverrebbe di certo, a causa di codesto esame, che quelli di là mi uccidessero, poiché oltre ad essere per molteragioni più felici di noi, sono ormai immortaliper tutto il restante tempo, se è vero ciò che si dice.”4 Con queste sue ultime parole, Socrate ricorda ai giudici che ad un uomo giusto non è possibile che accadano dei mali, e li esorta ad interrogare i propri figli come avrebbe fatto lui, per avvicinarli alla virtù: “Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondoera per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori,sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare. Tuttavia io li prego ancora di questo: quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato voi se vi sembrano di avere più cura del denaro o d’altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di essere qualche cosa senza valere nulla, svergognateli come ho fatto io con voi per ciò che non curano quello che conviene curare e credono di valere quando non valgono nulla. Se farete ciò, avremo avuto da voi ciò che era giusto avere, io e i miei figli. Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che a Dio.”5 La lealtà di Socrate verso la città e le sue leggi affonda le proprie radici nel pensiero del filosofo che, analogamente a Protagora, ritiene che l’uomo sia tale solo in quanto rapportato alla società, ossia che l’uomo emerga dall’animalità primitiva e si auto costituisca come essere umano solo in un contesto comunitario retto da leggi. Da questo punto di vista, dire che “l’uomo è società” equivale a dire che “l’uomo è uomo in quanto legge”, o meglio in quanto “figlio delle leggi”. Pertanto, chi rifiuta le leggi del proprio Stato o della propria civiltà cessa di essere uomo. Le leggi si possono 22 Assaggi di Filosofia cambiare e migliorare, ma non violare, perché altrimenti verrebbe meno la stessa vita in società. Questa tesi fondamentale di Socrate, che farà dire a Platone che il suo maestro, pur non essendo un politico, era stato l’unico vero politico di Atene, ci permette di capire perché egli abbia scelto la condanna al posto della fuga, preferendo morire rimanendo fedele alle leggi, anziché vivere violandole. La morte di Socrate, al di là del caso personale di questo filosofo e del significato ideale che egli le diede, manifesta anche il tragico soccombere intellettuale nei confronti del potere organizzato delle forze politiche. Per questo motivo Socrate è apparso come il primo martire del pensiero occidentale e dell’esigenza di una ricerca libera da condizionamenti: il suo nome, attraverso i tempi, ha assunto il valore di un esplicito atto di condanna verso le prepotenze dei politici, di coerenza, di lealtà e di giustizia. 23 Assaggi di Filosofia I SOFISTI di Valeria Speranza Nel V secolo a.C. si assiste ad eventi storici epocali,la Grecia trionfa sulla Persia, la lotta fratricida tra Atene e Sparta che sfocia nella guerra del Peloponneso e che coinvolge gran parte delle città greche e determina la loro generale decadenza1. In pochi decenni,la tradizione si corrompe, lo Stato perde il prestigio e la potenza, e forze disgreganti prendono il sopravvento portando alla disgregazione e al più esasperato individualismo edonistico. La democrazia, faro di Atene e altre città, si tramuta in pura demagogia e lotta di fazione. Contemporaneamente la vita privata si concedea lusso e gusti prima sconosciuti o tenuti lontani, portando a immoralità, sfrenatezze e lussuria. Un clima sociale mutato nel quale si diffonde un’accesa necessità di “istruzione”. Le nuove classi sociali emergenti della media e dell'alta borghesia desiderano affiancare, al potere del danaro, il prestigio della cultura, indispensabile ed imprescindibile per imporsi nelle pubbliche assemblee e nei tribunali, ai quali sempre più spesso si ricorre per risolvere le infinite questioni legali che animano le assemblee.Si sviluppano e sorgono allo stesso tempo, innumerevoli attività professionali di tipo specialistico, dalla medicina alle varie arti, dalla tattica militare alla ginnastica, dall'urbanistica alla matematica, e così via. Il termine sofista2,che originariamente significa genericamente “sapiente”, ora designa una precisae definita categoria di intellettuali e risponde palesemente alle nuove e concrete esigenze sociali. Si può a ragione dire che con i sofisti nasce la scuola, nel senso moderno del termine. Alle antiche consorterie aristocratiche riservate a pochi eletti, quali erano le scuole dei maestri presocratici, si sostituisce l'istruzione generalizzata, dietro pagamento. Furono proprio i sofisti i primi a chiedere, in cambio dell'insegnamento, compensi in denaro, anche molto alti, e ciò determinò grande scandalo e ricorrenti accuse di avidità e di immoralità3. Molti di loro accumularono considerevoli fortune, fatto che dimostra l'utilità pratica della loro funzione. Quasi ovunque furono ostacolati e criticati dalle pubbliche autorità , tratto distintivo dei sofisti era la mentalità cosmopolita, viaggiavano e si trasferivano di continuo da una città all'altra cercando pubblico e clienti, naturalmente questo era anche un modo per sfuggire alle accuse di immoralità, non appena la situazione diventava insostenibile, ripartivano e cercavano ospitalità altrove. I sofisti diedero vita a una vera e propria “moda”, entusiasmando ed accedendo soprattutto i giovani. Furono essi i creatori, i forgiatori del concetto di cultura. Il Greco aristocratico non distingue il sapere, l'istruzione, dalla formazione morale e fisica complessiva; la “virtù” l’areté di un uomo è un sinolo, un complesso unitario che comprende ovviamente anche la saggezza (sophia) e la facondia (l'esser capace di “buone parole” e di “buone azioni” come ideale omerico dell'uomo perfetto), ma non come acquisizioni specialistiche, nel senso, ad esempio, in cui noi oggi diciamo che un uomo è fornito di “buona cultura”.L’educazione ovvero la ‘’paideia4’’antica è consegnata unicamente alla religione, al mito e alla poesia incarnata soprattutto dai poemi di Omero e viene trasmessa di padre in figlio di generazione in generazione. 1 2 La guerra del Peloponneso ,Garzanti Grandi Libri, Tucidide . Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, 2007 Erano detti anche “mercenari del sapere” e poiché si facevano pagare per i loro insegnamenti, furono criticati aspramente dai loro contemporanei (prima da Socrate, poi da Platone e da Aristotele) e vennero definiti offensivamente “prostituti della cultura”. Da qui emerge una figura storica negativa. 4 I sofisti introducono il concetto di “paideia”, che assume il significato di pedagogia (che si occupa dell’educazione e della formazione degli individui). Nella sofistica il concetto di educazione si pone come un concetto vicino alla società, alla vita pubblica e politica, vicina alla polis, poiché i greci venivano educati per avere tutte le abilità di un personaggio politico e importante. 3 24 Assaggi di Filosofia Già le scuole presocratiche introdussero in questo campo una notevole rivoluzione, poiché il mito e la poesia erano affiancati da una più personale e razionale ricerca di sapienza; ma furono i sofisti a rivoluzionare il costume aristocratico antico e a fare del sapere una qualità “tecnica” e “specialistica”. I sofisti partivano dal principio che l’areté 5 è insegnabile e che chiunque può raggiungerla, con l’impegno e naturalmente con il denaro. Questa asserzione non poteva che suonare scandalosa ad una società di tradizione aristocratica abituata a considerare l'areté di un uomo come un fatto di nascita e di sangue e un tratto di carattere e di costume, più che un'abilità pratica particolare, visto che ogni abilità pratica o professionale appariva anzi qualcosa di plebeo e di non degno di un autentico aristocratico. Ciò che principalmente insegnavano i sofisti era l'arte della parola e dei discorsi (logoi) e cioè l'arte retorica6. Il saper parlare, saper convincere, entusiasmare, infuocare, commuovere, erano tutte virtù essenziali per dominare le assemblee popolari, determinare le votazioni, ottenere incarichi pubblici. La retorica veniva quindi a coincidere con la scienza politica del tempo e la sua utilità pratica era dunque grandissima: retorica e potere si fusero. I sofisti erano dei tecnici dell'arte del discorso e della confutazione (utile anche nei tribunali) e insegnavano con quali artifici si potesse dimostrare la veridicità di qualsivoglia tesi, anche la più paradossale, oppure insegnavano a sostenere con apparentemente buoni argomenti sia la tesi che l'antitesi riguardo a una stessa questione (eristica). Però alcuni sofisti erano anche competenti in discipline particolari come la grammatica, la linguistica, l'etimologia, la sinonimica, la critica letteraria. Alcuni si interessarono anche di questioni naturali e scientifiche, come già i presocratici, ma il loro prevalente interesse andava all'aretésociale, piuttosto che all'alétheia per questo si sostiene che essi determinarono una rivoluzione “antropologica” nella cultura, rivolgendosi all'uomo, al soggetto, piuttosto che alla natura, all'oggetto. La sofistica scadeva spesso a causa di maestri mediocri, in puro illusionismo verbale, in pretesa assurda di essere in tutto sapienti poiché su tutto sapevano parlare e improvvisare discorsi. Cavillatori e disonesti, molti sofisti si preoccuparono di raggiungere una fama a buon mercato e a farsi ricchi senza scrupolo approfittando anche dell’ingenuità dei loro clienti e uditori. 5 Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino 1999 6A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, 1988 25 Assaggi di Filosofia “Ma io sarei orientato su tutt’altro, sinceramente io credo mi indirizzerò per matematica. Potrebbe sembrare fuori luogo, ma sento che è la mia strada, che poi detto tra noi anche io ho sempre avuto un dubbio sul tema dell’infinito… voi non vi siete mai chiesti tutto questo?” L’infinito,una sfida per il pensiero Di Lorenza Pesacane Introduzione Oggi il termine “infinito” investe un’accezione positiva, tanto da essere spesso collegata al concetto di Dio o alle sue proprietà. Il concetto di “finito”, invece, è associato istintivamente a ciò che, essendo limitato, risulta manchevole o difettoso. Nella cultura greca delle origini, al contrario, era l’infinito a presentare una connotazione negativa. Si riteneva infatti conoscibile solo ciò che era finito e determinato e di conseguenza impensabile un infinito attuale, cioè concreto e visibile. Tale rifiuto ad ammettere l’infinito attuale nella matematica greca e più generalmente un diffuso disinteresse delle civiltà antiche per l’infinito è detto “horror infiniti”. Questo concetto compare in Occidente per la prima volta con Anassimandro, che chiama tò ápeiron 1 il principio metafisico, intendendo con ciò esprimere la sua duplice infinità, perché il principio non è limitato da nessun termine di spazio né di tempo, e perché esso, come arché, non possiede nessuna determinazione finita, non Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1815, Kunstalle, Amburgo. potendo esaurirsi in nessun oggetto particolare, ma L’uomo che si interroga dinanzi alla vastità dell’infinito. dovendo fungere da matrice di tutti. Pitagora è forse il primo filosofo-matematico che realmente ha a che fare col concetto di infinito. La matematica pitagorica è basata sul concetto di “discontinuità”, in quanto essa si fonda esclusivamente sui numeri interi e non irrazionali e dunque l’accrescimento di una grandezza procede per “salti discontinui”,essendo impossibile aggiungere qualcosa che sia minore dell’unità. In questa visione del mondo tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di monadi, particelle minuscole simili agli atomi. Due grandezze, dunque, potevano essere espresse con un numero intero ed erano tra loro commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore .Il pensiero pitagorico verrà messo in crisi dalla scoperta delle grandezze incommensurabili, elaborata all’interno della scuola stessa e custodita come un segreto inconfessabile. La scoperta partì del celeberrimo teorema di Pitagora : applicando il teorema su un triangolo rettangolo isoscele,che risulta essere metà di un quadrato ,notiamo che il rapporto tra ipotenusa e cateto così come tra lato e diagonale del quadrato è uguale a √2. Questo numero è decimale, ma irrazionale: significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la virgola,che sono del tutto casuali,sarà necessario procedere nell’infinitamente 26 Assaggi di Filosofia piccolo:1,414213562… Ciò comporta che lato e diagonale siano grandezze incommensurabili e che dunque non sono più come si pensava composti da un numero finito di punti,ma da un infinità di punti. Per la prima volta si parla di un infinito concreto e non potenziale. 1. Antitesi Come detto sopra, questa scoperta è ritenuta talmente “scandalosa” da essere tenuta nascosta per molto tempo, fino a quando Ippaso di Metaponto non la rende nota agli estranei. A tentare di fornire una contro risposta è l’eleatismo, movimento affermatosi nelle colonie greche dell’Italia meridionale. Gli eleatici infatti tendono a considerare le cose non come le si percepisce attraverso i sensi, ma attraverso una logica rigorosa. Parmenide, il fondatore della scuola eleatica, infatti è drastico nell'affermare che l'infinito non esiste, come conseguenza della immobilità dell'essere, che è e può essere pensato, in opposizione al non essere, che invece non è e non può essere pensato.Egli sostiene che il mondo in cui viviamo, poiché implica il non essere, risulta, in termini filosofici, pura apparenza o illusione: “ (…) è la stessa cosa pensare e pensare che è: perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare: null’altro infatti è o sarà eccetto l’essere, perché appunto la Moira lo forza ad essere tutto intero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole, quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiamento del luogo e mutazione del brillante colore”.2 A difesa di Parmenide si schiera Zenone con i suoi paradossi, ossia argomentazioni che sono in contrasto con l’opinione usuale e che pure scaturiscono da una serie di passaggi logicamente ineccepibili. Così Zenone si propone di confutare gli avversari di Parmenide non respingendo, ma accettando per assurdo i loro presupposti, ossia dimostrando che se tali presupposti vengono svolti in modo coerente fino al fondo, portano a conseguenze, appunto, assurde. Gli avversari di Parmenide infatti l’avevano accusato di sostenere “cose ridicole”; ora Zenone mostra che non meno ridicole sono le conseguenze dei concetti su cui si basano gli avversari di Parmenide: molteplicità, divisibilità ecc. Gli argomenti più famosi di Zenone sono diretti contro la realtà del movimento: “ [Secondo è l’argomento detto Achille] Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che insegue giunga in precedenza là di dove si mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio. Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il più lento non viene raggiunto e d ha lo stesso fondamento della dicotomia(…) di modo che la soluzione sarà, per forza, la stessa”3. “Il quarto ragionamento è quello delle masse uguali che si muovono lungo masse uguali in senso contrario , le une dalla fine dello stadio, e le altre dalla metà con uguale velocità. In esso crede che si provi che sono un tempo uguale il tempo metà e il tempo doppio” 4. 2. Tesi e Confutazione dell’Antitesi Contro questa prospettiva filosofica del “limite” il primo a polemizzare aspramente è Melisso di Samo, il quale, pur essendo discepolo di Parmenide, afferma il carattere illimitato dell’essere. Facendo leva sul principio secondo cui dal nulla non può scaturire nulla, Melisso sostiene l’ingenerabilità dell’essere:“Sempre era ciò che era e sempre sarà. Perché se fosse stato, sarebbe necessario che prima di nascere fosse nulla. Ma se era nulla, dal nulla non sarebbe potuto nascere nulla in alcun modo.” 5 L’essere è anche incorruttibile e immutabile, perché, se così non fosse, si dovrebbe ammettere la possibilità che l’essere ad un certo punto svanisca nel nulla: 27 Assaggi di Filosofia “In tal modo esso è dunque eterno e infinito e uno ed uguale tutto quanto. E neanche può perire ne diventare maggiore ne modificarsi nella sua natura o nella sua disposizione, ne sente dolore o tristezza. Perché se andasse soggetto a una qualsiasi di queste cose, non sarebbe più uno. Se infatti si altera nella sua natura, è necessario che non sia più omogeneo, ma si distrugga quel che prima esisteva, e si generi quel che non esisteva. Ora, se si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto nella totalità del tempo. Ma neppure è possibile che muti disposizione: infatti la disposizione che c'era prima non perisce e quella che non c'è non nasce.”6 Melisso infine difende l’infinità spazio- temporale dell’essere, sostenendo che, non essendo nato, l’essere “è e sempre era e sempre sarà e non ha né principio né fine, ma è infinito. Se fosse nato infatti avrebbe principio (perché avrebbe cominciato a nascere ad un momento determinato) e fine (perché avrebbe finito di nascere ad un momento determinato); ma poiché non ha né cominciato né terminato era sempre e sempre sarà. «e» non ha né principio né fine. Non è possibile infatti che sia sempre ciò che non è tutto.”7 Egli afferma dunque che se l’essere fosse finito, sarebbe delimitato da qualcosa di diverso dall’essere, cioè dal non essere, e ciò è impensabile. Di conseguenza, dall’illimitatezza temporale e spaziale dell’essere si deduce la sua unicità. Essendo infinito, l’essere è la totalità, perché non ammette nulla al di fuori di sé. Dopo il filosofo di Samo, che lo ha inquadrato nell’ottica dell’ontologia parmenidea, il concetto di “infinito” ha cominciato ad attirare l’interesse di altri filosofi. Nella riflessione di Anassagora di Clazomene, esso riveste un ruolo centrale. Gli elementi originari, permanenti e incorruttibili che costituiscono le cose sono infiniti. I “semi”, come egli li definisce, non lo sono per numero, ma anche per grandezza, nel senso che insieme formano un’infinità massa corporea, finché non interviene l’azione separatrice e ordinatrice del nous, che a sua volta va concepita come forza infinita che tutto pervade. Ogni seme non ha limiti neppure in piccolezza, perché è infinitamente divisibile: “Del piccolo infatti non c'è il minimo ma sempre un più piccolo (in effetti è impossibile che ciò che è non sia) – ma anche del grande c'è sempre un più grande: e per quantità è uguale al piccolo e in relazione a se stessa ogni[cosa]è grande e piccola.”8 Ogni cosa quindi è infinitamente grande rispetto alle parti in cui è divisibile e infinitamente piccola rispetto alle parti in cui è inclusa: “grande” e “piccolo” non sono termini assoluti, ma relativi. Il procedimento di infinita divisione, così come quello di infinita addizione, è certamente un processo mentale, ma può compiersi nella mente solo in quanto ha un fondamento nella realtà. In questo senso, il filosofo di Clazomene è stato uno dei primi a pensare l’infinito come concetto positivo e reale. Il calcolo infinitesimale ha preso avvio proprio da quest’ordine di considerazioni. Oltre a Melisso e Anassagora, in epoca arcaica l’altro grande pensatore dell’infinito è Democrito di Abdera. La concezione dell’universo da lui elaborata ha rappresentato una valida alternativa alla visione del mondo della tradizione greca improntata sulla nozione del limite. La sua è una delle visioni più “scientifiche” dell'antichità: l'atomismo infatti fu ripreso non solo da altri pensatori greci, come Epicuro, ma anche da filosofi e poeti romani nonché da filosofi del tardo medioevo, dell'età rinascimentale e del mondo moderno. Come è stato rilevato da Theodor Gomperz e da altri studiosi, Democrito può essere considerato il “padre della fisica”. Ludovico Geymonat afferma che “l’atomismo di Democrito (…) ebbe una funzione determinante, nel XVI e XVII secolo, per la formazione della scienza moderna”9. Con Democrito si ha una sorta di fisicizzazione del binomio eleatico-parmenideo di essere e non essere, in quanto identifica l’essere con il pieno e il non essere con il vuoto. Il pieno è la materia, il vuoto è lo spazio in cui essa si muove. La materia è costituita a sua volta da un insieme di atomi, cioè di particelle indecomponibili, che egli pone come fondamento del suo pensiero: “Per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo, per convenzione il colore, secondo verità gli atomi e il vuoto.”10 L’atomo, secondo Democrito, è matematicamente divisibile in infinite parti, ma non è fisicamente decomponibile ulteriormente. 28 Assaggi di Filosofia Dunque la materia si può dividere in atomi e in agglomerati di atomi separati dal vuoto, ma il singolo atomo è indivisibile. Gli atomi sono infiniti di numero, così come lo spazio in cui essi si muovono incessantemente, lo spazio vuoto, è infinito in estensione. Anche l’universo è spazialmente illimitato, come mostra il poeta romano Lucrezio, seguace dell’atomismo: “Ma ambedue le soluzioni ti chiudono ogni via di scampo, e ti costringono ad ammettere che il Tutto si estende senza limite. Infatti, sia che esista qualcosa che si opponga, e impedisca che il dardo giunga là dove è stato mandato, e quivi si vada a situare, sia che possa giungere oltre, non è partito dal confine. E in questo modo ti verrò sempre dietro e, ovunque le rive estreme tu collochi, ti domanderò che accadrà alla fine, alla lancia. Accadrà che il confine non potrà in nessun luogo essere fissato, e il poter fuggire via protrarrà per sempre il fuggire”11 . 3. Bilancio conclusivo Tra le voci dissonanti rispetto alla generale “paura dell’infinito” che ha animato gli antichi pensatori greci, quella di Democrito è stata senza dubbio tra le più significative. Dopo di lui sono dovuti trascorrere altri sei secoli prima che l’infinito assumesse una connotazione positiva, questa volta di carattere teologico. È quanto avviene con Plotino (III secolo d.C.), erede e rinnovato interprete del pensiero di Platone: Dio è infinito perché esso è l'unità unissima da cui procede la sterminata molteplicità delle forme finite, nessuna delle quali può adeguarlo. Dio è dunque trascendente e inconoscibile; ma in un certo senso egli è pure l'infinità positiva di quella finitezza negativa, propria d'ogni prodotto naturale emanato dal principio supremo. Questa concezione sarà poi ripresa da Giordano Bruno. Secondo Bruno l'infinito è il principio divino, che, incarnandosi nella natura, la rende anch'essa infinita: onde questo universo è eterno e illimitato, constando d'innumerevoli mondi moventisi in uno spazio infinito. L'universo dunque è Dio stesso, ma esplicato e disperso, come Dio è l'universo implicato e involuto: quello è piuttosto indefinito e interminato che infinito, mentre questo è la sostanza unica che non consente più parti, è l'assoluta unità trascendente, che accoglie indifferentemente nel suo seno tutti i contrari. Note 1.Giovanni Semerano, L’infinito, un equivoco millenario, Mondadori, 2001. In quest’opera il noto filologo ha ipotizzato la derivazione del termine dall’accadico eperu, che significa “terra”, “polvere”, e che sua volta deriverebbe dal biblico ,afar. In base a questa suggestiva e innovativa interpretazione, ciò da cui tutto deriva e in cui tutto ritorna sarebbe per Anassimandro non un generico “infinito”, ma, più concretamente, la “terra indistinta”, secondo un’idea che ricorda la massima biblica: “polvere sei e polvere ritornerai” (Gn, 3, 19). 2.Parmenide di Elea, Poema sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti,vol. I (a cura di P.Albertelli). 3. Aristotele, Fisica, VI 9, in I Presocratici, op.cit. 4. ibidem. 5. Melisso di Samo, Sull’essere, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di A. Pasquinelli). 6. ibidem. 7. ibidem. 8. Anassagora di Clazomene, Sull’essere, in I Presocratici, op.cit. 9. Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1,Milano, Garzanti, 1970. 29 Assaggi di Filosofia 10. Democrito di Abdera, Frammenti, in I Presocratici, op.cit. 11. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, I, vv. 976-984. Bibliografia F.Adorno, T.Gregory, V. Verra, Storia della filosofia, vol. I, Laterza, 1982. N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. 1A, Paravia, 2012. A.A.V.V:, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, 2004. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, 1975. G. Reale, Introduzione a Melisso, La Nuova Italia, 1970. D. Lanza, Introduzione a Anassagora, La Nuova Italia, 1966. L. Geymonat , Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1, Garzanti, 1970. G. Micheli, Voce Infinito in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, 1980. F. D’amato, F.Enriques, Voce Infinito in Enciclopedia Treccani.it. C.Marchini, Il problema ed il ruolo dell’infinito, Lezioni di epistemologia, Università degli studi di Parma. F.M.Pace, saggio su La filosofia antica. L’infinito, il vuoto… e la ragione! Di Marino Bianco Democrito nacque e visse ad Abdera, città della Tracia, dal 460 a.C. al 370 a.C.. Essendo vissuto a lungo fu contemporaneo non solo di Socrate, ma anche dei suoi primi discepoli, come Platone. Pertanto, sebbene sia collocato fra i pre-socratici, è più giusto ritenerlo un post-socratico7. Infatti, nonostante nell’atomismo domini il problema della natura (questo giustifica la sua inclusione tra i prescocratici), la presenza in Democrito riguardo i problemi della morale, della storia, del linguaggio dimostra che egli sentì l’influenza della nuova cultura di tipo sofistico-socratica. Fondatore dell’atomismo si dice che sia stato Leucippo, maestro di Democrito, ma il teorico della filosofia atomistica greca fu Democrito, che può definirsi il filosofo atomista per eccellenza. “L’atomismo di Democrito… costituisce il patrimonio più prezioso che i greci trasmisero, nel campo delle interpretazioni generali della natura, alle epoche successive, ed ebbe una funzione determinante, nei secoli XVI e XVII, per la formazione della scienza moderna” 8 . Democrito è, quindi, considerato il primo filosofo greco a porsi “sulla direzione della strada maestra della scienza occidentale moderna”9. Con Democrito e gli atomisti si ha la “fisicizzazione” del binomio di essere e non essere: essi identificano l’essere con il pieno, il non essere con il vuoto. Il pieno è la materia, il vuoto è lo spazio in cui essa si muove. La materia è costituita da un insieme di atomi, particelle indecomponibili. Il pensiero di Democrito viene così descritto dal dossografo Simplicio: “Analogamente, anche il suo [di Leucippo] discepolo Democrito di Abdera pose come principi il pieno e il vuoto, chiamando 30 Assaggi di Filosofia essere il primo e l’altro non essere: essi, infatti considerando gli atomi come materia dei corpi, fanno derivare tutte le altre cose dalle differenze degli atomi stessi. Le differenza sono: misura, direzione, contatto reciproco, che è quanto dire forma, posizione e ordine. Essi ritengono infatti che per natura il simile è posto in movimento dal simile e che le cose congeneri sono portate le une verso le altre e che ciascuna delle forme, andando a disporsi in un altro complesso, produce un altro ordinamento; di modo che essi, partendo dall’ipotesi che i principi sono infiniti di numero, promettevano di spiegare in modo razionale le modificazioni e le sostanze e da che cosa e come si generano i corpi; perciò essi anche dicono che soltanto per coloro che considerano infiniti gli elementi tutto si svolge in modo conforme a ragione. Ed affermano che è infinito il numero delle forme negli atomi perché nulla possiede questa forma qui a maggior ragione di quest’altra: tale è infatti la causa che essi adducono della loro infinità”10. Dunque, i concetti base del pensiero di Democrito sono il pieno (l’atomo) ed il vuoto. Democrito e gli atomisti giungono all’idea di atomo attraverso il ragionamento, non certo grazie all’aiuto di strumenti scientifici appropriati come avviene nella scienza moderna. La loro deduzione razionale cerca di risolvere il problema della divisibilità all’infinito delle grandezze geometriche rivelate da Zenone. Infatti, secondo il nucleo logico del paradosso di Zenone circa il molteplice, l’infinita indivisibilità del segmento dimostra che esso è costituito da infiniti punti; sennonché quando si ammetta che ognuno di questi punti ha una grandezza diversa da zero, se ne ricava che la loro somma (quindi il segmento) deve risultare infinitamente grande; quando invece si ammetta che ogni punto ha una grandezza nulla, se ne ricava che anche la loro somma è nulla e il segmento scompare. “Per sfuggire a questa antinomia Democrito introduce l’ipotesi fondamentale dell’atomismo: la distinzione cioè fra il suddividere matematico ed il suddividere fisico” 11 . La divisibilità all’infinito di Zenone può valere solo in campo matematico, che non trova rispondenza nella realtà, ma non in campo fisico. Infatti è impossibile pensare di dividere all’infinito la realtà materiale percepita dai sensi, poiché continuando a dividere all’infinito la materia, la realtà si dissolverebbe nel nulla, e quindi si passerebbe dalla materia alla non materia. Se alla base della natura vi fosse il nulla, non si capirebbe come dal nulla possa derivare la realtà concreta e materiale dei corpi. Quindi secondo Democrito esistono dei costituenti ultimi della materia, ovvero delle particelle non ulteriormente decomponibili e divisibili (cioè atomi). Egli per descrivere gli atomi riprende anche alcuni aggettivi dell’essere parmenideo poiché gli atomi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni. Tra essi non vi sono differenze qualitative poiché sono fatti tutti della stessa materia, ma si distinguono per le differenze quantitative della forma geometrica e della grandezza. Gli atomi, quindi, in quanto particelle quantitative costituiscono il pieno, che rimanda necessariamente alla realtà di un vuoto in cui potersi collocare, in cui poter esistere. Il vuoto infinito costituisce, pertanto, anch’esso una realtà originaria analoga a quella degli atomi, poiché rende possibile la loro esistenza. In un altro passo di Simplicio, infatti, si legge: “…Essi [gli atomisti] dicevano che i principi sono infiniti di numero e ritenevano che fossero atomi, cioè indivisibili, ed inalterabili pel fatto che sono solidi e cioè non contengo vuoto: giacché dicevano che la divisione è possibile nei corpi in ragione del vuoto che c’è in essi…”12. In Democrito il vuoto è l’assenza di materia e se la materia è atomi, il vuoto sarà assenza di atomi. Democrito fu il primo ad affermare l’esistenza di uno spazio senza cose e ammette l’esistenza del vuoto come spazio privo di oggetti in cui gli atomi sono liberi di muoversi. Egli pone una differenza tra spazio e materia, distinguendo le due cose come separate. Aristotele, nella Metafisica, nell’esporre il pensiero atomistico ricorda: “Leucippo e il suo discepolo Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, chiamando l'uno essere e l'altro non essere, e precisamente chiamano essere il pieno ed il solido, non essere il vuoto ed il raro (onde essi affermano che l’essere non è affatto più reale del non essere perché neanche il vuoto è [meno 31 Assaggi di Filosofia reale] del corpo e pongono questi [elementi] come cause materiali degli esseri” 13 . Aristotele ammette che l’atomismo è conforme ai fenomeni, affermando che “Leucippo e Democrito hanno spiegato la natura delle cose sistematicamente, per lo più, e ambedue come una medesima teoria, ponendo un principio che è proprio conforme alla natura [in accordo con l'evidenza dei fenomeni]”14, ma poi, dichiarando “E questi corpi [gli atomi] sono in movimento nel vuoto (per lui infatti esiste il vuoto) …” 15 , sostanzialmente critica l’atomismo, in quanto egli non crede nell’esistenza del vuoto e quindi, implicitamente, nega validità teorica all’atomismo. Infatti, Aristotele dice: “Per cui essi dicono [gli atomisti] che sia vuoto ciò che invece è pieno di aria, e non vi è proprio bisogno di dimostrare che l'aria è qualcosa di reale, bensì che non esiste, né separabile né in atto, nessun intervallo di natura diversa da quella dei corpi16. Pertanto, Aristotele ritenendo che Democrito consideri il vuoto come l’essere, critica l’atomismo. Se però fosse fondata la critica di Aristotele, non si riuscirebbe a spiegare perché il filosofo atomista distingue tra essere (pieno) e non essere (vuoto). In effetti, l’errore di Aristotele sta nel non considerare che Democrito distinguendo tra essere e spazio non identifica assolutamente il vuoto con l’essere. Vuoto e spazio sono strettamente collegati tra loro: se non esistesse il vuoto gli esseri non si potrebbero spostare, ma poiché gli esseri si possono spostare, ne consegue che lo spazio in cui si spostano è vuoto. Il vuoto assume, quindi, un valore fondamentale poiché senza il vuoto non vi sarebbe spostamento. Il vuoto è anche una condizione necessaria del movimento. L’esistenza del vuoto è funzionale anche per affermare l’esistenza del moto. Si supponga ancora una volta se non ci fosse il vuoto: ciò è ancora una volta impossibile da pensare perché senza il vuoto non ci sarebbe né alcun mutamento né gli atomi sarebbero pensabili senza uno spazio vuoto infinito entro cui potersi muovere incessantemente. Gli atomi, poi, muovendosi in tutte le direzioni, possono urtarsi e rimbalzare mutando velocità. Simplicio così descrive il movimento per Democrito: “Questi atomi, che nel vuoto infinito sono separati tra loro e che differiscono per forme e per grandezze e per ordine e per posizione, si muovono nel vuoto e, incontrandosi, si urtano: e parte rimbalzano e vengono spinti dove capita, parte invece si collegano a seconda della convenienza di forma, grandezza, ordine e posizione, e restano uniti; e così si svolge la generazione di tutto ciò che è composto”17. Quando l’urto avviene di striscio, ha origine un vortice: proprio questo vortice, incrementato da altri opportuni urti, potrà dar luogo a movimenti rotatori sempre più vasti, capaci di generare corpi e mondi. A tal proposito si riportano le parole di Metrodoro di Chio, discepolo di Democrito, che espone il pensiero del suo maestro riguardo l’infinità dei mondi: “I mondi sono infiniti e sono differenti per grandezza: in taluni non vi è né sole né luna, in altri invece sono più grandi che nel nostro mondo, in altri ancora ci sono più soli e più lune. Le distanze tra i mondi sono diseguali, sicché in una parte ci sono più mondi, in un’altra meno, alcuni sono in via di accrescimento, altri al culmine del loro sviluppo, altri ancora in via di disfacimento, e in una parte nascono mondi, in un’altra ne scompaiono. La distruzione di un mondo avviene per opera di un altro che si abbatte su di esso. Alcuni mondi sono privi di esseri viventi e piante e di ogni umidità (…)”18. Cadendo gli infiniti atomi nello spazio infinito a differente velocità, infinite sono le possibilità di combinazione e, quindi, anche i mondi sono infiniti e, come afferma Metrodoro di Chio, vi sono mondi di ogni genere: mondi con più soli e più lune, mondi simili al nostro, ma anche mondi senz’acqua, quindi privi di esseri viventi, senza piante e senza umidità. Anche l’universo, considerato nella sua totalità, è spazialmente infinito, poiché non è pensabile un limite oltre il quale non si possa procedere. 32 Assaggi di Filosofia Gli atomi, il vuoto e il movimento diventano inizio e fine di ogni cosa ed in questo processo perpetuo di nascita e morte si genera l’infinità dei mondi. A tal riguardo Teofrasto così descrive il processo democriteo: “Il nascere è un aggregarsi degli atomi, il morire è un disgregarsi o sciogliersi del composto atomico, senza che in tali processi nulla derivi dal nulla né vada nel nulla: nulla si produce a caso, non tutto con ragione e necessariamente, nulla viene dal non essere, nulla può perire e dissolversi nel non essere dato che la materia è composta di atomi, di particelle originarie immutabili, allora tutti i mutamenti devono essere il risultato dei loro movimenti, e requisito necessario al movimento è il vuoto, cioè uno spazio interamente privo di materia nel quale una particella possa spostarsi da un luogo all’altro(…) La materia e il vuoto sono completamente separati l’uno dall’altra. Allo stesso modo il movimento deriva non da altro che dallo stesso movimento, nel senso che gli atomi sono originariamente ed eternamente in movimento per loro stessa natura ” 19 . E’ evidente che tutta la teoria atomistica è sospesa al postulato del movimento originario degli atomi. Democrito afferma che la materia abbia in se stessa la sua causa motrice e che il movimento sia una proprietà strutturale, e quindi eterna, di essa. Egli ritiene che non ha senso chiedersi quale sia la causa del movimento della materia, poiché data la materia ne segue il movimento e quindi la materia è uguale al movimento. Aristotele afferma che in Democrito non era chiaro “il perché del movimento, né di quale specie esso sia né la causa per cui il movimento avviene in un modo o in un altro” 20 , giungendo alla conclusione sbagliata che Democrito attribuisca al caso il verificarsi degli eventi. Democrito, invece, “ritiene che tutto abbia una causa e che perciò si produca per necessità naturale e non a caso”21. In virtù di questo insieme intercollegato di teorie può affermarsi che l’atomismo rappresenta la prima forma di materialismo, ovvero la materia (vuoto incluso) costituisce l’unica sostanza e l’unica causa delle cose. Collegato al materialismo è l’ateismo: Democrito afferma che alla base del mondo non vi è alcuna intelligenza. Fa parte del materialismo e dell’ateismo il meccanicismo, che è opposto al finalismo. Per il finalismo comprendere un oggetto significa spiegare per quale scopo esso esista, invece per il meccanicismo spiegare un oggetto significa chiedersi per quale causa esso esista. Al meccanicismo è collegato il causalismo che è ben spiegato attraverso il frammento 2 di Leucippo: “nulla si produce senza ragione, ma tutto avviene per un motivo e in forza della necessità”. Democrito, dunque, attraverso i concetti, di pieno, vuoto, movimento, infinito giunge all’ “idea” di atomo; “idea” in quanto gli atomi costituendo una cosa impercettibile sono invisibili e, quindi, non sono conosciuti dall’esperienza, ma sono conosciuti a partire dalla ragione. Per questo motivo Marx afferma che la conoscenza degli atomi per Democrito è tutta una “ipotesi di laboratorio”, perché il filosofo di Abdera non può arrivare a una dimostrazione né attraverso prove né per ragionamento dell’esistenza degli atomi. Per questa conoscenza indimostrabile Marx tratteggia Democrito come il “viaggiatore alla ricerca di un tesoro invisibile, impalpabile” e, di fatto, introvabile22. Al di là di questo limite, i meriti di Democrito anche per le generazioni future sono stati notevoli. Con lui l’essere ed il non essere diventano due fenomeni fisici. Il vuoto, l’infinito e la ragione fondano la sua idea della costituzione atomica della materia; teoria che fu, poi, successivamente ripresa, su base sperimentale, dalla scienza moderna. Fu il primo ad introdurre la distinzione tra il suddividere matematico ed il suddividere fisico, cercando di dimostrare che solo quello matematico può essere diviso all’infinito, in quanto non trova rispondenza nella realtà. Probabilmente l’intuizione più grande di Democrito fu, però, studiare la natura non chiedendosi “lo scopo” dei fenomeni ma la loro “causa”, rappresentando il suo pensiero la prima forma di materialismo. Per 19 TEOFRASTO, De Sensu, 60-61 = = DK 68 A 135, in I presocratici…, cit., p. 126. N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, Paravia, Milano-Torino, 2012, p. 90. 22K.MARX,Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D. FUSARO, Bompiani, Milano, 2004. 21 33 Assaggi di Filosofia questo gli venne attribuita la fama di voler assegnare leggi casuali alla natura, tanto che Dante lo definì come “Democrito, che ’l mondo a caso pone” 23 e per questo “dovette subire la sorda lotta(…) condotta da tutte le correnti idealistiche (a partire da Platone fino agli hegeliani)”24 . Quando, però, avverrà nel Rinascimento la “conciliazione tra il metodo meccanicistico-scientifico e il finalismo religioso”25, l’atomismo sarà riscoperto, Democrito sarà rivalutato e tornerà ad ispirare filosofi e scienziati. Note 1. L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980, p. 47. 2 .L. GEYMONAT, op. cit., p. 48. 3. C. SINI, Storia della filosofia, Morano, Napoli, 1973, p. 90. 4. DK 68 A 38, trad. it. di V. E. ALFIERI, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. GIANNANTONI, Laterza, Bari, 1969. 5. L. GEYMONAT, op. cit., p. 49. 6. DK 67 A 14, in I presocratici. Lettura e interpretazione dei frammenti e delle testimonianze, a cura di P. IMPARA, Armando Editore, Roma, 1997, p. 124. 7. ARISTOTELE, Metafisica, I 4, 985 b 4 = DK 67 A 6, in I presocratici…, cit., p. 122. 8. ARISTOTELE, De generatione et corruptione, A, 8, 324 b, inhttp://it.wikipedia.org/wiki/Atomismo. 9. ARISTOTELE, De generatione et corruptione, cit.. 10. ARISTOTELE, Fisica, IV, 6, 213 a-b, in http://it.wikipedia.org/wiki/Atomismo. 11. DK 67 A 14, cit.. 12. DK 68 A 40, trad. it. di V. E. ALFIERI, in op. cit.. 23TEOFRASTO, De Sensu, 60-61 = = DK 68 A 135, in I presocratici…, cit., p. 126. 13. N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, Paravia, Milano-Torino, 2012, p. 90. 14. K.MARX,Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D. FUSARO, Bompiani, Milano, 2004. 15. Inferno, Canto IV, v. 136. 16. L. GEYMONAT, op. cit., p. 48. 17. B. RUSSEL, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano, 1966-1967, p. 106. Bibliografia AA.VV., I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. GIANNANTONI, Laterza, Bari, 1969. AA.VV., I presocratici. Lettura e interpretazione dei frammenti e delle testimonianze, a cura di P. IMPARA, Armando Editore, Roma, 1997. N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, Paravia, Milano-Torino, 2012. ARISTOTELE, Fisica. ARISTOTELE, De generatione et corruptione. ARISTOTELE, Metafisica. DANTE, Divina Commedia, Inferno. L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980. K. MARX, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a cura di D. FUSARO, Bompiani, Milano, 2004. B. RUSSEL, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano, 1966-1967 C. SINI, Storia della filosofia, Morano, Napoli, 1973. TEOFRASTO, De Sensu . 34 Assaggi di Filosofia Mentre la discussione continuava , arrivò il secondo piatto , che dividevamo a causa del nostro budget limitato. “Io sicuramente scienze politiche , alla fine sento di non poter fare altro se non quello in cui credo. Non posso che sentire il tema dei valori quello più vicino alla mia persona ed ora vi dirò il perché!”. La rivalutazione della sofistica Di Diletta Bergamo Introduzione La sofistica è una corrente filosofica che si sviluppa intorno alla seconda metà del V secolo a.C. in Grecia, in particolare ad Atene; in polemica con la filosofia della scuola eleatica, pone al centro della sua riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti. Il nome di sophistés ha, nella grecità più antica, un significato simile a quello di sophόs «sapiente, esperto». Tra la metà del 5° e la fine del 4° sec. a.C. il significato si precisa, designando coloro che sono capaci di rendere gli altri sophoi, nei vari campi di conoscenze teorico-pratiche, utili perché il cittadino possa avere successo politico. Che cosa caratterizza la sofistica? Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo. 1.Analisi delle caratteristiche della sofistica Occorre ora di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. I sofisti costituiscono un momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Platone. La sofistica era uno sviluppo necessario. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: che segue un filo di sviluppo ben saldo. Il primo momento della storia della filosofia è rappresentato dai naturalisti presocratici, dall’attenzione al mondo oggettivo, al mondo naturale; è spiegabile che successivamente all’attenzione per il mondo oggettivo esteriore, segua un periodo invece di attenzione rivolta sul soggetto, sull’uomo. I sofisti sono gli autori di una “rivoluzione antropologica” nella filosofia, nel senso che all’attenzione verso la natura, ciò che è fuori di noi, fanno seguire una filosofia che si rivolge al mondo propriamente umano. In che senso la sofistica era uno sviluppo necessario? Al pensiero parmenideo viene contrapposta la conoscenza sensibile, ma Questa è una forma di conoscenza fortemente legata all’individuo: l’individuo sano o l’individuo malato percepiscono una stessa pietanza come dolce o come amara a seconda appunto del loro stato di salute, anzi nello stesso individuo si può avere una mutazione del gusto proprio perché sopraggiunge una malattia, e quello che era percepito prima come dolce viene percepito poi come amaro. Affidarsi ai sensi vuol dire affidarsi a una forma di conoscenza, che porta inevitabilmente a posizioni di carattere individuale. Quindi: caduta la fiducia nel pensiero, eretti i sensi a unico criterio di conoscenza , si cade nella conoscenza relativa all’individuo, nel relativismo, nel soggettivismo. Ma se si è 35 Assaggi di Filosofia soggettivisti nella conoscenza, lo si sarà anche nella morale: la morale sofistica si presenta pertanto centrata sull’individuo, quindi prende l’aspetto o di edonismo (vale a dire che il bene viene identificato col piacere, che è qualche cosa ovviamente di individuale), o di utilitarismo (il bene viene fatto coincidere con l’utile). La morale sofistica sarà dunque una morale o edonistica o utilitaristica. Dunque l’insieme dei concetti della sofistica sono: abbandono della verità, trionfo dell’opinione, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, individualismo, edonismo, utilitarismo, tutte cose che sono perfettamente coerenti tra di loro. Infatti, se non esiste la verità, esisteranno le opinioni, e a questo punto la sofistica diventa contraddittoria. Se non esiste un criterio oggettivo per trovare la verità, ma soltanto le opinioni, come farò a stabilire quale opinione sia corretta? Ne consegue quindi che tutte le opinioni sono ugualmente degne e si equivalgono. Se tutte le opinioni sono equivalenti, che cosa ne consegue? Che si cercherà di imporre la propria opinione sull’altro: non si potrà discriminare tra l’opinione di uno e quella di un altro in base a quale è più vera, e si cercherà semplicemente di prevaricare l’altro. La prima forma di prevaricazione è la retorica. Non c’è verità, allora si cercherà di imporsi non con un ragionamento vero, ma semplicemente muovendo gli affetti, tentando di commuovere, di entusiasmare, di far leva sull’invidia, sulla gelosia, sullo spirito di vendetta, sullo slancio emotivo, cioè sui sentimenti e sulle passioni, che sono sempre qualche cosa di ambiguo, di soggettivo. La retorica, come arte del persuadere, come arte del ben parlare, si sostituisce alla filosofia. Quindi la sofistica è qualcosa di negativo perché innalza l’opinione contro la verità, il soggettivismo contro l’oggettività, tuttavia apre la strada per poter capire la verità su un piano molto più alto, che sarà il piano di Socrate e di Platone. La sofistica costituisce un momento di perdita di valori e di ideali, ma, introducendo l’elemento critico, sebbene in modo distruttivo, introduce nuove forme di ragionamento che saranno le forme di ragionamento di Platone. La sofistica costituisce quindi un’antitesi rispetto alla filosofia naturalistica, un momento negativo, ma nella storia della filosofia non c’è mai un momento completamente negativo, in cui tutto è da buttare via. Nella sofistica, col suo raffinamento nella capacità di argomentare, di ragionare, si presenta qualche cosa di molto positivo, che Socrate e Platone faranno proprio. 2.La rivoluzione sofistica Nella Grecia prima dei sofisti ci sono stati grandi pensatori naturalisti, ma non si proponevano di diffondere le loro conoscenze o di educare i giovani, né questo veniva fatto dalla casta sacerdotale, che era dedita solo ai sacrifici, alle cerimonie sacre, ecc. I sofisti sono i primi maestri dell’umanità, cioè sono i primi uomini di cultura che cercano di diffondere la cultura, per questo Hegel li definisce “maestri della Grecia” e li chiama “illuministi”, nel senso che sono i primi che intendono mettere tutto a confronto con la luce dell’intelletto, col pensiero, anche se mettendo tutto a confronto col pensiero, inteso in maniera soggettiva, distruggono tutto. Ma qual è più precisamente il loro ruolo positivo? Fino a loro, per quanto riguarda lo studio della natura c’erano stati i naturalisti, per quanto riguarda il mondo dell’uomo, la morale, la politica, che non erano state oggetto di indagine filosofica, era valsa l’autorità della tradizione, delle caste sacerdotali, dell’aristocrazia; i sofisti rompono l’autorità della tradizione, rifiutano l’atteggiamento di fede indiscussa nelle divinità olimpiche. I sofisti introducono una capacità di ragionamento al posto dell’accettazione passiva di contenuti morali; purtroppo distruggono questi contenuti morali, ma introducono una mentalità critica, abituano al confronto col pensiero. L’elemento positivo della sofistica consiste dunque nel fatto che essa è ‘illuminismo’, tentativo di illuminare col pensiero il dogma, cioè le credenze non dimostrate. La sofistica è contro l’atteggiamento fideistico e dogmatico di ossequio all’autorità, di ossequio alla tradizione: si possono accettare contenuti e conoscenza solo se sottoposti all’attenta analisi del pensiero raziocinante. Questo pensa il sofista, e in questo svolge un’azione fortemente innovativa nella storia della civiltà. In proposito dice Hegel:«Il termine di ‘cultura’ è indeterminato, significa in generale ‘coltivare’, ‘elevare coltivando’, 36 Assaggi di Filosofia se lo vogliamo precisare ha questo significato: ciò che il pensiero libero deve conquistare lo deve trarre da sé come propria convinzione». I sofisti stabiliscono questo di importante: posso accettare solo quello di cui sono convinto, non posso accettare la regola tramandata fideisticamente o l’imperativo; l’autorità e la tradizione li debbo filtrare alla luce del mio pensiero, devono diventare una mia convinzione. «Non si crede quindi più, ma si investiga»: all’atteggiamento fideistico si sostituisce l’atteggiamento riflessivo. «Insomma si tratta di ciò che nei tempi moderni è stato chiamato illuminismo». Illuminismo significa richiesta di legittimazione: se mi si vuol imporre qualche cosa, mi si deve addurre il motivo della sua validità, non me lo si può imporre sulla base di un’autorità quale che sia. «Il pensiero va in cerca di princìpi generali coi quali giudicare tutto ciò che deve valere per noi; e per noi non ha valore se non ciò che si conforma a tali princìpi. Il pensiero prende dunque a comparare il contenuto positivo con se stesso, a dissolvere la precedente concretezza della fede». Il pensiero diventa il punto di riferimento. 3. Conclusione I primi che hanno iniziato a introdurre la riflessione all’interno dei rapporti umani, quindi nella sfera della morale, della politica e della società, sono stati i sofisti. Hanno dato vita alla “rivoluzione antropologica”, mettendo l’uomo al centro della realtà. La ragione non investiga più l’essere, la natura, ma gli stessi rapporti umani. Tutto deve essere spiegato, non può restare immediato, senza spiegazione: «E ciò che alla rappresentazione appare saldo, nel pensiero si dissolve, e lascia così da un lato che la soggettività particolare faccia di se stesso un primo e un saldo e riferisca tutto a sé». La sofistica è soggettivistica, ma porta un avanzamento nella storia del pensiero: la centralità del pensiero anche riguardo alle cose umane. Bibliografia Hegel, G.W.F (1837) Lezioni sulla filosofia della storia. Editori Laerza, 2009. Maffiotti, L (anno accademico 2011-2012) SOFISTA E VERITA’: origine e significato di un problema storico filosofico. Gargano, A. I sofisti, Socrate, Platone. Bonazzi, M. I sofisti, Roma: Carocci, 2007. 37 Assaggi di Filosofia Etica: un viaggio da Democrito ai primi sofisti Di Federica D’Alterio Introduzione L’etica o morale è quella parte della filosofia che studia il comportamento di noi uomini e le norme a cui obbediamo, sia descrivendo come di fatto agiamo , sia prescrivendo come dovremmo agire. E’ importante finalizzare il nostro agire al raggiungimento della ricchezza d’ animo che è la sola che può portarci alla vera felicità. Per raggiungere tale scopo è ancora più necessario comprendere a fondo ciò che è giusto per noi, e seguire sempre quella strada ma vivere anche nel completo rispetto per cosa è visto come giusto dagli altri. 1. Democrito Il filosofo del secolo V a.C. Democrito sosteneva che il più alto bene per l’ uomo è la felicità ; e “questa non risiede nelle ricchezze ma nell’ anima sola” (fr.171). Per ottenerla l’ uomo si deve affidare completamente alla giustizia e alla ragione ,e là dove la ragione difetta , non si sa né godere della vita né superare il timore della morte. La gioia nasce dalla misura del godimento e dalla proporzione della vita : i difetti e gli eccessi tendono a sconvolgere l’anima e a generare in essa movimenti intensi ( cioè forti passioni, negative e positive). E le anime che si muovono dal positivo al negativo non sono costanti né contente (fr.191). La felicità spirituale (“eutymia”), dunque, non ha nulla a che vedere con il piacere (“edonè”). Democrito suggerisce agli uomini di comportarsi secondo ragione e con moderazione . Egli dice:”Il bene e il vero sono identici per tutti gli uomini ; il piacere è diverso per ognuno di essi “(fr.69). Perciò il piacere non è bene in se stesso: bisogna scegliere solo quello che deriva dal bello (fr. 207). Il che,per i filosofi greci, equivaleva al bene . La guida delle azioni morali è , per il filosofo, il rispetto verso se stessi.”Non devi aver rispetto per gli altri uomini più che per te stesso , né agir male quando nessuno lo sappia più che quando gli altri lo sappiano ; ma devi avere per te il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge : non fare ciò che non si deve fare “ (fr264). Qui la legge morale è posta nella pura interiorità della persona umana , la quale legge è stata creata mediante una ben approfondita ricerca interiore e con il rispetto verso se stessi. Il pensiero etico democriteo può essere interpretato come esempio di soggettivismo morale. La visione di Democrito appare incompleta in quanto il bene e il vero non sono uguali per tutti gli uomini . I Sofisti , infatti, sostenevano una tesi diametralmente opposta. 2. I Sofisti La parola sofista non ha alcun significato filosofico determinato e non indica una scuola La nascita di questo genere di filosofi è dovuta al bisogno di una cultura adatta all’ educazione politica delle classi dirigenti , essenziale ad un’ Atene al centro della cultura greca della metà del V sec. fino alla fine del IV. I sofisti insegnavano la sapienza dietro compenso. La loro creazione fondamentale fu la retorica che affermava l’ indipendenza da ogni valore assoluto conoscitivo o morale ;e l’ onnipotenza dell’ uomo rispetto ad ogni fine da raggiungere . La retorica era ,cioè, l’arte di persuadere , di convincere attraverso l’ uso della parola chiunque su un determinato argomento, indipendentemente dalla validità etica delle ragioni addotte. Segno distintivo della sofistica è , dunque, il relativismo sia morale che culturale. 38 Assaggi di Filosofia Un esempio di ciò è reso dalla famosa tesi del filosofo Protagora :”L’uomo è misura di tutte le cose , delle cose che sono in quanto sono , delle cose che non sono in quanto non sono “(fr.1 Diels.) Basandoci sull’ interpretazione di Platone, Protagora intendeva dire che “ quali le singole cose appaiono a me , tali sono per me ,e quali appaiono a te tali sono per te : giacchè uomo sei tu e uomo sono io “(Teet, 152a); pertanto il filosofo identificava apparenza e sensazione affermando che queste sono sempre vere anche se variano da uomo a uomo perché “ la sensazione è sempre di cosa che è”(ib.,152 c) L’ uomo , però, non è misura solo delle cose che si percepiscono , ma anche del bene, del giusto , del bello e di tanti altri valori.. Senza dubbio anche tali valori sono ritenuti diversi da uomo a uomo , ma sempre veri perché tali “appaiono”. Ma l‘ eterogeneità e l’ equivalenza delle opinioni non significa la loro immutabilità : le opinioni umane ,secondo il filosofo,sono modificabili e in realtà si modificano e si correggono .Queste continue modifiche certamente non sono legate al vero o al giusto, perché dal punto di vista del vero o del giusto tutte le opinioni sono equivalenti . Esse devono andare invece , nel senso dell’ utile per il privato o per il pubblico. 3. Antitesi I Sofisti , quindi,(come abbiamo appena visto con l’ esempio di Protagora) insistevano volentieri sulla diversità e l’ eterogeneità dei valori che reggono la convivenza umana . Un trattato di filosofia sofista dal titolo “Ragionamenti doppi”composto da autore anonimo si propone di dimostrare che le stesse cose possono essere belle e brutte, giuste e ingiuste e così via . Quindi in esso viene spiegato ciò che oggi si intende per “relativismo culturale” (cioè il riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alle diverse civiltà umane ). Ecco alcuni esempi :”I Macedoni credono bello che le ragazze siano amate e si uniscano con un uomo prima di sposarsi , ma brutto dopo che si sono sposate ; per i Greci è brutta sia l ‘ una che l ‘ altra cosa “ e ancora :” I Massageti fanno a pezzi i cadaveri dei genitori e li mangiano e si crede che sia una cosa bellissima venir seppelliti nei propri figli ; invece in Grecia questo è inaccettabile” , e infine “I Persiani giudicano bello che anche gli uomini si adornino come le donne e che si congiungano con la figlia , la madre e la sorella : i Greci invece giudicano queste azioni brutte e immorali”. “( Diels ,90 ,2[12],[14] ;[15]) Lo scritto si conclude con questa ipotesi:”Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle , neppure una ne resterebbe , ma tutti si ripartirebbero tutto”(Diels,2,18). Questi costumi, portati qui come esempi, sono definiti da Erodoto, che ebbe rapporti con l’ ambiente sofistico,in questo modo:.” Così sono queste leggi avite e io credo che ha ben detto Pindaro nei suoi versi che <la legge è regina di tutte le cose>” (Hist.,III ,38). Ma per Protagora e i Sofisti le leggi e ancor di più la giustizia, fondamentale invece per l’ etica democritea , cioè l’ ordine e l’ accomodamento reciproco degli uomini , possono assumere forme diverse , che l’ accortezza , l’ ingegnosità e la persuasione umana possono scoprire o far valere nelle differenti comunità umane. Tutto questo era appunto possibile attraverso l’ uso della retorica. Quindi della parola ,che ha, per i Sofisti , forza necessitante perché non trova limiti al suo potere in alcun criterio o valore oggettivo. Tutto questo è ancor meglio spiegato da un Sofista contemporaneo di Protagora, Gorgia, che giunse ad un “nihilismo” estremo, in quanto egli sosteneva l’ inesistenza di “idee” come criteri o valori assoluti. Pertanto anche la verità e la giustizia per Gorgia non esistono , e quindi l’ etica è dettata a ciascuno dalla parola necessitante , unica forza a cui l’ uomo può obbedire. Entrambe le teorie sull’ etica, sia quella di Democrito sia quella dei Sofisti, qui esposte sono insoddisfacenti e incomplete. La prima teoria presuppone il raggiungimento della felicità seguendo sempre ciò che è bene e rispettando se stessi. Democrito però commette un errore sostenendo che il bene è uguale per tutti gli uomini, infatti, come dimostrato prima riportando l’ esempio del manuale 39 Assaggi di Filosofia “Ragionamenti doppi”, i costumi e le usanze , e più ampiamente “il bene e il vero”, variano da comunità a comunità e anche da individuo ad individuo. Dall’ altra parte la posizione dei Sofisti è troppo radicale, perché sostenendo che le idee come criteri e valori morali possano variare in direzione dell’ utile o ancor più drasticamente che esse non esistano , la giustizia perde il suo valore fondamentale . Loro stessi dimostrano di non possedere il più minimo senso morale , accettando e ritenendo vero qualsiasi tipo di valore o atteggiamento , e ancor peggio decidere di promuoverlo alle masse attraverso l’ uso della parola e di utilizzarlo nel senso dell’ utile. Questo potrebbe degenerare fino ad arrivare ad accettare l’ omicidio o la schiavitù come mezzo giusto per raggiungere dei fini individuali o collettivi. In conclusione gli uomini non devono scegliere né la prima né la seconda teoria per raggiungere la felicità dell’ anima ,bene fondamentale di ogni individuo e fine di ogni giusta etica. Essi perciò devono trovare una via intermedia , che concilii il fare sempre ciò che ognuno ritiene giusto per se stesso e il rispettare le leggi della propria comunità, in quanto queste ultime sono l’ espressione della cultura della comunità stessa .Trova una parte importante in questa via intermedia tener conto l’ esistenza di usi e costumi diversi dai propri di altre società o anche di individui della propria comunità senza mai far prevalere la propria morale sulle altre, che però non devono influenzare ciò che riteniamo giusto per noi o ancora più le nostre leggi. Bibliografia su Democrito Frammenti di Democrito in DIELS , cap. 68, traduzione in italiano di V.E.Alfieri , Bari , 1936(trad, anche in I Presocratici . Testimonianze e frammenti , Roma-Bari 1986) La teoria della percezione di Democrito , Firenze , 1978, Democrito e l’ atomismoantico , a cura di F.Romano, Catania ,1980, Democrito dall’ atomo alla città , a cura di G,Casertano, Napoli,1983. Bibliografia sui sofisti Sul nome e concetto di Sofista da Sofisti . Testimonianze e frammenti, di M.Untersteiner,, 1949-62, 1972. I frammenti di Protagora, in DIELS, cap80;Untersteiner , cap.2. I Discorsi doppi, in DIELS, cap.90. I frammenti di Gorgia, in DIELS, cap82 e Untersteiner , cap.2. 40 Assaggi di Filosofia Il filosofo che ride e il filosofo che piange Di Myriam Buonfino Nell’immaginario collettivo i due filosofi Democrito ed Eraclito sono stati interpretati come i due possibili approcci da parte degli intellettuali (per citare un termine eracliteo i “desti”) alla vita. Di fronte alla piccolezza dell’universo e alla miserabilità dell’uomo il primo ride poiché la ragione insegna a prendere commiato dalle passioni del mondo, il secondo ne è terrorizzato e piange. "Eraclito, ogni volta che usciva di casa e si vedeva attorno tanti individui che vivevano male, anzi morivano male, piangeva ed aveva compassione di quanti gli si facevano incontro contenti e felici: era d’animo mite, ma troppo debole, era degno anche lui di compianto. Dicono invece che Democrito non sia mai comparso in pubblico senza scoppiare a ridere: fino a questo punto non gli pareva serio nulla di ciò che era stato fatto sul serio. "1 Questa è la testimonianza di Seneca, nel De Ira, dove appunto descrive le loro diverse posizioni. Più largo spazio è loro concesso invece da Luciano di Samosata, ne “Dialoghi” dove immagina che Zeus ed Hermes vendano le vite dei filosofi del passato e presentano al possibile compratore “quel baione di Abdera insieme con il piagnone d’Efeso”: Compratore. O Giove! Che contrasto! Questi non finisce di ridere, e quegli par che pianga qualcuno. Oh, ei piange davvero. E tu, che vuol dir questo? Perché ridi? Democrito. Mel dimandi? Perché mi par tutto ridicolo, le opere vostre, e voi stessi. […]Così è: non c'è niente di serio in esse: tutto è vuoto, concorso di atomi, immensità. Compratore. Vuoto se' tu, e immensamente sciocco. Oh, mi dai la baia, e non cessi di ridere? E tu perché piangi, o caro? Credo che con te potrò parlare. Eraclito. O forestiero, io credo che tutte le cose umane sono triste e deplorabili, e tutte sono soggette alla morte: però sento pietà di voi, e piango. Il presente non mi par bello; il futuro mi scuora assai, e vi dico che il mondo andrà in fiamme ed in rovine. Io piango che niente è stabile, tutto si rimescola e si confonde: il piacere diventa dispiacere; la scienza, ignoranza; la grandezza, piccolezza; tutto va sossopra, e gira, e cangia nel giuoco del secolo”.2 Per evitare di fare confusione, sarà dunque opportuno informare il lettore riguardo le diverse filosofie di Democrito ed Eraclito. 41 Assaggi di Filosofia 1.Caducità della vita umana secondo Eraclito Eraclito visse a Efeso tra il VI e il V secolo a.C. e della sua biografia sappiamo pochissimo. Pare avesse origini aristocratiche, infatti nella sua filosofia c’è una forte distinzione tra i non filosofi, “dormienti” e i filosofi, i cosiddetti “desti”. Scrisse un’opera di cui ci sono rimasti poco più di un centinaio di frammenti intitolata Perì Physeose formata da aforismi e brevi sentenze, tuttavia legate tra loro da un filo logico, e scritte in maniera molto enigmatica e difficile da comprendere, per questo è stato denominato il filosofo “oscuro”. Per Eraclito la filosofia è il solo mezzo che può condurre alla verità e per raggiungerla ha bisogno di solitudine per poter ricercare a fondo nell’anima che è senza confini, come ci è spiegato dal frammento 45:"Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos"3. Perciò secondo il filosofo di Efeso siamo insieme infinitamente piccoli e insignificanti e infinitamente grandi e profondi. La realtà in cui viviamo è puramente illusoria, minuscola se paragonata alla grandezza dell'intero universo. Ma questo diventa il più piccolo granello di sabbia se paragonato alla grandezza della nostra mente, che tutto può, ed è costretta, imprigionata, nella cattività della dimensione in cui viviamo. È forse questo il motivo per cui Eraclito piange? La causa della sua tristezza è la consapevolezza di essere rinchiusi nella prigione del corpo? Questo è sicuramente uno dei motivi, ma non l’unico e ultimo. Filosofo vero è colui che ha una visione profonda della realtà, che sa elevarsi a una veduta complessiva dell’essere. Non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli occhi; lo stesso stile eracliteo, così oscuro, può allora essere inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una convinzione di fondo: che l'intera realtà sia governata da un solo principio, a cui tutto è collegato. Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal Lògos: nel mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con lògos, termine che riveste una miriade di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Quest’ultimo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perché restano rinchiusi nel loro orizzonte privato. Da qui la contrapposizione tra “desti” e “dormienti”, di cui solo i primi riescono a fare uso del logos cosmico mentre i secondi sono bloccati in un eterno sogno illusorio, qual è la realtà. Il logos, per Eraclito, diventa quindi il principio del mondo, ciò che tutto governa. Da cosa è dato questo “tutto”? Dai contrari, che in quanto opposti lottano tra loro, nella cosiddetta Pòlemos (guerra 42 Assaggi di Filosofia in greco) che è governata appunto dal logos, che tutto crea, tutto distrugge e a cui tutto ritorna. Lo indentifica perciò con il fuoco terreno, simbolo di movimento incontrollabile crescente e decrescente. Proprio l’identificazione con quest’elemento naturale ha fatto pensare ad Eraclito come filosofo cosmologico. Questo movimento incessante e incontrollabile, la ragione, il logos, è ciò che governa il mondo e le sue leggi e l’uomo non ha alcun potere per poter prolungare le proprie opere o la propria vita sulla terra. Ed è questa consapevolezza che rende il filosofo triste e malinconico, la consapevolezza della caducità della vita umana. Democrito invece per quale motivo ride? Analizziamone la filosofia 2. La casualità degli avvenimenti per Democrito Democrito nacque ad Abdera nel 460 a.C. e fu un atomista. Tradizionalmente viene fatto corrispondere ai filosofi pluralisti presocratici, ma è inesatto in quanto è contemporaneo di Socrate e anche dei suoi discepoli. Essendo pluralista la sua teoria mirava a spiegare il cosmo senza escludere la teoria ontologica parmenidea, che descriveva l’essere come ingenerato, imperituro, eterno, immutabile, immobile, unico, omogeneo e finito. Da ciò bisogna distinguere la verità dall’opinione, l’alèteia dalla dòxa, e ricercare solo la prima in quanto la seconda regola il mondo dell’illusione, fatto del non essere. Tuttavia è sbagliato irrigidire troppo questo dualismo; Democrito è il primo che riesce a far combaciare sensibilità e intelletto in quanto riconosce che si trovano in un rapporto di reciproca continuità e implicanza. Per arrivare alle sue conclusioni fa uso di un metodo che consiste di tre punti: Comincia dalla constatazione attraverso i sensi, quindi l’osservazione Elabora con l’aiuto dell’intelletto i dati forniti dalla sensibilità Perviene ad una teoria che spieghi ciò che i sensi mostrano Democrito, come prima di lui aveva fatto Anassagora, pone le basi della scienza moderna: teorizza l’esistenza di particelle invisibili e indivisibili, gli atomi, costituenti la materia nell’universo, che sono immersi nel vuoto. Vi è così una fisicizzazione dell’essere e del non essere parmenideo, il primo identificato con il pieno, la materia, costituita da atomi, il secondo con il non pieno, il vuoto, dentro cui gli atomi volteggiano caoticamente in tutte le direzioni. Le caratteristiche degli atomi risultano quindi essere le stesse dell’essere parmenideo: pieni, immutabili, ingenerati ed eterni. Il loro moto è caotico e casuale: dà origine a incessanti contatti e a continue aggregazioni di atomi che costituiscono la materia delle cose e, poiché sono infiniti, infiniti lo sono anche i mondi da loro costituiti che perpetuamente nascono e muoiono. E così l’universo, preso nella sua totalità, è spazialmente infinito. 43 Assaggi di Filosofia Da ciò si evince che la teoria atomistica è basata tutta sull’intesa degli atomi che, in quanto dotati di un loro movimento casuale, sono semoventi (contrariamente a ciò che dice Anassagora, che suppone sia una mente divina, il noùs, a dare origine al moto dei suoi “semi”). Democrito, guardando l’uomo che si affannava sulla Terra a vivere e a fare in modo di lasciare tracce di sé, non poteva far altro che riderne, pensando a come tutti i suoi problemi siano scaturiti in maniera del tutto casuale e a come verranno risolti in maniera altrettanto casuale. 3.Lettura dei quadri Le figure accanto rappresentano i due quadri realizzati in maniera complementare da Rubens, pittore del XVI secolo. Eraclito, a sinistra, è rappresentato come un monaco triste e pensoso, con i pugni serrati. Sembra sia stato raffigurato in una grotta con un’apertura luminosa che si scorge alle spalle del soggetto, ma Eraclito è troppo assorto ed infelice per accorgersi del mondo che lo circonda, anzi forse non vuole immergersi nella realtà che gli sembra illusoria e fonte di immensa tristezza; Democrito, al contrario, è rappresentato vestito da ricco aristocratico, felice, dallo sguardo sereno, le mani che indicano e accarezzano un mappamondo, come chi ha capito il mistero dell’esistenza e non ne è affatto spaventato. L’opposizione di questi due personaggi può essere intesa come un Eraclito che rappresenta il Medioevo, il disprezzo del mondo e la chiusura intima dell’individuo, contrapposto ad un Democrito che invece sembra invitare alla modernità, alla vita e ai suoi piaceri. Nella lettura moderna di questi due emblematici personaggi si è teso a preferire l’atteggiamento positivo e aperto di Democrito a quello apparentemente chiuso e negativo di Eraclito. Il reale problema sta nel fatto che i loro atteggiamenti sono assunti in merito a due questioni differenti, come spiegato nelle pagine precedenti. Eraclito ha un volto angosciato in quanto si è reso conto della caducità della vita, dei suoi inevitabili e inafferrabili cambiamenti, di quanto poco l’uomo possa fare la differenza, di quanto piccolo e insignificante sia il suo corpo e di quanto al contrario la sua enorme e potente mente possa fare, ma non può perché imprigionata nella dimensione del mondo irreale e mutevole. Il filosofo di Efeso ha compassione dell’umanità che vive insulsamente senza rendersi conto di come le cose di cui oggi gioisce potrebbero essere le stesse di cui un giorno piangerà, senza che possa fare alcunché per evitare questo radicale cambiamento. Ed è comprensibile, dunque, il pensiero di Eraclito, giacché ognuno di noi, nonostante possa capire alcuni cambiamenti, non riesce poi ad evitare che avvengano. 44 Assaggi di Filosofia Il “baione” di Abdera invece trova ridicola l’umanità che si affanna freneticamente per essere ricordata, per creare qualcosa di importante, in quanto tutto ciò che siamo e in cui viviamo non è altro che un miscuglio di insulsi atomi, che a caso si sono legati fra di loro e a caso potrebbero disgregarsi per dare origine a qualcosa di diverso. Trova ridicolo come l’uomo si senta potente, importante e padrone dell’universo, quando altro non è che semplice materia aggregatasi per caso. Persino lo stesso pensiero di Democrito non è da attribuirsi a lui, ma sempre al volteggio degli atomi. Allo scopo di far comprendere meglio al lettore, riporto qui una citazione dello studioso tedesco Reinhard Brandt nel suo libro “Filosofia nella pittura”: Il materialista, che prende tutto per una danza di atomi priva di ragione, dev’essere egli stesso pazzo: infatti, da dove potrebbe venirgli la ragione? Un vortice “casuale” di atomi nello spazio infinito; anche il pensiero in questo mondo non può più essere ragionevole, ma precipita, dopo l’autodiagnosi, nella follia.4 Il dipinto di Ribera potrebbe essere letto secondo questa nuova interpretazione, in quanto il sorriso enigmatico di Democrito, così come ci è suggerito dalle sue vesti stracciate, cela un’antica angoscia, ma non quella che anima Eraclito, non quella dell’inevitabile cambiamento o dell’inutilità dei gesti umani, bensì una nuova consapevolezza, quella di essere piccoli, microscopici, insignificanti, tutti uguali agli altri, inseriti in un mondo infinito e immensamente incomprensibili per esseri tanto poco importanti. Un mondo in cui i pensieri non sono che frutto di un movimento degli atomi che nessuno comanda e nessuno potrà mai comandare. In conclusione non si può affermare che bisognerebbe prendere la vita in modo positivo, come Democrito, giacché è il primo che sorride nascondendo l’angoscia più grande che esista; né si può dire che bisognerebbe seguire l’esempio di Eraclito il quale, chiuso in se stesso e ripudiando le gioie della vita, rende i suoi gesti (incompiuti) più vani di quelli degli altri che almeno hanno il coraggio di compiere. I suddetti “desti”, cioè le persone che vogliono essere consapevoli e dotte, dovrebbero prendere esempio da entrambi i filosofi, non alternativamente ma in modo complementare: l’uomo deve sapere che la vita presenta degli imprevisti, dei cambiamenti che spesso non potrà capire né fare in modo che non avvengano ma, nonostante questo, deve comunque cercare di condurre al meglio la sua esistenza; e per non cadere nella superbia di potere tutto deve anche sapere che altro non è che un aggregato di atomi, di cui nessuno ha voluto l’unione e nessuno ne vorrà la separazione, se non gli stessi atomi semoventi. "Al saggio tutta la Terra è aperta, perché patria di un'anima bella è il mondo intero".5 Note 1. Seneca, De Ira, pg. 1. 2. Luciano di Samosata, Dialoghi, pg. 1. 45 Assaggi di Filosofia 3. Eraclito, fr. 45, Diels-Kranz, pagina 2. 4. R. Brandt, Filosofia nella pittura, pagina 5. 5. Democrito, aforisma. 46 Assaggi di Filosofia Verità relativa o Assoluta ? Di Giovanna Olivieri Introduzione “Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.” 1 La ricerca della verità si può definire uno dei motivi che spinge a fare filosofia . Abbiamo visto fin dall’antichità come il mito fosse stata la prima forma di aletheia degli uomini e in seguito ad un senso di incompletezza e di inquietudine , l’abbiamo visto evolversi nelle grandi domande della filosofia : “Chi siamo?” , “Da dove veniamo?” , “Perché siamo qui?” , “Esiste Dio?” , “Il mondo è reale? “ecc. Dall’archè siamo arrivati all'uomo . Ma c’è stato un momento nella storia della filosofia in cui l’uomo e la società si sono trovati di fronte ad una crisi. Si parla specificamente del V secolo a.C. con la nascita della sofistica in cui si perdono i valori morali e l’idea stessa di cosa è veritiero. I sofisti furono chiamati i “prostituti” della filosofia in quanto vendevano il sapere e con l’arte della retorica riuscivano a persuadere l’interlocutore. Un problema dibattuto per secoli e ancora irrisolto riguarda l’idea di una verità relativa e di una verità assoluta . La domanda è: “esiste una verità assoluta o tutto è relativo ? da cosa sono regolate le due parti ?” Ma se tutto è relativo come si distingue una realtà oggettiva o una cosa che venga accettata da tutti in una società ? Cosa è giusto e cosa è sbagliato? Come si può arrivare ad una verità ? Come si possono sostenere tante verità quante sono gli uomini oppure una sola per tutti ?Il metodo conoscitivo è induttivo o deduttivo? La verità è assoluta o relativa ?. La tesi è che la verità è relativa sul piano dell’essere, della conoscenza e dell’etica. 1. L’uomo misura di tutte le cose L’emblema del relativismo greco, di tante verità quanti sono gli uomini ,ce lo propone Protagora con questa massima “di tutte le cose è misura l’uomo ; di quelle che esistono ,in quanto esistono; di quelle che non esistono in quanto non esistono” 2 .La realtà o l’irrealtà delle cose e il loro modo di essere possono determinarsi solo attraverso la rappresentazione che l’uomo ne ha . L’oggetto è necessariamente connesso al soggetto . .Ad esempio, parlando di cibi, l’uomo inteso come misura è l’individuo ; parlando della mentalità occidentale in contrapposizione con quella orientale l’uomo, inteso come misura, è la civiltà ; paragonando gli uomini con la natura l’uomo è inteso come specie. Protagora con questa massima si occupa di umanismo , fenomenismo e relativismo partendo dal particolare per arrivare al generale ovvero l’uomo , l’umanità e la comunità. Parlando di relativismo conoscitivo e morale si afferma che ogni verità è relativa al contesto e ai vari punti di vista. La conoscenza avviene per esperienza e più precisamente per percezione “quali le singole cose appaiono a me , tali sono per me e quali appaiono a te , tali sono per te” 3. “Di tutte le cose è misura l’uomo.delle cose che esistono .che esistono,delle cose che non esistono ,che non esistono.(…)Quali le singole cose appaiono a me , tali esse sono per me , e quali esse appaiono a te ,tali sono per te ;e uomini siamo tu e io..Non avviene talora che quando soffi lo stesso vento ,uno di noi senta freddo e un altro no ,e uno abbia freddo un poco e un altro assai? Dobbiamo allora dire che il vento in sé stesso è freddo o non freddo ,o ammetteremo con Protagora che il vento è freddo per chi sente freddo ,non freddo per chi non sente freddo ? Apparenza dunque e sensazione sono la stessa cosa se consideriamo gli oggetti caldi ed altre cose di simil natura ,perché nel mondo con cui ciascuno sente una cosa ,tale sembra che sia per ciascuno” . 4 Inoltre lo scritto anonimo dei Ragionamenti doppi , il quale si ritiene molto vicino a Protagora, ci presenta la relatività dei valori e il relativismo culturale “Presso i Macedoni si ritiene bello che le 47 Assaggi di Filosofia fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario”. 5 Così come la cultura può diventare un problema e non si distingue il giusto dallo sbagliato , ancor più difficile diventa stabilire il problema morale delle leggi “Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol loco tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle ,neppure una ne resterebbe ,ma tutti si ripartirebbero tutto .” 6 “ Nessuna cosa in sé è una sola, né correttamente si potrebbe definire alcuna cosa, né si può definire la qualità di qualcosa, ma, se tu la proclami grande, appare anche piccola, e se tu dici che è pesante, può sembrare anche leggera, e così per tutte le altre, perché niente è uno, né determinato, né di una data qualità. Dallo spostarsi, dal muoversi, dal congiungersi delle cose fra di loro, deriva tutto ciò che noi chiamiamo esistente, esprimendoci in maniera non corretta. Infatti nulla è mai, ma sempre diviene.” 7 Per questo non esiste una verità che valga per tutti gli individui e anche se si volesse fissare andrebbe a intralciare i cambiamenti delle realtà , non solo della natura del cosmo ma anche dell’uomo stesso . La dottrina che Eraclito ci propone afferma“ tutto scorre” tutto è in movimento . “Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo , siamo e non siamo” 8. Quindi l’essere , le cose sono soggetti a cambiamenti , sempre di versi gli uni dagli altri e sarebbe impossibile individuare una sola realtà perché i nostri stati d’animo e le nostre percezioni variano sempre. Gorgia , contemporaneo di Protagora , propone un paradosso a chi sostiene che l’essere sia unico e immutabile e quindi crede in una verità assoluta . Lui sostiene una sorta di parodia di Parmenide affermando che nulla esiste .Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica,e come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere, cosicché egli giunge alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere. Egli conclude che “l'essere non è” partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è né uno né molti, né generato né ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose. Supponiamo che l'essere ci sia; prendiamo un quaderno blu: io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico “è blu”; ma non è che nella testa dell'altro c'è lo stesso colore, magari è un blu più tendente al verde; fatto sta che non potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io: l'essere, oltre a non esistere, non è pensabile e non è dicibile. Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il “nichilismo”. Gorgia sostiene che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non “tutto è vero”, come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del logos : la parola può tutto. Gorgia con questa sua corrente di 48 Assaggi di Filosofia pensiero arriva a porre le basi del nichilismo filosofico. Noi ci serviamo del suo paradosso semplicemente per dimostrare come l’essere non possa essere unico ed assoluto in quanto quando pur fosse conoscibile ,non potrebbe essere espresso con parole e quel che noi conosciamo ,il sensibile,è così soggettivo così strettamente legato alla coscienza dell’individuo,che è assolutamente incomunicabile ad altri. Quindi ognuno potrebbe intendere qualcosa di diverso dall’altro,quindi è inutile cercarlo. Ma se nulla esiste e la ricerca è inutile perché comunque non veritiera: come si avrebbe il progresso della società?. Se avessimo ragionato così ,ancora oggi sosterremo che il mondo è piatto, perché non avremo mai esplorato il mondo che ci circonda , o addirittura le grandi epidemie ci avrebbero annientato perché non avremo cercato una cura . La ricerca è fondamentale non sono per il progresso della società ma dell’uomo stesso. Quindi non bisogna portare all’estremo il pensiero di Gorgia,altrimenti si corre il rischio di arrivare ad una vera e propria paralisi. Se tutto è vero e tutto è falso , cosa è giusto e cosa è sbagliato? Come si può applicare una legge o condannare un uomo ? Se non ci fosse un criterio logico si finirebbe in un soggettivismo anarchico , invece Protagora credeva in un principio di scelta. Quale può essere il criterio per scegliere un punto di vista piuttosto che un altro? E’ Il principio debole, ovvero dell’utile inteso come il bene del singolo e della comunità. La verità è l’umanamente verificato come giovevole , ossia ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo ,alla comunità e alla specie. Ma per definire ciò che è realmente utile , non bisogna stabilire un criterio di verità? Assolutamente , ma Protagora non si contraddice infatti afferma che non esistano “verità assolute” o “ razionalità forti” ma non esclude una razionalità “debole”. Per esempio come abbiamo visto le leggi variano in società in società ,sono relative alla condizioni alle quali esse sorgono , sono frutto di convenzioni e punti di incontro che rispettano pienamente l’utile protagoreo che è finalizzato al benessere comune della polis. 2. E se invece esistesse una verità? Cambiando punto di vista si può intendere che la verità sia unica e oggettiva. Sul piano dell’essenza concorderemo con Parmenide che “l’essere è e non può non essere , il non essere non è, e non può non essere.” Quindi sarà ingenerato,imperituro , eterno ,immutabile,immobile unico,omogeneo e finito. Ma il paradosso di Gorgia , se non viene portato all’estremo, ci fa bene intendere come questo essere assoluto sia difficile da definire in termini pratici e sia incomunicabile . Mettendo in discussione la realtà stessa che ci circonda e contraddicendosi all’interno della sua stessa descrizione: se è eterno ed è infinito allora non esiste , in quanto non è percepibile. L’assolutismo gnoseologico invece viene sostenuto da Socrate che può definirsi secondo Aristotele lo scopritore del “ concetto “ ;“ Due cose si possono a buon diritto attribuire a Socrate : i ragionamenti induttivi e la definizione Universale ; e tutte e due riguardano il principio della scienza” . 9 Al contrario di chi sostiene il relativismo, per Socrate la conoscenza avviene in maniera induttiva. Dalle cose si estrae ciò che esse hanno in comune mettendo da parte le diversità, si trova ciò che le caratterizza per quello che esse sono. Così Socrate con il “che cosa è ?“ cercava di spingere l’interlocutore a cercare una verità oggettiva e di arrivare ad una definizione. Anche in campo conoscitivo ,la descrizione di un oggetto,come per esempio di un albero,non può essere relativa,l’albero lo si può disegnare in modo diverso ma resta pur sempre lo stesso albero. “Anche se le virtù sono molte e diverse, è in tutte un’identica specie ideale per cui sono virtù; è appunto affidandosi in questa specie ideale che uno ha la possibilità,rispondendo a chi lo interroghi,di chiarire bene la questione sul cosa sia la virtù”. 10 49 Assaggi di Filosofia In campo etico Protagora alla domanda : come si distingue il giusto dallo sbagliato e il bene dal male ? Risponde con il principio di ciò che è più utile e di ciò che più giova alla società , Socrate invece risponde con il valore della virtù. Questa è intesa come scienza del bene che porterà l’individuo al perseguimento della felicità (eudemonismo). Così l’uomo guidato dalla ragione e dalla coscienza saprà ricercare la verità . “Il possesso delle altre scienze , se non si possiede anche la scienza del bene, rischia di essere raramente utile, anzi il più delle volte è un vero e proprio danno (…)chi (..) possegga anche la scienza del bene –la quale, infine, coincide con quella dell’utile-(…) ebbene, un simile uomo lo chiameremo assennato , capace di consigliare la Città e se stesso”. 11 Socrate definisce la coscienza un “demone” che lo consiglia. La coscienza è unica? Può essere influenzata dal contesto in cui uno vive? La coscienza socratica può essere un criterio solido di valutazione per distinguere il bene dal male ? Poniamo l’esempio delle religioni: ciò che è moralmente giusto per un cristiano non uccidere , non lo sarà per chi crede nel principio “occhio per occhio dente per dente”.Ancora oggi nel mondo troviamo stati con la pena di morte,che quindi si basa su concetti di coscienza diversi dai nostri. Chi sostiene l’assolutismo crede in una essenza definita dell’essere , di un concetto universale dettato dalla conoscenza induttiva delle cose e moralmente si affiderà alla virtù e alla coscienza dell’uomo per arrivare alla verità assoluta . Possono esserci tante coscienze quanti sono gli uomini o credere in principi differenti e cadere così nel relativismo ? Affidarsi alla ragione e alla coscienza non diventerebbe un discorso utopistico in quanto sarebbe sempre condizionato dall’utile o da altre esigenze ? Oppure sostenere il relativismo porterà a credere che l’essere non è unico ,che la conoscenza è deduttiva quindi si da molta importanza ai nostri sensi e l’etica è regolata dal principio debole dell’Utile protagoreo. 3. Bilancio conclusivo Queste due tesi filosofiche sono dibattute da secoli e sarebbe impossibile decretare quale delle due sia valida o più giusta perché come per tutta la filosofia non è importante di per sé la risposta ma come si ragione su di essa. Queste due correnti di pensiero hanno influenzato periodi diversi della storia dell’umanità . L’Ottocento è sempre stato alla ricerca di una verità assoluta ,spesso condizionato anche dalla religione che afferma una propria dottrina ed una propria verità, da gran parte della letteratura e dalle scoperte scientifiche date oramai per certe .Invece il novecento è l’emblema del relativismo . Dal punto di vista scientifico :La fisica della fine dell'Ottocento e del primo Novecento mise in crisi questa concezione del sapere scientifico. Einstein, ad esempio, dimostrò che le scoperte di Galileo e Newton non erano definitive neppure nel campo apparentemente più solido, la dinamica del punto materiale. Non che fossero sbagliate, la fisica classica era semplicemente un'approssimazione valida in un certo ambito di condizioni. Si è quindi reso evidente che il metodo scientifico è per l'appunto un metodo, una via. Un metodo straordinariamente efficace per descrivere certi ambiti di fenomeni. Alla sua base, il concetto più importante: nessuna scoperta è mai definitiva, nessuna formulazione è valida in modo universale. E' possibile procedere verso una conoscenza sempre migliore dei fenomeni, ma non si può mai avere la conoscenza assoluta. La meccanica quantistica ha mostrato come una teoria scientifica può descrivere con grande precisione i fenomeni rimanendo intraducibile nel linguaggio ordinario. E dal punto di vista letterale abbiamo Pirandello che esaltò il soggettivismo ed espresse il relativismo psicologico. E il nostro secolo si affida ad una verità assoluta o relativa ? “Solo gli imbecilli non hanno dubbi. Ne sei sicuro? Non ho alcun dubbio!” (Luciano De Crescenzio,Il Dubbio) 50 Assaggi di Filosofia Note 1.Luigi Pirandello,uno,nessuno e centomila, pag 12. 2. Platone,Teeteto,151d-152e.trad.di M Valmigli,Laterza, Roma-Bari 1971. 3. Platone,Teeteto,ibidem. 4.Platone,Teeteto, ibidem. 5. Diels-Kranz 90, 2; trad.: M. Timpanaro Cardini 6. Diels ,2,18 ibidem. 7. Platone,Teeteto,ibidem. 8. DK 22 B 49°,trad.it.diG.Giannantoni, I presocratici.Testimonianze e frammenti. 9.Aristotele,Metafisica,XIII,4,1078b. 10. Platone, Menone,72c. 11.Platone,Alcibiade II,144d ss. Bibliografia N. Abbagnano , La ricerca del pensiero,I, Paravia, 2012. E. Paolo Lamanna,Letture Filosofiche,I felice le monnier-firenze Treccani , il relativismo gnoseologico. 51 Assaggi di Filosofia “La fisica mi ha sempre affascinato, le caratteristiche e la natura delle cose, ma non so ..sono anche attirata dall’essenza delle persone , come si relaziona il tutto a noi, l’indole e il carattere degli uomini. Sono molto combattuta e il tema dell’essere tra fisica e metafisica è un mio grande blocco interiore, so per certo che mi pentirei di non aver scelto entrambi!” Conflitti apparenti: Parmenide ed Eraclito si escludono a vicenda? Di Matteo Biccari Introduzione La filosofia è la necessità e la ricerca di rispondere a domande inevitabili che l’uomo si pone. La prima domanda posta dai filosofi è quella riguardo all’origine di tutte le cose, l’arché, alla quale hanno dato risposta, mediante un metodo induttivo, cioè ricavando dalla speculazione particolare una regola generale, molti tra i quali Talete, che ne è l’iniziatore, Anassimandro, Eraclito, Pitagora ecc. La vera e propria cesura nei cosiddetti filosofi presocratici è rappresentata dal saggio di Elea, Parmenide. Egli per primo si pone una domanda diversa, cioè: cos’è l’essere?Per l’eleatico l’essere è una verità (alétheia) unica, eterna ed immutabile, che va oltre la superficie terrena, di cui, tra l’altro, essa è solo apparenza ingannevole. L’innovazione portata da Parmenide non è tanto quella di aver delineato le caratteristiche di un nuovo argomento filosofico, tò eìnai (l’essere), quanto quella di essere passato dal succitato metodo induttivo a un metodo deduttivo, cioè arrivando alla risposta partendo da una regola generale (e inconfutabile), ovvero l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, per poi spiegarla suffragata da esempi e dimostrazioni. Sembra quindi che Parmenide, per le sue idee, sia inevitabilmente in contrasto con i suoi predecessori e in particolare con Eraclito di Efeso: egli vede il mondo “come un flusso perenne in cui tutto scorre, analogamente a quanto fa la corrente di un fiume, le cui acque non sono mai le 1 stesse” . Queste due posizioni, quella del pànta rheì e quella dell’immutabilità dell’essere, appaiono quindi inconciliabili, eppure forse vi è una terza strada, ovvero un discorso che ammetta entrambe le teorie. La domanda quindi nasce spontanea: è davvero possibile conciliare l’essere immutabile e perfetto di Parmenide con l’incessante divenire della realtà di Eraclito? 1. Analisi dei due punti di vista Per comprendere meglio da cosa nasce la disputa fra critici di Eraclito e di Parmenide, ritengo opportuno chiarire in maniera più precisa i due punti di vista, così da non far cadere il lettore nel timore di non comprendere a fondo la dimostrazione della tesi, perché mancante delle competenze necessarie alla sua comprensione. 1.1. Analisi del pensiero ontologico parmenideo Come detto nell’Introduzione, Parmenide delinea le caratteristiche di un essere ontologica-mente perfetto. Egli identifica in esso la verità (alétheia), cioè una realtà inconfutabile, poiché la sua definizione non lascia spazio a contraddizioni ed imprecisioni, ed ultraterrena, poiché il mondo sensibile, soggetto a molteplici interpretazioni, risulta fallace ed illusorio. 52 Assaggi di Filosofia L’unica via per arrivare all’essere è quella del lógos, cioè della ragione, poiché la nostra mente è in grado di pensare solo quest’ultimo, al contrario del non essere, che risulta inesprimibile per la nostra mente e il nostro linguaggio. Tramite una logica rigorosa, egli ricava gli attributi dell’essere. Esso è, secondo Parmenide: Ingenerato e imperituro, poiché se non fosse tale, nascerebbe dal non essere e morirebbe dissolto nel nulla; Eterno, di conseguenza, poiché non ammette passato (ciò che non è più) e futuro (ciò che non è ancora); Immutabile e immobile, poiché se mutasse e si muovesse, si troverebbe in luoghi o forme in cui prima non era; Unico ed omogeneo, poiché qualora fosse molteplice, ammetterebbe spazi di non essere. L’uomo però ha l’opportunità di imboccare un’altra strada, quella che porta all’opinione (dóxa), cioè alla conoscenza di un essere apparente e illusorio: basandosi sui sensi e non sulla ragione, il mondo appare molteplice e soggetto a plurime interpretazioni e quindi non vero. Egli dice che “saranno soltanto parole, quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e 2 perire, essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore” . 1.2 Analisi della teoria del divenire eraclitea Eraclito è noto come “filosofo del divenire”, poiché pone alla base del suo pensiero la concezione della realtà vista come continuo mutamento delle cose che la compongono. In realtà, la teoria del pánta rheí (tutto scorre) non sarebbe dello stesso filosofo efesino, ma dei suoi discepoli, poiché nei suoi frammenti manca tale espressione né viene spiegata e dimostrata. È comunque poco utile distinguere il maestro dai propri discepoli, in quanto ciò che importa a noi è l’idea e non tanto l’attribuzione di questa, quindi non perderemo tempo ulteriore. Vedendo la realtà come continuo cambiamento, tramite un ragionamento induttivo, sostiene che il principio di tutte le cose è il fuoco, l’elemento mobile per eccellenza. Ciò che dà la vita, secondo Eraclito, è la stretta connessione e la lotta (pólemos) fra i contrari, che lottano, perché opposti, ma non possono stare l’uno senza l’altro, perché il primo vive in funzione dell’altro e viceversa, infatti: “Congiungimenti sono intero e non intero, concorde e 3 discorde, armonico e disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose” . Questa continua contrapposizione, che genera la vita, è governata da un principio razionale che è il lógos, grazie al quale un opposto non può esistere indipendentemente dall’altro. Secondo Eraclito è attraverso il lógos e alla sua intelligenza che l’uomo passa da dormiente, cioè privo di coscienza, a sveglio, e quindi capace di conoscere e comprendere le leggi del mondo, che si impongono ad ogni mente investita di ragione: infatti dice che “Chi vuol parlare con intelligenza 4 deve farsi forte di ciò che è comune a tutti” , ergo deve uscire dallo stato di sonno, che fa restare l’uomo escluso dalla comprensione autentica della realtà. 2. Eraclito e Parmenide non si escludono a vicenda Ad un’analisi sommaria, le due teorie sembrano escludersi a vicenda, in quanto Eraclito vede il mondo delle cose come continuo divenire, mentre Parmenide vede l’essere come immutabile, immobile ed eterno. 53 Assaggi di Filosofia Proprio in questa motivazione risiede l’errore: esso può essere causato da un ragionamento superficiale fatto su ciò che viene preso in analisi. Proviamo quindi a ragionare sui termini di entrambi i discorsi. Quando Eraclito parla di pánta rheí, egli si riferisce al ragionamento compiuto su dati ottenuti dai sensi. Si usi come dimostrazione il frammento 91: “Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del 5 movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e tutto va” . Quest’affermazione si potrebbe analizzare attraverso due parole chiave: discendere e toccare. Quando si discende un fiume, l’azione è registrata attraverso i sensi, primo fra tutti la vista; l’atto di toccare una sostanza mortale è compiuto attraverso i sensi proprio perché il tatto è uno dei cinque e ogni dimostrazione è perciò ovvia. In questo discorso quindi Eraclito parla di una realtà che è quella sensibile (infatti egli la definisce come mondo delle cose), che secondo Parmenide non porta alla conoscenza di un essere vero. Inoltre l’intento di Eraclito, a differenza di Parmenide, non è quello di fare un discorso ontologico sulla realtà, proprio perché iniziatore dell’ontologia è lo stesso filosofo eleatico. Qualcuno, nonostante tali dimostrazioni, potrebbe dire che, siccome in Eraclito il mondo è governato dalla continua opposizione dei contrari, dalla cosiddetta guerra (in greco pólemos) che avviene fra di loro, è impossibile congiungere questa idea con quella di un essere unico e immutabile come quello parmenideo. In realtà tale affermazione è confutabile, poiché in Eraclito l’opposizione che genera la vita delle 6 cose è governata dal lógos, che è una “realtà eterna” , e si riconduce a esso, proprio come l’essere parmenideo: quindi con Eraclito assistiamo solo alla coincidenza fra essere e lógos, che Parmenide non contempla, anche se non abbiamo gli elementi necessari per escluderla. Prendiamo, inoltre, a dimostrazione della tesi un frammento molto interessante di Eraclito: 7 “Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno” . Si può ritenere tale frammento come prova principale della tesi, giacché Eraclito si “riconcilia” con il saggio di Elea proprio grazie ad esso, poiché, come quest’ultimo, qui ammette che il seguito della ragione porta a rendersi conto che tutto si riconduce all’unità essenziale. Come in precedenza dimostrato, quindi, il suo pánta reí si riferisce al mondo molteplice delle cose, al mondo sensibile, mentre il lógos è la via per arrivare a quella stessa unità espressa da Parmenide. Per tirare le somme, è da ritenersi giusto riallacciarsi al filosofo eleatico, poiché abbiamo visto come ciò che in apparenza sensibile è discorde, sotto il filtro ineluttabile della ragione, confluisce in una verità unica e onnicomprensiva. Note 1. da N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.1 A, ed. Paravia 2. da G. Giannantoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, 1969, trad. it. Di P. Albertelli, DK 28 B 8, vv. 5-8 3. Ibidem, DK 22 B 10 4. Ibidem, DK 22 B 114 5. Ibidem, DK 22 B 91 54 Assaggi di Filosofia 6. da N. Abbagnano e G. Fornero, in op. cit., pag. 37 7. da G. Giannantoni (a cura di), in op. cit., DK 22 B 50 Bibliografia N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1A, ed. Paravia, 2012 G. Giannantoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. Laterza, 1969 Luciano De Crescenzo, Storia della filosofia greca - I presocratici, ed. Mondadori, 1983 55 Assaggi di Filosofia L’essere: statico o dinamico? Di Maria Teresa Casiello "Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero / né l'abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi / a muover l'occhio che non vede, l'orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa / che da me ti è stata fornita. / Resta solo da pronunciarsi sulla via / che dice ciò che è."1 Con questo Parmenide ci dice di ricercare, valutare e osservare le cose con la ragione. Per lui la vera via è questa, e quella dei sensi (quella dell’occhio che in realtà non vede) è fallimentare ed illusoria. Il pensiero parmenideo risulta una sfida radicale al senso comune: arriva per vie razionali a contraddire ciò che sembra più evidente e naturale, ovvero che esistano più entità che nascono (si creano dal nulla) e si distruggono (che ritornano nel nulla). Parmenide afferma che nulla può generarsi dal nulla, né tanto meno ridiventare nulla… semplicemente il nulla non esiste. L’essere parmenideo è quindi fuori dalle categorie su cui si basa il mondo: il tempo e lo spazio. Per la sua filosofia, Parmenide si è trovato ad entrare in polemica con vari filosofi, tra i quali Eraclito. Per Parmenide la realtà eraclitea è falsa, in quanto, sostenendo il continuo mutare delle cose, si fa ingannare dai sensi, non arrivando a vedere la realtà delle stesse. D’altro canto parliamo di due filosofi con due visioni del mondo e dell’essere diametralmente opposte; da un lato vi è la staticità più totale, e dall’altro l’ininterrotta mobilità delle cose. Il punto è: quale delle due visioni è quella giusta? Spesso mi sono interrogata su questo, ma come sappiamo non si può mai arrivare ad una risposta sicuramente giusta in filosofia, ma a quella che può essere più giusta per noi. Può sembrare di sfociare in un eterno relativismo, ma esso, rimanendo contenuto in determinati ambiti, è necessario per mantenere l’equilibrio tra le persone. Per questo bisogna confrontarsi con altri, e una persona con una visione del mondo che potremmo definire parmenidea, potrebbe affermare che la visione eraclitea del divenire conduce ad una specie di nichilismo e che il continuo mutare delle cose conduce all'impossibilità di formulare giudizi autentici sulla realtà. Prendiamo come esempio Zenone; con dei paradossi lui riusciva a far apparire assurde le dottrine filosofiche che ammettono la molteplicità e il mutamento. Questa visione evidenzia una teorica incapacità dell’uomo nel dare giudizi o affermazioni obiettivi, derivante dall’inconsistenza dell’essere eracliteo, in quanto, essendo in continuo movimento, non è né quello che era poco prima né quello che sarà poco dopo. Viene da chiedersi, l’essere parmenideo nella sua staticità trova ragione della propria essenza? Ossia l’essere è perché concepibile come statico e non dinamico? Dunque l’essere è, in quanto ente o in forza delle qualità che lo caratterizzano? Parlare di staticità o dinamicità significa evidenziarne una qualità. Si potrebbe inoltre dire che il concetto di cambiamento dell’essere che Eraclito voleva trasmettere, sia da riferirsi alle qualità che lo caratterizzano, e che quindi definiscono la sua essenza. Ritengo quindi che il pensiero eracliteo dia una spiegazione esaustiva al fine della comprensione dell’essenza dell’esistenza mondo, in quanto si basa sulle categorie di spazio e tempo, che sono fondamentali per la comprensione di un mondo reale e non apparente. Ciò che oggi esiste è per ciò che è stato, pur differenziandosi da esso, ed è potenzialmente ciò che sarà ma che ancora non è. In base a ciò il “tutto scorre” di Eraclito sta ad indicare il divenire e il mutamento come processi propri dell’essere, sui quali poi si erge la sua essenza. 56 Assaggi di Filosofia Parmenide tra realtà e illusione Di Federica Santoro Essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere! Forse a molti quest'affermazione risulterà familiare ma è bene per chi non ne avesse mai sentito parlare fare una breve premessa. Si tratta del pensiero del famoso filosofo Parmenide, nato in Magna Grecia ad Elea e fondatore della scuola filosofica eleatica. Dunque, cosa intendeva dire Parmenide riguardo al concetto sull'essere? Parmenide afferma che adottando la via della ragione e non quella dei sensi si giunge alla verità e cioè alla consapevolezza che solo l'essere esiste ed ha ragione di essere pensato mentre il non essere non esiste e di conseguenza non può essere pensato. Da questo ne derivarono due principi: il principio di identità, per cui ogni cosa è se stessa, e il principio di non contraddizione, per cui una cosa non può essere e allo stesso tempo non essere ciò che è. A questo punto Parmenide espone la sua concezione dell'essere descrivendolo con tutta una serie di attributi. L'essere , dunque , è: -ingenerato e imperituro perchè se nascesse o morisse significherebbe crearsi dal nulla e dissolversi nel nulla e quindi implicherebbe il non essere; -eterno poiché altrimenti implicherebbe il non essere del passato e il non essere del futuro -immutabile e immobile perché se cambiasse o si muovesse significherebbe trovarsi in stati o in situazioni in cui prima non si trovava -unico perché se fosse molteplice implicherebbe intervalli di non essere -finito poiché per Parmenide la finitudine è perfezione Parmenide potè, inoltre, contare sull’appoggio di alcuni sostenitori tra i quali ricordiamo in particolare Zenone, suo allievo, che più volte ribadì le tesi del suo maestro. Nello specifico presentò tutta una serie di paradossi contro la pluralità e il movimento come ad esempio il paradosso “della freccia”: secondo Zenone, una freccia in movimento è in realtà immobile. La freccia infatti in un determinato istante occupa uno spazio pari alla sua lunghezza e quindi per ogni istante del tempo in cui la freccia si muove , questa è in realtà immobile. Altro sostenitore è Emanuele Severino, ordinario di filosofia teoretica all’ Università di Venezia. Questo , interrogato da Renato Parascandolo, dichiarò l’importanza del filosofo Parmenide e parlò del pensatore Karl Popper il quale proprio in merito a Parmenide disse la sua paragonandolo ad Einstein. Anche Einstein ,infatti, credeva che gli eventi della vita fossero istantanei e che non vi fosse un passato né tantomeno un futuro negando così il processo del divenire. Dopo questa breve parentesi sui sostenitori di Parmenide, viene però spontaneo chiedersi: quindi se noi nasciamo, muoriamo, siamo soggetti al tempo e alle trasformazioni, non siamo forse reali? Parmenide, infatti, dovendo affrontare una realtà che implica il non essere afferma che essa rappresenta solo un'illusione. Ma noi realmente possiamo definirci frutto di un'immaginazione? Noi possiamo credere che la nostra esistenza non sia reale e che tutto ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, tutto ciò che appartiene ai sensi sia una completa e assoluta apparenza? Su questo c'è da dissentire sicuramente. Le affermazioni di Parmenide scatenarono non poche discussioni dove molti misero in dubbio la veridicità di ciò che dicevano Parmenide e i suoi sostenitori. Ma da chi provenivano queste critiche? I suoi accusatori erano principalmente i filosofi sofisti. Come ci dice in un’intervista il professor Giannantoni, questi, essendo anche oratori, erano ostacolati dalla pretesa di Parmenide di non pronunciare nulla che fosse diverso dal discorso che dice “ è “. Per questo le loro orazioni diventavano povere verbalmente e poco efficienti. I sofisti dunque iniziarono, oltre ad esprimere il loro disaccordo sulle tesi parmenidee, a farne un’ironia proprio come fece il sofista Giorgia in una sua opera intitolata “ Sull’Essere” di cui però non ci è rimasto nulla se non due parafrasi : una di Sesto Empirico e l’altra di un aristotelico. Pienamente condivisibile poi è la critica di Platone. Egli nella sua opera IL SOFISTA si sofferma sui concetti di 57 Assaggi di Filosofia essere e Non essere chiarendo che l’espressione “non è” rappresenta semplicemente una diversità . Platone dice infatti: “ se dico che il tavolo non è la sedia intendo dire che il tavolo è diverso dalla sedia e quindi quel “ non è” non va a indicare la falsità del molteplice come per Parmenide. Platone dunque sostiene che il concetto di Non essere si risolve completamente nel concetto di alterità. Ancora più specifica e completa è la critica di un altro grande esponente filosofico: Aristotele. Egli si oppone anche alla concezione da parte di Parmenide di un essere unico affermando che invece l’essere si dice in molti modi e che quindi il diverso non è altro che uno dei tanti modi dell’essere ( Molteplicità dell’Essere). Abbiamo esposto ciò che sommariamente riguarda il filosofo Parmenide e abbiamo espresso la nostra contrarietà sulla sua teoria alla luce delle affermazioni di Aristotele e Platone. Abbiamo cercato di essere alquanto oggettivi, motivo per cui si è anche parlato dei sostenitori di Parmenide in modo da fornire gli elementi necessari a capire e conoscere meglio Parmenide. Lo scopo di tutto ciò era quello di rendere chiara a tutti i lettori l’assurdità delle idee del filosofo nel caso in cui ci fossero persone che non conoscendo tutti i retroscena potessero appoggiare Parmenide. Speriamo di essere riusciti nell’intento! 58 Assaggi di Filosofia L’uomo e la verità: dal relativismo protagoreo al principio di non contraddizione aristotelico di Clara Fabricatore Introduzione Se gli intellettuali sono espressione e manifestazione dell’epoca a cui appartengono, i sofisti rappresentano a pieno il particolare clima del mondo greco, ma soprattutto di Atene, a partire dal V secolo a. C. Il primo e il più importante esponente della sofistica fu Protagora di Abdera, al cui pensiero viene fatta risalire la prima forma di relativismo gneosologico, una concezione fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativodella conoscenza incapace di comprendere la realtà nella sua assolutezza oggettiva e nega, perciò, la possibilità di verità assolute. Affermare che le verità sono relative può significare tutto quanto niente, se prima non si precisa il quadro concettuale di riferimento e ogni valore, che tale dottrina filosofica vuole esprimere. La contestualizzazione, come l’analisi parola per parola dei frammenti pervenutici, acquista un ruolo fondamentale per la piena comprensione di una concezione filosofica così complessa e discussa come quella del relativismo. Basti pensare come, nel tempo, al solo termine stesso siano state attribuite forti connotazioni dispregiative da parte di quelle culture, che ritenevano sotto il profilo etico e politico, oltre che gnoseologico, insostenibili alcune sue posizioni basilari. Dunque, nel seguente saggio si cercherà di analizzare e sostenere, lungo un percorso storico – temporale, le tesi relativistiche gneosologiche sostenute da Protagora a discapito di tutto ciò quello che verrà successivamente affermato da filosofi, come Socrate, Platone e Aristotele. 1.Può l’uomo essere misura di tutte le cose? “L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in 1 quanto non sono”. Così sembra iniziasse l’opera di Protagora intitolata, su testimonianza di Platone, Αλήθεια. Tale frammento, che è fondamentale all’interno del pensiero protagoreo e letteralmente vuol significare chel’uomo è il metro della realtà o irrealtà delle cose, del loro modo di essere e del loro significato, va a sottolineare il ruolo ineliminabile dell’opinione nella conoscenza umana, negando la possibilità di conseguire una conoscenza oggettiva e immutabile. Il suo preciso senso filosofico, fin da sempre molto discusso, fu chiarito per la prima volta da Platone, la cui interpretazione ha continuato e continua ad essere la più accreditata. Secondo quest’ultimo, il sofista, intendendo per“uomo” l’individuo singolo e per “cose”gli oggetti percepiti attraverso i sensi, voleva dire che «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo 2 sei tu e uomo sono io» . Una successiva interpretazione sosteneva che la parola “uomo” avesse il significato universale di “umanità” e la parola “cose” quello di “realtà in generale”, intendendo che gli individui giudicassero la realtà attraverso parametri comuni tipici della specie razionale cui appartengono. È stato anche sostenuto che i termini in questione significassero rispettivamente la comunità cui l’individuo appartiene e i valori che ne stanno alla base, così che il frammento intendesse dire che ognuno valuta le cose secondo la mentalità del gruppo sociale cui appartiene. Non è possibile affermare che una di queste interpretazioni sia più valida dell’altra, in quanto è difficile stabilire con precisione ciò che voleva veramente intendere Protagora, ma è probabile che voleva riferirsi complessivamente e indistintamente a tutte. Ergo si pensa che l’uomo protagoreo sia misura di tutte le cose ai vari livelli della sua umanità: in primo luogo come singolo, poi come comunità e infine come specie. La variabilità della conoscenza, sostenuta dal sofista di Abdera, dipende dalla indeterminazione sia del soggetto sia dell’oggetto. In questo modo egli insegna ai suoi 59 Assaggi di Filosofia contemporanei ad avere “paura” della verità assoluta e inconfutabile, la quale è sempre destinata a diventare dogma e a necessitare di un forte culto e, quindi, rifiuta proprio il carattere assolutistico, magico e sacrale della verità, che era tanto caro a tutta una tradizione filosofica. Inoltre, sostituisce alla concezione oggettivistica e assolutistica una umanistico – storicistica, secondo la quale la verità è ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo, alla comunità e alla specie. La verità, allora, si fa interamente umana, si concede concretamente alla polis, al dibattito pubblico, alla politica, al rapporto educativo e pedagogico, come viene attestato dal seguente estratto del dialogo platonico Protagora. “Protagora, intendi per caso le cose che non sono utili a nessun uomo, o quelle che non sono utili in assoluto? Anche queste tu chiami buone?” “Assolutamente no. Ma conosco molte cose che sono dannose agli uomini, cibi, bevande, farmaci e mille altre e alcune che invece sono utili. Altre poi non sono né utili né dannose agli uomini, mentre sono utili ai cavalli; altre solo ai buoi, altre ai cani; altre a nessuno di questi, ma agli alberi. Quelle che sono buone per le radici degli alberi sono dannose per i germogli. Il letame, ad esempio, se dato alle radici è utile a tutte le piante, se invece fosse usato per i germogli e i ramoscelli giovani, li distruggerebbe completamente. L’olio poi è assolutamente dannoso per tutte le piante e ancora più dannoso per i peli di tutti gli animali, eccetto l’uomo; è infatti utile ai peli dell’uomo e al resto del corpo. Il bene è così variegato e multiforme che la stessa sostanza è utile all’uomo per le parti esterne del corpo, mentre è molto dannosa per quelle interne. Per questo motivo tutti i medici impongono agli ammalati di non usare olio, se non in piccolissime quantità nei 3 cibi, quanto basta ad attenuare l’odore fastidioso dei cibi e delle bevande”. L’individuo è variabile e le sue sensazioni sono ugualmente vere ciascuna nel momento del suo accadere e, quindi, l’unica conoscenza possibile non sarà la verità assoluta, ma la doxa. Inoltre, è misura e può conoscere soltanto quando può misurarsi, confrontarsi con l’oggetto e, soprattutto, può entrare in rapporto con esso, ma ciò non può assolutamente avvenire con gli dei. "Riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che non sono: molte sono infatti le difficoltà che 4 si frappongono: la grande oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana". (frammento 4) Gli dei vanno oltre la misura possibile all’uomo, il quale è impossibilitato, dal momento che non può stabilire un rapporto con ciò che esula dall’esperienza personale e non può essere oggetto di conoscenza. In altri termini ciò che l’uomo vedeva era certo, mentre ciò che non trovava prova nell’esame diretto non poteva essere conosciuto. Oggi, però questo dato subisce notevoli eccezioni, perché specie in relazione ai progetti della scienza e della conoscenza in genere ci sono stati notevoli progressi e ,infatti, vi sono una serie di eventi e fatti, che non sono percepibili all’uomo, ma di cui si è certi: non vediamo l’atomo, ma abbiamo la certezza che esso esista. Comunque Protagora non negava il problema degli dei, ma lo riteneva irrisolvibile, affermando così la prima professione filosofica di agnosticismo religioso, secondo cui Dio non è razionalmente affermabile o negabile, in quanto non si possiedono strumenti mentali adeguati per ammetterne o escluderne l’esistenza. Naturalmente ciò comporta che gli dei non possono essere disposti come termine di differenziazione per caratterizzare l'uomo, come fin ad allora era accaduto, e, quindi, Protagora è “costretto” a individuare questo secondo termine di paragone negli animali. Il relativismo protagoreo è lo sviluppo logico di alcune teorie sostanzialmente ontologiche di Eraclito e ne affonda radici in dottrine come quella dei contrari, secondo la quale: “L’opposto 5 concorde e dai discordi bellissima armonia” . Infatti, il sofista sostenne il fluire ed il divenire delle cose come dati innegabili della realtà, che ci circonda, e allo stesso tempo accolse l'idea della diversità delle sensazioni e dei gusti. Invece di opporre a questa realtà dominata dalla doxa, cioè dall'opinione, un mondo di verità ideali o addirittura il granitico concetto di essere parmenideo, accettò la realtà del mondo e si persuase che era anche possibile istruire gli uomini a comprendere la diversità ed il valore della diversità, avendo come fine non un generico riconoscimento del pluralismo, ma una maggiore comprensione reciproca per poi arrivare a decisioni concordi e, soprattutto, utili al singolo e alla comunità. Nonostante Protagora non si presenti come un negatore 60 Assaggi di Filosofia della verità, ma come il filosofo che ha ridefinito questa come pluralità di verità, Socrate si oppone alla sua deriva relativisitica con la sua appassionata ricerca della verità su di ogni argomento. La ricerca socratica con la scoperta del “concetto” è arrivata a stabilire che su di ogni argomento l’uomo attraverso un dialogo sincero, è in grado di concepire un concetto, valido per tutti e perciò comunicabile. Come per i sofisti la verità si riduce alla doxa, che si riferisce all’estrema variabilità del soggetto conoscente, dando luogo ad una sorta di relativismo assoluto, per Socrate la verità si ripropone come percorso di ricerca intersoggettivo e in quanto tale universale, rivolto all’eliminazione delle false opinioni. Lo scopo della conoscenza si configura così come un percorso di approssimazione alla verità che lascia sempre aperta la strada ad ulteriori sviluppi, in un processo ad indefinitum, ma che lo contrappone veramente ai sofisti e al relativismo gnoseologico è la fiducia nella capacità razionale dell’uomo di seguire il medesimo percorso di approssimazione alla verità universale. Ma questo viene veramente messo in discussione e, dunque, crolla con Platone, in quanto nel platonismo non è più l’uomo a misurare la verità, ma è la verità, cioè le cosiddette idee, a misurare l’uomo e a fornirgli le regole del pensare e del vivere. Così la conoscenza torna ad avere un valore assoluto e cessa di essere relativa all’uomo e al soggetto giudicante. Inoltre egli nel Teetetosostenne che, se tutto fosse vero, dovrebbero essere vere pure le tesi false, poiché affermare qualcosa di diverso significa necessariamente cadere nell’errore. Ne consegue che è vero ritenere che ciò che dice Protagora è falso, dal momento che tutto è vero. Ciò che la critica platonica non riesce proprio a concepire è, quindi, la doxa di Protagora, che appare come l’esatto contrario della verità. Ma il filosofo che criticò fermamente il sofista di Abdera e la sua tesi fondamentale, cioè che l’uomo fosse metro di tutte le cose, fu Aristotele, il quale, affermando l’esistenza di indiscutibili verità di ragione, si colloca sul versante opposto rispetto ad ogni forma di relativismo. Egli all’interno del quinto e del sesto libro della sua opera intitolata Metafisica definisce quella di Protagora come una figura complessa, i cui interessi possono essere collocati tra filologia e filosofia. “Se le cose stessero come dice Protagora [cioè ognuno ha la sua verità], allora tutti avrebbero sempre ragione, nessuno penserebbe il falso, perché ognuno è certo in un dato momento di quello 6 che gli sembra, di quello che gli appare” . Come attesta tale estratto, in primo luogo, viene rivolta l’ accusa di contraddittorietà, perché se l'uomo fosse misura di tutte le cose non ci sarebbe alcun criterio per distinguere il vero dal falso. Secondo il principio di non-contraddizione sostenuto da Aristotele, il quale regge tutto il nostro pensiero e il nostro modo di agire, la verità su di un argomento e sul medesimo aspetto di quell’argomento non può che essere una sola. Inoltre, è inconcepibile che ogni qual volta che gli uomini hanno opinioni differenti riguardo ad un medesimo oggetto, tutto ciò che viene sostenuto, in quanto scaturito da sensazioni, è vero. Ciò porterebbe a considerare vere nel medesimo tempo anche le enunciazioni contrastanti, ma da ciò ne conseguirebbe l’affermazione del principio di non contraddizione, perché chi nega quest’ultimo in realtà lo afferma. Un’ulteriore contraddizione nel pensiero protagoreo, che viene riscontrata da Aristotele, sta nel dover ammettere che anche gli animali, in quanto pieni possessori di forti sensazioni, abbiano una visione parimenti sostenibile a quella umana e possano essere sapienti al pari degli uomini. Inoltre, egli afferma che “in ordine alla verità non tutto ciò che appare è vero”. Ciò vuol dire che Protagora fondamentalmente commetteva un’ulteriore errore, considerando verità ciò che appare, poiché egli prima di tutto ignorava la sostanziale differenza tra verità e opinione. Quando egli afferma che ognuno ha la sua verità, egli in realtà dice che ognuno ha una sua “opinione”, che può essere sbagliata o vera. Non è possibile considerare il pensiero protagoreo giusto a discapito di quello aristotelico, o viceversa, perché entrambi possono essere ritenuti validi. Però bisogna fare molta attenzione, ogni qual volta si sostiene uno dei duo o, comunque, qualsiasi cosa, nel non estremizzare e, quindi, rendere immorali le tesi in cui si crede. Pertanto, non è affermabile una verità assoluta, che potrebbe essere tale solo “rationis temporibus”, dal momento che, modificate le condizioni obiettive, è molto probabile che cambierebbe. A tal riguardo può essere esemplificativo anche l’esame di fatti di 61 Assaggi di Filosofia cronaca o di giustizia, si pensi ad un imputato dichiarato colpevole per un grave reato sulla base di prove ritenute certe, che, a distanza di anni e con la scoperta di nuove tecniche investigative, si scoprono essere false. Quest’ultimo può essere un banale esempio per sottolineare ancor di più quanto la verità sia relativa, così da poter sostenere, almeno in parte, al tesi del sofista Protagora. Infatti, il principio “rebus sic stantibus” non deve condurre a una situazione di incertezza assoluta per l’essere umano in ragione della possibilità che, mutando le condizioni obiettive, si cambi idea e, quindi, si ottenga un risultato di verità diverso. In conclusione, non si può stabilire quale delle dottrine filosofiche, su cui si è discusso, sia la più valida e applicabile alla realtà, perché ognuno di essa contiene e sostiene un verità, che, per quanto possa essere relativa, deve, comunque essere tenuta in considerazione. Note 1. Platone, Teeteto, 151d – 152e, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971. 2. Ibidem. 3. da Platone, Protagora, 334 a-c, trad. di M.L. Chiesara, ed. Rizzoli, 2010 4. Diogene Laerzio,Vite dei filosofi, libro IX, cap. VIII, trad. di Marcello Gigante, Mondadori, 2009. 5. N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, pag. 48, ed. Paravia, 2012. 6. Aristotele, Metafisica, 1062, b 14. Bibliografia N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1A, ed. Paravia, 2012. Diogene Laerzio,Vite dei filosofi, trad. di Marcello Gigante, Mondadori, 2009. Platone , Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971. Platone, Protagora, trad. di M.L. Chiesara, ed. Rizzoli, 2010. Aristotele, Metafisica. 62 Assaggi di Filosofia Democrito: l’atomismo può essere una forma di materialismo? Di Sara La Torraca Introduzione Secondo il geografo Strabone, il quale a sua volta cita Posidonio, l’atomismo greco può essere riconducibile ad una figura conosciuta come Mosco o Moco di Sidone, vissuto al tempo della guerra di Troia.1 Tuttavia il primo filosofo a cui può essere riferita con sicurezza la teoria atomistica è Leucippo di Mileto, maestro di Democrito, che ricevette ad Elea l’insegnamento di Zenone. Le sue idee furono riprese e sistematizzate dal suo allievo Democrito. Democrito distingue la materia e il vuoto. È questa la fisicizzazione del binomio eleatico di essere e non essere: l’essere è inteso come pieno e il non essere come vuoto. Il pieno viene identificato da Democrito come materia e il vuoto come lo spazio nel quale essa si muove. L’unica differenza rispetto alla visione parmenidea è l’ammissione dell’esistenza del vuoto e di conseguenza del non essere. Come ha osservato Gabriele Giannantoni, filosofo scomparso nel 1998: “Questo potrebbe sembrare strano, perché se il vuoto esiste, se lo spazio è reale, perché Democrito lo chiama “non essere”? Lo chiama “non essere” perché è “privo di essere”, cioè privo di atomi. (…) Questo modo di esprimersi, questo modo di presentare le cose sul piano linguistico, non può non richiamare Parmenide e l’eleatismo: la contrapposizione di essere e di non essere era tipica dell’eleatismo. Democrito in qualche modo la riprende, ma sempre tenendo fermo il principio costante dei pluralisti che la caratteristica dell’essere è quella di rimanere eternamente identico a se stesso, mentre tutto ciò che diviene, che nasce, che muore e si trasforma è soltanto mera opinione.” 2 1. La materia è dunque costituita da atomi, ossia da particelle indivisibili “Il termine “atomo” indica ciò che indivisibile, e quindi “atomo” è l’ultima realtà a cui io posso pensare di pervenire scomponendo il mondo fenomenico, il mondo che io vedo. Il mondo che io vedo è il risultato dell’aggregazione degli atomi, la nascita delle cose è l’aggregarsi degli atomi, la loro morte è la separazione degli atomi”.3 Infatti la divisibilità all’infinito può valere soltanto in campo logico matematico, non nella realtà, poiché se noi dividessimo all’infinito la materia non rimarrebbe più nulla: “Gli atomi si oppongono a questa infinita divisibilità, non perché io non possa pensare gli atomi come entità ulteriormente divisibili, ma perchè in realtà io non sarei mai in grado di dividerli, perché essi oppongono a questa divisione una pienezza e una durezza che li rende indivisibili. Quindi è una indivisibilità reale, rispetto alla quale nulla può la divisibilità che io posso immaginare con il pensiero.” 4 Democrito riteneva che l’atomo avesse delle caratteristiche essenziali. Riprendendo l’essere Parmenideo, affermava che gli atomi sono: pieni, immutabili, ingenerati ed eterni. Essi, in effetti, non presentano differenze dal punto di vista qualitativo, ma differiscono soltanto per forma geometrica e grandezza; determinano la diversità e il mutamento con i loro rapporti d’ordine e posizione: “la forma è una categoria misurabile e quindi rientra nel mondo della quantità. È Aristotele che ci informa su questo aspetto della dottrina democritea. Democrito diceva che gli atomi sono diversi per forma, per posizione e via dicendo e Aristotele fa l’esempio delle lettere alfabetiche: la lettera “e lunga”, la “eta” dell’alfabeto greco, si scrive maiuscola come un’acca: H. Se messa verticalmente ha una figura; se messa invece orizzontalmente assomiglia di più ad una Z. Questa varietà di forme è quella che spiega perché gli atomi non rimbalzano tra loro e si ridisperdono, ma si possono uncinare e aggregare e formare i composti solidi.”5 Ma queste particelle ultime erano di dimensioni estremamente piccole? Non necessariamente la piccolezza era un connotato importante degli atomi. Come osserva ancora Giannantoni: “nella tradizione atomistica antica ci furono anche ammissioni di atomi molto grandi. Gli atomi non 63 Assaggi di Filosofia cadono sotto la conoscenza sensibile, sono conoscibili solo mediante la conoscenza razionale e non mediante la conoscenza sensibile, appunto perché gli atomi sono realtà non solo semplici ma sprovviste anche di ogni qualità: quindi non sono percepibili.”6 Riguardo al movimento degli atomi vi è qualche incertezza. Si pensa che il movimento delle particelle sia rappresentato da “un volteggiare caotico in tutte le direzioni” fino a formare aggregazioni i. Inoltre, essendo gli atomi infiniti, secondo Democrito da essi si generavano infiniti mondi che nascevano e morivano in continuazione. “La cosmogonia di Leucippo, che non si può distinguere da quella che Democrito espose nei suoi due Diacosmoi o Sistemi del Mondo, è fedele allo schema Milesiano: una massa infinita da cui sarà prelevata la materia di innumerevoli mondi, che si producono successivamente o simultaneamente; affinché un mondo si formi, basta che un frammento si distacchi da questa massa e che sia animato da un movimento vorticoso (…) L’ammasso di atomi è, lo abbiamo detto, un movimento vorticoso di cui l’origine è peraltro oscura; l’effetto di questo movimento è quello di produrre vari scontri tra atomi di qualsiasi peso. Come si verifica in una raffica di vento o di acqua, gli atomi più leggeri sono respinti verso l’esterno, invece gli atomi compatti si riuniscono al centro, dove formano un piccolo raggruppamento sferico; in questa sfera si distinguerà poco a poco un involucro anch’esso sferico, che si assottiglia sempre più e un nucleo centrale al quale si aggregano gli atomi strappati alla membrana”.7 2.Ma l’atomismo può essere considerato come una forma di materialismo? Come si è già detto, secondo l’atomismo la materia è composta da atomi. Il materialismo concepisce la materia come unica sostanza e causa delle cose. Partendo da questi presupposti possiamo dedurre che, se le cose reali sono formate da materia, e a sua volta la materia sarà composta da atomi, l’atomismo può essere considerato come una forma di materialismo. Dato che gli atomi compongono la materia aggregandosi, si potrebbe dire che l’atomismo è una sorta di branca del materialismo. Un filosofo antico, per esempio, avrebbe potuto credere nella materia, ma non negli atomi, oppure poteva essere convinto di entrambe le ipotesi; sarebbe risultato incoerente però credere agli atomi ma non alla materia. Anche se in quest’ultimo caso Epicuro rappresenta un’eccezione: egli, pur accettando sia la teoria atomistica sia quella materialista, ammette l’esistenza delle divinità, sebbene confinate in un’area chiamata intermundia, dove esse vivono beate, disinteressandosi completamente del genere umano. Questi due sistemi di pensiero, atomismo e materialismo, sono strettamente collegati fra di loro per una semplice ragione: entrambi condividono l’idea che non ci sia nessuna verità metafisica o spirituale. Infatti per Democrito ogni cosa è materia e ha una sua realtà, egli crede che persino l’anima sia composta da atomi (quindi che sia materiale) e che dopo la morte essa si disgreghi esattamente allo stesso modo del corpo; secondo la sua convinzione non esiste vita spirituale dopo la morte del corpo. Si ha un modello materialistico dell’uomo dotato di un’anima corporea fatta di atomi “psichici”, di natura ignea mobile e sottile. 3. Bilancio conclusivo Anche secondo Giannantoni l’atomismo può essere considerato una forma di materialismo, ma egli afferma: “Si dice comunemente - o è diventato consuetudine ripetere - che l’atomismo sia una forma di materialismo. In un certo senso questo è vero, perché sia Democrito e poi anche Epicuro, rifiutano ogni distinzione tra mondo naturale e mondo spirituale: l’anima sia per Democrito che per Epicuro, ma anche gli dei per Epicuro, sono composti atomici come qualunque altra realtà. Tuttavia bisogna fare attenzione quando si adoperano queste categorie. Nel Sofista Platone presenta un grande contrasto tra due visioni del mondo: una è quella materialistica e l’altra è quella che egli attribuisce alle “idee”. Nel descrivere la concezione materialistica Platone dice che 64 Assaggi di Filosofia essa è propria di uomini che credono solo in quello che toccano, quindi il materialismo è fondato su una conoscenza di tipo sensibile: quello che non si tocca, quello che non si vede, quello che non si odora, non esiste. Ora, se noi dovessimo applicare questo criterio anche a Democrito, ci accorgeremmo che gli atomi di Democrito (…) non dovrebbero essere materiali. Potremmo dire lo stesso delle idee di Platone; e come Platone ritiene veramente reali le idee, ugualmente Democrito ritiene veramente reali gli atomi. Da questo punto di vista, contrapporre la filosofia di Democrito alla filosofia di Platone come materialismo e idealismo è al di fuori del quadro storico del V e IV secolo a. C.; tanto peggio, poi, se addirittura si sostiene che la filosofia di Democrito è superiore a quella di Platone perché materialista o se si dice che quella di Platone è superiore a quella di Democrito perché è idealista. In realtà, la tradizione ci dice che Platone nutrì una profonda inimicizia per Democrito (…)La ragione di questa inimicizia, però, forse va ricercata non nella contrapposizione di atomi e idee, perché i punti di affinità sono molto maggiori, ma nel fatto che Democrito propone una concezione deterministica della realtà, cioè una realtà determinata dalle cause e dalle condizioni precedenti e quindi legata ad una situazione di necessità, mentre Platone propone una visione del mondo finalistica, cioè determinata non dalle cause che precedono, ma dal fine verso cui tutta la realtà converge. Quindi, sul piano storico, è molto più adeguata una contrapposizione tra determinismo e finalismo che non una contrapposizione tra materialismo e idealismo.” 8 Note 1.S. BERRYMAN, “Ancient Atomism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2011 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = <http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/atomism-ancient/>. 2. G. GIANNANTONI, L’atomismo nel mondo antico, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, URL= <http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_168.htm> 3.IBIDEM. 4.IBIDEM. 5.IBIDEM. 6.N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014, p. 77. 7.É. BRÉHIER, Histoire de la philosophie, Paris, 2004, pp. 69-70. 8. GIANNANTONI, op. cit. Bibliografia N. ABBAGNANO, G. FORNERO, , La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol. I, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014. BERRYMAN, S., “Ancient Atomism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2011 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = <http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/atomism-ancient/>. BRÉHIER, É., Histoire de la philosophie, Paris, 2004. GIANNANTONI, G., L’atomismo nel mondo antico, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, URL= <http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_168.htm> 65 Assaggi di Filosofia L'uno. Il tutto. Di Raffaella Cardellicchio Introduzione Simbolo dell’Inizio, l’Uno è per eccellenza il numero dal quale scaturisce un'idea. “L'uno è proprietà del reale. A seconda che l’uno sia considerato o in quanto realtà o in quanto connotazione di ciò che esiste, si diversificano concezioni che vi riconoscono un principio sovraontologico, ossia prioritario e superiore rispetto all’essere, e prospettive ontologiche, in cui l’uno si risolve nell’essere” (Dizionario Treccani definizione di uno in filosofia). La sua nascita risale al 250 AC circa, ed è dovuta al logico stoico Crisippo. Prima di allora i numeri interi venivano considerati come la “misura di una molteplicità” mentre l’unità veniva percepita come il contrario di una molteplicità. In particolare, non come l’inizio della serie dei numeri, bensì come il loro “arché”, “principio” o “origine”. Una differenza sottolineata dal fatto che la moltiplicazione per uno non ha nessun effetto, diversamente dalla moltiplicazione per qualunque altro numero. Nella ''Metafisica'' Aristotele cercò di mediare fra le due posizioni, distinguendo da un lato “l'unità di misura”, e dall’altro la “molteplicità del misurato”. Ma Crisippo capì che non c’era bisogno di mediazioni: bastava considerare l’unità come la misura di una molteplicità “degenere”, e dunque come un numero a tutti gli effetti. Quegli zeri primordiali che sono il Nessuno e il Nulla ammettono sia negazioni come Qualcuno e Qualcosa, sia contrari come Tutti e Tutto. Benché queste distinzioni risalgano al trattato sull’interpretazione di Aristotele, i filosofi e i letterati tendono a ignorarle, e quando parlano dell’Uno finiscono spesso col fare una gran confusione. Infatti lo intendono a volte in maniera relativa, come unità o unicità di un “tutto unico”. E altre volte in maniera assoluta, come totalità del “tutto esistente”, all’insegna del motto “Uno per Tutto, e Tutto per Uno”. 1. Tesi La mancanza del numero uno non aveva comunque impedito in precedenza agli uomini di considerarne degli analoghi nei campi più disparati, come già era successo per lo zero. Se Qualcuno e Qualcosa vengono presi in un senso sufficientemente generico, possono comunque indicare qualunque persona e qualunque cosa. Ma a volte vengono intesi in un senso più specifico, come nella popolare e diffusa religione del qualcosismo, basata sulla vaga e incerta credenza che “qualcosa ci dev’essere”, “qualcosa c’è”, o “qualcosa ci sarà”. E spesso il cerchio si chiude, quando quel “qualcosa” viene identificato con un “qualcuno”, che è il dio venerato nel qualcunismo. Una versione teologicamente più elaborata del “qualcunismo” è il monoteiteismo. La qualifica è però ambigua, può indicare in senso assoluto, che "c'è un unico Dio”, e altri non ce ne sono. O, in senso relativo, che c'è un unico vero Dio”, e tutti gli altri sono “falsi e bugiardi”. Il monoteismo è oggi largamente praticato in Occidente, ma ha un'origine mediorientale. La sua invenzione si deve ad Akhenaton, "Servo di Aton", verso il 1350 A.C. sostituì il variopinto pantheon egizio, popolato da una schiera di creature mitologiche capitanate da una sorta di Giove chiamato Amon, con il culto di un unico principio vitale, identificato nel disco solare e chiamato Aton.26 66 Assaggi di Filosofia Viceversa, il politeismo è spesso il travestimento di un monoteismo, quando trascende le distinzioni tra i propri dèi. Ad esempio, nell’induismo Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente Creatore, Presentatore e Distruttore dell’universo, sono tre forme di un unico Brahman. Nell’antica religione egizia, Iside assommava tutte le divinità e veniva chiamata “colei che ha diecimila nomi”. E nella tarda religione greca, Apollo era una sorta di super divinità dell’ecumenismo panellenico, dagli innumerevoli epiteti: in particolare, secondo l’Oracolo di Delfi di Plutarco, il suo stesso nome veniva interpretato come “a-polloi”, “non molti”, e dunque letteralmente “uno”. In filosofia il monoteismo prende le forme del monismo, che afferma la vera realtà del solo Uno, in contrapposizione alla falsa apparenza della molteplicità. Ciò nonostante, e paradossalmente, di questo “Uno” ce ne sono molti, a seconda di come lo si declina. Ad esempio: •Per il monismo materialista l’Uno è la materia, per il monismo idealista lo spirito, e per il monismo neutro qualcos’altro da specificare. •Per il monismo sostanziale l’Uno è una sostanza, ma per il monismo individuale è un individuo. Parola, questa, che significa letteralmente “indivisibile” o “inseparabile”: dunque, appunto, “uno”, come sottolinea l’inglese one-self per “se stessi”. •Per il monismo assoluto l’Uno è tutto, ma per il monismo relativo è solo qualcosa: ovviamente sempre con l’articolo determinativo e la maiuscola, cioè quel particolare Qualcosa. In Occidente la dottrina che “l’Uno è il Tutto” ha trovato i suoi primi seguaci nella “Banda dei tre P greci”, ciascuno con il suo stile letterario: Parmenide nel poema Sulla natura, Platone nel dialogo Parmenide, e Plotino nei saggi delle Enneadi. A loro ha fatto seguito una lunga lista di predicatori, dai neoplatonici rinascimentali agli idealisti tedeschi, che a seconda dei casi hanno chiamato l’Uno: Anima Mundi, Monade delle Monadi, Spirito Assoluto, Essere, Materia, Energia, Natura, Universo... Parmenide, parlando dell'essere affermò il valore unico di quest'ultimo 27. Egli giunge al culmine della “via” a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza del non essere, e la parimenti assoluta esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero. All’essere non potrà venire riferito – sempre per l'opposizione ora accennata – alcun attributo che possa in qualche modo diminuire la positività, assimilandolo al non-essere. Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invariabile, immobile, eterno. Qualche critico moderno però (come Untersteiner) ha ritenuto che Parmenide avesse concepito l'essere come “totalità” e non come “unità”. L'erronea interpretazione del suo pensiero sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di Teofrasto che attribuisce a Parmenide il famoso sillogismo: “Quello che oltre l'essere non esiste; quello che non esiste è nulla; dunque l'essere è uno.” L'attributo dell'unità, con cui polemizzò Aristotele, risalirebbe soltanto a Melisso. Come possiamo conciliare la concezione parmenidea dell'essere col fatto incontrovertibile che l'esperienza ci presenta ogni momento degli esseri molteplici, variabili, temporanei? Di fronte a questo stato di cose – risponde Parmenide – non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea fiducia nell'esperienza, riconoscendo che essa costituisce per l'uomo un esperienza fallace e illusoria. Venne notato dai pitagorici come l'uno avesse diverse particolarità rispetto agli altri numeri. Questo aveva una posizione particolare nella serie numerica: preso in senso ristretto questo appartiene alla categoria del dispari; ma, in senso più largo guardando la generazione di tutta la serie, esso ne costituisce il principio formatore, poiché, aggiungendosi al pari, produce il dispari, al dispari, il pari. Perciò la sua natura trascendente la dicotomia: esso è la sintesi di due termini, questo è il parìmpari. Questa considerazione lo distacca a poco a poco al di sopra del livello degli altri numeri e ne prepara l'assunzione in una sfera filosofica più elevata, dove lo troveremo in seguito. 67 Assaggi di Filosofia Per Filolao tutto era generato dal “Uno”, e governato da leggi che sempre all’”Uno” potevano portarsi senza contraddizione, il numero era tuttavia atto a fungere da limite al molteplice perché ne rifletteva in se la struttura; ma la rifletteva in modo tale da renderla omogenea all’”Uno” e alla sua legge. Si consideri ad esempio la decade ( il numero dieci): secondo l'analisi di Filolao essa comprende in sé tutti i possibili rapporti aritmo-geometrici che si originano a partire dall'unità ed è perciò stesso atta a comprendere ed ad organizzare in modo molteplice28. Si hanno tracce del pensiero di Filolao anche nella cosmologia. Egli diceva, infatti, che l’”Uno”, ipostatizzato fisicamente nel “fuoco”, sta al centro del cosmo; dal suo rapporto con l'infinito circostante – un rapporto paragonabile al processo della inspirazione ed espirazione – si è generato tutto quanto il cosmo, che, come abbiamo visto, consta di una sintesi inscindibile di “Uno” e molti, di limitante e limitato. Eraclito29,nonostante abbia delle idee opposte ai suoi precedenti, anche per lui il divenire sembra consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: “Tutte le cose sono Uno e l'Uno tutte le cose”; “questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà”. Da questa visione immanentistica del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo. Dopo Eraclito è comunque Empedocle a riassumere i caratteri dell'Uno dentro lo Sfero, nel quale i quattro elementi costitutivi della natura si trovavano originariamente uniti insieme dalla forza attrattiva dell'Amore. A grandi linee potremmo definire l'Uno come il principio indicante l'unità del Tutto. Come si può immaginare dalle vicende della teologia negativa, anche la dottrina che “l’Uno è il Nulla” ha avuto i suoi predicatori. Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato Edgar Allan Poe, che nel poema in prosa “Eureka” (1848) ha temporaneamente abbandonato i racconti dell’orrore per dedicarsi a un saggio dello stesso genere.I risultati delle sue ricerche li ha riassunti lui stesso nel 1848, in una lettera a George Isbell: “lo mostro che l’Unità è il Nulla. Tutta la materia, che origina dall’Unità, è originata dal Nulla, nel senso che è stata creata. E tutta ritornerà all’Unità, cioè al Nulla”. Naturalmente, le due dottrine messe insieme riportano per transitività al nichilismo del “Tutto è Nulla”, che era appunto il succo della speculazione di Plotino. L’identificazione di Uno, Nulla e Tutto ha poi trovato una rappresentazione metaforica nel libro “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello (1926), che la applica alla coscienza del protagonista: in un processo di graduale disfacimento, essa parte dall’unicità e approda alla frammentazione, passando per l’annullamento. In antitesi all'idea di Poe vi è quella di Antoine Lavoisier che con la legge di conservazione della massa dice: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Lavoisier, elimina così l'idea che qualcosa possa nascere o morire nel nulla. Si viene così a concepire l'Unità come il Tutto. Condivide questa idea anche Edwin Abbot nella Puntolandia nel racconto Flatlandia (1884) “Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo. Non può concepire altri, fuor di se stesso. Non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza. Non ha cognizione nemmeno del numero Due, né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto”. 2. Bilancio conclusivo 68 Assaggi di Filosofia In fisica, le unità individuali sono i quanti e le particelle elementari. In chimica, gli atomi e le molecole. In biologia, le cellule e gli individui delle varie specie. In astronomia, i vari corpi celesti: pianeti, comete, asteroidi e stelle. In musinologia, i sistemi stellari e le galassie. Ma anche e soprattutto l'universo, che letteralmente significa “a senso unico”, e dunque dovrebbe essere uno solo per definizione, in una nuova versione della millenaria tensione fra Uno e Tutto. Oggi però la teoria dei pluriversi, anticipata da William James in Un universo pluralistico (1909), postula l’esistenza di molti ossimorici “universi”, per ora soltanto ipotetici. In aritmetica, anche prima di venir considerato come un numero alla pari degli altri, l'uno è stato percepito come il loro principio generatore, e per estensione come un’immagine dell’Uno filosofico. La monade, primordiale ed eterna, s'identifica immediatamente con l'immagine stessa di questa totalità, che prendeva il nome di Completamento, Perfezione, o addirittura Divinità: ciò al di qua e al di là del quale non si poteva pensare niente. “L'uno è solitudine, due è il numero che separa, tre il numero che supera la separazione; l'uno e il molteplice si trovano riuniti e circoscritti nella Trinità: è l'ordine ineffabile nella Divinità dove ciascuna delle Persone è nelle altre. (Pavel Nikolaevič Evdokimov)” “Va osservato che il numero non è qualcosa di fisso e determinato, che esista realiter nelle cose. Esso è esclusivamente una creatura dello spirito. Così accade che risultino: una finestra = 1; una casa, in cui vi siano molte finestre, = 1; una città, formata da molte case, sempre = 1. (George Berkeley)”. Note 1. Qualche secolo dopo Mosè, o chi per esso, introdusse il monoteismo fra gli Ebrei. Il decalogo ebraico è però ambiguo al proposito, perché il primo comandamento recita testualmente: “Non avrai altri dèi di fronte a me”, e sembra dunque incitare all’adorazione di un solo Dio, più che all’affermazione della sua unicità.Il Credo cristiano professa invece un monoteismo trinitario, in cui un unico Dio si presenta nella forma di tre persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo. Molti però ritengono il “monoteismo trinitario” un ossimoro, e lo considerano una forma di politeismo mascherato. Non tutti i Cristiani sono però d’accordo sul Credo: ad esempio, gli antichi Ariani e i moderni Unitari ritengono che il Figlio non sia Dio, ma solo un mediatore tra il Padre e l’uomo. 2 .“L'essere … è infatti un intero tutt'uno, immobile e senza fine. Non era mai o sarà, perché è ora tutto insieme Uno, continuo”. (Parmenide di Elea, Sulla natura, fr. 7). 3.Più efficaci di ogni spiegazione critica sono le parole di Filolao sulla decade: “L'essenza e le opere del numero devono essere giudicate in rapporto alla potenza insita nella decade; grande è infatti la potenza (del numero) e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina, celeste e umana, in quanto partecipe della potenza della decade; senza questo tutto sarebbe interminato,incerto ed oscuro. Conoscitiva è la natura del numero, direttrice e maestra per ognuno in ogni cosa che gli sia dubbia o sconosciuta. Perciò nessuna delle cose sarebbe chiara ad alcuno né per se stessa né il rapporto alle altre, se non ci fosse il numero e la sua essenza. Per questo, armonizzando tutte le cose con la sensazione nell'interno dell'anima, le rende conoscibili e tra loro commensurabili secondo la natura dell'uomo, in quanto compone o scompone i singoli termini delle cose, così delle interminate come delle terminanti. Né solo nei fatti demonici e divini tu puoi vedere la natura del numero e la sua potenza dominatrice, ma anche in tutte e sempre le opere e parole umane sia che riguardino le attività tecniche in generale, sia propriamente la musica”. Da varie testimonianze risultano le ingegnose soluzione di natura sia aritmetica e geometrica, sia fisica, dalle quali Filolao trovava conferma al dominio della decade. 4.“Uno e identico è il vivo e il morto ,lo sveglio e il dormiente il giovane e il vecchio, in quanto nel suo muoversi l'uno diviene l'altro e l'altro a sua volta uno” (fr.76). 69 Assaggi di Filosofia L'unità è nell'ente da cui si diramano e di cui ognuno vorrebbe essere espressione unica e totale; per esempio, nella vita, che è gioventù e vecchiaia e diviene teatro del contrasto tra due forze che tentano di sopraffarsi a vicenda. In una fase filosofica più matura, la dialettica eraclitea che è ancora malsicura nella sua formulazione concettuale, troverà una espressione adeguata nell'idea del genere che nella propria realizzazione dinamica si polarizza in specie opposte le quali sono spinte a lottare fra loro, in forza dell'universalità che è alla loro radice e che sorpassa il particolarismo di ciascuno. Unità dei contrari non identità di essi e tanto meno dei contraddittori: tale è il senso e il limite della dialettica. Bibliografia L. Geymonat, Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico- Antichità e Medioevo. De Ruggero, La filosofia greca. Dizionario di Filosofia Garzanti. Odifreddi, Il museo dei numeri: Da zero verso l’infinito, storie dal mondo della matematica. 70 Assaggi di Filosofia L'origine "astratta" di un mondo concreto Di Aristidea Cavaliere Introduzione Nel VI secolo a.C i primi filosofi iniziavano a dare una propria teoria sulla creazione dell'universo, ponendo come principi fondatori elementi perlopiù concreti come l'acqua, l'aria e materia indistinta ( l'apeiron) e la forza che li muovesse inclusa al loro interno. Solo con il filosofo pluralista Empedocle si pensò che alla base di ogni realtà ci fossero ben quattro elementi: aria, acqua, fuoco, terra, e che questi fossero animati da due forze esterne, l'amore e l'odio. 1. Possono due astrazioni generare il concreto? L'amore o amicizia e l'odio o contesa sono in continuo movimento e si alternano tra di loro determinando nei momenti in cui c'è un equilibrio nell'universo che interessa le due forze la formazione delle cose che sono nel nostro mondo. Non basta però riconoscere che il divenire è dovuto al rapportarsi in certe forme degli elementi materiali, ma si deve anche chiarire perché ciò avvenga. Cosi' come Anassimandro aveva reso la capacità generativa dell'infinito attraverso un vortice ( testimonianza di Simplicio) qui per la prima volta si riconosce alla forza la stessa dignità della materia, che è principio. Si riconduce però la dinamica della nascita e della morte non ad una ma a due cause: diverse e ciascuno con una propria natura immutabile e distinta. Sono forze però di natura divina, astratta, ma vengono intese come sostanze corporee (manca ancora infatti la distinzione tra astratto e concreto) che vengono unite ad altre cose. Amore e odio non sono un'allegoria o un rimando divino come avveniva nella mitologia dell'età classica, ma sono intese come davvero esistenti. E' difficile stabilire il perché della scelta del filosofo di ben quattro elementi; si è ipotizzato che questi si ricollegassero ai quattro colori , ritenuti fondamentali e che oggi sappiamo essere primari. Le radici sono da considerarsi prime e non vi è derivazione reciproca dell'uno dall'altro, come afferma Aristotele ( Sulla generazione e la corruzione I,8,325b). Come afferma Denis O' Brien: "Empedocle appare in effetti il primo autore dell'Antichità a voler riunire contemporaneamente in un solo e medesimo sistema concezioni filosofiche e credenze religiose.[....]nessun pensatore prima di lui aveva inserito all'interno di un quadro filosofico questa corrente di idee mistiche delle quali si troverà più tardi l'eco nelle iscrizioni funerarie dell'Italia Meridionale e nei dialoghi di Platone: per Empedocle, infatti, l'uomo essendo di origine divina, non raggiungerà la vera felicità che dopo la morte, quando si riunirà alla compagnia degli dèi." Nell'opera "Sulla Natura", Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero immobile uguale a sé stesso e infinito. Egli è Dio e le quattro radici le sue "membra", e quando Odio distrugge lo Sfero: " Tutte, l'una dopo l'altra, fremevano le membra del Dio". Si da cosi origine al cosmo e alle sue creature viventi, prima bisessuate, sotto l'azione di Odio, si differenziano ulteriormente in maschi e femmine, e ancora in mostri e infine in membra isolate per poi ripetersi nuovamente in un ciclo incessante. Nel poema successivo " Purificazioni", gli esseri viventi, parti costitutive dello Sfero di Amore divengono demoni errando nel cosmo; è cosi che il ciclo diviene ancor più complesso e spazio di un'infinita contesa. 1.1 Il concreto genera il concreto I predecessori del pensiero filosofico-religioso di Empedocle riconoscevano come principi del cosmo, elementi già esistenti e concreti, mossi da una forza interna non spiegata. Nel primo libro della Metafisica di Aristotele si presenta il filosofo Talete che riconosce nell'acqua il principio 71 Assaggi di Filosofia materiale da cui tutte le cose derivano e che permane al di là del mutare di tutte le cose: " Talete sosteneva che la Terra sta sopra l'acqua; prendeva forse argomento dal vedere che il nutrimento d'ogni cosa è umido e persino il caldo si genera e vive nell'umido; ora ciò da cui tutto si genera è il principio di tutto. Perciò si appigliò a tale congettura, ed anche perché i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l'acqua è nelle cose umide il principio della loro natura"(Metafisica,1,3,983b,20). Anche Plutarco da una testimonianza del pensiero del primo filosofo: "Talete suppone che tutto derivi dall'acqua e in essa si risolva, perché, allo stesso modo che il seme d'ogni vita come principio di questa è umido, cosi anche ogni altra cosa ha il suo principio dell'umidità; perché tutte le piante traggono dall'acqua il loro nutrimento, e se essa manca inaridiscono ; perché perfino il fuoco del sole e delle stelle, e lo stesso mondo, sono alimentati dalle evaporazioni dell'acqua"(PLUTARCO,citato in Hegel, 1, 196). Cosi come Talete anche Anassimandro identifica una sostanza unica primordiale, l'apeiron. Il principio che egli afferma è una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti, che ha al suo interno una forza che la muove:"[...] principio è l'indeterminato...da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi debbono pagare (l'uno all'altro) la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo". Ma Anassimandro affermava che dall'apeiron si generasse il cosmo e non direttamente gli uomini; egli infatti traeva la loro origine da altri animali, in particolare dai pesci. Sono queste ovviamente teorie primitive, che manifestano l'esigenza di cercare una spiegazione puramente naturalistica del mondo, e che prendono in considerazione solo l'elemento concreto in quanto quello astratto era ancora visto misteriosamente, faceva paura, suggeriva richiami ultraterreni, magici, divini. Anche Anassimene come Talete riconosce come principio una materia determinata: l'aria:" L'aria si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra"(TEOFRASTO in Simplicio, Fisica, 24, 26). Ciascun filosofo, servendosi sempre della natura riconosce un principio alla base di ogni cosa e che si conserva al suo interno, però non tutti concordano quanto al numero e alla specie di tal principio. 1.2 Come fanno questi principi a generare? Talete, Anassimandro e Anassimene non spiegano la forza che muove ciascun principio, e che permette di generare il cosmo, la considerano dunque interna al principio stesso, non necessariamente da dover spiegare. Questo atteggiamento può però portare a rendere l'affermazione solo parzialmente affidabile; spiegare la forza e quindi tutto il processo che dal principio porta alla formazione di tutte le cose è necessario per comprendere a pieno il ragionamento fatto, in caso contrario può divenire discutibile. Ad esempio Talete con l'acqua identifica una sostanza che non è un'acqua primigenia dotata di peculiare dignità rispetto a quella empirica, ma proprio quella che ci bagna, con cui ci laviamo e che beviamo; viene presentata tuttavia con una funzione che diviene totalizzante, e la rende origine non solo dell'acqua dei fiumi e dei mari, ma anche di tutte quelle cose che non sono liquide. Ma la forza , il motore che la fa agire è ignoto, cosi come l'insieme delle fasi della creazione del cosmo stesso. In Anassimandro l'attenzione al "motore" del processo creativo è parzialmente riconosciuta; la materia viene divisa da questa forza e il processo stesso viene identificato nella separazione. Si parla di un eterno movimento in virtù dal quale si separano i contrari, e si generano cosi infiniti mondi. La forza anche qui è implicita ma rispetto a Talete è posta più in rilievo. Anassimene, invece riconosce all'aria sia la qualità di materia come principio 72 Assaggi di Filosofia che la sua peculiarità di essere forza che anima il mondo; il primo tra i tre filosofi che parla chiaramente di forza, e questa sua caratteristica secondo il filosofo si percepisce dall'azione del soffio, ma in particolare dai processi di condensazione e rarefazione. Può però un principio essere anche una forza? Anassimene è il primo che ci pone questo connubio in un mondo che fino a quel momento era dominato dalla convinzione di un unico principio e che la forza non la considerava proprio o almeno in minima parte. In realtà bisogna soffermarsi sul concetto di forza attribuito all'acqua; egli afferma che è " una forza che anima il mondo", dunque analizzando il verbo, "animare", si comprende che non fa riferimento alle fasi che, dal principio, portano a generare il mondo, ma affronta la questione della forza, in un momento successivo, in cui la creazione è gia avvenuta e siamo in presenza di un mondo a tutti gli effetti. La forza che dice Anassimene è quindi una forza che agisce dopo, e per questo può "abitare" nel principio stesso, perchè anche la concezione dell'aria cambia; essa è un'insieme di gas presenti nell'atmosfera del mondo, è una "sostanza" come le altre componenti. Tutti e tre i filosofi sono "innovativi" perché cercano un qualcosa che avesse generato tutto, ma, probabilmente anche per le conoscenze limitate del tempo non hanno saputo convincere a pieno con le loro tesi, ancora causa di dibattiti e studi filosofici e scientifici. 2. Alla base di tutto ci devono essere delle forze Il mondo deve quindi necessariamente essere stato generato almeno da una forza che agisce sul principio. Anche il principio però è improbabile che sia solo uno considerata la grandezza e la molteplicità del mondo in cui viviamo. Deve quindi essere stato generato da più principi, e le quattro radici di Empedocle sono la perfetta combinazione di quattro sostanze, che sono alla base di ogni attività ed ogni cosa presente sulla superficie terrestre e non solo. Le forze, Amore e Odio, sono da considerare non nel significato che ne attribuiamo oggi, quello strettamente emotivo e sentimentale, ma al concetto di due forze tanto potenti singolarmente ma che non possono fare a meno di non "aiutarsi" e rapportarsi; l'una anche se potenzialmente in grado non può in effetti vivere senza l'altra e agire senza il suo appoggio. Se guardiamo al loro significato ai tempi di Empedocle notiamo che non sono altro che manifestazioni di una realtà che, avanzando e modificandosi nel tempo, è oggi esistente: quando due persone, unite dalla forza di Amore si accoppiano, generano vita; durante la vita però è normale che vi siano dei periodi in cui Odio o comunque un suo derivato, la Discordia, si presentano e portano nuove situazioni in cui però nello stesso modo in cui agisce Amore , agiscono e generano cose. In realtà le cose effettive vengono generate nei momenti in cui vi è una sorta di intervallo tra i due, dove nessuno primeggia ma entrambi sono protagonisti. Quando visse Empedocle ovviamente il significato di Amore e Odio era molto più "superficiale" , viste le conoscenze limitate del tempo e considerando il fatto che egli adottò questa tesi spinto prevalentemente da motivi divini e non prettamente filosofici e umani, ma tentò comunque, dando spiegazioni, di adattarli al mondo terreno. La grandezza delle due forze sta nel fatto che queste sono i soggetti di un ciclo che va al di là della nostra immaginazione, ma che, per quelli che sono i limiti umani, possiamo riconoscere come un ripetersi continuo, incessante e complesso; in particolare la complessità del fenomeno risiede nel fatto che, non solo entrambe le forze sono già di per sè grandiose e uniche, ma il modo in cui agiscono è uno dei primi esempi di ciclo cosmico, sistema studiato sin dall'antichità e ancora oggi preso in esame con il progresso della scienza; qui ancora si riconosce la singolarità del pensiero formulato da Empedocle, reso ancora più unico dal distacco che egli applica rispetto alle teorie dei filosofi che lo precedono. 73 Assaggi di Filosofia La mia tesi è quindi che alla base di tutto devono esserci due forze, che "lavorano" insieme e che aiutano più principi a generare il mondo, e che queste forze devono essere necessariamente in partenza "astratte", ma che poi, nelle fasi di creazione diventano concrete per la consapevolezza e la conoscenza degli uomini delle loro azioni. Amore e Odio nel ciclo cosmico Bibliografia Simplicio, Anassimandro. Aristotele, Sulla generazione e la corruzione, I,8,325b. Denis O' Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario critico, vol 2. Torino, Einaudi, 2007, p.80. Empedocle, Purificazioni. Empedocle, trad. it. di G. Giannantoni, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti. Talete, trad.it.di R. Laurenti, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti. Aristotele, Metafisica, 1,3,983b,20. 74 Assaggi di Filosofia Anassimandro,trad. it. di R. Laurenti, ne I presocratici, Testimonianze e frammenti. Plutarco,citato in Hegel, 1, 196. Teofrasto in Simplicio, Fisica, 24, 26. 75 Assaggi di Filosofia Eraclito filosofo del divenire Di Daniil D’Alessio Vissuto tra il VI e il V secolo a. C., Eraclito è noto come l’oscuro di Efeso, per la profondità del suo pensiero e i toni oracolari che caratterizzano i suoi frammenti (quanto ci è pervenuto del suo Perì physeos), secondo alcuni influenzati anche da qualche frequentazione dei culti orfico - dionisiaci. Al centro della sua riflessione si colloca l’idea del divenire, del flusso dinamico che costituisce l’intima essenza di tutte le cose, dalla realtà fisica a quella delle vicende umane all’interiorità dell’io. Panta rei è la brevissima sintesi delle sue idee che più spesso viene ripetuta, con riferimento alle acque di un fiume, apparentemente sempre uguali, ma in effetti sempre diverse, e non solo. L’essenza stessa del fiume, come per qualunque altro ente, è il suo eterno trasformarsi, escludendo l’immobilità, la quiete, il riposo. Piuttosto che l’acqua, l’aria o l’ ápeiron, è il fuoco – secondo Eraclito - l’elemento archetipico che di tutto partecipa e che tutto alimenta, sia pure in diversa misura, rigenerandosi di continuo e rinascendo dalla cenere. Il cambiamento perenne comporta il riavvicinamento degli opposti, destinati a coincidere, come l’inizio e la fine di un circolo. I contrari, così, si identificano e si invertono l’uno nell’altro: La via in su e la via in giù sono una unica e medesima via – scrive. Si tratta di un incontro-scontro, che include tutte le modalità del vero e proprio conflitto, di una guerra che è madre ti tutte le cose e di tutte regina. L’impatto violento e caotico, però, non può non convertirsi e rigenerarsi nella dimensione dell’armonia, secondo la legge di un lόgos terreno e divino insieme, che governa la natura e insieme anche l’anima. Gli animali e le piante, uomini e gli dei (Zeus compreso), sono completamente calati nella opposizione composizione di giorno – notte, fame – sazietà, malattia – salute, gioventù - vecchiaia, sonno – veglia, vita – morte, mortalità – immortalità. Consapevole della difficoltà di comprensione che le sue affermazioni comportavano, Eraclito esclude categoricamente che gli ignoranti – coloro che si rivelano incapaci di andare oltre l’evidenza sensibile - possano penetrarne l’autentico significato, riuscendo a percepire la voce del lόgos stesso. Un simile privilegio, a suo parere, è riservato ai soli saggi: emerge quindi una visione aristocratica della filosofia che ha autorizzato alcuni storici a considerarlo appartenente ad una classe sociale decisamente elevata. 76 Assaggi di Filosofia Oramai erano più di 3 ore che stavamo li a chiacchierare e tra un po’ ci cacciavano con male parole, quindi dovemmo spostare la nostra interminabile conversazione in bar li accanto , piccolo e appartato ..almeno per poter dire la mia a riguardo. “Io sono più che certa che sceglierò filosofia ,alla fine vedo in tutte queste meravigliose discipline , un ricavo di un ragionamento filosofico , di una vostra inquietudine e dei vostri dubbi. Io voglio fare questo , voglio pensare e insegnare agli altri come farlo . Cogito ergo sum”. Le origini della filosofia greca: il passaggio dal mythos al lògos Di Antonio Lucerino Introduzione Nello studio della storia della filosofia antica un campo di importanza decisiva è quello dell’interpretazione delle sue origini. La filosofia antica nasce dal superamento del mythos favorendo l’avanzamento del lògos come indagine razionale della realtà, una volta liberatasi dalle figure delle teogonie mitologiche. Un supporto bibliografico fondamentale è il filosofo italiano Emanuele Severino, che oggi è principalmente noto per aver dato origine al pensiero che è stato definito “neoparmenidismo”. Anzitutto, è assolutamente necessario parlare del termine logos, del termine mythos e della differenza tra ambedue i termini. 1.Tesi e antitesi La parola lògos, da considerare un termine fondamentale del greco antico, è traducibile ed interpretabile in numerosi modi, ma il modo che ci interessa è “ ragione”1. Pongo l’attenzione principalmente su questo modo di traduzione perché sia nel linguaggio colloquiale sia nel linguaggio cristiano necessariamente il logos era inteso come parola o discorso (èrgo koù lògo tekmàiroumai, “ lo deduco dai fatti, non da parole” di Tucidide2, o ti dèi màkru lògu, “che bisogno c’è di molte parole?” nel Fedro di Platone3; verbum (parola) dacché “ In principio era il Verbo, e il verbo era con Dio, e il verbo era Dio”4). Ora sarebbe assolutamente decisivo ricordare che i Greci non solo non erano cristiani, ma che anche tutto il pensiero greco non era portatore di una dottrina creazionista in tutte le sue varianti. Quindi, è possibile considerare improbabile la traduzione di lògos come “parola” nel campo degli scritti dei filosofi greci. In aiuto dell’affermazione inziale sostenuta, sono presenti le due derivazioni verbali: lègo e loghìzomai. Lègo “introduce” l’interpretazione di lògos come prodotto del ragionare. Il termine esaminato dunque appare in gran parte riconducibile alla parola “ragione”. Invece, la parola mythos è traducibile in “racconto” poiché essa nasce come la narrazione di eventi eroici, di racconti satirici, sacri e mitologici. Indubbiamente, ha un’accezione un po’ diversa da come la intendiamo noi oggi: consisteva soltanto nella tecnica dell’oralità. Era un modo di raccontare davanti ad un pubblico le gesta eroiche narrate, in versi, nei poemi. E’ proprio dal mythos che nascono i poemi epici, come quelli omerici. Solo nel 513 a.C., ad opera di Pisistrato, tiranno di Atene, i poemi epici in generale vennero messi per iscritto: si ha appunto la trasformazione da mythoi in poemi. Inoltre, il mito può essere considerato come un racconto sacro che rivela misteri e che dà la risposta a molti interrogativi degli uomini, per esempio “Come sono nati l’universo e l’uomo?” oppure “Come hanno avuto origine gli astri e la terra?”. Addirittura un filosofo neoplatonico scriveva nel IV secolo a.C.: «(…) Il mondo stesso lo si può chiamare mito, in quanto corpi e cose vi appaiono, mentre le anime e gli spiriti vi si nascondono». I presocratici usavano il mythos come forma di comunicazione più semplice per arrivare al logos. Per esempio, il presocratico Talete era convinto che l’elemento dell’acqua generasse la vita, ogni 77 Assaggi di Filosofia esser vivente poteva trarre la sua origine dall’acqua, dunque l’acqua veniva considerata da costui come il principio di tutte le cose: l’arché. Quindi, solo attraverso il mito si poteva prendere reale coscienza delle caratteristiche specifiche del logos. Il mythos era diverso dal logos, però quest’ultimo, dopo aver ampliato il suo raggio di azione, poteva permettere di comprendere i meccanismi che governavano la produzione del mythos. 2.“Perché si passa dal mythos al lògos?” Il mythos era nato dal sentimento di paura e di stupore degli uomini primitivi difronte ai fenomeni naturali e nel creare il questo si era guidati dal sentimento religioso. Come dice Severino: “ Il mythos nasce come un insieme di prospettive che guida sin dall’inizio la vita dell’uomo”5. Il mondo, grazie al mito, si sentiva protetto contro la minaccia della morte e del dolore. Allora, è inevitabile che, ad un certo momento, l’uomo non rimanga più soddisfatto del rimedio costituito dal mythos. L’uomo primitivo non lo vive come favola ma come situazione reale in cui egli crede e, proprio perché è voluto dall’uomo, quest’ultimo vuole uscire dal sogno ,cioè, vuole che il rimedio contro la morte e il dolore sia qualcosa che non possa essere smentito o che abbia una verità e questa verità è appunto la filosofia. Una parola significativa che mostra il transito dal mythos alla filosofia, o meglio al lògos, è “thèoria”. Inizialmente significa “festa” perché era la contemplazione della cerimonia salvifica: infatti, l’uomo arcaico nella festa celebrava la propria capacità di salvarsi dal dolore. Come dice Severino: “Quando la filosofia non vuole più sognare, allora la thèoria diventa la contemplazione di ciò che sta in luce”6. Questa parola significa anche “sguardo”: quest’ultimo penetra l’oscurità della cose e, di conseguenza, consente di approntare veri rimedi, proprio come il logos. Fissiamo l’ultimo punto da analizzare per arrivare allo scopo di tutto ciò. I pensatori presocratici furono i primi che, senza ricorrere al mythos, ma grazie alla pura osservazione della realtà ed elaborando conoscenze provenienti dall’esperienza, hanno cercato di formulare il mistero dell’essere. E così hanno detto: l’acqua è ciò che viene prima di tutto. Oppure anche l’aria, che si trasforma ora in vento e in tempesta, ora in pioggia o in nebbia, insomma in una infinita variazione di fenomeni alterni, mantenendosi però identica a se stessa; persino la terraferma può essere considerata come una sorta di deposito espulso dall’elemento umido. Si passa dunque dal mythos al lògos, con la fatica consapevole del pensiero che rende conto delle cose, rinunciando a tutto quel sapere mitico di cui si aveva conoscenza a partire dal principio, smettendo quindi di scomodare gli dei, costretti ad agire per spiegare le esperienze della vita. È un intento poderoso e audace che vi aggiunse, come novità, il lògos, vale a dire il bisogno di dimostrare ciò che si riconosce per vero. 3.“Che cos’è il mythos per i filosofi successivi?” Il mythos non è un racconto sacro e una narrazione di imprese eroiche, ma è uno strumento per esprimere in modo piacevole verità profonde. Infatti, Platone, filosofo del V secolo a.C., definisce il mythos «immortale ed irrispettoso della religione». Il mythos assume una funzione prettamente comunicativa, persuasiva e complementare all’argomentazione filosofica: esso è un mezzo per parlare di realtà che stanno al di là della capacità di indagare della ragione, per superare i confini del pensabile e proseguire i «sentieri interrotti» della Filosofia. Il mythos è anche un qualcosa di «assurdo, insulso ed inconcepibile», come riteneva Erodoto, perché non resiste ad un confronto con la realtà nota e perché frutto di ignoranza. Altresì, il mito è ancora una fonte da interpellare e da vagliare; invece, per Tucidide esso è qualcosa da «dimenticare». Il mythos appartenendo ad un tempo remoto, non può essere verificato e, quindi, non ha valore storico: meglio espungerlo completamente dal lavoro del filosofo e lasciarlo ai poeti e ai “narratori di miti”. 78 Assaggi di Filosofia 4.Conclusione In questo saggio, ho voluto spiegare, inizialmente, che cosa significa la parola lògos dandogli una traduzione più inerente al contesto; ho fatto la medesima cosa con il termine mythos affinché potessi dopo illustrare la differenza tra ambedue i termini. Dopodiché mi sono soffermato principalmente sul discorso riguardante il passaggio radicale dal mythos al lògos, quindi dal mythos alla filosofia presocratica: esso ha avuto una lunghissima storia, è proprio da quest’ultimo che è nata la filosofia ed anche perché senza, non sarebbe nato il lògos e, allo stesso modo, i principi dei filosofi presocratici. Per spiegare questi concetti, ho aggiunto delle frasi del filosofo Emanuele Severino nel documentario “Il caffè filosofico”. Note 1. L. Rocci, Vocabolario Greco antico-italiano, pagg. 1156-1157. 2. L. Rocci, Vocabolario Greco antico-italiano, pagg. 1156-1157. 3. Platone, Fedro, Il dialogo. 4. Giovanni, Vangelo, 1, 1-14 5. E. Severino, Il caffè filosofico, I presocratici. 6. E. Severino, Il caffè filosofico, I presocratici. Bibliografia Vocabolario Greco antico-italiano Vangelo Fedro Il caffè filosofico 79 Assaggi di Filosofia La filosofia della polis e come essa influisce sui primi pensatori Di Edoardo Quarantelli Introduzione In questo testo voglio dimostrare che la ricerca di una causa unica nasce dal cambiamento della società greca di quel periodo che con la poleis ricerca la qualità unificatrice della legge che i filosofi rivedono nell’ archè. 1. Tesi Nella storia della filosofia presofistica , come sappiamo , il tema centrale è l’ universo e la sua origine , quello che lo sostiene e lo governa , infatti all’ epoca dei primi filosofi non era stata ancora elaborata la teoria dell’ essere di conseguenza i filosofi cercavano in qualcosa d’ altro la materia delle cose : chi nell’ aria chi nell’ acqua , chi nel fuoco , la tendenza era sempre quella di cercare l’ origine delle cose negl’ elementi più presenti nell’ambiente , contemporaneamente a questa tendenza se ne sviluppa un’ altra a cercare l’ origine delle cose in una sostanza non visibile , è stato proprio uno di questi filosofi a coniare il termine che descriveva la causa prima dell’ universo che ancora oggi noi usiamo : l’ archè . Perché proprio su questo si basa gran parte della filosofia di quel tempo? La risposta secondo me) si può trovare nel cambiamento che la società greca stava attraversando in quel periodo , infatti proprio in quegli anni si sviluppava la poleis , con la polis democratica si diffonde l’ idea della funzione unificatrice della legge , per questo i primi filosofi avevano sviluppato una visione monistica della realtà: ovvero erano convinti che alla base della multiforme e mutevole realtà naturale vi fosse un unico sostrato materiale e che in qualche modo costituisse la sostanza di ogni cosa . Infatti come ci fa notare Nicola Abagliano 1: “In Omero si trova per la prima volta il concetto di una legge che dà unità al mondo umano: l’Odissea è tutta dominata dalla fede in una legge di giustizia, di cui gli dei sono custodi e garanti, che determina nelle vicende umane un ordine provvidenziale per il quale il giusto trionfa e l’ingiusto viene punito. Esiodo personifica tale legge nella dea Dìke (Giustizia), figlia di Zeus, che siede accanto al padre e vigila affinché siano puniti gli uomini che commettono ingiustizia. L’infrazione di questa legge appare nello stesso Esiodo come tracotanza (hybris), dovuta alla sfrenatezza delle passioni e in generale a forze irrazionali … Il poeta tragico Eschilo (VI-V secolo a.C.) è, infine, il profeta religioso di questa legge universale di giustizia, della quale la sua tragedia vuole esprimere il trionfo”. Allo stesso modo i primi filosofi avevano cercato di trovare nel mondo reale quella legge unificatrice che trovavano nella polis . Un altro effetto importante che ha l’ affermazione della polis sul pensiero dei primi filosofi , è l’ ateismo: le forze che governavano il mondo secondo essi erano intrinseche appunto per non incappare in analisi teologiche del proprio pensiero infatti se questi avessero esternato la forza che governava la materia primordiale avrebbero dovuto necessariamente spiegare il carattere di tale forza , da questo processo scaturisce il carattere ilozoistico dell’ arche . 2. Bilancio conclusivo L’arche greca non è soltanto la materia in se ma anche la forza che la governa e la fa muovere . La forza che i filosofi credono che muova la materia primordiale è governata proprio da quella legge universale di cui abbiamo parlato prima . In conclusione, possiamo dire che il principio (arché) cercato dai primi filosofi è, al tempo stesso, materia, forza che la anima e legge che la governa. 80 Assaggi di Filosofia Note 1. N. Abbagnano, I primi filosofi e la ricerca dell’archè. Bibliografia N. Abbagnano, I primi filosofi e la ricerca dell’archè. 81 Assaggi di Filosofia L’importanza dell’acqua Di Laura Campanella Perché l’acqua è uno degli elementi principali, senza il quale l’umanità e con essa tutti gli essere viventi si estinguerebbero? Partendo da teorie filosofiche, si può citare Talete che fu, probabilmente, uno tra i primi uomini antichi ad aver capito l’importanza di quest’elemento. Infatti egli sosteneva che il principio di tutto è l’acqua e che la Terra si trovasse sopra di essa; probabilmente prese spunto dal vedere che il nutrimento di ogni cosa è umido e persino il caldo si genera dall’umido. Anche Aristotele la pensava allo stesso modo, come si può notare nel seguente passo: << Ci dev’essere una qualche sostanza, o una, più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione (delle cose)>>. Ma analizziamola ora sotto un profilo prettamente scientifico:l'acqua è la sostanza più diffusa sulla Terra. I soli oceani ricoprono più del 70% della superficie terrestre e contengono l'incredibile quantità di 1.350.000.000 di chilometri cubici d'acqua. Altri 770.000.000 di chilometri cubici si trovano nella litosfera sotto forma di acqua di e 28.000.000 di chilometri cubici sono contenuti nelle calotte polari e nei ghiacciai. Attorno alla Terra, l'acqua è presente in una regione dello spazio, detta ‛idrosfera', che si estende nell'atmosfera sino ad una quindicina di chilometri di altezza e nella litosfera sino alla profondità media di un chilometro. E’ anche il costituente principale di tutti gli organismi viventi e senza di essa non ci sarebbe vita, poiché essa dipende proprio da quest’ elemento. Ogni organismo vivente è costituito, infatti, in massima parte d'acqua. Il corpo umano ne contiene circa per il 65% del suo peso e un uomo morrebbe in breve tempo non appena perdesse il 12% dell'acqua presente nel proprio corpo. Quasi ogni organismo è condizionato completamente dall'acqua per più del 50% del proprio peso corporeo. La vita stessa potrebbe avere avuto origine nell'acqua e precisamente nell'acqua salata del mare. Il sapore salso del sangue, del sudore e delle lacrime suggerisce chiaramente una tale possibilità. L'acqua ha cominciato a plasmare la forma della Terra dal momento stesso della sua comparsa. La pioggia martella il terreno ed erode il suolo, le onde del mare si riversano sulle coste, cesellando gli scogli e trasportano via la terra. I fiumi formano le valli e i delta alluvionali. I ghiacciai fendono le montagne e solcano le valli. L'importanza dell'acqua non è limitata alle funzioni vitali di sostentamento degli organismi e alla determinazione della morfologia terrestre. L'acqua è un fattore chiave nel condizionamento climatico della Terra, per l'esistenza dell'uomo e per lo sviluppo della civiltà. Oggi si considera spesso l'acqua alla stregua di un bene di consumo che possiede un proprio valore economico ed è oggetto di dispute legali, sociali e politiche. Già analizzando l’aspetto scientifico dell’argomento si è potuto capire quanto l’acqua abbia avuto (e ha tutt’ora) un ruolo fondamentale sì nell’ambiente e nella morfologia, ma soprattutto per gli esseri 82 Assaggi di Filosofia umani, che non solo vivono grazie ad essa, ma la usano anche come mezzo di arricchimento per la civiltà; non a caso le prime popolazioni antiche si insediarono presso fonti di acqua: Civiltà egizia:secondo Erodoto, hanno sviluppato la geometria e l’astronomia con lo scopo di governare e prevedere le piene del Nilo, centro e motore di tutta la loro vita. È ancora in uso in Egitto la noria, un sistema per il sollevamento dell’acqua dai pozzi, per poterla poi trasportare dove le piene del grande fiume non giungono Civiltà mesopotamiche: sono sorte sulla lingua di terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate. Grazie alle piene e all’irrigazione ,la terra era fertile e sostentava una florida agricoltura; il commercio sfruttava le due vie d’acqua per l’esportazione e l’importazione di numerose merci. Esperti ingegneri idraulici progettavano sistemi di irrigazione ed elevazione dell’acqua permettendo così una sua capillare distribuzione . Civiltà romana: Benché altri popoli prima avessero costruito strutture per trasportare l’acqua, i Romani svilupparono una conoscenza scientifica e una perizia tecnica senza eguali nelle terre appartenute all’impero costruendo ingegnosi acquedotti.. Le basi teoriche per la realizzazione di queste spettacolari opere si sono diffuse in tutto il Mediterraneo. Civiltà ebraico-cristiana: Già nella Bibbia si ritrovano testimonianze dell’usanza (comune a tutti i popoli del Mediterraneo) da parte delle donne di incontrarsi al pozzo o alla fontana del villaggio. Proprio presso un pozzo avviene l’incontro e il dialogo tra Gesù e la Samaritana. L’acqua ha una funzione purificatrice, infatti Dio sommerge il mondo con le acque (Diluvio Universale) per liberarlo dall’umanità corrotta e permettere, attraverso Noè, la nascita di una nuova umanità. Per i Cristiani l’acqua è fonte di vita, come dice Tertulliano, un apologeta cristiano: “...l’acqua era la prima sede dello spirito divino, che la preferì a tutti gli altri elementi...Fu l’acqua che per prima ebbe il compito di generare creature viventi...Fu l’acqua che, prima di tutto, produsse ciò che è vita...” Civiltà islamica: La tradizione islamica ha elaborato regole per l’uso e il controllo dell’acqua e principi per governarne la gestione ed evitare conflitti. Le tribù di Beduini mantengono un ordine di priorità tra le famiglie nell’uso dei pozzi e delle sorgenti . Civiltà Hindu (India): Nei quattro Veda (libri sacri indiani) l’acqua è descritta come “incarnazione di Dio”, “nettare”, “la protettrice della terra e dell’ambiente”. I saggi nell’Yajurveda pregano così: “O Acqua, tu sei la fonte del benessere e della prosperità, ci aiuti a divenire forti. Noi guardiamo a te per ricevere in dono il dolce nettare su questa terra. O Acqua, ci rivolgiamo a te per liberarci dalle nostre colpe. Possa l’acqua purificare la terra e la terra purificare me. Possano le sacre acque tenermi lontano dalle colpe. Possano le acque rimuovere le mie cattive azioni.... Le acque che generano ogni prosperità sulla terra e nel cielo e quelle che dimorano in forme differenti nell’atmosfera, quelle che irrigano la terra, possano quelle acque essere benevole con noi e benedirci. O Acqua, toccami amorevolmente con il tuo divino essere e produci in me forza, splendore, intelletto e saggezza.” Civiltà degli Indiani d’America: Per le tribù del Nord America anche l’acqua è permeata dello Spirito che permea tutti gli esseri viventi, uomo compreso. L’arrivo delle piogge era atteso e invocato con canti. Civiltà dell’oasi: Nelle zone più aride e apparentemente ostili alla vita si sono sviluppate civiltà capaci di riconoscere il “valore delle cose minime” e di utilizzare efficacemente le risorse rare, l’acqua in particolare. Le oasi, “luoghi abitati circondati da vasti deserti, come isole nel mare aperto” , sono frutto dell’ingegno umano che riesce ad integrare componenti ambientali, architettoniche e sociali in un unico sistema basato sulla struttura ordinata di cisterne e canalizzazioni per la ripartizione e l’utilizzazione delle risorse idriche. Un rapporto costante con il deserto permette alle genti dell’oasi di conoscerne le leggi 83 Assaggi di Filosofia ecologiche e di imparare quindi a scoprire le potenzialità di sussistenza insite in un ambiente “implacabile e impercorribile”. Alla fine di tutte queste considerazioni, possiamo affermare con certezza dunque che l’acqua è un elemento essenziale per la sopravvivenza dell’uomo, dell’intera umanità e anche del nostro pianeta e non solo; essa riesce anche a modificare l’aspetto del territorio e le abitudini delle popolazione arricchendone inoltre anche la cultura. Note 1.N. ABBAGNANO ,G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014, p. 77. Bibliografia ‘’La ricerca del pensiero’’ di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero. Enciclopedia online ‘’Treccani’’http://www.treccani.it/enciclopedia/ ‘’La civiltà e l’acqua’’, documento online http://www.ferraris.org/ 84 Assaggi di Filosofia Indice Introduzione I- GIUSTIZIA 2 La libertà di pensiero , di Alessandra Buonaiuto 3 Socrate ,di Francesca Frangipani 7 Aldilà delle apparenze: Giusto o sbagliato ?, di Francesca Defalco 12 La concezione morale di Socrate,di Andrea Pascale 15 Chi è l’uomo giusto ?,di Matteo Russo 19 I Sofisti , di Valeria Speranza 24 II -L’INFINITO L’infinito:una sfida per il pensiero ,di Lorenza Pesacane 26 L’infinito ..il vuoto ..e la ragione!,di Marino Bianco 30 III - LA LIBERTà La rivalutazione della sofistica ,di Diletta Bergamo 35 Etica :un viaggio da Democrito ai primi sofisti ,di Federica D’Alterio 38 Il filosofo che ride e il filosofo che piange,di Myriam Buonfino 41 Verità relativa o assoluta? , di Giovanna Olivieri 47 IV -L’ESSERE Conflitti apparenti :Parmenide ed Eraclito si escludono a vicenda ?,di Matteo Biccari 52 L’essere : statico o dinamico ?,di Maria Teresa Casiello 56 Parmenide tra realtà e illusione,di Federica Santoro 57 L’uomo e la verità:dal relativismo protagoreo al principioal principio di non contraddizione aristotelico ,di Clara Fabricatore 59 Democrito : l’atomismo può essere una forma di Materialismo ?,di Sara LaTorraca 63 L’uno.Il tutto,di Raffaella Cardellicchio 66 L’origine“astratta”di un mondo concreto ,di Aristidea Cavaliere 71 Eraclito filosofo del divenire ,di Daniil D’Alessio 76 V -LE ORIGINI Le origini della filosofia greca :il passaggio dal mythos al logos,di Antonio Lucerino 77 La filosofia della polis e come essa influisce sui primi pensatori,di Edoardo Quarantelli 80 L’importanza dell’acqua ,di Laura Campanella 82 85 Assaggi di Filosofia 86