“Che cercate?” – Monoteismi in dialogo. (a cura di Giulia Rocchi, presidente del gruppo di Bergamo) Riflettendo sulla nostra società, Ecumenismo è una di quelle parole che definiremmo “sporgenti”, ovvero rilevanti per lo studio dei processi psicodinamici all’interno della vita organizzativa. Ecumenismo vuol dire esattamente: “movimento universale tendente all'unione di tutte le Chiese cristiane e in senso più lato alla ricerca di un punto d'incontro fra le grandi religioni monoteiste”. Prima di questo però, prima di pro-gettarsi ad un incontro tra monoteismi, come è il mio incontro con Dio? Cosa vuol dire Dio? Chi è Dio? Come lo posso chiamare Dio e come può essere che un Dio Padre abbia nomi tanto diversi nonostante sia unico e noi siamo tutti fratelli? Dare un nome a Dio non è solamente un tema concettuale, ma è innanzitutto un tema pratico, questo lo rende un problema abbastanza complesso, ma è la sfida della complessità che ci incoraggia all’avventura della conoscenza, che è un dialogo con l’universo. In questo dialogo gli interlocutori sono Dio e l’uomo, perché per tornare a parlare di Dio dobbiamo tornare a parlare della soggettività, il lascito della gestazione della cultura moderna, generata dalla riflessione della teologia cattolica nel medioevo, ma anche dalla riflessione della teologia araba e della teologia ebraica. Di questo si rende conto Emmanuel Lévinas, perché il problema di Dio non si sarebbe posto in questo modo se non ci fosse stata l’influenza della riflessione teologica e delle varie scritture a cui la cultura occidentale fa riferimento per la sua storia. La filosofia ha iniziato a pensare che quelle scritture dovevano dare ragione alla Ragione del loro significato e da qui è nata la teologia razionale, che è un tentativo di parlare di Dio senza fare riferimento a una liberazione. La teologia razionale ha accettato l’idea che Dio possa diventare un concetto, riducendolo a ciò che la soggettività riesce a dire di Dio dimenticando l’alterità. Dio viene all’idea, ed è quella di un soggetto che non è chiuso ma è slogato, non è perfetto, ma ha un’idea di infinito che gli appartiene, ma paradossalmente estranea perché non prodotta da lui. L’infinito non è il concetto negativo portato avanti dalla teologia negativa, che porterà al silenzio come unico modo per accedere a Dio, ma il tentativo di dar vita ad una forma di eccedenza che è il soggetto stesso. Nel silenzio, secondo Chrétien, troviamo un appello, un evento nel quale la coscienza scopre se stessa come appello ma solo nell’atto della sua risposta, non prima e non dopo. E’ in questa risonanza che si realizza la nominazione di Dio, né prima né dopo ma nell’atto della coscienza che risponde, ed è questa esperienza in cui l’appello si ritrae, affinché possa risuonare nella risposta. Solo in questa esperienza l’uomo può dire Dio, perché Dio è l’appello che ti consente di rispondere, che si lega e implica nella tua risposta, ma tu per rispondere devi riconoscere che l’altro si ritrae per dar forma a questa risposta. L’altro, l’ebreo, il musulmano, ma noi stessi cristiani, chiamiamo Dio a bassa voce quando preghiamo, ma urliamo il suo nome usando violenza. L’ebraismo si pone come obiettivo migliorare il mondo e Dio stesso attraverso delle opere di bene, la riunificazione della presenza di Dio nel mondo e di Dio stesso. L’universo si regge su un perfetto equilibrio costituito da tre elementi: la giustizia, la verità e la pace che comprende anche la salvaguardia del creato. Se non c’è la giustizia non c’è la pace, la giustizia non ha solo un valore giuridico ma si tratta di una linea dialogica che investe l’altro e si realizza nei Salmi imprecatori, un appello a Dio sul “fare giustizia”. Nel Talmud Shabbat 31a, si dice "Ciò che non è buono per te non lo fare al tuo prossimo. Il resto è commento. Vai e studia (la Torah)". L’attenzione verso il prossimo si nota nella presenza di segni di lutto all’interno di tradizionali celebrazioni ebraiche, come il ricordo delle vittime annegate nel Mar Rosso durante l’esodo, nella cena di Pasqua. Per un ebreo non si può gioire pienamente della propria libertà se ciò è costato la vita di qualcuno, bisogna produrre e conservare la pace, e prima di una festa riconciliarsi sempre con il nemico nella Sinagoga. L’insegnamento biblico non è mai violento ma richiede una corretta interpretazione, in Esodo 21, compare la “Legge del Taglione” che fonda il diritto al risarcimento e non alla vendetta. Il terrorismo è spesso frutto della strumentalizzazione delle religioni e dei testi sacri. Questa strumentalizzazione e violenza richiedono uno sforzo, uno sforzo teso verso uno scopo, quello che in arabo si chiama Jihād, un sostantivo maschile che noi occidentali usiamo perlopiù al femminile per indicare la guerra santa contro gli infedeli. Guerra e violenza sono le “parole sporgenti” della religione islamica per noi occidentali, ma in realtà il termine Jihād, che noi usiamo al negativo possiede un ampio spettro di significati. Nella dottrina islamica indica lo sforzo di miglioramento del credente (il «jihad superiore»), soprattutto intellettuale, un appello che si concretizza per esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri o del diritto. La Jihād è diversa da Ḥamās, la violenza, perché è più connotato e veicolato dal punto di vista della coscienza religiosa. Non bisogna soffermarsi solamente alla guerra e alla violenza, ma scavare a fondo per trovare lo sforzo e l’impegno, ma soprattutto la connessione diretta dello Jihād con l’ingaggio nella Fede che può arrivare al sacrificio di se stessi. Una particolarità dei Musulmani è quella di avere un cuore colmo di Ramah (compassione) perché il suo ideale di vita è quello rappresentato dalla Misericordia del suo creatore che comprende tutte le realtà del Creato, quelle materiali e immateriali, ciò che abita il cielo e ciò che abita la terra. La Misericordia è il tema sul quale siamo stati invitati a riflettere dalla nostra Chiesa, un tema tanto profondo e importante da aver dedicato un Giubileo Straordinario, un intero anno per comprendere la profondità della Misericordia, che non si tratta di un “super – perdono” ma di rendersi conto di avere un “cuore misero” e a farsi perdonare. A dover chiedere perdono per la violenza non sono solo gli altri, ma anche noi Cristiani, anche noi abbiamo usato questo strumento per imporci sugli altri. Siamo stati una Chiesa belligerante, perché la guerra era necessaria ed era un merito religioso davanti a Dio, quel Dio che secondo le parole dei Papi dell’epoca ci avrebbe donato un pezzo di paradiso. La Guerra Santa era un bene necessario e salvifico e i cavalieri ottengono un’assicurazione della giustizia di questa guerra attraverso la promessa di un’indulgenza plenaria. La vendetta la fa da padrone, e le idee condizionano i comportamenti, la Fede sparisce e diventa solo un pretesto per attaccare l’altro, per sovvertire un governo che sembra ingiusto, per non obbedire più ad un Imperatore che non riteniamo un nostro comandante. I dialoghi si sono interrotti allora, ma in questo momento storico siamo chiamati a pro-gettarci verso l’altro e usare l’intelletto, ovvero quella capacità di saper leggere dentro e saper scavare oltre ciò che appare in superficie. Voi tutti che cercate? Cosa stiamo cercando? Forse dietro a tutta questa violenza apparente, si nascondono le urla silenziose di uomini che si appellano a Dio, non importa come lo chiamino, attendono una risposta con lo sguardo rivolto all’infinito.