UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI FERRARA FACOLTA' DI FARMACIA Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare Corso di Laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche EVEROLIMUS: UN POTENTE INDUTTORE DEL DIFFERENZIAMENTO ERITROIDE IN PRECURSORI ISOLATI DA PAZIENTI BETA-TALASSEMICI I Relatore: Laureanda Prof. Roberto Gambari Chiara Danzo II Relatore: Dott.ssa Nicoletta Bianchi Anno Accademico 2005-2006 1 INTRODUZIONE 1. I geni globinici umani e regolazione della loro espressione durante lo sviluppo. 1.a. I geni globinici. La componente principale e di maggiore importanza dei globuli rossi è rappresentata dall’emoglobina, una proteina tetramerica solubile presente negli eritrociti del sangue dei vertebrati, la cui funzione biologica è quella di trasportare l’ossigeno, attraverso il circolo sanguigno, dai polmoni ai tessuti. L’emoglobina è una cromoproteina globulare la cui struttura consta di quattro catene polipeptidiche e quattro gruppi prostetici eme. La sua sintesi richiede la produzione coordinata dell’eme, che conferisce alle emazie la loro caratteristica colorazione rossa, e delle globine, che costituiscono la porzione proteica che circonda e protegge l’eme. Il gruppo eme, che lega reversibilmente il ferro all’emoglobina, è costituito da una parte organica, la protoporfirina IX, un sistema planare composto da quattro anelli pirrolici al centro dei quali si trova alloggiato un atomo di ferro inorganico. Quest’ultimo giace leggermente al di fuori del piano della protoporfirina con la quale interagisce mediante quattro legami di coordinazione, mentre con la quinta posizione, perpendicolare al piano, lega un residuo di istidina o istidina prossimale [1]. Il gruppo eme è contenuto all’interno di una tasca proteica, costituita da 20 amminoacidi idrofobici, che ne garantiscono la stabilizzazione e fanno in modo di mantenere il ferro nello stato di catione bivalente, necessario ai fini dell’interazione con l’ossigeno, attraverso un secondo residuo di istidina o istidina distale [1, 2]. In seguito all’interazione dell’atomo di ferro bivalente con una molecola di ossigeno, avviene l’avvicinamento del ferro al piano dell’eme e il conseguente spostamento delle regioni ad α-elica della catena globinica. Questo comporta la riduzione della tensione sterica originatasi e una variazione conformazionale della struttura quaternaria del tetrametro [1]. L’evento che si trova alla base della cooperatività positiva nell’interazione con 2 l’ossigeno è dato dall’indebolimento parziale delle interazioni fra le subunità, che causa una progressiva destabilizzazione della molecola. E’ infatti il legame dell’ossigeno al gruppo eme di una subunità globinica a mediare la predisposizione delle altre catene allo stesso processo aumentando l’affinità [1]. La porzione proteica è formata da quattro catene polipeptidiche uguali a due a due: due di tipo α (zeta e alfa), di 141 residui amminoacidici, due di tipo β (epsilon, gamma, beta e delta), di 146 amminoacidi [2]. Le quattro subunità si associano spontaneamente tra loro formando, attraverso interazioni non covalenti, ma di tipo elettrostatico e idrofobico, la caratteristica struttura tetramerica della molecola [3]. Le catene polipeptidiche delle globine contengono numerosi amminoacidi altamente conservati detti residui invarianti, che hanno la funzione di preservare la stabilità e la corretta funzionalità della molecola garantendone la struttura terziaria, caratterizzata da otto alfa eliche, la cui collocazione è responsabile del ripiegamento a β-foglietto della globina. L’appaiamento di una catena α con una catena non-α porta alla formazione di un dimero di emoglobina, il quale non è in grado di trasportare l’ossigeno in maniera efficace fino a quando non si combina con un secondo dimero nella formazione del tetramero, ovvero la molecola biologicamente attiva ed in grado di espletare funzione di trasportatore. Geni differenti sono responsabili dell’espressione delle diverse subunità globiniche costituenti l’emoglobina. La famiglia delle globine (mioglobina, emoglobina, neuroglobina) sembra essersi evoluta 1.800 milioni di anni fa con la comparsa dell’ossigeno sulla terra e i geni globinici sembrano aver avuto origine da un gene ancestrale, contenente 4 sequenze codificanti (esoni) e 3 non-codificanti (introni). Mentre la regione 3’ del primo esone ed il terminale 5’ dell’ultimo esone sono rimasti invariati nel corso dell’evoluzione, il secondo introne del gene primitivo è scomparso ed il terzo è emerso solo quando i geni della famiglia globinica hanno iniziato a differenziarsi. La struttura uguale di tutti i geni globinici rivela la loro origine comune; ogni gene presenta tre regioni codificanti, gli esoni, che vengono trascritti in RNA messaggero e poi tradotti in globine e due regioni intercalari, gli introni (IVS: InterVening Sequence), che non essendo trascritti in mRNA non vengono tradotti in proteina. Nel gene β-globinico il I esone contiene i codoni da 1 a 30, il II da 31 a 104 e il III da 105 a 146, mentre nei geni α-globinici il I esone comprende i codoni da 1 a 31, il II da 32 a 99 e, 3 infine, il III da 100 a 141. Gli introni hanno lunghezza diversa per ogni gene globinico. Ogni gene globinico ha alle estremità 3’ e 5’ delle sequenze fiancheggianti che vengono trascritte, ma non tradotte (sequenze UTR). Tra queste, la sequenza UTR compresa tra il codone di termine TAA e la sequenza AATAAA, si è dimostrata essenziale per la traduzione dell’mRNA. Infatti, mutazioni in questa regione, sia nel gene α che in quello β, danno luogo ad un effetto microcitemico probabilmente causato da una forte destabilizzazione del messaggero prodotto. La sequenza AATAAA presente all’estremità 3’ di tutti i geni globinici è sia il segnale di termine della trascrizione dell’mRNA che di aggiunta di una coda poliA. All’estremità 5’ di tutti i geni è invece presente una sequenza promotrice indispensabile per una trascrizione genica efficiente [2]. I geni globinici sono organizzati in raggruppamenti chiamati clusters (Fig. 1), costituiti da geni funzionali, generati probabilmente da processi di duplicazione avvenuti nel corso dell’evoluzione, e da pseudogeni; questi ultimi rappresentano geni ancestrali che hanno perso le regioni regolative della loro espressione, divenendo così silenti ed incapaci di codificare per la proteina. Il cluster α, di circa 40 Kb, è situato nella porzione distale del braccio corto del cromosoma 16, a livello della banda 16(p13.3), come riportato in Fig. 1. La posizione occupata dal cluster α è caratterizzata da instabilità e variabilità genetica e cade in una regione rappresentata per il 54% da CG nella porzione telomerica del cromosoma 16 e caratterizzata da una configurazione della cromatina costitutivamente “aperta” e da un’alta densità di geni non-globinici adiacenti costitutivamente non espressi. Lungo tutto il cluster α sono presenti sequenze ripetitive della famiglia Alu I (dal nome dell’enzima di restrizione che le identifica) e sequenze ricche in GC dette regioni HRV (High Variability Region) o minisatelliti: il 3’ HRV a valle del gene α1, composto da una serie di ripetizioni in tandem (da 70 a 450 per allele) di una sequenza di 17 bp, l’HRV entro ψζ1, l’HRV interzeta tra ζ2 e ψζ1, il 5’HRV a circa 100 kb a monte del cluster α che è composto da una serie di ripetizioni in tandem di una sequenza di 57 bp. 4 Cluster alfa Fig. 1. Organizzazione in clusters dei geni per le globine di tipo β ed α. In figura sono schematizzati i cromosomi 11 e 16 sui quali sono raggruppati rispettivamente geni per le globine β e per le globine α. Sono riportate anche le varie associazioni di catene globiniche che formano le diverse molecole di emoglobina nel corso dello sviluppo umano [Figura tratta dal sito www.med.yale.edu]. Come riportato in Fig. 2, nel cluster α sono presenti tre geni funzionali, rappresentati rispettivamente da un gene ζ, espresso transitoriamente in fase embrionale, ma presto sostituito durante lo sviluppo dalle catene α, codificate dalla coppia di geni α2 e α1, che producono globine identiche, nonostante differiscano tra loro per la quantità di RNA messaggero prodotto, che risulta maggiore di circa 2,6 volte per α2 [4]. Nel cluster α sono presenti anche diversi pseudogeni, denominati ψζ , ψα1, ψα2 ed una regione 3’ terminale ө, che si suppone essere attiva negli stadi embrionali più precoci. Il gene embrionale ζ è localizzato nella regione più in 5’, mentre i geni globinici adulti α2 e α1 sono posizionati più distalmente; questi due geni sono pienamente funzionali e 5 sopperiscono alla mancanza nel cluster α di un gene ad espressione esclusivamente fetale: essi, infatti, sono espressi anche durante la fase fetale dello sviluppo. Nel cluster α-globinico è presente, nella sequenza fiancheggiante 5’ il cap del gene α-globinico, il box ATA che fissa l’inizio della trascrizione, mentre a -80 bp dal cap il box CAAT determina il livello di trascrizione e ancora più a monte è situata una sequenza che lega il fattore di trascrizione Sp1 [2]. Fig. 2. Rappresentazione schematica dei clusters globinici umani. Il cluster α è localizzato all’estremo distale del braccio corto del cromosoma 16 in un tratto di DNA di 30 kb; nei geni per le α-globine il I esone comprende i codoni da 1 a 31, il II da 32 a 99 e, infine, il III da 100 a 141. Il cluster β è posizionato in una regione di circa 70 kb a livello della banda 11(p15.5) nella regione distale del braccio corto del cromosoma 11. Nei geni per le globine di tipo β il I esone contiene i codoni da 1 a 30, il II da 31 a 104 e il III da 105 a 146. Gli introni hanno lunghezza diversa per ogni gene considerato. Sono inoltre illustrate le sequenze fiancheggianti i geni alle estremità 3’ e 5’ [Bianco Silvestroni, 1998]. 6 Elementi con funzione di promotori sono presenti in 5' a ciascun gene per le catene di titpo α e, oltre a questi, è stata identificata una regione di 35 kb, localizzata 30 kb a monte del cluster α, la cui delezione inattiva l’espressione dell’intero gruppo di geni, risultando pertanto di fondamentale importanza dal punto di vista regolativo [5]. La presenza lontano dal cluster α di una zona di circa 50 kb, che riveste un ruolo di regolatore positivo dell’espressione genica è stata confermata tramite esperimenti di delezione che lasciavano intatti, ma non funzionanti, gli stessi geni per le globine α. Le sequenze eritro-specifiche di regolazione-positiva più importanti sono raggruppate in 24 kb e sono associate a siti ipersensibili alla DNasi I, localizzati a -33, -36, -38, -40, -46, -56 kb dal cap del gene per le catene ζ. Questi siti hanno notevole somiglianza per posizione, struttura e funzione con quelli identificati nella Locus Control Region a monte del cluster β, discusso in seguito. Tra questi il sito HS-40 è l’elemento principale; esso dimostra infatti, in esperimenti condotti in vitro, un’attività enhancer maggiore rispetto a quella delle sequenze “core” di ciascun sito HS dell’LCR. Inoltre, ricerche effettuate sull’HS-26 murino, omologo all’HS-40 umano, hanno dimostrato la presenza di sequenze interne all’HS-40 la cui presenza è essenziale per garantire la completa espressione della sua attività enhancer. Sequenze importanti per la regolazione dell’espressione dei singoli geni, sono inoltre presenti a livello delle regioni promotrici, ad esempio nel gene per le globine ζ sono state individuate in posizione prossimale al promotore. Le sequenze che rivestono un ruolo critico nel processo di silenziamento definitivo di ζ al momento dello switch embrio-fetale, invece, si trovano al di fuori dei confini del gene stesso e del suo promotore. Riguardo ai geni per le catene α, mediante studi condotti in vitro e su topi transgenici, sono state individuate delle sequenze, situate nella regione fiancheggiante in 5’ il gene globinico α2 e nella regione fiancheggiante in 3’ il gene α1, dotate di funzione regolatrice positiva. Queste regioni si presentano inoltre ricche di siti di legame per fattori trascrizionali come GATA1 e NF-E2 [2]. Il cluster di tipo β, riportato in Fig. 2, raggruppa in un dominio di circa 70 Kb i geni per le globine β umani ed è posizionato a livello della banda 11(p15.5) nella regione distale del braccio corto del cromosoma 11. Esso comprende lo pseudo-gene ψβ e i geni funzionali per le catene polipeptidiche ε, Gγ e Aγ, δ e β, posti nell’ordine in cui 7 vengono espresse durante lo sviluppo [6]. Le catene di tipo Gγ e Aγ si distinguono tra loro per la sostituzione di una glicina con un’alanina in posizione 136 nella catena peptidica. L’espressione genica è regolata in modo tale che durante le varie fasi dello sviluppo la produzione delle globine β eguagli quella delle α. Questo è reso possibile solo grazie ad un’accurata attività di regolazione trascrizionale, che deve garantire una bilanciata sintesi di globine, tale da consentire sempre la corretta funzionalità biologica della proteina prodotta. I promotori di tutti i geni globinici condividono una notevole omologia di sequenza, ma essi presentano anche delle sequenze uniche, che potrebbero essere responsabili del cambiamento nell’espressione globinica nei vari stadi di sviluppo. Svariati esperimenti di mutagenesi in vitro e di trasfezione del DNA hanno permesso di identificare i promotori di numerosi geni del cluster β di mammiferi, inclusi quelli umani. Queste sequenze regolative minimali consistono appunto nei tre elementi identificati come: TATA box, posizionato a -30 bp, CAAT box, a -75 bp e CACCC a -90 bp dal sito d’inizio della trascrizione genica [7]. Questi elementi sono presenti in tutti i promotori dei geni per le globine, ma i promotori dei geni per le catene γ e β umane sono caratterizzati da una notevole diversità rappresentata, per quanto riguarda il promotore per le γ-globine, dalla duplicazione del CAAT box e dalla presenza in singolo del motivo CACCC, mentre il promotore per le β-globine presenta un raddoppiamento del CACCC e un singolo CAAT box. Si pensa che queste differenze possano avere un’implicazione nella regolazione di questi geni. L’espressione dei geni per le globine di tipo β non è solo regolata dalle specifiche regioni promotrici poste in 5’ ai geni, ma risente dell’influenza anche di una regione regolativa, denominata LCR (Locus Control Region); regioni del tipo LCR sono state identificate in almeno 36 loci di mammifero di differenti specie, inclusi l’uomo, il topo, il ratto, il coniglio e la capra [8]. Differenze filogeniche, emerse dalla comparazione di dati relativi al cluster β di mammifero indicano che anche i clusters di primati ancestrali contenevano una LCR e cinque loci paragonabili ai geni beta-like con un’espressione di tipo sviluppo-dipendente [9]. L’importanza dell’LCR ebbe la prima evidenza sperimentale in seguito a indagini condotte su soggetti olandesi e spagnoli affetti da talassemia, nei quali la patologia si presentava caratterizzata da un gene β-globinico intatto, ma, allo stesso tempo, una 8 delezione a monte del locus rimuoveva l’LCR impedendo l’attivazione del gene per le β-globine. La delezione dell’LCR dimostra che essa, non solo è richiesta per la loro l’espressione genica, ma che la sua presenza influenza la struttura della cromatina stessa. Quando la regolazione dei geni globinici in assenza dell’LCR venne studiata in topi transgenici, fu evidente che i geni per le globine γ e β venivano espressi in maniera sviluppo specifica, ma a bassi livelli e dipendentemente dalla posizione di integrazione nel genoma dell’ospite. Al contrario, quando il gene per le catene β fu studiato in associazione all’LCR, fu osservato uno schema completamente diverso; esso veniva espresso a livelli comparabili con quelli endogeni del topo e in modo indipendente dalla posizione di integrazione nel genoma murino [10]. Queste indagini hanno rivelato che, innanzitutto, LCR contiene delle porzioni ad intensa attività enhancer responsabili dell’elevata espressione genica; in secondo luogo, l’LCR influenza la struttura della cromatina ed, infine, partecipa all’inizio della trascrizione genica regolandola [11]. L’LCR è fisicamente determinata dalla presenza di cinque siti HS, aree di separazione dei nucleosomi, dove il DNA risulta essere suscettibile alla digestione da parte di DNasi I, fatto che rende tale regione accessibile per la trascrizione e per i fattori di rimodellamento della cromatina. Questi siti ipersensibili alla DNAasi I ricoprono una regione di circa 25 kb, collocata tra 6 e 18 kb a monte rispetto al gene per le ε-globine e precisamente a -6.1, -10.9, -14.7, -18 kb. Quattro dei siti ipersensibili (HS1-4) sono riconosciuti da fattori eritro-specifici, mentre uno di essi (HS5) è riconosciuto da un fattore ubiquitario (Fig. 3) ed è un elemento isolatore o di confine. La presenza in questi quattro siti di uguali caratteri strutturali, funzionali e ontogenici indica che essi hanno probabilmente in comune uno stesso elemento core. Questi siti, ciascuno della lunghezza di 300 bp in cis al gene per le β-globine, conferiscono alta efficienza di trascrizione, specificità eritroide ed ontogenica [2]. Per un corretto inizio della trascrizione sono necessarie tutte le sequenze regolative prossimali ai geni globinici e per la massimalizzazione dell’espressione è richiesta la loro interazione con elementi più distanti presenti nell’LCR. La principale attività di LCR è associata ai siti HS2, HS3 e HS4; in ciascuno di questi siti, infatti, sono presenti parecchie regioni di legame per specifici fattori trascrizionali, come GATA1 (erythroid cell- and megakaryocyte-specific trancription factor 1), che si è dimostrato essere essenziale nello sviluppo eritroide [10]. 9 5’HS 7 6 5 432 1 ε G γ Aγ ψβ δ β 3’HS 10 Kb Fig. 3. Rappresentazione schematica dell’LCR. L’LCR è considerata un potente enhancer nel fenomeno dello switching globinico ed è fisicamente determinata dalla presenza di siti HS, aree di separazione dei nucleosomi, dove il DNA risulta essere suscettibile alla digestione da parte dell’enzima DNasi I. Inoltre, il sito 5’HS2, che svolge la sua funzione durante tutti gli stadi di sviluppo, possiede al suo interno siti di legame per i fattori Sp1, NF-E2 e USF. Il fatto che mutazioni effettuate nei singoli siti di legame nella regione 5’HS2 non comportino la soppressione dell’espressione posizione-dipendente, suggerisce che i siti di legame presenti nel mutante sono sufficienti a mantenere la conformazione della cromatina “aperta”. Con altri esperimenti è stata verificata l’abilità di 5’HS2 di provocare l’inizio della trascrizione di geni situati a valle, caratteristica tipica di una sequenza enhancer. Inoltre, in modo simile a quanto fanno altre sequenze enhancer, 5’HS2 contiene sequenze del tipo E-box, che rappresentano i siti di legame per la famiglia di fattori di trascrizione con motivo a “elica-loop-elica”. Tuttavia, il sito HS2 non manifesta quest’attività da solo, ma richiede la contemporanea presenza di un altro sito HS dell’LCR. La delezione dei nuclei ipersensibili alla DNasi I dalle regioni 5’HS2, 5’HS3 o 5’HS4 (200-300 bp circa), interferisce con la normale funzionalità di LCR e fa venir meno l’ipersensibilità alla DNasi I di tutti i siti. Inoltre, la funzionalità dell’LCR sembra dipendente dall’orientazione della regione stessa; infatti, quando la posizione dell’LCR viene invertita rispetto al resto del locus, l’espressione dei geni globinici nel corso dello sviluppo viene ridotta [8]. Tutti questi modelli sperimentali hanno aiutato nella comprensione e nella rivelazione di meccanismi chiave riguardanti la regolazione e la struttura del locus β [11]. 10 1.b. Regolazione dell’espressione dei geni globinici umani. In un individuo adulto la forma prevalente di emoglobina è la HbA (α 2β2), mentre la forma detta HbA2, costituita da due catene α e da due catene δ, rappresenta il 2-3% dell’Hb totale contro una frazione variabile, ma spesso inferiore all’1%, rappresentata dall’HbF (emoglobina fetale), costituita da due catene α e due catene γ. La comprensione dell’ontogenesi dell’emoglobina umana durante lo sviluppo ha una rilevante importanza dal punto di vista biologico; tecniche di biologia molecolare e immunocitochimica sono state impiegate allo scopo di studiare l’espressione dei geni per le ζ-, ε- e γ-globine nel sangue derivato da cordoni ombelicali, sangue periferico di individui adulti, donne in gravidanza e non e in colture cellulari in vitro [12]. E’ possibile identificare e distinguere, durante le varie fasi di sviluppo e crescita di un individuo, diverse forme di emoglobina, le cui caratteristiche strutturali dipendono dall’attivazione o dello spegnimento dei differenti geni globinici. Durante il periodo embrionale, sono attivi i geni responsabili della sintesi delle Hb Gower1 (ζ2ε2 ), Gower2 (α2ε2) e Hb Portland (ζ2γ2), la cui espressione diminuisce progressivamente dopo le prime due settimane di gestazione, in quanto l’espressione delle catene ζ diminuisce conseguentemente all’aumento dell’espressione di α, mentre le globine γ sostituiscono le ε dopo circa sei settimane di gestazione. Il periodo fetale è caratterizzato dall’HbF (α2Gγ2 e α2Aγ2), che costituisce il 90% dell’emoglobina in questo stadio, la cui produzione continua anche dopo la nascita andando a costituire il 5% dell’emoglobina totale per i primi mesi di vita dell’individuo. L’HbF è contraddistinta da una maggiore affinità di legame per l’ossigeno rispetto all’emoglobina adulta, fatto che consente di aumentare l’efficienza di trasferimento dell’ossigeno dalla madre al feto attraverso la barriera placentare. La sintesi di globine γ diminuisce gradualmente dopo la nascita fino ad essere quasi completamente soppiantata dalla produzione di globine β attorno al quarto anno di età. I livelli di espressione dell’HbF nell’adulto subiscono anche un’altra modificazione passando, infatti, da un rapporto Gγ/Aγ di 3/1 nel feto ad un rapporto di 2/3; inoltre i livelli di HbF possono variare notevolmente anche in dipendenza di fattori quali l’età, il sesso o particolarità genomiche, come ad esempio mutazioni puntiformi all’interno del cluster β o in geni ad esso correlati [13, 14, 15, 16]. L’andamento della sintesi globinica sopra discussa è riportato in Fig. 4. 11 Come per tutte le famiglie di geni globinici eucariotici, anche la trascrizione del gene umano per la β-globina è soggetta sia ad una regolazione tessuto-specifica, che ad un controllo sviluppo-dipendente [6]. Fig. 4. Espressione nel tempo e nei diversi tessuti dei differenti tipi di catene globiniche umane. Fino alla 10a settimana di gestazione sono presenti nell’embrione soltanto le catene ζ ed ε; dalla 6a settimana inizia la produzione di catene α e γ, queste ultime nei due tipi Gγ e Aγ nel rapporto di 3:1. Prima della nascita inizia lo switching feto/adulto, cioè il passaggio dalla sintesi delle γ-globine a quella delle β-globine. Alla 10a settimana l’HbA costituisce il 10% dell’Hb totale del feto e dopo la nascita il 20%. Nelle prime settimane dopo la nascita la sintesi di γ-globine si riduce bruscamente e aumenta la sintesi di catene β. Verso il 6° mese di vita l’assetto emoglobinico adulto è completo e l’HbF scompare definitivamente [Purves, Savada, Orians, Heller; BiologiaL’informazione e l’eredità-Zanichelli, 2005]. 12 Nel corso dello sviluppo vengono espressi geni per le globine di tipo α e β differenti, in modo da garantire la produzione di una molecola di emoglobina specifica per quel dato periodo e in grado di soddisfare le esigenze di ossigeno dell’individuo in quello stadio di sviluppo. Quindi, durante l’ontogenesi, in risposta alla variazione della necessità di ossigeno del feto, si verificano due principali ed essenziali cambiamenti nell’espressione dei geni appartenenti al cluster β (Fig. 5) [8]. Nei primi stadi dello sviluppo umano, il tessuto emopoietico è rappresentato dal sacco vitellino che esprime ε-globine; in seguito al primo switch, che si verifica alla sesta settimana di gestazione e che consente al fegato del feto di divenire il principale organo deputato alla produzione di globine γ, si ha la conversione delle globine embrionali ε con quelle fetali γ e con il secondo switch globinico si ha la sintesi, da parte del midollo osseo, di globine δ e β, tipiche dell’età adulta e che vanno a sostituirsi alle γ. Stadio embrionale Switch 1 Switch 2 Sacco vitellino EMBRIONE Placenta FETO Midollo osseo ADULTO Hb Gower 1 (ζ 2ε2) Hb Portland (ζ 2γ 2) Hb Gower 2 (α2 ε 2) Hb F (α2γ2) Hb A (α2 β 2) Hb A2 (α2 δ 2) Fig. 5. Lo switch globinico tessuto-dipendente. La figura descrive la variazione dell’espressione globinica beta-like, che a seconda dello stadio di sviluppo avviene in distretti differenti. E’ rappresentata, inoltre, la composizione delle emoglobine prodotte nell’uomo dall’embrione, dal feto e dall’adulto con i rispettivi siti eritropoietici [Figura tratta da: Grosveld, van Assendelft, Greaves and Kollias. Cell, 51, 975-985, 1987]. 13 L’importante differenza che contraddistingue i geni alfa-like da quelli beta-like risiede nel fatto che i primi sono sottoposti ad un unico intervento di switch durante lo sviluppo e non subiscono cambiamenti dopo la nascita [10]. Sulla base degli esperimenti condotti su cellule embrionali di pollo, è stato osservato che cellule progenitrici isolate da embrioni di 23 ore, sintetizzavano emoglobina per poi differenziarsi, dopo alcuni giorni, in eritroblasti. Isolando il DNA sia dalle cellule progenitrici che dagli eritroblasti, è stata evidenziata una differenza nell’attivazione dei geni globinici nei vari stadi di sviluppo. I geni espressi delle cellule progenitrici differiscono da quelli espressi negli eritroblasti per diversi aspetti: diverso grado di metilazione del DNA e diversa sensibilità agli enzimi e proteine non istoniche associate. Per quanto riguarda la metilazione del DNA l’unica base che viene modificata nei vertebrati è la 5-metil citosina, dove il dinucleotide CG (coppia citosina-guanina) risulta metilato dal 20% all' 80% a seconda del tessuto e della specie. In particolare i geni per le globine α e β risultano essere metilati nelle cellule progenitrici e ipometilati negli eritroblasti, poichè uno scarso grado di metilazione è correlato con l’attivazione della loro espressione. La diversa sensibilità agli enzimi di restrizione è stata accertata con enzimi quali HPA II, che taglia in corrispondenza di siti non metilati, e MSPI, che taglia sia siti metilati che non metilati. Questi enzimi riconoscono la sequenza CCGG e presentano una specificità differente a seconda della metilazione o meno della citosina, quindi la metilazione rende queste sequenze resistenti al taglio di HPAII, ma non a quello di MSPI. E’ pertanto possibile, sulla base di questo principio, stabilire lo stato di metilazione del DNA tramite indagini di Southern blotting. Lo schema di espressione dei clusters globinici è sottoposto ad una regolazione, durante la crescita, mediata dalla metilazione del DNA genomico. Tale modello di metilazione viene costituito nelle prime fasi di sviluppo e mantenuto in maniera semiconservativa attraverso le varie divisioni cellulari [17]. La metilazione del motivo CpG può agire come deterrente alla formazione del complesso di pre-iniziazione o impedire l’accesso dei fattori di trascrizione e, indirettamente, contrastare il rimodellamento della cromatina. E’ stato dimostrato che il DNA allo stato metilato richiama proteine di legame sui siti metilati, che interagiscono così con le istone-deacetilasi, le quali hanno un ruolo nello stato di alterazione della cromatina. Solitamente le aree di cromatina allo stato attivo si presentano scarsamente metilate e la metilazione delle isole CpG nelle regioni promotrici è associata ad una perdita di ipersensibilità al taglio della DNasi I. 14 Perciò, quando è metilata, la cromatina di un locus genico è allo stato inattivo e trascrizionalmente silente. Bisogna però considerare che il gene umano per la β-globina non possiede regioni CpG, quindi la metilazione non dovrebbe essere responsabile del rimodellamento strutturale della regione contenente questo gene [8]. Diversamente da quanto avviene per il gene codificante le globine β, il silenziamento del gene per le γ sopravviene dopo la nascita indipendentemente dall’attivazione di altri geni del cluster ed è presumibilmente mediato dal legame di fattori specifici a sequenze fiancheggianti i geni stessi. Il meccanismo con il quale il silenziamento del gene per le γ-globine viene mantenuto nel tempo risulta essere meno chiaro, ma, probabilmente, il cambio dello loro stato di mutilazione, che accompagna lo switch, potrebbe essere coinvolto. Infatti, il gene per le γ-globine, si trova in uno stato di ipometilazione durante lo stadio fetale in cui è espresso ad alti livelli, mentre è completamente metilato dopo il suo silenziamento. E’ di spiccato interesse l’osservazione, effettuata su sia nell’uomo che nei babbuini trattati con l’agente demetilante 5-azacitidina, secondo la quale si ha una riattivazione dell’espressione di gamma globine; questo suggerirebbe che la metilazione sia responsabile dell’inattivazione dell’espressione genica a carico del gene per le catene γ [18]. Più in generale, la presenza di gruppi metilici funge da segnale molecolare, con la funzione di dirigere la conformazione del DNA verso una forma inaccessibile della cromatina e di determinare la locale deacetilazione degli istoni H3 e H4. In seguito a queste osservazioni, è stato postulato che la metilazione sia un meccanismo che causa la repressione basale della trascrizione. In accordo con queste premesse, molti geni tessuto specifici sono metilati nella maggior parte degli istotipi cellulari, ma subiscono processi di demetilazione in seguito allo sviluppo nelle cellule dove la loro espressione risulta specifica. Concentrare l’attenzione sullo studio del locus della β-globina sul cromosoma 11, è considerato una strategia utile per indagare i meccanismi di metilazione-demetilazione connessi alla regolazione dell’espressione dei geni. Nelle cellule non-eritroidi, l’intero locus genico viene replicato nella tarda fase S del ciclo cellulare e incluso in una regione di cromatina molto impaccata ed insensibile alla DNAasi, dove tutti i geni risultano essere metilati. Per contro, durante il differenziamento specifico in senso eritroide, l’intero locus è sottoposto ad un processo di “apertura”, divenendo replicabile 15 e DNAasi sensibile, ma solo alcuni dei geni subiscono demetilazione e diventano di conseguenza trascrizionalmente attivi. Gli effetti della metilazione sull’espressione genica sono stati indagati anche usando un transgene globinico inserito in cromosoma di lievito YAC (Yeast Artificial Cromosome), contenente l’intero locus umano per la β-globina, che è stato dimostrato essere opportunamente regolato nel topo. E’ stato possibile osservare i risultati derivanti dalla metilazione sulla trascrizione del gene per le catene γA, sia in cellule eritroidi che non eritroidi, e si è concluso che il quando demetilato viene espresso a livelli fino a 20 volte superiori rispetto alla sua copia metilata. Questi risultati concordano con quanto scoperto sull’inibizione della trascrizione del gene per le globine γA in seguito a metilazione in fibroblasti transfettati. La metilazione del DNA causa, inoltre, deacetilazione degli istoni e questo sembra essere un ulteriore meccanismo di inibizione dell’espressione genica. Il promotore del gene per le globine γA, nelle cellule non eritroidi, è incluso in nucleosomi contenenti l’istone H4 deacetilato, similmente a quanto riscontrato per altri geni la cui espressione è repressa. Straordinariamente, in assenza di metilazione, questa stessa regione viene acetilata, raggiungendo gli stessi elevati livelli, probabilmente come risultato dell’associazione di proteine di legame a geni trascrizionalmente attivi nelle cellule eritroidi, come il gene per la β-actina o quello per la β-globina. Risultati analoghi sono stati osservati per l’istone H3, già noto per essere correlato con l’attività genica. Quanto riscontrato suggerisce che sia proprio la metilazione del DNA a giocare un ruolo dominante nel causare o mantenere l’acetilazione degli istoni in quel determinato locus [17]. 1.c. Ruolo dell’LCR nella regolazione dell’espressione dei geni globinici. Uno dei principali e più interessanti fenomeni a carico del cluster β è l’evento caratterizzato dalla soppressione dell’espressione del gene per le γ-globine contemporaneamente all’aumento dell’espressione del gene per le β-globine. La piena comprensione di questo processo ha importanti implicazioni dal punto di vista terapeutico per il trattamento della β-talassemia e dell’anemia falciforme; considerando il fatto che, dal punto di vista funzionale, la γ-globina può sostituire il prodotto di un 16 difetto genetico del gene per le β-globine, ogni progresso nella comprensione dei meccanismi caratterizzanti lo switching globinico è oggetto di studio per derivarne un potenziale beneficio terapeutico nel trattamento delle patologie sopra considerate. Gli studi iniziali sulla regolazione dell’espressione dei geni globinici erano focalizzati principalmente sulla relazione tra la l’LCR ed i singoli geni β-like, tramite l’analisi della funzione di ampi frammenti del locus in topi transgenici, ma anche i singoli siti ipersensibili all’interno della stessa LCR sembrano rivestire ruoli differenti nel rimodellamento della cromatina e nel controllo dello switching globinico. Esperimenti condotti su topi transgenici, trasdotti con costrutti contenenti sia porzioni che l’intero locus umano per la β-globina, hanno portato a intuire la presenza di un cis-controllo dello switching globinico: l’osservazione di elementi di regolazione associati in “cis”, che controllano l’espressione dei geni beta-like ha rivelato una molteplicità di motivi attivatori o repressori dell’espressione dei geni globinici ad ogni appropriato stadio dell’accrescimento. Diversamente dall’LCR, gli elementi agenti in cis svolgono funzione locale su regioni vicine di cromatina; in contrasto, LCR agisce su lunghe distanze per attivare l’espressione dei geni globinici. Questi elementi cisregolatori sono rappresentati da: 1. Silencer: legano complessi proteici che interferiscono con l’attività del promotore causando la riduzione dell’espressione genica. Un elemento silenziatore posizionato distalmente nel promotore del gene per le ε-globine controlla la repressione autonoma della loro espressione durante lo stadio fetale ed adulto. Le proteine GATA1 e YY1 costituiscono almeno due delle componenti comprese nel complesso di repressione [19]. Inoltre, due elementi DR (direct repeat), localizzati prossimalmente, nel promotore del gene per le ε-globine, legano una proteina di recente identificazione, chiamata DRED (direct repeat erythroid-definitive binding protein), il cui legame sembra interferire con il legame del fattore EKLF (erythroid Kruppel-like factor) al promotore, provocando il silenziamento definitivo del gene per le globine ε in età adulta. 2. Insulator: creano domini funzionali indipendenti che bloccano gli effetti negativi esercitati dall’eterocromatina circostante, senza tuttavia intensificare o attivare la trascrizione genica, e disturbano l’interazione tra un promotore ed un altro elemento di regolazione solamente interponendosi tra questi. Gli elementi insulators possono, inoltre, bloccare l’attività delle istone-deacetilasi. Infine, gli insulators facilitano 17 l’attività di elementi enhancers collocati internamente ad una regione di cromatina aperta. Un’ipotesi è che l’LCR abbia funzione di insulator, perchè è stato dimostrato in cellule eritroidi che essa fa esprimere transgeni correlati, in modo indipendente dalla posizione occupata; in particolare, il sito ipersensibile 5’HS5 dell’LCR potrebbe svolgere attività di insulator. 3. MARs (matrix attachment region) e SARs (scaffold attachment region): sono elementi di DNA che promuovono il legame alla matrice nucleare con il risultato di ottenere la formazione di loops in sequenze contigue del DNA. Questi elementi possono costituire una barriera proteggendo il locus dagli effetti della cromatina circostante e imporre una restrizione strutturale al rimodellamento della cromatina; per questi motivi il loop di DNA potrebbe essere un bersaglio dell’attivazione trascrizionale. I MARs hanno la funzione di proteggere il DNA dagli effetti mediati dagli elementi che agiscono in cis nei loops attigui quando la cromatina si decondensa, oppure hanno la funzione di tenere uniti assieme i cis-elementi regolativi dei loops vicini. Inoltre, possono promuovere la giustapposizione di elementi cis-regolatori e di promotori genici all’interno dello stesso loop. Dal momento che la regione 5’HS5 presenta delle omologie con le regioni MARs si può attribuirle tale attività; questa ipotesi è ulteriormente supportata dal fatto che, quando LCR è posizionalmente invertita, 5’HS5 potrebbe isolare i geni globinici dall’interazione con l’LCR, causando il silenziamento della loro espressione. Sebbene il ruolo di 5’HS5 rimanga controverso, si può assimilare la sua funzione a quella di un elemento silencer piuttosto che insulator. 4. Boundary elements: possono essere posizionati a vari livelli internamente al locus e assumere un ruolo limitante l’espressione genica quando associati a proteine. Questi elementi sono caratterizzati da tre principali proprietà: la loro associazione con elementi insulators, il mantenimento di un equilibrio tra la conformazione aperta e quella chiusa della cromatina e la presenza sia di elementi di sequenze del dominio terminale che di proteine di legame [8]. Molteplici meccanismi d’azione sono stati proposti per chiarire la funzione dell’LCR; i primi modelli, basati su esperimenti condotti su topi transgenici, suggerivano che lo switching globinico avvenisse seguendo meccanismi di competizione e che i geni prossimali avessero un’interazione preferenziale con la sequenza LCR. Questi modelli non hanno mostrato tuttavia la modalità e la via d’azione 18 attraverso cui l’LCR prenderebbe contatto con i differenti geni globinici nel corso dello sviluppo e della crescita [11]. Al centro di indagini più recenti sono state considerate sia l’azione esplicata dall’LCR sul rimodellamento della cromatina, che il meccanismo attraverso il quale la struttura della cromatina influisce sull’espressione genica. La cromatina è un impaccamento ordinato di DNA in complessi chiamati nucleosomi che coadiuvano il corretto porzionamento del materiale genetico tra le cellule figlie. La cromatina svolge la sua azione di controllo sull’espressione genica alternando la sua struttura tra le conformazioni dette “aperta” e “chiusa”. La forma “aperta” è generalmente DNAasi I sensibile e iperacetilata, mentre la cromatina “chiusa” è insensibile all’azione delle DNAasi I e ipoacetilata. La sua struttura è influenzata, inoltre, da parametri come la natura delle sequenze di DNA e dallo stadio del ciclo in cui la cellula si trova. I meccanismi che realmente correlano la struttura della cromatina alla regolazione trascrizionale rimangono tuttavia di difficile comprensione. Le proteine che attivano il processo di trascrizione possono raggiungere il DNA senza sconvolgere la struttura impaccata dei nucleosomi, oppure possono richiedere l’assistenza di co-fattori che modificano i nucleosomi per rendere il DNA più facilmente accessibile. Oltre al rimodellamento della cromatina, nel controllo della trascrizione, svolgono un ruolo importante: l’acetilazione, la fosforilazione e la metilazione del DNA. E’ stato dimostrato che molti fattori di rimodellamento dei nucleosomi, che modificano la struttura del DNA istonico, come ad esempio il complesso SWI/SNF (switch/sucrose non–fermenting) ed il complesso CBP/p300 (CREB binding protein) sono in grado d’interagire con fattori eritro-specifici, influenzandone sia la conformazione che l’attività. Ad esempio, il complesso SWI/SNF di lievito ed il complesso NURF (nucleosome remodeling factor) della Drosofila sono implicati nel rendere accessibile il DNA ad altri fattori di trascrizione e nel renderlo disponibile per l’attivazione trascrizionale (Fig. 6) [8]. Per quanto concerne il coinvolgimento dell’LCR nell’apertura della cromatina, il ruolo dell’LCR nella modulazione della struttura cromatinica del locus β è stato chiarito da alcune mutazioni responsabili della talassemia nell’uomo. Ad esempio, la talassemia ispanica è dovuta alla delezione di 35 kb che circondano l’LCR e di 22 kb a monte di esso. In questi pazienti la conformazione del locus β è “chiusa”, esso è DNAasi I resistente e trascrizionalmente inattivo, a dimostrazione del fatto che l’LCR è 19 effettivamente coinvolta sia nei processi di apertura della cromatina, che nell’attivazione della trascrizione [8]. Fig. 6. Locus Control Region e regolazione dell’espressione globinica. Sembra che il meccanismo molecolare attraverso il quale l’LCR dirige l’espressione globinica sia la formazione di loops di DNA dovuti all’interazione di complessi multipli DNA-proteina coi singoli promotori per le diverse globine del cluster β secondo il modello schematizzato in figura. Inoltre, è stato ipotizzato che i promotori per i geni globinici competano tra loro per l’interazione con l’LCR durante il corso dello sviluppo. Applicando tale ipotesi allo switching delle globine umane, si è supposto che durante il periodo fetale la disponibilità di fattori specifici di quello stadio favoriscano l’interazione del gene per le γ-globine con la sequenza LCR; mentre nel periodo adulto dell’eritropoiesi, fattori specifici per l’età adulta avvantaggino l’interazione dell’LCR con il gene per le globine β. Tuttavia, il meccanismo attraverso il quale LCR interagisce con i diversi geni 20 globinici non è ancora pienamente definito; a tal riguardo sono stati proposti quattro differenti modelli. Secondo il “looping model” l’LCR si ripiega in un olocomplesso, in cui i nuclei degli HS formano un sito attivo legante fattori di trascrizione e le sequenze fiancheggianti tali nuclei costringono l’unità integrata dell’olocomplesso ad assumere la giusta conformazione. Questa struttura forma un occhiello (loop), cosicché l’LCR si associa strettamente al promotore del gene prossimale e agli elementi enhancers per portare proteine di trascrizione che interagiscono con l’apparato di trascrizione basale, già legato al promotore, attivando l’espressione globinica (Fig. 7). Fig. 7. Regolazione dell’espressione globinica. Sembra che il meccanismo molecolare attraverso cui viene diretta l’espressione globinica sia la formazione di loop di DNA dovuti all’interazione di complessi multipli DNA-proteina coi singoli promotori dei geni per le diverse globine del cluster β [Figura tratta dal sito internet:www.utpb.edu/.../regulation/8_28.gif]. Una variante di questo modello propone l’LCR come un recettore multiplo di elementi che funge da fulcro e punto di snodo per coordinare l’azione di fattori implicati 21 nel rimodellamento della cromatina. Una volta iniziata l’attività di rimodellamento della cromatina, LCR agisce direttamente sui geni situati a valle e ne facilita l’espressione. Basandosi sull’evidenza che la delezione del nucleo 5’HS2 abolisce l’espressione dei geni per le globine ε, γ e β, è stato proposto un modello secondo il quale le regioni fiancheggianti rimanenti dell’HS2 sono in grado di interagire con le sequenze fiancheggianti gli altri siti HS e assumere comunque la conformazione tipica dell’olocomplesso. Se la delezione comprende sia il centro che le sequenze fiancheggianti di HS2, l’espressione temporale dei geni rimane immutata, ma essa avviene a livelli notevolmente ridotti. Ciò significa che i rimanenti siti HS sono comunque capaci di adottare la conformazione dell’olocomplesso attraverso la formazione di un sito attivo, ma che questo sarà leggermente meno efficente. Risultati simili sono stati ottenuti in seguito alle osservazioni fatte dopo la delezione del nucleo HS3 e di tal nucleo più le sequenze fiancheggianti; si è visto che il nucleo HS3 può rimpiazzare dal punto di vista funzionale il centro di HS4, ma che non è possibile realizzare il contrario. Seguendo il “tracking model”, invece, fattori di trascrizione ausiliari e co-fattori legano le sequenze dell’LCR formando un complesso di attivazione che migra in modo lineare lungo il DNA. Quando il complesso di attivazione si imbatte nell’apparato di trascrizione basale, situato sul promotore appropriato in base allo stadio di sviluppo, si ottiene l’assemblaggio dell’apparato trascrizionale completo, evento dal quale consegue l’inizio della trascrizione. Deacetilasi e metilasi interne al complesso riorganizzano la cromatina dopo che il complesso ha attivato il processo di trascrizione, forse allo scopo di limitare tale attivazione ad un particolare stadio di sviluppo. E’ stato proposto, inoltre, un “facilitated-tracking model”, che combina insieme aspetti appartenenti ai due modelli precedentemente descritti. Seguendo tale modello, alcuni fattori trascrizionali sequenza-specifici legano le sequenze 5’HS dell’LCR ed il complesso che ne deriva forma un loop in grado di prendere contatto con il DNA a valle, in posizione prossimale rispetto al promotore del gene, dove il complesso di fattori trascrizionali viene rilasciato. Successivamente, il complesso di attivazione slitta fino a raggiungere gli elementi promotori appropriati e la trascrizione genica avrebbe inizio. Infine, il “linking model”, suggerisce l’esistenza di un legame stadio-specifico di fattori di trascrizione e di proteine che facilitano la modificazione della cromatina. Il 22 legame sequenziale di fattori di trascrizione lungo il DNA dirige cambiamenti conformazionali della cromatina e delimita il dominio trascrizionale. Questi fattori di trascrizione sono associati l’uno all’altro e costituiscono un “ponte”che collega l’LCR al promotore del gene tramite proteine non leganti il DNA e “modificatori” della cromatina. Nel locus β-globinico questo complesso proteico continuo può agganciare in modo specifico l’LCR al gene globinico β-like, che viene quindi trascritto [8]. I differenti modelli di funzionamento dell’LCR proposti sono stati riassunti e schematizzati in Fig. 8. Fig. 8. Modelli proposti per spiegare il meccanismo d’azione dell’LCR nella regolazione dei geni globinici. Il gene viene indicato in figura dal rettangolo verde, mentre il corrispondente promotore è in azzurro. I piccoli box colorati rappresentano i quattro siti HS eritro-specifici. Le sequenze fiancheggianti i siti HS sono descritte come loop tra i core degli HS stessi. Le frecce viola simboleggiano la trascrizione e gli ovali e cerchi sono i fattori di rimodellamento della cromatina [Figura tratta da: Susanna Harju, Kellie J.McQueen, Kenneth R.Peterson- “Cromatin structure and control of β-like globin gene switching”-Exp Biol Med Vol. 227 (9): 683, 700, 2002]. 23 Il fatto che l’LCR esplichi la sua influenza mediante meccanismi di competizione, suggerisce che essa sia incapace di interagire e stimolare l’attività di più geni contemporaneamente. Questo può essere spiegato dal fatto che i singoli elementi HS dell’LCR si uniscono tra loro per formare un complesso, che a turno li pone in contatto con i differenti geni. Pertanto si è portati a pensare che i siti HS abbiano una diversa specificità di sviluppo e che i geni competano per il legame ad un determinato elemento specifico in base allo stadio di sviluppo del momento. Recentemente sono stati condotti studi su topi transgenici per chiarire se i siti ipersensibili dell’LCR interagiscono con i geni in modo differente gli uni dagli altri e se effettivamente essi hanno un ruolo sviluppo-specifico. I risultati hanno dimostrato che il comportamento individuale dei siti HS è differente nei confronti dei geni per le γ- e βglobine , supportando l’ipotesi che l’attività di LCR non sia neutrale, ma dipendente appunto dallo stadio di accrescimento. Di notevole interesse è stata la scoperta che identifica nell’HS3 l’unica porzione di LCR capace di dirigere l’espressione delle globine γ nel fegato in età fetale; questo ha portato alla conclusione che HS3 possa essere il sito per il quale i geni per le globine γ e β competono durante lo sviluppo nel periodo fetale. Nello stadio adulto, quando è maggiormente attiva l’espressione del gene per quelle di tipo β, è HS4 il sito formante interazioni più stabili col gene e che quindi ne dirige l’espressione. La combinazione di queste osservazioni sperimentali porta alla conclusione che in concomitanza con lo switch tra le globine γ e β, durante il passaggio feto-adulto, avviene anche uno switch funzionale tra i siti HS3 e HS4 [10]. 1.d. Fattori trascrizionali e proteine coinvolte nella regolazione dell’espressione dei geni globinici. Sebbene i meccanismi molecolari caratterizzanti l’espressione differenziale dei geni globinici non siano ancora pienamente e completamente chiari, sono coinvolti in maniera decisiva e importante sia elementi promotori situati a monte dei geni, che enhancers con attività eritro-specifica. Questo ruolo essenziale potrebbe essere mediato dall’azione di diverse interazioni proteina-DNA o proteina-proteina, come è stato già dimostrato per altri sistemi di regolazione genica eucariota. Di conseguenza, 24 l’identificazione di sequenze leganti fattori di trascrizione, rappresenta un passo essenziale per la comprensione del meccanismo di switching globinico [7]. Anche i vari stadi del ciclo cellulare sono responsabili del diverso grado di accessibilità di un gene agli stessi fattori di trascrizione; durante il rimodellamento della cromatina, infatti, avviene l’acetilazione degli istoni, che cambia nei diversi momenti del ciclo cellulare ed è legata alla sua progressione. L’acetilazione avviene a livello dei residui di lisina interni agli istoni e neutralizzandone il carattere basico si causa l’alterazione dell’intera struttura del DNA; la distruzione del contatto tra DNA e nucleosoma, permette l’accesso ai fattori di trascrizione e apre l’opportunità che conduce all’attivazione trascrizionale. Similmente all’acetilazione, il processo di fosforilazione dell’istone H3 interrompe l’interazione DNA-nucleosoma e aumenta la possibilità di accesso dei fattori di trascrizione al DNA. La fosforilazione di H3 è mediata dalla MAP chinasi e coincide con il momento dell’espressione genica precocissima; l’attività della MAP chinasi viene indotta in seguito a fattori di stress come ad esempio temperature elevate, cambio di osmolarità, mancanza di nutrienti o diminuzione di ossigeno. Con esperimenti di footprinting è stato possibile indagare un eventuale coinvolgimento ed il ruolo della metilazione del DNA in queste interazioni proteinaDNA. In effetti, è stato osservato e concluso che queste interazioni specifiche sono ostacolate e impedite a livello dei nucleosomi a causa della locale deacetilazione degli istoni mediata dalla metilazione del DNA [17]. Tuttavia, anche la fosforilazione rappresenta un modo per regolare l’attività dei fattori di trascrizione. Un esempio è rappresentato dai fattori GATA-1 e NF-E2 (nuclear factor erytroid 2), che risultano fosforilati, ma per quanto riguarda GATA-1 questo non sembra influenzarne il legame al DNA, mentre la fosforilazione di NF-E2, mediata dal complesso Ras-Raf-MAPK, aumenta l’efficienza di legame ATP-dipendente di questo fattore al promotore genico per le β-globine e al sito 5’HS2 dell’LCR [8]. Uno dei principali meccanismi effettori dell’espressione globinica nelle cellule eritroidi è mediato dalla presenza e dall’azione di fattori di trascrizione altamente specifici come GATA1,CP1/NF-Y (leganti il CAAT box) e NF-E3 (nuclear factor erytroid 3), che riconoscono definite sequenze presenti in diversi siti del locus globinico, incluso il promotore del gene per le γA. 25 Sia l’LCR che i cis-elementi hanno la funzione di fornire siti di legame per i fattori proteici e favorire l’accesso a queste sequenze di DNA direttamente in corrispondenza dei siti HS, ma nella cascata della regolazione genica degli eucarioti, anche gli elementi che agiscono in trans giocano un ruolo importante [8]. Il maggior passo in avanti in questo campo d’indagine è relativo alla scoperta di nuovi fattori di trascrizione regolanti l’espressione genica delle globine γ e β durante le diverse fasi di sviluppo [6]. Il silenziamento competitivo, durante lo stadio fetale, del gene per le catene β da parte di un gene per le γ ad esso correlato, sembra essere mediato in parte da SSE (stage selector element), un elemento localizzato in una regione a -50 dal promotore del gene per le γglobine. SSE giace in posizione immediatamente adiacente al γ-TATA box e viene riconosciuta e legata da un complesso di fattori di trascrizione fetali/eritroidi noto come SSP (stage selector protein). La sequenza SSE contribuisce, sia in linee cellulari umane che in modelli murini, all’espressione preferenziale del gene per le γ-globine; questa sequenza permette infatti l’interazione preferenziale di questo promotore genico con il sito ipersensibile HS2 dell’LCR causando il silenziamento del promotore genico per le β-globine. L’attività della sequenza SSE è stata correlata con il suo legame da parte della proteina SSP (SSE binding protein), fatto enfatizzato anche da studi di footprinting filogenetici ed evoluzionistici che hanno dimostrato la perdita dei siti di legame per SSP nelle specie non esprimenti γ-globina allo stadio fetale [18, 20]. SSP costituisce un complesso che include la proteina ubiquitaria CP2 (CAAT binding protein 2), riconosce la sequenza SSE del promotore del gene per le globine γ e lega il motivo CAAT formando un eterodimero con una proteina partner del peso di 45 kD. Con tecniche di co-immunoprecipitazione è stata recentemente identificata questa proteina denominata NF-E4 (nuclear factor erytroid 4) [11]. CP2, appartenente alla famiglia di geni “grainhead” della Drosophila, lega come dimero il motivo CNRG(N5-6)CNRG sul DNA, presente in vari promotori cellulari e virali, e consiste in omo/eterodimeri di molteplici isoforme proteiche, prodotte in seguito a fenomeni di splicing alternativo dai differenti loci genici LBP-1c e LBP-1a. CP2 sembra essere coinvolto nell’espressione eritroide fetale del gene γ-globinico attraverso la formazione di un dimero con la sua controparte NF-E4 [21]. Quest’ultimo, la cui attività è eritro-specifica, sembra conferire la specificità di legame all’SSE e la preferenziale attivazione del promotore del gene per le γ rispetto al quello per le β-globine [18]. Infatti, nei precursori eritroidi isolati da 26 sangue derivato da cordoni ombelicali, il gene per le globine β risulta soppresso, mentre l’espressione genica per le γ aumenta; mentre è stato dimostrato che in presenza di NF-E4 l’interazione del promotore del gene per le β-globine con l’LCR viene avvantaggiata e altri fattori necessari all’espressione del gene pee le γ-globine diminuiscono progressivamente durante lo stadio adulto [11, 20]. Il sito di legame per il fattore di trascrizione ubiquitario CP2 si trova in una zona adiacente a quella riconosciuta e legata dal fattore GATA-1, che riveste una notevole importanza dal punto di vista funzionale, soprattutto per quanto riguarda l’attività di altri promotori di geni relati al differenziamento eritroide, come EKLF ed NF-E2. Il CP2 lega la regione enhancer di GATA-1 HS2, generando così un complesso ternario con GATA-1 e il DNA. Anche in altri geni appartenenti alle cellule della linea emopoietica i siti legati da GATA-1 e da CP2 sono situati in posizione adiacente. Tuttavia l’interazione fisica tra i due fattori è risultata indipendente dalla presenza del DNA, come dimostrato con esperimenti di immunoprecipitazione. Il ruolo comune svolto dai due fattori di trascrizione suggerisce la possibilità che la loro attività venga esplicata mediante un meccanismo di cooperazione reciproca [21]. Tra i vari fattori proteici coinvolti nell’espressione sviluppo-specifica delle cellule eritroidi, uno è rappresentato da EKLF (erytroid Kruppel-like factor), un fattore di trascrizione contenente motivi a “zinc finger”, il quale lega con alta affinità il motivo CACCC appartenente al gene per le catene β e, per contro, dimostra invece una scarsa forza di legame per la stessa sequenza CACCC presente in quello per le catene γ, provocando di conseguenza un’attivazione preferenziale delle β-globine; pertanto EKLF è considerato un regolatore specifico dell’espressione specifica di questo gene in età adulta [6]. L’mRNA di EKLF è stato isolato per la prima volta da cellule eritroidi e questo ha dimostrato che esso è un fattore eritro-specifico [22]. Essendo il fattore EKLF maggiormente espresso negli stadi avanzati dello sviluppo, esso si comporta come un fattore di switching verso lo stadio adulto [6]. Sembra infatti che esso sia coinvolto quantitativamente nello switch e nella competizione tra i geni globinici γ e β. Il CACCC box sembra però non essere l’unico sito di legame per EKLF, infatti anche il sito 5’HS3 dell’LCR può costituire un bersaglio di legame per questo fattore [8]. Inoltre, sono stati condotti degli esperimenti in vivo e in vitro per dimostrare che EKLF è una fosfoproteina la cui proprietà di legame al DNA nell’attivazione trascrizionale è 27 dipendente dal suo stato di fosforilazione (tra le chinasi coinvolte in questa funzione di particolare interesse è la caseina chinasi II) [22]. Ricerche compiute nel corso degli ultimi anni hanno attestato che vi sono anche altri fattori, oltre ad EKLF, influenzanti la corretta trascrizione di β-globine; tra questi è stata identificata una nuova proteina "zinc-finger", chiamata UKLF (ubiquitans-kruppellike-factor). La porzione carbossi-terminale di UKLF contiene tre regioni a "zincfinger" di tipo Cys2-Hys2 e si lega in vitro alla sequenza CACCC del promotore della β-globina e alla sequenza riconosciuta da Sp1, mentre la porzione ammino-terminale di UKLF è caratterizzata da una regione idrofobica ricca in serine e da un segmento carico negativamente con molti residui di acido glutammico. I primi 47 aminoacidi della regione acida sono molto simili alla porzione ammino-terminale di un altro fattore "kruppel-like", CPBP o ZF9 (core-promoter-binding-protein). Come ZF9, anche UKLF può funzionare da attivatore trascrizionale, attività che viene persa quando la parte ammino-terminale altamente conservata viene deleta [22]. Direzionando la ricerca verso l’individuazione di fattori fetali con azione simile a EKLF sono stati isolati altri due fattori: FKLF (fetal Kruppel-like factor), attivo principalmente sul gene per le ε-globine, e FKLF-2, la cui attività è diretta verso il gene per quelle di tipo γ. Tuttavia il ruolo rivestito da questi due fattori nel processo dello switching necessita di ulteriori chiarimenti, poiché la loro espressione non sembra esseere eritro-specifica [6]. FKLF ha la capacità di incrementare, in modo predominante, l’espressione genica di ε e, in minor misura, di γ, ma non riesce però ad attivare altri geni eritroidi contenenti CACCC o GC box. Ultimamente è stato identificato e clonato un nuovo fattore, FLKF-2, un forte trans-attivante, che aumenta l’espressione del gene per le γ-globine di oltre 40 volte, sei volte la trans-attivazione operata da FKLF. FLKF-2, però, non è un attivatore specifico dell’espressione del gene per le globine γ, in quanto ha dimostrato di essere in grado di attivare anche i geni per le ε e β attraverso il TATA box o una sequenza vicina, sebbene in misura minore [11]. Come già precedentemente descritto, la regolazione dell’espressione dei geni globinici costituisce un interessante quanto elaborato modello di studio; tale regolazione subisce l’influenza esercitata dall’LCR che possiede sequenze per il legame sia di fattori eritro-specifici, che fattori regolativi più generali, come Sp1. La formazione di un sito trascrizionalmente attivo a livello della cromatina riguarda sia modificazioni istoniche, che un cambio dinamico dei fattori di trascrizione coinvolti. Tramite l’analisi condotta 28 su fegati di feto umano si è indagato il grado di reclutamento di FKLF-2, Sp1 e fattori correlati al locus globinico β umano, allo scopo di investigare e comprendere a pieno la funzione svolta dal fattore di trascrizione Sp1. La proteina ubiquitaria Sp1, contenente dei motivi a “zinc-finger”, è uno dei fattori di trascrizione appartenenti alla famiglia Sp1/XKLF che legano sequenze ricche in GC e GT box; tali motivi possono essere riscontrati in varie sequenze regolative tessuto-specifiche, come quelle appartenenti al promotore β-globinico. Sono stati descritti più di venti membri appartenenti a questa famiglia e tutti quanti presentano un dominio di legame con il DNA avente un motivo a “zinc-finger” Cys2Hys2 conservato, che si trova all’estremità carbossi-terminale. Inoltre, tutti i fattori della famiglia riconoscono gli stessi GC e GT box, sequenze molto importanti in quanto coinvolte nell’espressione di geni tessuto-specifici, geni housekeeping e geni virali. Al fianco di fattori espressi ubiquitariamente come Sp1, Sp3 e UKLF, questa famiglia comprende una serie di proteine come LKLF e BKLF che sono espresse in maniera tessuto-specifica. Perciò, è probabile che il controllo esercitato da tali fattori sulla trascrizione genica derivi da una competizione o da una loro cooperazione per l’interazione con gli stessi siti di legame. Un caso molto esemplificativo a tal proposito è quello di BKLF e EKLF, entrambi fattori eritro-specifici: EKLF attiva la trascrizione del gene per le β-globine, mentre BKLF, un repressore della trascrizione di ε-, γ- e β-globine, mantiene l’opportuno livello di espressione dei geni globinici beta-like. I risultati analizzati hanno portato a pensare che nelle cellule eritroidi progenitrici che non esprimono geni globinici, i GC e GT box dell’LCR siano occupati dal legame con Sp1, che richiama l’azione dell’istone-deacetilasi-1 (HDAC1) e mantiene la cromatina in uno stato strutturale “chiuso” e, allo stesso tempo, impedisce a FKLF-2 di svolgere la sua funzione e di reclutare l’istone acetiltransferasi (PCAF) [23]. Nel corso dell’ematopoiesi, il fattore Sp1 viene fosforilato al terminale amminico e questo evento porta come risultato un aumento nella trascrizione genica, mentre la fosforilazione della treonina in posizione 579 è correlata direttamente all’inattivazione di Sp1. Infatti, il fattore nella forma fosforilata viene spiazzato dal suo legame a favore di FKLF-2 con conseguente attivazione di PCAF che, acetilando gli istoni, attiva la trascrizione del gene per le globine γ [23]. Un simile meccanismo potrebbe essere coinvolto nell’espressione genica di catene β durante l’età adulta; la perdita del legame Sp1 alla sequenza LCR permetterebbe a 29 EKLF di richiamare l’olocomplesso composto da altri fattori di trascrizione ed elementi di inizio trascrizione β-globinica. E’ stato notato che l’acetilazione degli istoni differisce a seconda della regione coinvolta; infatti, dopo l’induzione dell’acetilazione, nel sito HS2 si è osservato l’incremento dell’acetilazione del solo istone H3, mentre per quanto riguarda il sito ipersensibile HS3, sia l’istone H3 che l’H4 subiscono acetilazione. Questa evidenza sperimentale suggerisce che istoni di regioni differenti, vengono acetilati in tempi diversi e reclutano fattori di trascrizione differenti, per assemblare insieme in modo sequenziale il complesso di pre-iniziazione [24, 25, 26]. Il legame di Sp1 è coinvolto, inoltre, nel mantenimento dello stato silente del gene per le β-globine; sia Sp1 che EKLF, infatti, se legati all’LCR possono causare la repressione del processo di apertura e dispiegamento dell’eterocromatina nelle cellule eritroidi. Il sito HS5 dell’LCR sembrerebbe essere un elemento insulator nel locus β, fatto supportato anche dall’evidenza di un suo legame con Sp1, che porta ad impedire l’allargamento della struttura dell’eterocromatina al di fuori del locus, mentre ne mantiene la conformazione aperta in corrispondenza dei siti HS2, HS3 e HS4, cosicchè ad essi sia permessa l’interazione con il promotore per le β-globine mediante fattori di trascrizione [23]. Gli effetti esplicati dall’associazione dei fattori Sp1 e Sp3 sono apparentemente variabili nei diversi geni; Sp1 può agire, ad esempio, come attivatore dell’espressione di geni housekeeping sui quali, al contrario, Sp3 agisce da repressore. D’altronde, nelle cellule somatiche umane, Sp1 e Sp2 cooperano per l’interazione con il promotore al fine di reprimere la trascrizione del gene umano della telomerasi-trascrittasi-inversa, similmente a quanto si è osservato per il locus β umano. In tessuti differenziati come cervello, polmoni e fegato, Sp1 ha dimostrato di essere in forma altamente fosforilata per rilasciare l’inibizione della trascrizione dei geni tessuto-specifici. Al contrario, nelle cellule tumorali o nelle cellule di fegato in rigenerazione, Sp1 si presenta defosforilato, in modo tale che il suo legame sia possibile e che inibisca così l’espressione genica tessuto-specifica e il differenziamento finale di queste cellule [27]. Esperimenti condotti su topi knockout, hanno evidenziato che la maggior parte dei geni contenenti siti di legame per Sp1 si esprimono normalmente, ma contemporaneamente è stata osservata morte prematura degli embrioni. Senza la repressione esercitata da Sp1, fattori tessuto-specifici che agiscono in trans come FKLF-2 e EKLF, possono attivare prima del tempo la trascrizione genica tessuto- 30 specifica; negli embrioni, questa espressione genica inappropriata, conduce alla morte nei primi stadi di sviluppo [23]. Un ruolo di influenza sullo switching emoglobinico potrebbe essere giocato anche da COUP-TFII o NF-E3 (chicken ovalbumin upstream promoter-transcription factor II), un recettore “orfano” per l’acido retinoico, che corrisponde all’attività eritrospecifica di legame di NF-E3 [6]. Esso ha sia funzione di repressore che di attivatore ed è coinvolto nello switching globinici, dove reprime l’espressione del gene ε nelle cellule eritroidi fetali. E’ stato osservato nei topi che COUP-TFII lega, sui promotori dei geni per le catene ε e γ, gli stessi siti di DRED (direct repeat erytroid definitive protein), un repressore del gene per le ε, che sembra impedire il legame di EKLF al suo promotore causando il silenziamento definitivo di tale gene durante l’eritropoiesi. Conseguentemente a tale legame COUP-TFII favorisce la repressione dell’espressione di tali geni e il suo ruolo nel silenziamento del gene ε è dimostrato anche dagli alti picchi di questo fattore registrati nei topi al momento dello switch evolutivo tra feto e adulto [8]. TFII-I e USF sono proteine ubiquitarie con motivo a “elica-loop-elica”, coinvolte nella regolazione della trascrizione di geni contenenti E-box o sequenze iniziatrici. USF1 e USF2 sono proteine strettamente correlate che interagiscono con il DNA sia come omo- che come eterodimeri. Essi legano motivi E-box, situati nelle vicinanze o talvolta a valle di siti di inizio della trascrizione, e aiutano la formazione dei complessi di trascrizione. Una recente indagine genomica condotta su geni di Drosophila ha rivelato che essa contiene nel genoma elementi E-box localizzati a circa 60 bp a valle rispetto al sito di inizio della trascrizione [28]. USF e TFII-I possono agire tanto da attivatori, quanto da repressori della trascrizione, in dipendenza dalle proteine con cui interagiscono e dalle sequenze promotrici con le quali prendono contatto. TFII-I, in particolare, agisce complessandosi con l’istone deacetilasi 3 (HDAC3) e, insieme a questa, lega il promotore del gene per le globine β. Questo è coerente con l’osservazione che l’acetilazione della regione promotrice del gene β risulta fortemente ridotta nelle cellule eritroidi con fenotipo embrionale [29]. Dopo aver verificato l’interazione di entrambi i fattori con il nucleo del promotore genico per le β-globine, sia in vivo che in vitro, si è osservato che il contatto preso da 31 TFII-I è maggiore nelle cellule eritroidi in cui il gene per le β risulta represso [30]. Inoltre, è stato possibile dimostrare, con esperimenti successivi, che la riduzione dell’attività di TFII-I porta a una de-repressione del gene per le catene β nelle cellule eritroidi [29]. Essendo l’interazione di TFII-I più pronunciata nelle cellule in cui il gene per le globine β non viene espresso, si è concluso che tale fattore agisca come repressore dell’espressione di questo gene. In contrasto con questo fatto, USF1 e USF2 interagiscono efficacemente con il gene β-globinico nelle cellule in cui tale gene viene espresso. Altri studi hanno dimostrato che USF interagisce con un E-box funzionalmente importante localizzato presso l’HS2 dell’LCR [29]. NF-E2, appartenente alla famiglia delle proteine “basic-region-leucina zipper”, venne identificato inizialmente in estratti di cellule eritroidi umane e di altri animali; essa è una proteina di legame eritro-specifica che riconosce motivi AP1-simili dell’5’HS2 dell’LCR [2]. Questo fattore di trascrizione è un eterodimero composto da proteine che presentano motivi a “leucina-zipper”: la subunità “p45 di NF-E2” di 45 kD, mentre la”p18 small Maf protein” pesa18 kD; oltre a questa sono coinvolte nel processo dell’eritropoiesi almeno altre tre small Maf protein: Maf G, F e K. Entrambe le subunità appartenenti a NF-E2 sono specifiche per linee cellulari ematopoietiche. Il legame di NF-E2 al DNA sembra essere stimolato in modo specifico dall’azione della Ras-Raf MAP chinasi. Le proteine Maf, allo scopo di legare la subunità p45 di NF-E2, possono legare altre proteine denominate MAREs (Maf recognition elements), formando omodimeri, oppure eterodimeri in associazione a fattori di trascrizione non eritroidi come Fos, coinvolto nell’espressione di geni precocissimi in svariate linee cellulari [31]. L’interazione delle differenti componenti proteiche Maf con la subunità p45 è alla base della modulazione del potere di trans-attivazione esercitato dal complesso NF-E2; inoltre, la competizione tra Fos, NF-E2 e altri fattori di trascrizione per l’interazione con le subunità Maf può essere considerato uno dei meccanismi alla base del differenziamento nelle cellule eritroidi [8]. Mediante studi funzionali è stato stabilito che la presenza di siti di legame per NF-E2 e MAREs all’interno della β-LCR, è importante per l’attivazione trascrizionale e per la formazione dei siti ipersensibili nella stessa LCR [8]. 32 Topi omozigoti per la delezione del gene codificante la subunità p45 muoiono immediatamente dopo la nascita per trombocitopenia, sebbene la loro espressione globinica risulti essere normale; questo fatto suggerisce, evidentemente, l’esistenza di un’altra proteina che può sostituire funzionalmente p45 nel ruolo che essa riveste nell’attivazione della sintesi globinica [32]. Come possibili sostituti funzionali della porzione p45 de NF-E2 nei topi, sono state proposte le due proteine “cap’n’collar” Nrf-1 e Nrf-2 [8]. L’attivazione della subunità p45 è stimolata, sia nelle cellule eritroidi che non, dalla serin-treonin-chinasi PKA (protein-chinasi AMPc-dipendente). Lo schema di trasduzione del segnale mediato dall’AMPciclico, ha dimostrato essere in grado di promuovere la produzione di emoglobina nelle linee cellulari sensibili all’eritropoietina, mentre la PKA si è rivelata necessaria per l’espressione genica eritroide. L’attivazione di p45 da parte della PKA richiede solo la trans-attivazione del terminale amminico del dominio p45 [33]. In aggiunta, NF-E2, è in parte regolata dalla protein chinasi C (PKC), che influenza anche l’attività enhancer della sequenza 5’HS2 dell’LCR; la presenza di sequenze di legame in tandem per NF-E2 all’interno dell’LCR è importante per mediare questo segnale a cascata. NF-E2 può modulare la trascrizione attraverso l’interazione diretta con l’apparato di trascrizione basale TATA-binding protein-associated factor (TAFII130). Questo suggerisce che ci possa essere una diretta interazione fisica tra fattori di trascrizione legati al β-LCR e l’apparato di trascrizione basale legato al singolo promotore mediante NF-E2 [33]. E’ stato provato che l’interazione tra la proteina CBP/p300 (CREB binding protein) e NF-E2 ha come effetto l’aumento dell’attività di CBP/p300 nucleosomal HAT (istone acetil transferasi) e, di conseguenza, l’acetilazione di NF-E2; perciò il fattore di trascrizione eritroide NF-E2 influenza l’attività del complesso di rimodellamento della cromatina CBP/p300; NF-E2 può essere considerato quindi un iniziatore generico dell’espressione globinici [34]. L’ultimo fattore coinvolto nello switching è il fattore PYR, un complesso di parecchie proteine chiamato SWI/SNF (switching and/or sucrose non fermentator), che promuove il rimodellamento e la modificazione della cromatina. Il complesso SWF/SNF è implicato nella regolazione della struttura della cromatina per assemblaggio e mobilitazione dei nucleosomi tramite rottura e ristabilimento dei 33 contatti esistenti tra istoni e DNA. Le subunità che compongono questo complesso sono variabili, indicando un’elevata specificità nel controllo dei differenti loci genici [8]. PYR è un fattore coinvolto tipicamente nello stadio adulto dell’eritropoiesi e lega una regione di DNA ricca in pirimidine che giace tra i geni per le globine γ e β, zona dalla quale può reprimere l’espressione del gene per le globine γ ed attivare quella del gene per le globine β; il suo legame è dipendente tanto dalla sequenza nucleotidica, quanto dalla lunghezza della regione. Il complesso PYR può legare i boundary elements ε/γδ/β, influenzando il cambio della struttura cromatinica del locus durante lo switch tra γe β-globine [6,8]. La delezione della sequenza riconosciuta da PYR causa uno switching prolungato e ritardato; la componente di PYR adibita a legare il DNA è rappresentata dal fattore di trascrizione a “zinc finger” Ikaros, precedentemente noto come fattore tipicamente linfoide e normalmente coinvolto nello sviluppo delle cellule B e T [6]. In aggiunta, questo complesso comprende un elemento repressore, detto NURD (nucleosome-remodeling deacetylase) che riveste sia la funzione di deacetilazione che quella di rimodellamento dei nucleosomi [6,8]. Malgrado i numerosi studi rivolti ai promotori dei geni umani per le β- e γ-globine e le conoscenze riguardanti i geni alfa-like, non sono disponibili altrettante informazioni invece sul gene umano per le globine embrionali ε. Precedenti esperimenti di trasfezione hanno dimostrato l’esistenza di una regione di DNA situata 180 bp a monte del gene umano per le ε-globine in grado di dirigerne l’inizio di trascrizione sia in cellule eritroidi che non. La definizione dei siti di legame per fattori nucleari che ricadono all’interno della regione promotrice del gene per le catene ε è essenziale per la comprensione dei meccanismi molecolari coinvolti nella regolazione dell’espressione di tale gene. Nella sua regolazione sono coinvolti come minimo quattro differenti proteine leganti il DNA: NF-E1, un fattore eritro-specifico, la proteina ubiquitaria εF1, un’altra proteina ubiquitaria specifica per il legame al CACC box ed infine la proteina CBF [7]. E’ stato dimostrato che, similmente a quanto accade per la β-globina adulta, il motivo CACCC del gene ε è essenziale come elemento promotore. Sono stati effettuati esperimenti di footprinting con DNAasi I, sia in presenza di estratti nucleari che della proteina purificata, che hanno confermato che Sp1 è la principale proteina legante il motivo CACC. I risultati ottenuti hanno evidenziato inoltre il legame specifico di Sp1 al CACC box del promotore per il gene per le globine fetali γ [7]. Il gene per le ε-globine 34 mantiene quindi, rispetto agli altri, una regolazione autonoma, attribuibile sia ai siti di legame per Sp1 compresi in una regione di 200 bp a monte del gene, che a sequenze di legame per GATA-1, avendo dimostrato un incremento dell’espressione di catene ε dovuta a mutazioni nei siti per GATA-1, che fa pensare ad un suo ruolo come repressore del gene stesso [6]. GATA-1 è un fattore di trascrizione eritro-specifico richiesto per lo switching globinico e per la maturazione delle cellule eritroidi; esso appartiene alla famiglia di fattori “GATA zinc-finger”, che è caratterizzata dall’abilità di legare la sequenza consenso WGATAR. Siti di legame per GATA-1 sono stati trovati sui promotori dei geni globinici e nei siti ipersensibili nel core dell’LCR 5’HS1-5. In dipendenza dal contesto in cui si trova la sua sequenza di legame e dalla sua interazione con altre proteine, le funzioni esplicate da GATA-1 possono essere sia di attivazione che di repressione dell’espressione genica [8]. La regolazione trascrizionale operata da GATA-1 è coordinata da molteplici elementi regolatori localizzati in 5’ rispetto al sito d’inizio della trascrizione e all’interno del primo introne; questa regione regolativa, riporta al suo interno un sito ipersensibile HS2 e un doppio motivo GATA, essenziale per l’attività promotrice eritroide [21]. GATA-1 lega molti geni eritro-specifici, tra cui i geni globinici, tanto che sono stati riscontrati nelle regioni 3’ e 5’ immediatamente fiancheggianti il gene umano per la β-globina (Fig. 9), almeno sei diversi siti di legame per GATA-1, ma la loro sola presenza non è di per sé sufficiente a garantire un’espressione indipendente dalla posizione. I siti di legame per GATA-1 si trovano molto vicini tra loro e la loro delezione dall’elemento promotore impedisce l’induzione dell’espressione del gene per le β-globine dimostrando il coinvolgimento di GATA-1 nell’attivazione del meccanismo di trascrizione di questo gene [10]. Esperimenti recenti hanno dimostrato e messo in luce che la combinazione minima richiesta per garantire un’espressione genica posizione-indipendente non dipende tanto dalla vicinanza dei due siti di legame per GATA-1, quanto piuttosto dal fatto che accanto a tali siti ci siano da entrambe la parti regioni particolarmente ricche in G, spesso legate efficacemente dal fattore Sp1, fatto che implica il coinvolgimento anche di questa proteina nella trascrizione eritro-specifica [10]. GATA-1 agisce da attivatore quando lega il promotore genico per le γ-globine o i siti ipersensibili HS; sebbene esso normalmente attivi l’espressione di ε-globine, funge anche da repressore per questo 35 stesso gene quando, in presenza del fattore ubiquitario YY1, lega il repressore genico [19]. 400 bp Fig. 9. Modello di trascrizione genica globinica. La figura mostra l’organizzazione dei siti di legame e dei fattori di trascrizione principali coinvolti nella regolazione genica e descritti in dettaglio nel testo [Figura tratta dal sito www.utpb.edu]. Il fattore GATA-1 omodimerizza e interagisce con altri fattori di trascrizione quali SP1 e EKLF; inoltre, tra le proteine che interagiscono direttamente con GATA-1, è stato identificato FOG (friend of GATA-1), il quale presenta nove domini “zinc fingers”, con il sesto dei quali lega GATA-1, mentre non lega per niente il DNA. Il fattore FOG viene co-espresso con GATA-1 durante lo sviluppo embrionale sia nelle cellule eritroidi, che nei megacariociti. Analisi condotte su linee cellulari e topi transgenici privati di FOG, hanno dimostrato che la mancanza di questa proteina conduce ad una eritropoiesi primitiva difettiva [35, 36]. GATA-1 interagisce in vitro anche con CBP/p300 e questo legame causa un’estesa rottura tra istoni e DNA, suggerendo che la formazione del complesso GATA-1/DNA è una delle fasi fondamentali per l’interazione con i siti HS [8]. Il fattore denominato GATA-2, invece, è essenziale per l’ematopoiesi embrionale ed è espresso in svariati tessuti, tra cui le cellule endoteliali. Nonostante GATA-1 e GATA-2 riconoscano motivi simili, sembrano avere ruoli diversi nella regolazione del gene per le β-globine. Nei precursori ematopoietici precoci, infatti, il fattore 36 maggiormente espresso è GATA-2, mentre nelle fasi tardive di sviluppo predomina l’espressione di GATA-1. La perdita totale della funzione di GATA-2 causa un’anemia embrionale mortale, dovuta ad un’ingente deficienza di cellule ematopoietiche primitive e pluripotenti [37]. 1.e. Il gene umano per le γ-globine. Allo scopo di identificare gli elementi richiesti per l’interazione a distanza tra promotori ed enhancers, si è posta sotto analisi l’interazione dei promotori per le globine γ legati alla sequenza enhancer 5’HS2 in forma wild- type, mutata e troncata. All’interno dell’LCR, il sito 5’HS2 si comporta come un potente elemento enhancer, sia nel caso dell’espressione transiente, che in esperimenti condotti su topi transgenici ed è sufficiente a garantire in quest’ultimi l’appropriata espressione di un cluster globinico. Analizzando 5’HS2 sono stati identificati siti tandem AP1/NF-E2 ed è stato dimostrato che la presenza di un frammento di 46 bp contenente questi siti, costituisce una condizione necessaria e sufficiente affinché ci sia la stimolazione dell’espressione di un gene reporter γ-globinico correlato [38]. Studi recenti hanno diviso la sequenza HS2 in un core enhancer e in cinque domini modulatori, al fine di identificare le regioni effettivamente necessarie all’interazione produttiva con il promotore del gene per le γ-globine. E’ stato rivelato che diversi subdomini modulano l’incremento dell’attività promotrice, sia positivamente che negativamente in dipendenza dai vari stadi di sviluppo [39]. Tale interazione sembra essere richiesta per ottenere la formazione di un complesso di trascrizione attivo che contenga sia l’LCR, che i promotori dei singoli geni. Nel modello proposto gli elementi promotori rivestono un duplice ruolo: promuovono l’inizio della trascrizione e coadiuvano l’instaurarsi dell’interazione promotore-enhancer [40]. Oltre all’LCR, nella regolazione dei geni per le globine Gγ e Aγ sono coinvolti ciselementi all’interno dei rispettivi promotori. Basandosi su esperimenti di legame DNAproteina, di analisi dell’attività del promotore e di identificazione delle mutazioni presenti sul promotore del gene per le γ-globine, in pazienti che hanno un fenotipo HPFH (hereditary persistence fetal hemoglobin) non dovuto a delezioni, sono stati 37 identificati almeno nove siti di interazione DNA-proteina (a -30 ATAAA, a -50 GGGGCCGG, a -85 e a -112 CCAAT, a -145 CACCC, a -170 e a -190 GATA, a -180 ATGCAAAT, a -200 CCCGGG) all’interno della regione tra -260 e + 25. L’importanza funzionale di questi siti di legame è oggetto di numerose indagini [41, 42, 43, 44, 45, 46, 47]. Inoltre, è stata individuata in posizione -280 della regione promotrice del gene A γ-globinico la sequenza ATGCAAAT, riconosciuta dal fattore di trascrizione Oct-1 (Octamer Binding Factor 1); l’importanza regolativa rivestita da questa sequenza è dimostrata dal fatto che una mutazione in questa posizione può attivare la trascrizione genica di HbF e produrre il fenotipo HPFH [48]. Il promotore del gene codificante per le γ-globine è stato ampliamente studiato e i siti per i fattori identificati sono riportati in Fig. 10. Sono state identificate, internamente alla regione 5’ a monte del gene per le γ-globine, regioni altamente conservate, come l’elemento ATAAA e la sequenza tandem CCAAT, che costituiscono il promotore minimo in grado di attivare la trascrizione corretta, anche se minima, del gene [49]. Ultimamente si è diretto l’interesse verso i meccanismi con cui enhancers come LCR o HS2 interagiscono a distanza con il promotore del gene per le catene globiniche γ per aumentarne l’espressione. Con i modelli di studio più recenti si è arrivati a pensare che le interazioni multiple promoter-enhancers siano decisamente coinvolte nell’espressione sviluppo-specifica. Un approccio per identificare i fattori di regolazione implicati in questa interazione, è quello di eseguire saggi di espressione su promotori normali e mutati, sia in assenza che in presenza di elementi enhancers. In questi saggi, l’introduzione di mutazioni in cis nel promotore per le γ-globine, permette di identificare i siti di legame per quei fattori necessari ed indispensabili, affinché avvenga l’interazione fisica del promotore con l’enhancer. Per verificare se il solo core del sito 5’HS2 è sufficiente per garantire l’interazione con il promotore del gene per le γ-globine, sono stati messi a confronto gli effetti mediati dalla sequenza enhancer completa e dal solo nucleo 5’HS2. Queste indagini hanno evidenziato che il 5’HS2 è in grado da solo di attivare il promotore, suggerendo che per instaurare il contatto tra promotore e 5’HS2, è richiesta la presenza dei motivi CCAAT boxes, ma non quella di GATA e CACCC box. 38 Fig. 10. Rappresentazione del gene per le β-globine e del promotore del gene per le γ-globine. Nella figura è rappresentato il cluster β-globinico compresa la regione LCR ed i cinque geni globinici. Nell’espansione è rappresentato il promotore del gene per le γ-globine con le principali sequenze riconosciute da fattori di regolazione di questo gene. Inoltre, per garantire l’azione a distanza dell’enhancer, sono richiesti elementi regolatori compresi nella sequenza completa di 5’HS2, ma non il core di 46 bp. Rimuovendo il motivo CCAAT interno al promotore si provoca l’eliminazione dell’effetto enhancer di 5’HS2, mentre mutazioni distali o prossimali a CCAAT causano solo una riduzione del 50% dell’attività di 5’HS2. E’ necessario quindi, ai fini dell’interazione promotore-enhancer, che almeno un CCAAT box sia presente e che l’altro CCAAT box sia funzionale [50]. Grazie a studi condotti su precursori eritroidi i fattori CP1/NFY(nuclear factor Y), CDP, NF-E3 e GATA-1, hanno dimostrato di interagire con la regione CCAAT box del promotore del gene per le γ-globine. Tra questi fattori, solo GATA-1 si era dimostrato 39 importante per avere un’interazione promotore-enhancer. La funzione di GATA-1 sembra essere tuttavia di tipo repressivo, in quanto l’interazione GATA-1/promotore non ha luogo in precursori eritroidi umani embrionali e fetali, mentre si instaura nelle cellule adulte in cui la γ-globina non è normalmente espressa [50]. Il fatto che i siti GATA-1 vengano conservati nel corso dell’evoluzione in tutti i geni globinici e il verificarsi della mutazione HPFH -175 TÆC, suggeriscono il coinvolgimento di GATA-1 nella regolazione γ-globinica. Il legame di GATA-1 al CCAAT box del gene per la γ-globina non viene osservata né in cellule embrionali, né in quelle fetali, ma appare invece forte nelle cellule eritroidi adulte, in cui, normalmente, le γ-globine non vengono espresse. Negli estratti di cellule adulte, GATA-1 lega la regione wild-type, ma non la mutazione HPFH a -117 GÆA nella sequenza CCAAT; di conseguenza, il legame di GATA-1 al CCAAT box γ-globinico, risulta coerente con l’azione repressiva, e non con quella di modulazione positiva [51,52]. Al contrario di GATA-1, gli altri fattori CP1/NFY e NF-E3 hanno dimostrato di essere attivatori positivi; esperimenti effettuati utilizzando il fattore NF-E3 purificato, hanno messo in evidenza che esso non lega il sito -85 CCAAT e che il motivo -112 CCAAT è occupato in maniera predominante da CP1/NFY piuttosto che da NF-E3 nelle cellule esprimenti le γ-globine [38]. Oltre al sito per GATA-1 sono stati identificati all’interno dell’elemento enhancer 5’HS2 siti di legame per fattori Sp1, USF e YY1, che si sono dimostrati necessari per il corretto funzionamento di HS2 [38]. Il sito -125 CACCC lega Sp1 ed è richiesta la sua presenza per avere alti livelli di espressione; delezioni o mutazioni coinvolgenti l’elemento CACCC causano la riduzione dell’attività del promotore del gene per le γglobine in misura variabile dal 10% al 20% rispetto al modello wild-type [53]. La CACCC box, scoperta in seguito ad analisi condotte sulle omologie di sequenza e con esperimenti di mutagenesi, si trova in un ampio numero di geni e in una vasta gamma di specie, incluse le piante. Essa di solito è situata a 100-200 bp dal TATA box. L’alterazione della sequenza CACCC diminuisce l’attività del promotore suggerendo così che essa apporti un contributo positivo sull’efficienza trascrizionale. La funzione esercitata in vivo dal motivo CACCC è stata valutata e accertata solo nel locus dei geni globinici. Questa sequenza risulta essere presente in tutti i promotori dei geni globinici e nei siti ipersensibili alla DNasi I HS2, HS3 e HS4 della β-LCR. Il significato funzionale 40 della presenza della regione CACCC nel locus β è stato stabilito mediante svariate analisi e dall’evidenza che una mutazione in questo elemento regolatore porta ad ottenere il fenotipo β-talassemico [54]. La sequenza CACCC viene legata in modo specifico dal fattore EKLF, che si è dimostrato agire come attivatore. Topi omozigoti per la delezione del gene EKLF muoiono, nei primi 14-15 giorni dello sviluppo fetale, a causa dell’assenza di espressione della β-globina e di altri effetti a carico dei geni coinvolti nell’eritropoiesi definitiva. Questo risultato rende inequivocabilmente valida l’ipotesi secondo cui CACCC in vivo agisce da elemento promotore positivo [55, 56]. La funzione del CACCC box del gene per le γ-globine è stata studiata all’interno del contesto dello switching dell’Hb, modello secondo cui l’espressione genica di β-globine è preclusa da quella delle γ mediante la competizione che si instaura tra i due per l’enhancer LCR. Per testare il ruolo di CACCC box nel potenziale di trascrizione del promotore genico per le γ-globine in vivo, sono state prodotte mutazioni e delezioni nel promotore γ stesso e gli effetti derivanti sono stati osservati su topi transgenici. Si è trovato che il CACCC box non è richiesto per l’attivazione del gene per le γ-globine nell’eritropoiesi primitiva, ma è invece necessario per l’espressione genica delle catene γ nelle cellule durante l’eritropoiesi definitiva [53]. Una mutazione nel motivo CACCC causa la diminuizione dell’ipersensibilità alla DNasi I e del reclutamento della Pol II e di TBP (TATA binding protein) al promotore del gene per le γ-globine nell’eritropoiesi adulta. Tuttavia, non si osservano effetti a carico dello stato di acetilazione degli istoni H3 e H4, a supporto del fatto che l’espressione del gene per le catene γ nelle cellule eritroidi embrionali non risente in alcun modo di mutazioni della regione TATA o CCAAT box e che l’attivazione non è direttamente correlata con il livello di acetilazione degli istoni. Tuttavia, nel contesto dell’intero locus è stata trovata una relazione tra l’acetilazione degli istoni e l’attivazione genica; tale discrepanza può essere spiegata dal fatto che l’acetilazione degli istoni non contribuisce di per sé all’attivazione genica, ma modula la formazione di loops nella cromatina, processo che è coinvolto nella regolazione dell’espressione genica. Sulla base di quanto detto finora è legittimo ipotizzare che i trans elementi reclutati dalle sequenze CACCC, CCAAT e TATA, interagiscano gli uni con gli altri per formare un ampio complesso designato come “promoter complex”. E’ quindi probabile che, durante lo stadio embrionale la funzione esplicata dai trans fattori, che non 41 vengono richiamati a formare questo complesso a causa della mutazione del promotore, sia compensata dai fattori reclutati dai rimanenti cis elementi. Come risultato, l’LCR interagisce comunque con il “promoter complex” incompleto durante lo stadio embrionale, ma nelle cellule adulte la stessa interazione richiede la presenza di un “promoter complex” intatto [53]. Attualmente, il silenziamento del gene delle γ-globine in età adulta è considerato essere un fenomeno autonomo, che avviene indipendentemente dalla presenza di altri geni globinici in cis. Il meccanismo molecolare che si trova alla base del silenziamento autonomo è tanto complesso, quanto poco noto. Studi su modelli murini transgenici, hanno mostrato che frammenti di DNA contenenti l’intero gene per le γ, ma non la sequenza LCR, esprimono il gene solamente nelle cellule eritroidi embrionali. Sebbene il gene per le catene γ non venga espresso nelle cellule fetali, dove normalmente ne avviene l’espressione, questi dati sono stati utili per concludere che il gene γ stesso contiene al suo interno le informazioni necessarie al suo silenziamento durante l’emopoiesi definitiva [57]. In questi modelli transgenici, il livello di trascrizione genica di γ-globine si presenta estremamente basso, ma se stimolato dall’azione di una LCR troncata, denominata microLCR, il gene viene espresso sia nelle cellule embrionali, che in quelle fetali e adulte. Assieme ai promotori, un ruolo d’impatto nella regolazione dei geni globinici, è rivestito dall’LCR e dai siti ipersensibili alla DNasi I, i quali sembrano avere specificità genica. Il sito ipersensibile HS3 dell’LCR, in particolare, aumenta l’espressione genica di catene γ e la delezione della sua sequenza core causa l’abolizione dell’espressione di questo gene nello stadio fetale dell’emopoiesi [58]. Per chiarire come avviene il controllo del gene per le γ-globine durante lo sviluppo, il promotore di questo gene è stato rimpiazzato con la controparte equivalente del promotore del gene per le β, in costrutti YAC (yeast artificial chromosome) contenenti il locus β e ne sono stati analizzati gli effetti durante lo sviluppo su topi transgenici. Si è ottenuta quindi la prova che gli elementi responsabili del silenziamento del gene per le γ-globine in età adulta risiedono nel suo promotore; infatti, sembra che un direct repeat element collocato vicino al CCAAT box del gene per le catene γ, venga legato da un complesso trascrizionale inibitorio [57]. 42 Mediante l’utilizzo di ibridi formati dal promotore del gene per le γ-globine e da porzioni del gene β e di gene γ wild type inseriti sempre in cromosomi artificiali di lievito, si è riscontrato anche il coinvolgimento di meccanismi di competizione nel controllo dell’espressione genica di γ nella vita fetale. In conclusione, il silenziamento autonomo è il principale meccanismo che regola l’espressione genica γ-globinica in età adulta, mentre il controllo sullo switch tra γ-globine e β-globine è esercitato sia dal processo di silenziamento autonomo, che da meccanismi di competizione [57]. Tramite l’uso di modelli murini, è stato dimostrato che la metilazione del DNA gioca un ruolo locale nell’ostacolare l’attivazione del gene per la γ-globina nelle cellule eritroidi adulte e che il suo effetto è mediato dalla deacetilazione degli istoni e dall’inibizione del legame di alcuni fattori di trascrizione al DNA. Questi risultati, non solo forniscono solide basi per mirare all’induzione dell’espressione γ-globinica nel trattamento della β-talassemia, ma suggeriscono anche che la demetilazione sia un passo obbligatorio nei meccanismi molecolari che sostengono la condizione fenotipica HPFH, trattata in seguito [17]. 2. Le talassemie. 2.a. Definizione. Le principali patologie a carico del sistema ematopoietico dell’uomo sono dovute ad alterazioni genetiche ereditarie. Esse possono essere suddivise in due categorie distinte: la prima comprende le patologie caratterizzate da variazioni della sequenza aminoacidica delle catene globiniche, come ad esempio l’anemia falciforme, mentre il secondo gruppo, cui appartengono le sindromi talassemiche, è caratterizzato da una minore od assente produzione di catene globiniche, fenomeno che diminuisce notevolmente il tempo di sopravvivenza dei globuli rossi. Le sindromi talassemiche sono un gruppo di anomalie ereditarie, autosomiche recessive, dovute quindi ad alterazioni nelle sintesi dei componenti dell’emoglobina. Queste anemie ipocromiche microcitiche derivano da alterazioni a carico dei geni globinici dovute a mutazioni puntiformi o a delezioni, che determinano anomalie 43 relative alla trascrizione, allo splicing dell’RNA, alla sua stabilità e alla sua traduzione. Gli effetti di queste alterazioni si possono manifestare nei processi di trascrizione e traduzione, portando di conseguenza alla totale assenza della sintesi proteica, ad uno squilibrio nella velocità di sintesi, oppure alla produzione di catene altamente instabili. Le talassemie vengono classificate principalmente, sulla base delle catene globiniche coinvolte, in α-, β-, δ-talassemia; ognuna di queste forme talassemiche è estremamente eterogenea. La presenza in un gene globinico di particolari difetti molecolari o la sua assenza, causano, rispettivamente, una forte riduzione nella sintesi o la totale mancanza della corrispondente catena globinica. In tutti questi casi il gene globinico strutturale, poco o affatto funzionante, viene detto appunto microcitemico o talassemico. Il carattere essenziale che contraddistingue tutte le talassemie è quindi uno squilibrio nel normale rapporto di sintesi fra catene globiniche α e non-α, facilmente determinabile in vitro: il rapporto di sintesi α/non-α è 1 nel soggetto normale, cioè sano non microcitemico, ma diviene 1,5-2,0 nel portatore di β-microcitemia e 0,80-0,60 nel portatore di α-microcitemia. La produzione sbilanciata di una delle catene globiniche provoca un danno a livello eritrocitario principalmente in due modi: innanzitutto riducendo l’emoglobinizzazione degli eritroblasti vengono messe in circolo cellule ipocromiche, piccole e spesso deformate. In secondo luogo lo sbilanciamento quantitativo tra le catene globiniche causa l’accumulo intracellulare di catene libere, che si aggregano tra loro e precipitano rapidamente negli eritroblasti e nei reticolociti, danneggiandoli. Ricerche genetico-familiari condotte tra il 1943 e 1946 hanno dimostrato definitivamente che le microcitemie si trasmettono ereditariamente dai genitori ai figli con caratteri mendeliani autosomici, semidominanti o recessivi incompleti. Si comportano, infatti, come alleli recessivi a livello clinico, essendo malato solo il soggetto omozigote, mentre l’eterozigote è sano; a livello ematologico, tuttavia, si comportano come caratteri dominanti essendo ben riconoscibili anche nell’individuo eterozigote attraverso il quadro ematologico tipico della microcitemia, condizione che tuttavia non è considerata patologica. Il comportamento mendeliano di queste patologie è stato dimostrato a livello statistico raccogliendo i dati da casistiche familiari vastissime; nelle famiglie con un genitore microcitemico e uno normale i figli sono 50% sani e 50% microcitemici, mentre nelle famiglie con entrambi i genitori microcitemici, 44 solo il 25 % dei figli è completamente esente dalla patologia, il 50% è portatore eterozigote sano e il rimanente 25 % è affetto da anemia mediterranea [2]. Le più comuni e importanti varietà di microcitemia risultano identificabili e classificabili attraverso il complesso dei loro caratteri ematologici, emoglobinici e globinosintetici [2]. Il primo carattere, dal quale poi originano tutti gli altri, riguardante il quadro ematologico è rappresentato dalla riduzione del livello medio di Hb di circa il 20%. Il valore medio di Hb cala da 14-15 g/dl nell’uomo a 12-14 g/dl e nella donna da 13-14 g/dl a 11-12g/dl. Gli altri caratteri ematologici del portatore eterozigote di microcitemia sono: un aumento del numero di globuli rossi circolanti, fenomeno che costituisce il principale meccanismo di compensazione della ridotta sintesi di Hb, una riduzione del volume eritrocitario medio (MCV), come conseguenza della scarsa emoglobinizzazione degli eritrociti che causa un appiattimento delle emazie, una riduzione del contenuto globulare medio di Hb (MHC), un aumento della resistenza globulare osmotica alle soluzioni saline ipotoniche, che si manifesta con un emolisi solo parziale anziché totale nel paziente microcitemico e, infine, un’alterata morfologia eritrocitaria, caratterizzata dalla presenza di microciti di vario aspetto e schistociti (cioè emazia piccolissime o frammenti di emazie). A livello diagnostico, uno dei più importanti caratteri emoglobinici è rappresentato dall’aumento della quota di HbA2, tipicamente osservato nelle microcitemie causate da alterazioni del gene per le β-globine. La quota di HbA2 si presenta, in questi casi, più del doppio della quota di un soggetto normale (compresa tra il 4,5% e il 5,5%); l’aumento di HbA2 è probabilmente determinato dalla maggiore disponibilità di catene α-globiniche libere che tendono quindi a formare, in assenza della controparte β-globinica, tetrametri α2δ2. Anche altri meccanismi intervengono in questo incremento di HbA2: recenti osservazioni confermano che la ridotta attività del promotore del gene per le β-globine, causa una ridotta produzione di β-mRNA, ma un incremento della trascrizione del gene per le catene δ in cis. Infine, è stata ipotizzata anche un’interazione di tipo competitivo, mediata da fattori quali GATA-1 e NF-E2, tra i siti HS dell’LCR e i geni per le catene γ e δ in tutte le condizioni che hanno in comune una ridotta attività del promotore per le β. Per quanto concerne la valutazione del quadro globino-sintetico, può accadere che la sintesi di catene globiniche non solo sia ridotta o assente, ma anche che una catena alterata, sintetizzata in quantità normale, vada subito incontro a processi di 45 degradazione e denaturazione proprio a causa della sua struttura alterata o perché dotata di scarsa affinità per la sua catena complementare [2]. La condizione di talassemia non è associabile ad un unico difetto genetico, ma è piuttosto un gruppo di alterazioni che producono effetti clinici simili. E’ quindi più opportuno distinguere tra classificazione genetica e classificazione clinica della patologia stessa. Per quanto riguarda la classificazione clinica, le talassemie vengono distinte in base al quadro ematologico e alla gravità delle manifestazioni sintomatologiche in: talassemia minor, microcitemia e trait talassemico, che identificano rispettivamente la condizione di portatore sano, quella asintomatica e la condizione in cui si è in presenza di un genotipo eterozigote [59]. Infatti, l'individuo che possiede un solo gene difettoso (forma eterozigote) è un portatore sano e la sua disfunzione viene denominata talassemia minor. La maggior parte dei soggetti con talassemia minor non presenta alcun sintomo di rilievo, tanto che molte persone ignorano di essere affetti da tale disfunzione. In questi individui, i globuli rossi sono in numero maggiore rispetto soggetti normali, ma sono un po' più piccoli (di qui il termine di microcitemia) e più poveri di emoglobina (intorno al 15% in meno rispetto alla norma). Circa il 20% dei soggetti presenta un leggero ingrossamento della milza, tuttavia, nella maggioranza dei casi, il gene ereditato dal genitore sano consente una produzione di globuli rossi e di emoglobina più che sufficiente per condurre una vita normale [54, 60, 61]. Al contrario, un quadro clinico estremamente grave, tipico dell’omozigote β-talassemico, è dato dalla talassemia major, anemia mediterranea o morbo di Cooley, che si verifica quando un individuo possiede entrambe le copie (materna e paterna) del gene della catena β dell’emoglobina difettose (forma omozigote) [59]. Questa forma si manifesta nei bambini subito dopo la nascita con un notevole pallore della pelle, sintomo che rivela la presenza di una gravissima anemia: i globuli rossi sono in numero ridotto, con una scarsa quantità di emoglobina. Se non viene curata, la talassemia major può portare alla morte fra i 3 e i 6 anni di vita [54, 60, 61]. Vi è, inoltre, una condizione clinica intermedia, detta talassemia intermedia, ossia si ha un genotipo omozigote o eterozigote per alterazioni β lievi, oppure omozigote per alterazioni β gravi, associate a difetti dei geni globinici α o γ. La condizione clinica per alterazioni α è dovuta alla funzionalità di uno solo dei quattro geni strutturali e si possono avere forme lievi, che potrebbero essere anche difficilmente diagnosticabili, e 46 forme gravi caratterizzate dalla totale assenza delle catene α, in cui si ha la morte del feto prima della nascita o alla nascita [59]. La talassemia intermedia è una forma attenuata di talassemia, che si manifesta in modo estremamente variabile in individui omozigoti. I sintomi più tipici sono anemia, ingrossamento della milza (splenomegalia), calcolosi biliare e ulcere malleolari. Le ragioni per cui alcuni individui omozigoti manifestano la talassemia major ed alcuni la talassemia intermedia sono diverse; una ragione può essere il tipo di alterazione genetica (ne esistono più di 200), un'altra è la presenza di altre condizioni genetiche che limitano invece i danni stessi della mutazione responsabile della talassemia [54, 60, 61]. 2.b. Distribuzione geografica. L’Italia è il primo paese al mondo ad essere stato ampiamente indagato ed, in seguito, dettagliatamente mappato per quanto riguarda la distribuzione della patologia talassemica. Da questo studio mirato sulla distribuzione globale, sia di α- che di β-talassemie, sono emerse frequenze del 15% in alcuni territori come il Delta Padano, la Calabria e la Sardegna, del 5-10% in Sicilia e nel Salento, fino a raggiungere un’alta percentuale (25%) nella Sardegna meridionale. In tutti i focolai individuati, si nota una tipica distribuzione a chiazze con una maggiore incidenza lungo le coste, rispetto ai territori più interni (Fig. 11). Dall’inizio degli anni ’60, quando si comincia ad effettuare una netta distinzione tra α e β talassemie, le ricerche si sviluppano in tutto il mondo e si focalizzano soprattutto sulle talassemie di tipo β, in quanto la β microcitemia è sempre la varietà predominante in tutti i focolai considerati. Emerge, a riguardo della distribuzione della talassemia, un’ ipotesi evidente quanto suggestiva, supportata dalla coincidenza degli attuali focolai talassemici in Sicilia e Calabria con i territori che fra l’VIII e il VI secolo a.C. furono meta dell’immigrazione greca e origine della Magna Grecia. Questo dato storico pone il quesito se le microcitemie non possano essere state introdotte in territorio italiano proprio dall’afflusso di popolazioni fortemente microcitemiche come i greci e se la successiva forte selezione operata dalla malaria nelle zone d’arrivo non possa aver creato e favorito l’attecchimento degli odierni focolai [2]. 47 Tramite studi genetici è stato dimostrato come le mutazioni responsabili delle sindromi talassemiche sono originate casualmente in varie popolazioni e che il criterio di selezione naturale, basato verosimilmente sulla maggior resistenza all’infezione malarica da parte degli individui eterozigoti, abbia avuto un ruolo fondamentale per l’affermazione di questa patologia in determinate aree geografiche. Fig. 11. Distribuzione geografica della talassemia. Nella figura sono rappresentate le zone in cui questa patologia è uno dei disordini genetici più diffusi. Risultano particolarmente colpite le popolazioni del bacino del Mediterraneo, dell’Africa, dell’India e dell’Oriente. In Italia prevalgono nettamente le forme di β-talassemia, che risulta endemica nella zona del Delta Padano, in Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. 48 Si è avuta dimostrazione che i globuli rossi di soggetti microcitemici o portatori sani, conferivano a questi individui una maggiore resistenza all’attacco da parte dell’agente eziologico della malaria: il Plasmodium falciparum [62]. Infatti, mediante il fenomeno del polimorfismo bilanciato, comune anche ad altre due malattie genetiche quali l’anemia falciforme e il favismo, è possibile spiegare come i geni microcitemici hanno potuto mantenere una così alta frequenza. Il polimorfismo bilanciato è una condizione che si verifica quando in una popolazione sono presenti due o più alleli di un determinato gene, come per esempio il gene per le β-globine normale e il corrispondente gene microcitemico, la cui frequenza reciproca è bilanciata da fattori selettivi, i quali accrescono gradualmente la frequenza del gene avvantaggiato fino a che questa non viene bilanciata dalla perdita di geni attraverso il genotipo omozigote che non si riproduce. Si ha quindi una selezione graduale dell’allele talassemico rispetto alla sua controparte normale e la frequenza che il gene avvantaggiato può raggiungere nella popolazione sarà quindi tanto più alta quanto meno grave è la condizione clinica che presenta il soggetto omozigote. Inoltre, se lo stesso individuo talassemico dovesse essere sottoposto alla selezione evolutiva, trasmetterebbe alla prole il genotipo talassemico, che in questo modo viene conservato nelle generazioni [2, 62]. La corrispondenza di distribuzione geografica tra talassemie e malaria, fece ipotizzare che il fattore che favoriva la selezione del soggetto eterozigote del gene mutato a svantaggio dell’omozigote normale, potesse essere la forma di malaria perniciosa, caratterizzata da un tasso di mortalità del 10%. Un’esposizione prolungata all’infezione malarica, poteva aver sviluppato nelle popolazioni una sorta di adattamento genetico al fattore malarico che, mediante la selezione degli alleli microcitemici a scapito di quelli normali, ha finito col creare negli anni gli attuali focolai microcitemici. Tuttavia, rimane ancora da chiarire pienamente il meccanismo attraverso cui si instaura nel soggetto microcitemico la resistenza al fattore malarico. E’ stato ipotizzato che l’abbondanza di emina nelle emazie possa alterare la crescita del parassita, oppure che l’eccesso di membrana rispetto al contenuto eritrocitario, tipico delle talassemie, possa costituire un ostacolo per la riproduzione del parassita. Infine, si pensa che un’alterazione delle glicoforine della membrana eritrocitaria conseguente alla perdita di acido sialico, ostacoli la fusione tra membrana eritrocitaria e la membrana del parassita malarico impedendo al plasmodio di invadere l’emazia. 49 Le microcitemie e il morbo di Cooley risultano avere un’alta incidenza anche in altri paesi dell’Europa meridionale, del Medio Oriente e dell’Africa, nelle zone prospicienti il Mediterraneo. La scoperta della presenza del morbo di Cooley e della microcitemia nei paesi asiatici, ed in particolare nel sud-est asiatico, ha demolito la convinzione, fino a quel momento radicata, che tale patologia fosse caratteristica solo delle popolazioni mediterranee; il Mar Mediterraneo veniva, infatti, indicato con il termine greco ταλασσα (talassa) da cui prende il nome questo tipo di patologie. Queste patologie rappresentano uno dei disordini genetici più diffusi nel mondo e risultano particolarmente colpite, oltre alle popolazioni del bacino del Mediterraneo, dove l’incidenza maggiore è presente in Grecia (5-10%), Cipro (10-15%), Libano e Israele, anche l’Africa, l’India e l’Oriente (Fig. 11). In India, Pakistan e Afghanistan si riscontrano frequenze di β-talassemia comprese tra il 4% e il 14% [2]. Attualmente, si può affermare che non esiste alcun luogo al mondo in cui le sindromi talassemiche non interessino almeno parte della popolazione; ciò è dovuto alle continue migrazioni di individui da una regione all’altra [63]. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato la presenza in Europa, Africa e Asia di circa 180 milioni di soggetti microcitemici, di cui il 40% è portatore sano di β-talassemia [2]. La talassemia è presente anche negli USA ed in Australia, dove, però, non è identificabile una distribuzione precisa e stabile nel tempo a causa del rilevante flusso migratorio di popolazioni eterogenee. 2.c. Fisiopatologia della talassemia: caratteristiche fisiologiche e complicanze cliniche. Le microcitemie non-α costituiscono il gruppo più importante e numeroso di tutte le microcitemie; la β-talassemia viene classificata, a seconda del grado di mancanza di globine β, in due categorie: 1. β0-talassemia, quando vi è la totale assenza di sintesi di β-globine; rappresenta la variante della patologia caratterizzata dalla completa mancanza dell’attività funzionale del gene per le β-globine e quindi di catene β-globiniche. Tale 50 condizione presenta uno squilibrio di sintesi tra catene α e non-α molto accentuato e un rapporto α/β medio di 1,80 anziché 1, con oscillazioni da 1,50 a 2,00. 2. β+-talassemia, caratterizzata da una ridotta sintesi di β-globine negli omozigoti. La catena β-globinica nella β+-talassemia si presenta strutturalmente identica alla proteina normale, inoltre, anche il tempo richiesto per la traduzione della catena è invariato. Questi dati suggeriscono che l’mRNA per la β-globina sia qualitativamente normale per quanto riguarda la sequenza nucleotidica codificante [64]. Il quadro ematologico si presenta più lieve nei soggetti portatori di talassemia β+, nei quali lo squilibrio α/β è meno accentuato e pari a 1,50; il gene per le globine β conserva dunque una certa attività sintetica, che si manifesta nell’omozigote per β+-talassemie con la presenza di una piccola quota di HbA. Un terzo gruppo di β+-talassemie è costituito dal gruppo delle β-talassemie silenti o sub-silenti. In questi pazienti il quadro ematologico ricade entro il range normale, anche se gli eritrociti presentano lievi alterazioni morfologiche. Sia la quota di HbA2 che il rapporto α/β sono leggermente al di sopra dei valori normali. Inoltre, vi sono varianti delle patologie emopoietiche definite atipiche, poiché in esse mancano uno o più caratteri tipici di questa patologia o perché presentano insolite caratteristiche. Infatti, oltre 700 varianti strutturali dell’emoglobina sono state identificate, ma solamente tre (HbS, HbC, e HbE), ricorrono con alta frequenza in differenti popolazioni. In particolare il gene per l’HbS è distribuito ampiamente nell’Africa sub-sahariana, nelle regioni mediterranee, in India e in certe regioni del Medio Oriente. L’HbC è invece ristretta all’Africa e alle regioni mediterranee e, infine, L’HbE, la variante più comune, è riscontrata con alta frequenza in India e nel sud-est asiatico [65]. Inoltre, le relazioni tra le diverse varianti strutturali dell’emoglobina descritte possono produrre una serie complessa di fenotipi clinici: ad esempio, le relazioni tra la β-talassemia e due di queste varianti, l’emoglobina S e l’emoglobina E, sono di particolare importanza [66]. L’emoglobina S deriva da una mutazione puntiforme, che causa la sostituzione di un acido glutammico con una valina in posizione 6 nella catena β dell’HbA. Gli omozigoti per questa alterazione genetica (HbSS) sono affetti da anemia a cellule falciformi. In condizioni di bassa tensione di ossigeno, l’emoglobina S polimerizza, determinando un cambiamento delle emazia che conferisce loro la tipica forma a falce. 51 Le persone eterozigoti per l’emoglobina S e per la β-talassemia (HbS/β-thal) possono presentare anemia a cellule falciformi, sebbene i loro sintomi tendano ad essere meno gravi rispetto a quelli degli omozigoti per emoglobina S [67]; in questo caso le conseguenze cliniche dipendono dall’allele responsabile della β-talassemia. Se l’allele per l’HbS viene ereditato in associazione con l’allele responsabile di una β0-talassemia, l’anomalia risultante potrebbe essere indistinguibile dall’anemia falciforme, mentre quando l’allele per l’HbS viene ereditato in associazione ad un allele responsabile di una β+ talassemia, il quadro clinico risulta più benevolo. L'emoglobina C (HbC) è una variante dell'emoglobina, dovuta ad una mutazione nel gene della β-globina, che causa la sostituzione di un acido glutammico con una lisina in posizione 6 nella catena globinica(α2β26Glu-Lys). La prevalenza della HbC è del 40-50% nell'Africa Occidentale (Burkina Faso, Costa d'Avorio, Ghana). La malattia si riscontra anche nel Togo e nel Benin (20%), nelle persone di discendenza africana nei Caraibi (3,5%) e negli USA (3%), nel Nord Africa (dall’1% al 10% in Marocco e Algeria) e nel Sud Europa (Italia, Turchia). Nel Burkina Faso, in particolare, un abitante su dieci possiede il gene contenente il codice della forma mutante di emoglobina, che garantisce alle persone che lo possiedono in eterozigosi di ridurre del 26% la probabilità di prendere la malaria, mentre ai soggetti omozigoti un’eccezionale riduzione del rischio, addirittura del 93% [68]. Da circa 50 anni gli studiosi sospettano che l’HbC abbia effetti protettivi contro la malaria, ma essendo il gene molto meno comune dell’HbS, studiarlo è molto più difficile, inoltre i soggetti omozigoti sono molto rari. Vi sono due differenti teorie alla base della diffusione dell’HbS e dell’HbC in Africa, in associazione con la loro azione protettiva nei confronti della contrazione della malaria. Da un lato c’è chi è convinto che, a differenza dell’HbS, alla mutazione responsabile dell’HbC occorra molto tempo per diffondersi e per insediarsi in tutta l’Africa, dal momento che è assai rara al di fuori del gruppo etnico dei Mossi e che per avere una protezione totale dalla malaria sia necessario possedere due copie del gene mutato, dall’altro si pensa che il livello di protezione garantito da HbC o HbS dipenda piuttosto dagli altri geni della persona che esprime quel tipo di emoglobina. In taluni gruppi etnici, per esempio tra i nigeriani, l’HbS protegge in modo più efficace dalla malaria e quindi è più comune. Le mutazioni che causano l’ HbS e l’HbC si verificano esattamente nello stesso punto della 52 molecola di emoglobina, il che fa supporre che il meccanismo attraverso il quale hanno luogo potrebbe essere universale. I soggetti eterozigoti per l'HbC (HbAC) sono asintomatici e possono presentare lieve microcitosi e aumento della resistenza degli eritrociti all'emolisi. Gli omozigoti per HbC (HbCC), di solito, compensano l'emolisi con la splenomegalia, presentano un aumento del rischio di ipersplenismo, litiasi biliare, deficit di folati e anemia grave. L'associazione tra HbC e β-talassemia, in particolare β+-talassemia (più frequente della β0-talassemia nei gruppi etnici interessati dalla HbC) determina un quadro clinico simile a quello dell'HbCC [69]. Anche l’HbE (α2β226Glu-Lys) è una variante dell’emoglobina, ed è causata da una mutazione nel gene β-globinico in cui si verifica la sostituzione dell’acido glutammico con una lisina in posizione 26; tale mutazione produce una catena β aberrante (βE), poiché viene a crearsi un sito di splicing alternativo. L’HbE è la seconda anomalia dell’emoglobina più comune nel Sud-Est asiatico, dopo l’anemia falciforme; quindi, è, anch’essa, classificata tra le emoglobinopatie. Per quanto riguarda l’associazione con alleli causanti talassemia, è stata riportata una condizione clinica nella quale questo allele viene ereditato in associazione con un allele causante β+-talassemia, che rende attivo un sito di splicing alternativo nell’esone 1 del gene per le β-globine. Alcune situazioni cliniche sono indistinguibili dalla talassemia major, altre, invece, che non sono trasfusioni-dipendenti, possono avere un’entità più lieve. Gli eterozigoti HbA/HbE, HbS/HbE e gli omozigoti HbE/HbE mostrano alcune caratteristiche simili ai soggetti β-talassemici; infatti, i soggetti eterozigoti hanno una condizione asintomatica, senza una rilevanza clinica, tranne per il rischio di trasmettere alla prole il gene difettivo. Mentre per quanto riguarda la combinazione in eterozigosi degli alleli β-thalassemia/HbE, questa condizione può portare ad un fenotipo clinico talassemico grave [70]. La talassemia con Hb Lepore, ad esempio, è una varietà di talassemia non-α che, oltre al tipico quadro ematologico microcitemico, presenta una quota del 10-20% di una emoglobina che ha mobilità intermedia tra l’HbA e l’HbS, quando analizzata con elettroforesi a pH alcalino. Una ricerca biochimica ha dimostrato che la catena polipeptidica abnorme dell’Hb Lepore ha una sequenza aminoacidica che per il tratto N-terminale è quella della catena δ-globinica, mentre per il tratto complementare C-terminale è simile alla β-globina; questa evidenza fa ipotizzare che l’Hb Lepore 53 origini dal punto di vista genetico da un crossing-over meiotico, fenomeno in seguito al quale nel cluster non-α rimarrebbe funzionante il gene ibrido δ-β. Inoltre, l’influenza del promotore del gene δ, determinante uno basso livello di espressione delle catene δ, produrrebbe di conseguenza una bassa sintesi di Hb Lepore. Sull’altro cromosoma 11, invece, resterebbero presenti dopo il crossing-over, oltre al gene ibrido, i singoli geni per le globine δ e β. Sono noti tre differenti tipi di Hb Lepore (Olanda, Baltimora e Boston), che si distinguono per il punto in cui avviene il crossing-over e per la struttura delle catene abnormi, le quali, però, mantengono la stessa mobilità elettroforetica, dando origine quindi a quadri ematologici tra loro molto simili. Nell’individuo eterozigote l’Hb Lepore non supera il 7-8%, mentre nell’omozigote o nell’eterozigote composto non supera il 12%, la quantità di HbA2 è circa il 2% e l’HbF è leggermente aumentata (2-3%), il rapporto nella sintesi delle globine α/non-α è compreso tra 1,5 e 1,7. In conclusione la quota di Hb abnorme è in grado di ridurre lo squilibrio α/non-α e, di conseguenza, la gravità delle manifestazioni fenotipiche. Un’altra variante di talassemia non-α che presenta un quadro ematologico tipico delle talassemie, ma con intensità simili alle forme più lievi, una quota di HbA2 normale o bassa e una quota di HbF del 10-15% è la F microcitemia: con la separazione delle catene globiniche in HPLC si evidenziano due piccoli picchi di catene Aγ e Gγ, non presenti nel soggetto normale. La parziale attività dei geni γ-globinici rende meno grave lo squilibrio globino-sintetico ed il quadro clinico dell’individuo omozigote o eterozigote composto con altre emoglobinopatie è simile a quello della talassemia intermedia [2]. Sebbene il difetto fondamentale delle talassemie sia rappresentato dalla riduzione o dalla completa assenza della biosintesi di una catena globinica, anche il conseguente eccesso della catena complementare contribuisce ad aumentare le complicazioni fisiopatologiche. Nella β-talassemia, in particolare, la diminuzione o l’assenza di sintesi di β-globine, conduce ad un largo eccesso di catene α, le quali, se non incorporate a formare HbA o HbA2, rimangono in soluzione, dove sono altamente instabili e tendono ad aggregarsi tra loro per formare tetrametri e poi precipitare ad alte concentrazioni. Gli aggregati di catene α sono visibili al microscopio elettronico sia nel citoplasma che nei 54 nuclei di reticolociti e precursori eritroidi nucleati [64]. L’emazia diviene rigida e si accresce la sua fragilità meccanica. La denaturazione e la precipitazione di catene globiniche α o β libere, all’interno dell’eritrocita del soggetto affetto da anemia mediterranea, sono causa della formazione di radicali di ossigeno attivato e di conseguenti danni ai tessuti, ulteriormente accresciuti dall’abbondante presenza di ferro nelle emazie del malato, che funge da catalizzatore per la formazione di radicali liberi dell’ossigeno. Questi danni ossidativi si vanno ad aggiungere alle alterazioni strutturali e funzionali che colpiscono le proteine della membrana eritrocitaria e che sono causate direttamente dalle inclusioni cellulari. Le catene γ- e β-globiniche, invece, avendo maggiore stabilità, formano tetrametri ma precipitano più lentamente; le inclusioni che essi formano hanno localizzazione sottomembranosa diffusa in tutta la cellula. I danni ossidativi a carico della membrana eritrocitaria sono maggiormente noti nelle β talassemie, nelle quali sono forse più gravi dei danni strutturali di membrana. Nelle emazie dell’omozigote β-talassemico l’ossidazione delle catene globiniche provoca un notevole aumento nella concentrazione di svariate forme strutturali dell’ossigeno attivato come ad esempio il superossido. Questi ossidanti, insieme allo ione Fe2+ che ossidandosi diviene Fe3+, avviano la perossidazione dei grassi insaturi e delle proteine della membrana cellulare. I danni alla membrana delle emazie vengono ulteriormente aumentati dal fatto che la formazione continua di ossidanti, associata alla scarsa emoglobinizzazione e l’abbondante membrana che caratterizzano l’emazia microcitemica, non permettono la normale azione protettiva esercitata dalle superossidodismutasi, dalle catalasi o dalle glutatione-perossidasi [2]. Dalla mancata sintesi di catene β-globiniche e dalla conseguente eritropoiesi inefficace scaturiscono una serie di eventi che conducono alle tipiche manifestazioni cliniche della malattia, tra le quali, la prima e la più grave è l’anemia; il grave quadro anemico presentato dagli omozigoti sia β+ che β0 suggerisce, comunque, che la sintesi di catene β-globiniche è scarsa e inadeguata, quindi non sufficiente a diminuire i severi sintomi clinici di questo disordine genetico [2, 64]. Inoltre, nonostante il tempestivo intervento di processi proteolitici, le catene α-globiniche in eccesso restano libere dentro la cellula, dove formano corpi inclusi che si vanno ad aggiungere ad aggregati di ferritina, mitocondri carichi di ferro e accumuli di glicogeno soprattutto negli 55 eritroblasti policromatofili in fase G1, fase in cui la maturazione in questi soggetti viene bloccata. La precipitazione delle catene α-globiniche libere e la formazione di corpi inclusi sono le cause principali dell’arresto della maturazione, della precoce distruzione degli eritroblasti e di conseguenza dell’eritropoiesi inefficace [2]. Sebbene gli eritroblasti con scarso o assente contenuto di HbF vengano bloccati e rapidamente distrutti nel midollo, prima di giungere a maturazione, una piccola quota di essi e di emazie contenenti HbF riescono a raggiungere il circolo. Essi si presentano però come cellule gravemente danneggiate e poco elastiche che, giunte alla milza, vengono fagocitate e distrutte. In questi pazienti, quindi, la percentuale di HbF, che comunque rappresenta la forma più presente di emoglobina, non è sufficiente per compensare l’ingente diminuzione di HbA [64]. Questi ed altri aspetti fisiologici determinati da patologie talassemiche sono riportati in Fig. 12. La durata media di vita delle emazie del soggetto affetto da anemia mediterranea è assai breve; la distruzione precoce e l’iperemolisi si manifestano con ittero, aumento della bilirubinemia indiretta e dell’urobilinuria, che non è però mai troppo accentuata, essendo poche le cellule effettivamente emoglobinizzate che vengono distrutte. Quanto descritto finora conduce all’eritropoiesi inefficace, uno dei danni maggiori caratterizzanti la patologia; le poche emazie contenenti HbF prodotte dal malato derivano da un’enorme iperattività ed espansione midollare, che non sono in grado di garantirne la sopravvivenza e, anzi, sono causa di gravi danni; nel midollo osseo le cellule reticolari presentano segni evidenti di fagocitosi che colpisce gli eritroblasti in varie fasi di maturazione e, allo stesso tempo, l’eccessiva espansione midollare dà origine a gravi alterazioni di forma e di struttura delle ossa che conducono a deformazioni cranio-facciali, rarefazione porosa delle ossa lunghe, causa di frequenti fratture, aumento della volemia, che si accresce sempre più man mano che si incorre nella splenomegalia. La splenomegalia, tipica della talassemia major e della talassemia intermedia, è la fisiologica conseguenza della funzione cui è sottoposta la milza di sottrarre dal circolo gli eritroblasti non vitali e carichi di catene α-globiniche precipitate. Svolgendo questa funzione, la milza raggiunge dimensioni notevoli, diventando un deposito voluminoso di sangue ristagnante, che oltre a distruggere le emazie non vitali prodotte dal soggetto arriva a distruggere anche quelle sane fornite tramite terapia trasfusionale. Infine, l’assorbimento continuo di ferro alimentare e l’ulteriore apporto di questo elemento attraverso le emotrasfusioni, causano una diffusa siderosi che, nel 56 corso della malattia, dà luogo a numerose complicanze in alcuni organi (cuore, fegato e ghiandole endocrine) [2]. Fig. 12. Fisiopatologia della β-talassemia. L’eccesso di catene α-globiniche produce dei precipitati nei precursori dei globuli rossi, causando l’eritropoiesi inefficace e favorendo l’anemia. Anche l’emolisi favorisce l’anemia, la quale stimola la sintesi dell’eritropoietina, con la sua successiva proliferazione nel midollo. Ne risultano deformità ossee e sovraccarico di ferro, incrementato ulteriormente dalle necessarie trasfusioni. In condizioni di eterozigosi per la β+-talassemia o eterozigosi composta del tipo β0/β+-talassemia, che si manifestano con il quadro clinico della talassemia intermedia, la produzione di una piccola quota di catene β-globiniche garantisce una certa percentuale di HbA, accanto ad una quantità equivalente o anche maggiore di catene γ-globiniche che forniscono HbF. Quindi il numero di emazie che raggiunge il circolo, rendono 57 l’eritropoiesi inefficace meno marcata e le sue conseguenza meno gravi, rispetto a quanto accade per la forma di talassemia major [2]. Un altro disordine emopoietico è rappresentato dalla δβ-talassemia. Negli studi condotti su δβ talassemici omozigoti, si è immediatamente notato che tale condizione è caratterizzata da una lieve anemia, sebbene l’individuo non possieda né HbA, né HbA2; questo fatto sembra dovuto al marcato aumento di HbF. Un aspetto molto interessante, inoltre, è stato notato in soggetti talassemici omozigoti, ma aventi una condizione denominata HPFH: essi non presentano un quadro anemico, pur essendo privi di HbA e HbA2. Questo disordine garantisce all’individuo una totale compensazione della completa assenza di forme adulte di emoglobina con forme di emoglobina fetali; quest’aspetto verrà discusso nel dettaglio in seguito [64]. Mediante la tecnica di Kleihauer-Betke è possibile effettuare una chiara distinzione tra talassemia e HPFH. Tale procedura permette infatti di eluire tutta l’HbA dalle cellule eritroidi prelevate dai pazienti e di poter successivamente valutare il contenuto cellulare individuale di HbF. Si è osservato che, mentre nelle cellule eritroidi derivate da campioni di sangue isolati da soggetti affetti da β0-, β+- e δβ-talassemia, la distribuzione dell’HbF era alquanto “eterogenea”, lo stesso saggio eseguito su sangue di soggetti HPFH metteva in evidenza una distribuzione omogenea dell’emoglobina fetale; questi dati supportano il fatto che nelle cellule eritroidi di individui HPFH la biosintesi di HbF continua anche in età postnatale, mentre nei soggetti talassemici, la sintesi di HbF è ristretta a un numero inferiore di precursori eritroidi e il suo livello varia in modo marcato da cellula a cellula [64]. Le α-talassemie, frequenti soprattutto in Asia, in alcune regioni del bacino del Mediterraneo e in Africa, sono causate dalla delezione di geni α-globinici, che possono essere di diversa entità, dando, pertanto origine ad una vasta gamma di quadri clinici. Le α-talassemie sono invece molto rare tra le razze bianche e sono diffuse soprattutto nel continente asiatico, nel bacino del Mediterraneo e in Africa. Avendo ciascun individuo quattro geni codificanti per l’α-globina, due per ciascun cromosoma 16, si distingueranno differenti varianti della patologia α-talassemica sulla base del numero di geni interessati dall’alterazione. La mancanza totale di tutti e quattro i geni per le catene α-globiniche comporta l’insorgenze della cosiddetta idrope fetale, una condizione patologica che conduce alla morte intrauterina del feto o alla 58 sopravvivenza di poche ore del neonato, il quale presenta forme anomale di emoglobina rappresentate per l’80% da Hb Bart’s, tetrametro di catene γ-globiniche, e per il restante 20% da Hb Portland, costituita dall’unione di due catene ζ con due catene γ. L’emoglobina che si forma prevalentemente nel caso in cui si erediti solamente un gene α funzionante su quattro è l’HbH, costituita dall’associazione di quattro catene βglobiniche; i tetrametri β4 sono relativamente solubili, quindi la morte intramidollare degli eritroblasti è ridotta, mentre nel torrente circolatorio si assiste alla formazione di precipitati emoglobinici detti corpi di Heinz. I pazienti con HbH hanno un’aspettativa di vita normale, tuttavia, in caso di infezioni, corrono il rischio che si aggravi il loro quadro anemico. La delezione di due dei quattro geni α-globinici, comporta la condizione definita α-talassemia minor, in genere clinicamente silente; mentre mutazioni puntiformi e delezioni causanti la ridotta espressione dei geni per le globine di tipo α sono responsabili delle α+-talassemie. Per distinguere le α+-talassemia dalle α0-talassemie, si esegue lo studio dell’Hb Bart’s alla nascita; in questo periodo, infatti, è presente nel bambino una piccola quota di Hb Bart’s, che poi scompare rapidamente. La delezione di un gene α-globinico su quattro è indicata da una quota di Hb Bart’s inferiore al 3% alla nascita; in questo caso il soggetto è portatore di α+ talassemia. Se la quota di Hb Bart’s è compresa tra 5,5 e 8,5% significa che è avvenuta la delezione di due geni α globinici su quattro e il soggetto è portatore di α0-talassemia. Il meccanismo patogenetico delle talassemie α intermedie si dimostra diverso. In questa condizione la piccola quota di catene α-globiniche che viene sintetizzata permette di avere piccole quantità di HbA, HbA2 e HbF. Inoltre, la precipitazione delle catene β- e γ-globiniche presenta caratteristiche differenti da quella delle catene α, essendo relativamente più solubili e formando dei tetrametri β4 (HbH) e γ4 (Hb Bart’s), molecole emoglobiniche dotate tuttavia di una breve sopravvivenza e funzionalmente inefficienti. A causa della loro grande affinità per l’ossigeno, queste molecole vengono rapidamente ossidate e precipitano in questa forma, formando all’interno dell’emazia dei granuli caratteristici a livello della membrana. Anche in questo caso le emazie che entrano in circolo hanno, a causa di questi precipitati, una vita breve che causa nel soggetto un iperemolisi cronica evidente. 59 Infine, l’eterozigosi β- o α-talassemica, condizione denominata microcitemia, si distingue per una lieve eritropoiesi inefficace e una leggera iperplasia midollare che garantisce però al soggetto di compensare lo stato anemico. Con questo meccanismo, associato probabilmente ad un’iperattività del gene β normale, l’individuo microcitemico riesce a raggiungere una quota di emoglobina pari al 70-80% del normale, rispetto al 50% previsto teoricamente nel caso di un solo gene per le catene βglobiniche funzionante [2]. 2.d. Alterazioni genetiche e basi molecolari della talassemia. Le alterazioni che possono interessare il gene per le β-globine umane responsabile della talassemia, sono rappresentate da: delezioni, difetti di trascrizione del gene, difetti nella maturazione del pre-mRNA (alterazioni dello splicing, mutazioni nel sito di taglio e della poliadenilazione del pre-mRNA), difetti nella traduzione dell’mRNA in proteina (mutazioni del codone d’inizio, mutazioni non senso, frameshift, mutazioni nella regione 3’ UTR), difetti che compromettono la stabilità della catena β-globinica. • Delezioni del gene per le β-globine. Tra i fattori genetici che determinano le talassemie, le delezioni sono piuttosto rare. Alcune forme di talassemia, sia di tipo α che di tipo β, sono causate da delezioni di segmenti, anche rilevanti, nei cromosomi 16 o 11. Esiste un certo grado di variabilità nelle delezioni identificate e, naturalmente, la patologia che queste delezioni comportano è in genere tanto più grave quanto più esse sono estese. Le delezioni comportano una patologia grave (β0-talassemia, o δβ-talassemia) a meno che non causino anche l'attivazione della trascrizione dei geni per le globine γ, con conseguente manifestazione del fenotipo denominato HPFH. Gli individui affetti da tale patologia esprimono, anche allo stadio adulto, i geni per le globine fetali e producono HbF. Un caso particolare di delezione genica, inoltre, è quello della Hb Lepore, che risulta dalla fusione di un gene per le catene δ e di un gene per le β per formare un gene ibrido. 60 • Difetti di trascrizione del gene. Nella maggior parte dei casi sono dovuti a mutazioni puntiformi nel promotore, in regioni quali: il TATA box, nel quale sono state trovate mutazioni ai nucleotidi -28, -29, -30 e -31; il CACCC box prossimale con le mutazioni ai nucleotidi -86, -87, -88, -90, -92; il CACCC box distale con la mutazione a livello del nucleotide -101 [2]. • Alterazioni nel meccanismo di splicing. Costituiscono un numeroso ed importante gruppo di mutazioni responsabili di circa la metà delle β-talassemie; normalmente si tratta di mutazioni puntiformi che alterano con vari meccanismi il normale processo di splicing. Infatti, può accadere che una mutazione localizzata in un introne distrugga uno dei due dinucleotidi invarianti GT o AG, la cui presenza è indispensabile per garantire uno splicing normale, che risulta di conseguenza annullato. Oppure si può avere l’alterazione della sequenza consenso che affianca i dinucleotidi AG e GT con conseguente riduzione dell’efficienza dello splicing; infine, la mutazione può creare un pre-sito (sito criptico), cioè un nuovo sito di splicing che andrà a competere con quello fisiologico preesistente. Questo tipo di mutazione è causa di β0-talassemie ed è forse più frequente nei paesi mediterranei. In Italia sono presenti con discreta frequenza le mutazioni IVSI-1 GÆA e IVSII-1 GÆA (Fig. 13). La mutazione IVSI-1 GÆA, scoperta nel 1982, provoca un’alterazione di splicing del pre-mRNA [71] dovuta alla sostituizione di una guanina del dinucleotide invariante GT in posizione 5’ del primo introne, con un’adenina. Il risultato finale è la distruzione del normale sito di splicing, con l’immediata abolizione del processamento e annullamento della normale produzione di mRNA, che risulta nella manifestazione del fenotipo clinico β0-talassemico [2]. La mutazione IVSII-1 GÆA [72, 73, 74] genera, invece, una mutazione puntiforme in posizione 1 del secondo introne nel gene per le globine β, provocando β0-talassemia. La mutazione (β+) IVSI-110 GÆA, provoca la sostituzione di una guanina con una adenina nella sequenza consenso nel 1° introne del gene β con conseguente attivazione di un sito di splicing criptico; oppure la mutazione all’interno di un introne può ridurre l’efficienza di un sito di splicing alterando la sua sequenza consenso e causando β+-talassemie, tra queste, la mutazione IVSI-5 GÆA. Per quanto riguarda la mutazione (β+) IVSI-6 TÆC, descritta nel 1982, coinvolge la sequenza consenso del sito donatore di splicing del primo introne del gene per le globine β [71] ed è caratterizzata dalla sostituzione di una timina, localizzata in 61 prossimità del dinucleotide GT in 5’ all’introne, con una citosina. Il risultato finale è l’alterazione della sequenza conservata e la riduzione dell’efficienza del processamento del pre-mRNA [75]. Fig. 13. Distribuzione in Italia delle mutazioni responsabili della β-talassemia. La figura chiarisce la distribuzione delle zone talassemiche in Italia e il tipo di mutazione più rappresentata per ogni zona [Figura tratta dal sito www.abanet.it]. 62 • Mutazioni nel sito di taglio e della poliadenilazione del pre-mRNA. Anche questo gruppo di alterazioni della maturazione dell’RNA, danno origine a β+-talassemie. Se la sequenza AATAAA, sito di taglio enzimatico e segnale di aggiunta della coda di residui di adenina (poliA), viene mutata i processi di termine della trascrizione e di poliadenilazione si verificano più a valle rispetto al sito fisiologico, producendo mRNA molto più lunghi e molto più instabili. Ne deriva un fenotipo β+-talassemico con caratteri non marcati. • Difetti di traduzione dell’mRNA. Mutazioni non-senso, oppure nel frameshift che ricadono nel codone d’inizio, negli esoni e nel codone di termine o nella regione 3’ UTR, possono causare l’arresto più o meno precoce della traduzione del messaggero in proteina. La traduzione incompleta provoca la formazione di una proteina non funzionale. Le mutazioni nel codone d’inizio causano β0-talassemie molto gravi, mentre le mutazioni che coinvolgono il codone di stop o la regione 3’ UTR generano β+-talassemie. Le mutazioni non-senso consistono nella sostituzione di una base purinica in un codone del DNA codificante, che dà luogo alla formazione di un codone di termine (TAA, TAG oppure TGA) e quindi all’arresto della traduzione dell’mRNA. A questo particolare gruppo di mutazioni appartiene la talassemia β0-39, assai importante per la sua incidenza nei paesi mediterranei e soprattutto in Italia, dove rappresenta l’unica mutazione non-senso presente (Fig. 13). A livello nazionale la mutazione β0-39 CÆT riguarda i due terzi degli individui talassemici, con frequenza pari al 66,8% [75], la cui incidenza è maggiore nell’Emilia Romagna, e in particolar modo nella regione del Delta del Po, nel Lazio, nella Campania e Basilicata [77]; la frequenza di questa mutazione è ancora maggiore in Sardegna, con un’incidenza del 95,7% dove è stata identificata per la prima volta nel 1981 [76, 77, 78]. Questa mutazione converte il codone 39 CAG del gene per le β-globine, che codifica per la glutammina, in un codone TAG, che impartisce il segnale di termine alla sintesi globinica. Quindi non si ha affatto la formazione di catene β-globiniche e il fenotipo che si manifesta è quello di una marcata β0-talassemia [2]. Le mutazioni puntiformi più frequentemente riscontrate responsabili di β-talassemia sono descritte nella Fig. 14. Delezioni o inserzioni di uno o più nucleotidi nel DNA, possono causare l’alterazione del quadro di lettura dell’mRNA (frameshift) e di conseguenza l’arresto 63 precoce della traduzione. Sia che lo slittamento abbia inizio in un codone molto lontano da quello di termine fisiologico, sia che questo si verifichi in una regione più vicina alla fine della traduzione, le catene β-globiniche sintetizzate si presentano totalmente alterate, causando l’espressione di un fenotipo β0-talassemico. In Italia sono presenti varie mutazioni di questo tipo: 1(-G), 5(-CT), 8(-AA), 59(-A), 76(-C) e, la più diffusa, 6(-A). Questo tipo di mutazioni possono causare anche un’instabilità della catena β-globinica; si tratta principalmente di frameshift o mutazioni non-senso o delezioni di pochissimi nucleotidi che avvengono per lo più a livello del 3° esone. Danno tutte origine ad un catena allungata o troncata che, in ogni caso, risulta fortemente instabile e precipita rapidamente anziché formare tetrametri. Ne deriva un rapporto catene α/β fortemente sbilanciato, mentre quello tra α-mRNA e β-mRNA è paritario [2]. Mutazioni puntiformi che causano β-talassemia Fig. 14. Rappresentazione schematica delle mutazioni puntiformi a carico del gene per la β-globina. Nella figura sono indicati i principali siti nei quali si riscontrano con più frequenza le mutazioni, il tipo di mutazione ed il fenotipo talassemico che ne deriva. 64 3. Il fenotipo HPFH (High Persistence of Fetal Hemoglobin) e la talassemia. In alcuni pazienti affetti da β-talassemia è stata osservata un'anormale espressione dei geni γ, che in alcuni casi porta il livello di HbF dal 2.5% al 20%. Quest'aumento di HbF comporta una condizione clinica nota come HPFH (High Persistence of Fetal Hemoglobin), nella quale l'espressione genica per le γ-globine è mantenuta elevata anche nei soggetti adulti, dove normalmente la loro sintesi risulta repressa o limitatamente espressa. I pazienti che presentano il fenotipo HPFH mostrano un miglioramento del quadro clinico, in quanto la relativa riattivazione dei geni per le globine γ causa un aumento di HbF tale da poter in parte supplire alla carenza di HbA nelle sindromi talassemiche. Le alterazioni geniche che causano l’incremento dei livelli di HbF sono oggetto di continue indagini, ma attualmente sono suddivise in due tipologie differenti: il fenotipo HPFH di tipo deletion e il fenotipo HPFH di tipo non-deletion, in cui è presente l’intero cluster β. Sono state proposte tre possibili cause per spiegare il fenotipo HPFH deletion: 1. esso potrebbe derivare dalla delezione di alcune sequenze regolative del cluster β-globinico, coinvolte nella regolazione sia positiva che negativa. Le sequenze regolative restanti determinerebbero il fenotipo; 2. oppure una delezione può causare la giustapposizione in prossimità dei geni per le γ-globine di elementi enhancers in 3’, che normalmente si trovano localizzati a valle del gene β. L’azione enhancer della sequenza nella nuova localizzazione porta un incremento dell’espressione γ-globinica. 3. Infine, una delezione può determinare l’insorgere di una zona di continuità tra la LCR e i geni per le catene γ, normalmente silenti. Rilevanti informazioni riguardo la localizzazione di importanti sequenze regolatrici dei geni globinici possono essere raccolte dallo studio delle mutazioni che si verificano naturalmente e che conducono ad un’espressione anormale di questi stessi geni. Un modello di indagine utile è fornito dalla condizione denominata non-deletion hereditary persistance of fetal hemoglobin. Mediante sequenziamento del DNA di questi soggetti, sono state individuate svariate mutazioni puntiformi a carico della regione promotrice dei geni per le globine γ sovraespressi [79]. Numerosi studi hanno confermato, infatti, 65 che la condizione HPFH può originare, non solo da delezioni, ma anche da mutazioni puntiformi nella regione del promotore dei geni per le globine Gγ e Aγ. E’ già stato precedentemente trattato l’argomento relativo all’esistenza e alla funzione di sequenze interne a questa regione del DNA che sono responsabili della regolazione della trascrizione mediante legame con proteine ubiquitarie o eritro-specifiche. Le mutazioni che ricadono in queste regioni esplicano la loro azione, probabilmente, mediante l’alterazione delle sequenze di binding delle proteine di regolazione della trascrizione genica. Tale alterazione può sia causare la diminuzione dell’affinità per i repressori trascrizionali, sia aumentare l’affinità per il legame di fattori transattivanti. E’ altresì probabile che in realtà l’effetto sia dovuto ad una combinazione dei due meccanismi appena descritti. Si è dimostrato che mutazioni localizzate in una di queste sequenze causano un’alterazione trascrizionale del gene per le globine γ e quindi una sintesi postfetale persistente, seppur parziale, che dà origine a livelli di HbF variabili dal 2% al 20%. L’aumentata attività dei geni per le γ-globine controbilancia la diminuita attività di quelli per le β, in modo che la sintesi globinica sia sempre equilibrata e non compaia il fenotipo talassemico [2]. Mediante studi strutturali è stato possibile evidenziare che le mutazioni puntiformi non-deletion HPFH si raggruppano in tre regioni del promotore del gene per le γglobine e si accentrano attorno alle posizioni -200, -175 e -115 dal sito di inizio della trascrizione. La regione -200 è particolarmente ricca in motivi GC ed è nota per essere il target di cinque differenti, ma ravvicinate, mutazioni puntiformi, che colpiscono il promotore del gene Gγ in posizione -202(CÆG) e il promotore di Aγ rispettivamente in posizione -202(CÆT), -198(CÆG) e -195(CÆG). Con studi condotti in vitro si è focalizzata l’attenzione sugli effetti che queste mutazioni hanno sul legame di differenti proteine che legano il DNA. In particolare le mutazioni alle posizioni -202, -198, -196, -195 sembrano coinvolgere il sito di legame della proteina ubiquitaria Sp1. Considerando la similitudine di sequenza tra la mutazione -198 nell’HPFH e la proteina Sp1 si è osservato che questa mutazione aumenta l’affinità di legame per il fattore trascrizionale Sp1. Esperimenti condotti su topi transgenici per le mutazioni -117, -175 e -198 che dimostrano fenotipo HPFH, forniscono prova diretta della relazione che intercorre tra mutazione e fenotipo. Si è dimostrato che la mutazione HPFH -198 è in grado di conservare, nei topi transgenici, l’espressione genica di γ in età adulta quando il motivo CACCC box risulta alterato. Essendo la funzione del CACCC box 66 indispensabile per l’espressione γ-globinica nell’adulto, questo risultato suggerisce che la delezione HPFH -198 permetta la creazione di un nuovo elemento in grado di sostituirsi funzionalmente alla CACCC box nella vita adulta [80]. Attraverso l’impiego sperimentale di anticorpi commerciali, è stato possibile confermare l’identità e la specificità di legame per -198 HPFH di un sottoinsieme di proteine che include DNMT1 (DNA metiltransferasi 1), RAP74 (la subunità maggiore del fattore di trascrizione generico TF-II) e il coattivatore p52. La proteina Sp1, invece, non è stata individuata come componente di questo complesso proteico, confermando quindi che l’attività di legame della mutazione -198 HPFH riguarda il CACCC box, ma differisce da quella di Sp1. Le proteine di legame identificate con questi studi hanno dimostrato di essere in grado di legare la mutazione -198(TÆC) presente nel promotore del gene per le A γ-globine e di essere quindi coinvolte nella regolazione dell’espressione di tale gene portante la mutazione -198 HPFH nell’eritropoiesi adulta [80]. La sequenza CACCC del promotore γ globinico si è rivelata essere in stretta associazione con una sequenza ottamerica situata a monte e con un elemento CCAAT localizzato a valle. Come nel caso del CACCC box descritto sopra, anche per l’ottamero ATGCAAAT si è dimostrata l’esistenza di un pool di proteine di legame OBP (octamer binding proteins). In particolare, è stata identificata una proteina che migra assieme alla forma ubiquitaria di OBP, NF-A1, e lega in modo specifico l’ottamero del promotore del gene per le globine γ. La mutazione puntiforme HPFH -175(TÆC), che coinvolge appunto la sequenza ottamerica, riduce severamente il legame di questa proteina alla sequenza stessa e causa come conseguenza l’attivazione dell’espressione γ-globinica, indicando, infine, che OBP agisce normalmente come un repressore [79]. Sono state identificate mutazioni puntiformi di questo tipo in soggetti con fenotipo HPFH di differenti etnie; in particolare, la mutazione -196(CÆT) nel gene per le Aγglobine è stata riscontrata in Sardegna e si è notato che la sua associazione in cis con la mutazione β0-39, dà origina alla F-talassemia sarda. Questa condizione presenta una quota di HbF elevata fino al 10-20% e una quota di HbA2 normale, spiegabile assumendo che la mutazione coinvolgente il gene per le catene γ possa essere la causa di una ridotta produzione di catene δ-globiniche; la quantità di HbA2 risulta quindi normale, anziché aumentare come nel caso di un soggetto affetto da β-talassemia. 67 La mutazione -117(GÆA) del gene per le globine Aγ, anch’essa molto diffusa in Sardegna e in Grecia, accresce di 2-3 volte il legame del fattore CP1 (poly(C)-binding protein-1) con il CCAAT box distale e triplica l’affinità di legame di CDP (CCAAT displacement protein). Risulta invece fortemente diminuito il legame dei fattori NF-E1 e NF-E3 (Nuclear Factor Erythroid 3) e proprio la mancanza di un normale legame di questi, potrebbe essere la causa dell’assenza totale di repressione della trascrizione genica di Aγ [81]. Un altro difetto localizzato nel CCAAT box distale è rappresentato dalla delezione di 13 nucleotidi a partire dalla posizione -114 nel gene per le Aγ-globine, che abolisce il legame con i fattori CP1, CPD e NF-E3, ma lascia intatto il legame con NF-E1. Infine, la mutazione -158(CÆT) a monte del gene per le globine G γ, ha la caratteristica di essere riconosciuta dell'enzima di restrizione XmnI, poiché essa crea un sito di taglio per questo enzima. Questa mutazione, molto importante per la sua alta frequenza in Arabia Saudita, è un esempio di alterazione genetica che si esprime solo in condizioni di stress emopoietico: infatti, una quota elevata di HbF è assente nei genitori sani dell’individuo malato, mentre è presente nel soggetto malato, che si trova in una condizione di stress emolitico cronico [2]. 4. L’induzione di HbF come approccio terapeutico per la cura delle talassemie. 4.a. L’eritropoiesi e il differenziamento eritroide. La vita delle cellule, nel torrente circolatorio, ha una durata piuttosto limitata, perciò esse vengono continuamente rinnovate attraverso il processo dell’ emopoiesi, che ha luogo nel midollo osseo. Tutte le cellule ematiche derivano da un limitato numero di cellule staminali pluripotenti di origine mesodermica, le quali costituiscono meno dello 0,01% delle cellule nucleate presenti nel midollo osseo. Esse rappresentano l’unica tipologia cellulare caratterizzata dalla capacità di autoreplicarsi e di crescere e differenziarsi in senso mieloide e linfoide, dando origine a tutte le popolazioni cellulari del sangue. 68 Alcune cellule staminali, dividendosi, danno origine ad una progenie che perde la capacità di differenziamento lungo le differenti vie e indirizza il proprio sviluppo verso una specifica linea dell’emopoiesi. Le cellule staminali che invece mantengono la capacità di divisione, ma sono prive di un qualsiasi tipo di orientamento del loro sviluppo verso una specifica linea emopoietica, sono denominate committed; esse sono destinate a seguire, quindi, un’unica linea differenziativa e a continuare a proliferare e differenziarsi in precursori morfologicamente identificabili, che vanno incontro ad un’ulteriore maturazione attraverso cui acquisiscono funzioni altamente specializzate, ma perdono la capacità di proliferare [82]. Quest’ultime, dopo diverse divisioni cellulari, danno origine a cellule che possono differenziare ulteriormente, producendo: i mieloblasti, da cui originano i granulociti, gli eritroblasti, da cui si formano i reticolociti e in seguito quindi gli eritrociti e, infine, i megacariociti, da cui derivano le piastrine (Fig. 15) [82, 83]. Fig. 15. Rappresentazione schematica del processo dell’eritropoiesi nell’uomo. L’eritropoiesi ha inizio dalla cellula staminale totipotente che differenzia dando origine ai progenitori multipotenti (BFU-E). Da questi derivano poi le cellule committed sempre più differenziate dalle quali origineranno le cellule mature del sangue [Figura tratta dal sito http://people.hofstra.edu]. In seguito alla risposta a stimoli poco noti e mediante un processo attivo, le cellule mature derivanti dalle tre filiere emopoietiche appena descritte, passano al torrente ematico causando la temporanea comparsa di pori sulla membrana delle cellule 69 endoteliali [84]. Il differenziamento delle cellule ematiche si esplica attraverso una particolare programmazione dell’attività genica, che ha la funzione di reprimere la sintesi dei geni non specifici per quel determinato istotipo cellulare e di attivare, invece, l’espressione di geni specifici. La diversa regolazione dell’attività genica dipende da segnali chimici che giungono al nucleo dal citoplasma, dalle cellule circostanti o dall’ambiente esterno alla cellula stessa. Questo stato differenziato è mediato da sostanze chimiche che svolgono un’azione regolatrice anche a distanza; questo fatto è supportato dalla dimostrazione che è possibile ripristinare lo stato di totipotenza di un nucleo di una cellula differenziata, inserendolo in un citoplasma di una cellula embrionale, privandolo, pertanto, dell’ambiente che lo sollecita verso un ruolo definito [83]. I primi fattori di crescita coinvolti negli stadi iniziali dell’emopoiesi sono le citochine, sintetizzate e secrete sia dalle cellule del midollo, che da cellule stromali o del sistema immunitario; esse regolano, attraverso un complesso sistema di cooperazione, il differenziamento e la proliferazione delle cellule progenitrici. Tra le principali citochine che prendono parte a questo processo troviamo il fattore di crescita per le cellule staminali (SCF, stem cell factor), l’inteleuchina-3 (IL-3) e il fattore stimolante le colonie granulocito-macrofagiche (GM-CSF). In uno stadio di crescita più avanzato, quando i progenitori cellulari maturi si orientano verso un’unica linea di differenziazione, intervengono altri fattori di crescita, tra cui l’eritropoietina (EPO), la trombopoietina (TPO), il fattore stimolante colonie macrofagiche (M-CSF) e il fattore stimolante colonie granulocitarie (G-CSF). Questi fattori di crescita presentano, inoltre, la comune caratteristica di poter legare recettori proteici ad attività tirosin-chinasica e di promuovere, di conseguenza, risposte complesse mediate dalla fosforillazione di proteine bersaglio [84]. Con il termine specifico “eritropoiesi” si intende indicare il processo attraverso cui, dalle cellule staminali totipotenti, prendono origine gli eritrociti, in seguito alla differenziazione di cellule staminali, che porta alla comparsa dei primi progenitori eritroidi. Nonostante gli stimoli che governano le fasi iniziali di questo processo non siano pienamente noti, è chiaro che la formazione dei progenitori eritroidi è aumentata dall’IL-3 e da GM-CSF e che rivestono una certa importanza in questo primo momento di sviluppo anche le interazioni con le cellule endoteliali, fibroblastiche e macrofagiche del microambiente emopoietico [84]. Per completare l’intero processo è richiesta la presenza di fattori ematopoietici di crescita (HGFs) ad azione sia stimolatoria, come 70 quella esercitata dalle interleuchine, che inibitoria esplicata da molecole prodotte da una vasta gamma di cellule. Per garantire una corretta differenziazione e maturazione delle cellule staminali è richiesta la presenza di fattori quali la vitamina B12 e l’acido folico, indispensabili per la sintesi del DNA, la disponibilità di ferro e la presenza di oligoelementi come il rame, il cobalto e il nichel. I precursori degli eritrociti divengono, nel corso della divisione, sempre più sensibili all’azione dell’eritropoietina, l’ormone polipeptidico che viene prodotto da reni e fegato in risposta allo stimolo ipossico inviato dai globoli rossi, che ne stimolano la produzione provocando la divisione cellulare fino alla completa maturazione dei precursori. La cellula eritroide più immatura, derivante dalla cellula staminale pluripotente, è la cosiddetta BFU-E (erythroid burst forming unit=unità eritroide formante grappoli); essa può essere isolata dal midollo osseo e/o dal sangue periferico ed essere altrettanto facilmente coltivata in vitro, ad esempio con la metodica trattata e descritta nel dettaglio nel capitolo “Materiali e Metodi”. Dopo 10-15 giorni di coltura, la cellula BFU-E, la cui crescita risponde ad alte dosi di eritropoietina, dà origine ad una grossa colonia di precursori eritroidi già riconoscibili. La cellula più matura CFU-E (erythroid colony forming unit=unità eritroide che forma colonie), anch’essa molto sensibile all’eritropoietina, produce un clone cellulare più piccolo dopo 4-7 giorni di coltura. La funzione dell’eritropoietina probabilmente si esplica mediante l’interazione della stessa con recettori specifici posti sulla membrana di cellule progenitrici (committed), destinate a differenziarsi in senso eritroide; l’eritropoietina induce le cellule committed a differenziarsi in precursori eritroidi più precoci, i pronormoblasti, riconoscibili all’esame del midollo osseo. In condizioni fisiologiche, sono richieste tre o quattro divisioni cellulari per realizzare il passaggio da proeritroblasto a eritroblasto più maturo, e ciò si verifica in un tempo superiore ai quattro giorni, periodo durante il quale il nucleo diviene più piccolo ed una quantità sempre maggiore di emoglobina viene sintetizzata nel citoplasma. Dopo l’ultima divisione cellulare il nucleo picnotico viene estromesso dall’eritroblasto e si forma così il reticolocita, che rimane nel midollo per due o tre giorni, e viene poi rilasciato in circolo. Dopo 24 ore esso assume il tipico aspetto morfologico dell’eritrocita maturo, perdendo mitocondri e ribosomi; l’eritrocita, quindi, non può esser definito come una cellula in senso stretto, in quanto è privo di organelli cellulari. Tuttavia la cellula eritrocitaria possiede caratteristiche che le 71 garantiscono la capacità di trasportare ossigeno e CO2, mediante la sintesi dell’emoglobina e una morfologia tale per cui il suo rapporto superficie/volume risulta favorevole e rende lo scambio gassoso più semplice [85]. Inoltre, i precursori eritroidi (dal proeritroblasto al reticolocita) sono caratterizzati dalla presenza di un recettore di superficie per il complesso ferro-transferrina, attraverso il quale possono inglobare il ferro necessario alla sintesi dell’emoglobina [82]. 4.b. Strategie terapeutiche per la cura della talassemia. Attualmente gli approcci principali adottati nella terapia clinica dei disordini emopoietici sono costituiti dalla terapia trasfusionale, che rappresenta il trattamento più comune per tutte le forme più gravi di talassemia, e il trapianto di midollo osseo. In particolare, l’emotrasfusione associata alla terapia ferrochelante e alla splenectomia, ha costituito negli ultimi anni il mezzo più importante in grado di garantire il prolungamento e il miglioramento della qualità di vita del paziente talassemico. TERAPIA TRASFUSIONALE. Nel malato di anemia mediterranea questo approccio terapeutico non rappresenta soltanto una terapia sostitutiva applicata per ridurre o alleviare lo stato anemico, ma un vero e proprio intervento sulle principali manifestazioni della malattia, delle quali può modificare la patogenesi [2]. Il trattamento tradizionale si basa sulle trasfusioni di globuli rossi, in modo che al paziente vengano fornite le quantità di emoglobina normale necessaria a trasportare l’ossigeno a tutti i tessuti dell’organismo, consentendo la crescita e lo svolgimento di tutte le funzioni d’organo, in particolar modo del cuore. La terapia trasfusionale elimina le pericolose oscillazioni a livello emoglobinico e assicura al paziente crescita e sviluppo regolari; attraverso la riduzione dell’attività midollare, causata dalla riduzione della produzione di eritropoietina, si provoca l’arresto dell’espansione midollare e delle manifestazioni cliniche che questa comporta, quali le alterazioni scheletriche craniofacciali e l’ipervolemia. Un altro effetto che si affianca al blocco dell’attività midollare è l’arresto o la riduzione marcata dell’eritropoiesi inefficace, con un forte calo della produzione di eritroblasti alterati e di precipitati di catene α-globiniche. L’immissione in circolo di un numero minore di cellule alterate, il cui destino è quello di essere sequestrate e distrutte dalla milza, provoca di conseguenza una comparsa più lenta del fenomeno di ipersplenismo [2]. 72 L’inizio della terapia trasfusionale nei malati gravi di anemia mediterranea avviene di solito nella seconda metà o verso la fine del primo anno di vita [2]; mentre i pazienti affetti da talassemia erano in passato sottoposti a trasfusioni di sangue di tanto in tanto, la ricerca clinica ha dimostrato che un programma terapeutico che prevede trasfusioni di sangue più frequenti porta ad un netto miglioramento del tenore di vita dei pazienti. Nei casi di maggiore gravità compare entro il primo decennio di vita l’ipersplenismo, condizione determinata dall’aumentata attività emocateretica, che la milza rivolge sia verso le emazia danneggiate del malato, che a quelle sane ricevute mediante terapia trasfusionale; questa eccessiva distruzione eritrocitaria ha come conseguenza un forte ristagno di sangue nella milza ed una difficile circolazione intrasplenica del sangue, entrambi fenomeni che determinano l’aumento del volume della milza. Pertanto spesso si rende necessario ricorrere ad un intervento di splenectomia, ovvero all’asportazione della ghiandola; in passato era frequente l’insorgenza di malattie infettive in seguito all’operazione, causate dalla riduzione delle difese immunitarie del paziente, ma nell’ultimo ventennio questo inconveniente è stato in parte risolto, grazie al miglioramento delle condizioni generali dei pazienti, all’applicazione più tardiva di questo intervento e alla profilassi tramite vaccinazione cui sono sottoposti i pazienti dopo la splenectomia [2]. Poiché non esiste un modo naturale attraverso il quale il corpo umano elimina il ferro contenuto nell’eme, un trattamento trasfusionale prolungato comporta sempre l’insorgere di un fenomeno rilevante conosciuto come "iron overload" o "sovraccarico di ferro", condizione che danneggia le membrane cellulari degli organi in cui si deposita. I principali danni d’organo coinvolgono cuore, fegato e ghiandole endocrine, perché in questi organi vi è una grossa concentrazione di recettori per la transferrina. Il sovraccarico di ferro è la causa principale di morte dei pazienti trattati con ripetute trasfusioni di sangue. In associazione alla terapia trasfusionale, perciò, i soggetti talassemici necessitano della terapia chelante, la cui funzione è quella di allontanare il ferro in eccesso. La causa principale dei danni cellulari causati dall’accumulo di ferro libero nei tessuti è probabilmente la formazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) che fanno in modo che le cellule perdano la capacità di ridurle, accelerando la formazione di radicali liberi idrossilici responsabili della perossidazione dei lipidi e delle proteine di membrana e, infine, del danno cellulare. A tal proposito, si è dimostrato che il livello di 73 NTBI (non-trasferrin-bound iron) nel sangue rappresenta la causa maggiore del danno ossidativo, tuttavia tale ipotesi richiede ulteriori conferme [86]. Il primo segno di sovraccarico di ferro nel malato trasfuso è l’aumento della ferritina sierica, parametro utilizzato nella valutazione clinica degli stati di sierosi. La ferritina sierica, che nel soggetto normale si presenta per l’80% nella forma glicosilata, nel malato politrasfuso è in quantità molto più elevata e nella massima parte si trova in forma non glicosilata; la correlazione tra la quota di ferritina sierica e il grado di sierosi non è però assolutamente lineare e può essere alterata da fattori quali la presenza di ascorbato, febbre o processi infiammatori, epatiti acute o croniche ed iperemolisi cronica [2]. Le caratteristiche di maggiore importanza che sono richieste ad un agente chelante il ferro sono, soprattutto, la selettività e l’affinità per lo ione ferrico Fe3+, una spiccata capacità di penetrazione dei tessuti e delle cellule, la non tossicità, basso costo, la possibilità di somministrazione orale e un tempo di emivita elevato. Caratteristiche del composto quali il peso molecolare, il bilancio tra grado di lipofilia e idrofilia, la farmacocinetica, la distribuzione e il metabolismo giocano quindi un ruolo determinante per definire la sicurezza o la tossicità del composto chelante. Ottenere un agente chelante ideale è un impresa molto difficile, poichè, se da un lato l’accumulo di ferro è causa di tossicità e danni d’organo, dall’altro questo elemento è essenziale in molte funzioni metaboliche tra cui il trasporto dell’ossigeno, la sintesi del DNA, il trasporto di elettroni. Peranto, l’agente chelante deve essere in grado di rimuovere dall’organismo solo il ferro in eccesso. Di conseguenza, tra i vari effetti collaterali, l’impiego di agenti chelanti, può comportare l’alterazioni della normale omeostasi del ferro (assorbimento, distribuzione e utilizzo), interferire con enzimi ferro-dipendenti o rimuovere altri metalli come lo zinco e il calcio dai loro ambienti metabolici [87]. Al fine di rimuovere in modo efficace il ferro in eccesso che si accumula in seguito alla terapia trasfusionale, i pazienti vengono sottoposti alla difficile e dolorosa infusione di un farmaco chelante, la desferrioxamina (Desferal®). La desferrioxamina (DFO) è un sideroforo naturale, che viene prodotto dallo Streptomices pilosus per captare ferro dall’ambiente, che chela il ferro mascherandone i sei siti di coordinazione e in questo modo il complesso non è in grado di generare ROS. L’eliminazione del ferro chelato avviene per via fecale o urinaria; si pensa che il ferro eliminato con le feci derivi dalle cellule epatiche, dove viene legato in situ ed escreto con la bile, mentre il ferro 74 eliminato per via urinaria provenga sia dal ferro catabolico chelato entro il pool di ferro labile, sia dal ferro libero non transferrinico rilasciato dalle cellule del reticolo endoteliale [2]. Il farmaco può essere somministrato per via parenterale, ma anche attraverso infusioni endovenose o sottocutanee. Per ottenere dei buoni risultati le infusioni necessitano di essere prolungate per 8-12 ore, usando un ago attaccato ad una piccola pompa per infusione funzionante attraverso batterie e infilato sotto la pelle di varie parti del corpo. Gli alti costi del farmaco, della pompa e dei materiali di infusione ne limitano, tuttavia, l’utilità e l’applicazione, spesso non ben sopportata dai pazienti che con il tempo perdono gradualmente la disponibilità nei confronti di questa complessa terapia; ma essere in grado di tollerare questo farmaco ferrochelante è essenziale per la sopravvivenza a lungo termine del paziente talassemico, infatti, se la terapia chelante non viene correttamente effettuata, si ha un aumento delle possibilità di morte precoce per il soggetto talassemico. Al fine di porre rimedio a questo problema, sono in studio nuovi composti chelanti il ferro che possano essere tollerati con più facilità dai pazienti. Questo fatto e la necessità assoluta di fornire un’adeguata terapia ai pazienti talassemici hanno sollecitato la ricerca a direzionarsi verso nuovi ferrochelanti somministrabili per os [2]. Nel 1990 al VI Simposio Internazionale sul morbo di Cooley, che si è tenuto a New York, le ricerche in questo settore hanno identificato quattro gruppi di molecole ad attività ferrochelante, le cui strutture chimiche sono descritte in Fig. 16: 1. al primo gruppo appartiene l’idrazone di isonicotinoil-piridossale (PIH), la cui capacità di chelare il ferro si è però rivelata modesta; tuttavia, assieme ad alcuni suoi analoghi ha dimostrato di essere un potente inibitore della produzione di radicali liberi dell’ossigeno [87]; 2. il secondo gruppo annovera l’acido diacetico di idrossibenzil-etilendiammina (HBED), che somministrato per via parenterale a ratti ipertrasfusi, ha dimostrato di indurre sperimentalmente un’escrezione urinaria di ferro doppia rispetto a quanto ottenuto in seguito a trattamento con Desferal; 3. nel terzo gruppo c’è la desferritiocina (DFT), un sideroforo isolato nel 1980 dallo Streptomyces antibioticus e attualmente prodotto per sintesi chimica. E’ un agente chelante il ferro assumibile per via orale, con alta affinità di legame per lo ione Fe3+. Immediatamente dopo la sua scoperta, la desferrioticina è stato testata su ratti in cui il sovraccarico di ferro veniva effettivamente diminuito, in particolar modo a livello del 75 fegato; tuttavia, sebbene i dati iniziali non abbiano dimostrato particolari effetti negativi, una lunga esposizione dei ratti al farmaco ha dimostrato vari stadi di alterazione, da lievi a più severi, dei tubuli prossimali renali [87]; 4. infine, il quarto gruppo, è rappresentato dal deferiprone o CP20 o L1. Il suo uso è stato autorizzato inizialmente in India nel 1995 e poi in Europa, nel 1999, dove è attualmente impiegato per il trattamento di pazienti per cui la cura con desferrioxamina risulta inadeguata [87]. Questa molecola sottrae il ferro dalla ferritina, dall’emosiderina e dalla transferrina ferrica. Sono richieste tre molecole di deferiprone per chelare efficacemente una molecola di ferro e prevenire la formazione di ROS. Il farmaco può entrare nelle cellule [88], legare tre atomi di ferro e viene espulso dall’organismo in questa forma, attraverso le urine. In ratti ipertrasfusi è stato rilevato che il ferro eliminato per via urinaria proviene dal reticolo endoteliale, mentre quello espulso per via fecale viene sequestrato dal fegato e dal miocardio. Le prove di tossicità a breve termine condotte su animali non hanno segnalato effetti collaterali negativi, salvo lievi alterazioni dell’elettroretinogramma simili a quelle causate dal Desferal [2]. L’effetto collaterale più serio è rappresentato dall’agranulocitosi, mentre effetti avversi più comuni, ma meno gravi sono dati da sintomi gastrointestinali (nausea, vomito), artralgia e deficienza di zinco [87]; tuttavia, sono stati osservati casi in cui l’uso di deferiprone ha causato fibrosi epatica, dimostrando così che questo farmaco, assunto abitualmente, è meno efficace della desferrioxamina nella prevenzione dell’accumulo di ferro nel fegato e causando l’astensione di paesi come gli Stati Uniti e il Canada dall’uso del deferiprone. Al contrario, il farmaco è stato adottato in uso da ben 50 Paesi europei, dopo che con studi recenti si è chiarito che la fibrosi epatica non è l’effetto collaterale più comune e grave [89]. Dal deferiprone deriva un nuovo composto: il GT56-252, anch’esso a somministrazione orale, che forma un complesso con il Fe3+ in rapporto 2:1. Per sintesi chimica si è ottenuto il composto 40SD02 (CHF 1540), derivante dall’attacco di un polimero di amido modificato alla desferrioxamina. La molecola risultante, caratterizzata da un elevato peso molecolare che ne prolunga il tempo di emivita, mantiene l’affinità di legame per Fe3+ tipica della desferrioxamina, senza però produrre gli stessi effetti tossici acuti, come ad esempio l’ipotensione. Infine, un ulteriore composto attivo per somministrazione orale è l’ICL670; esso è un bis-idrossifenil-triazolo-N-sostituito, che ha dimostrato buona farmacocinetica e 76 scarsissima tossicità. La sua azione è limitata alla rimozione di ferro dal fegato, mentre non esercita il medesimo effetto sul cuore [87]. Alcuni studi hanno dimostrato che l’azione combinata del deferiprone con la desferrioxamina è in grado di diminuire i livelli del ferro sia nel fegato che nel cuore mediante un’azione sinergica. Infatti, il deferiprone somministrato per via orale entra nelle cellule cardiache, dove lega il ferro, che viene trasferito nel sangue in questa forma; dopo un determinato intervallo di tempo, si somministra per via parenterale la desferrioxamina che lega il ferro entrato nel torrente circolatorio, e ne provoca l’eliminazione con le urine e le feci. Fig. 16. Struttura chimica di agenti chelanti il ferro di ultima generazione. HBED (acido acetico di idrossibenzil-etilendiammina); PIH (idrazone di isonicotinoil-piridossale); DFT (desferriotiocina); GT56-252 (derivato del desferiprone); ICL-670 (bis-idrossifenil-triazolo-N-sostituito) [Cohen et 2004]. TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO. Il midollo osseo di un individuo talassemico non è in grado di produrre una normale quantità di globuli rossi funzionali; perciò, attraverso il trapianto di cellule normali e funzionanti si può garantire la guarigione definitiva al paziente talassemico. 77 Innanzitutto è necessario distruggere in parte le cellule del midollo del paziente con farmaci chemioterapici (condizionamento pre-impianto), fase molto delicata poiché il paziente viene privato delle difese immunitarie, in seguito il midollo distrutto viene reitegrato con le cellule sane derivate dal donatore (trapianto). Per poter effettuare tale sostituzione è necessaria un’assoluta compatibilità tra donatore e paziente; il midollo del donatore deve possedere caratteristiche il più possibile uguali a quelle del ricevente talassemico al fine di evitare qualsiasi fenomeno di rigetto, caso in cui il paziente necessiterà di continuare a ricevere emotrasfusioni regolari per vivere. Le cellule midollari, prelevate dal donatore, sono somministrate endovena al paziente, in maniera simile ad una normale trasfusione di sangue. Il prelievo del midollo (sangue midollare) viene eseguito in anestesia mediante ripetute punture delle creste iliache (ossa del bacino) e la quantità di sangue midollare che viene prelevata varia in rapporto al volume corporeo del ricevente, ma è di solito compresa fra i 700 e i 1000 ml. Le probabilità di successo di un trapianto di midollo sono superiori al 70%, percentuale variabile a seconda dell’età del paziente e, se il trapianto ha un buon esito, il nuovo midollo comincia a produrre globuli rossi normali. La responsabilità degli insuccessi, invece, viene attribuita principalmente agli interventi di condizionamento pre-impianto, al trattamento con ciclofosfamide per l’immunosoppressione e alla prolungata somministrazione dopo il trapianto di metotrexato per prevenire la GVHD (graft versus host disease=malattia da reazione contro l’ospite) [2]. Quindi, il trapianto di midollo è una pratica terapeutica che presenta notevoli vantaggi, ma contemporaneamente grandi rischi e richiede un’attenta valutazione della possibilità di successo prima di essere eseguita. 4.c. Terapie sperimentali per la cura della β-talassemia basate sull’induzione di emoglobina fetale. Nuove strategie per il trattamento di emoglobinopatie e in particolare della β-talassemia si basano sulla consapevolezza che questi disordini genetici sono causati da difetti strutturali o funzionali di un gene in età adulta, per il quale, tuttavia, esiste ancora la controparte fetale intatta. Durante l’ultimo decennio, molti composti farmacologici sono stati testati e indagati per la loro potenziale attività come induttori 78 della sintesi di emoglobina fetale nel trattamento dell’anemia falciforme e dell’anemia mediterranea. Sebbene queste due malattie abbiano un’origine comune in un’alterazione che coinvolge il gene per le β-globine, la loro differente fisiopatologia e causa genetica specifica, obbliga la ricerca ad adottare diversi approcci. Nella β-talassemia, la mancanza parziale o totale di sintesi β-globinica, rende di rilevante importanza l’incremento della produzione di qualsiasi altra catena globinica non-alfa. Questo può essere ottenuto sia potenziando l’espressione di geni per le globine di tipo β introdotti nelle cellule mediante vettori virali (terapia genica), sia riattivando la produzione di emoglobina fetale nell’individuo adulto, nel quale normalmente questa si trova in percentuale molto ridotta. E’ stato ampiamente dimostrato da studi biochimici, molecolari e clinici che i pazienti affetti da disordini genetici del gene per le globine β, traggono giovamento dalla persistenza o dall’induzione farmacologia di emoglobina fetale (HbF), quando essa raggiunge percentuali comprese tra il 9% e il 20%, particolarmente se l’HbF si trova distribuita in modo sostanziale nella popolazione eritrocitaria. L’induzione di HbF è perciò diventato oggetto di studi per il trattamento e la cura delle emoglobinopatie [164]. Infatti, studi condotti su individui che manifestano persistenza dell’HbF in età adulta, hanno portato a definire che un’alta percentuale di HbF è associata ad un decorso lieve e benigno della patologia [90]. Considerando gli effetti positivi sul quadro clinico esercitati dalla presenza di un’alta quota di HbF, è stata rivolta particolare attenzione alla ricerca di sostanze capaci di riattivare la sintesi di HbF nella vita postfetale [2]. Quindi, uno degli obiettivi nella terapia sperimentale della β-talassemia è quello di aumentare la sintesi delle catene γ-globiniche, per compensare il deficit di quelle β, attraverso manipolazioni farmacologiche dello switch feto-adulto delle globine. L’espressione di γ-globine nell’uomo può essere controllata sia a livello posttrascizionale, traslazionale, o post-traslazionale ed i composti che esplicano la loro azione su uno di questi steps, possono potenzialmente indurre l’espressione di emoglobina fetale [91]. L’accellerazione dei processi apoptotici dei precursori eritroidi nella β-talassemia, costituisce un ostacolo per trovare una terapia definitiva a questa patologia, poiché gli effetti benefici degli agenti che inducono la produzione di HbF non possono essere indotti in cellule in cui la morte programmata è stabilita ad uno stadio così precoce dello 79 sviluppo. E’ quindi importante identificare, oltre a sostanze in grado di indurre l’emoglobina fetale, anche metodi per ridurre l’apoptosi cellulare. E’ già stato condotto un trial clinico pilota per determinare se l’uso combinato di un induttore di HbF come il butirrato e di eritropoietina, il fattore di crescita ematopoietico che prolunga la sopravvivenza delle cellule eritroidi e ne stimola la proliferazione, può produrre una risposta positiva additiva su alcuni soggetti talassemici [92]. Sono numerosi i composti che hanno dimostrato la capacità di incrementare la sintesi di HbF sia nell’uomo che in modelli animali; questi composti comprendono farmaci citotossici, analoghi nucleotidici, fattori di crescita e derivati dell’acido butirrico. Inizialmente erano quattro i composti di maggior interesse per questo scopo: 1. la 5-azacitidina, analogo della citosina e farmaco citotossico. Nel 1982 fu osservato per la prima volta che questo farmaco somministrato ai topi per via intravenosa provocava un aumento della quota di emoglobina fetale in questi animali. Normalmente, nella cromatina, il DNA è metilato secondo un disegno tutt’altro che casuale, bensì correlato strettamente all’attività genica. Questa relazione è stata osservata inizialmente nel cluster β, in cui i geni per le γ-globine risultano essere demetilati nel periodo fetale in cui sono espressi, ma fortemente metilati nel periodo adulto in cui sono invece silenziati. Potenzialmente, quindi, la riattivazione dei geni per le globine γ nell’adulto può essere indotta alterando questo quadro di metilazione, andando ad agire, ad esempio, sugli enzimi coinvolti in tale processo [90]. Si è ipotizzato che il meccanismo d’azione della 5-azacitidina consistesse proprio nell’ipometilazione del DNA in corrispondenza della regione dei geni per le γ-globine contenente siti di legame per fattori di trascrizione, similmente a quanto avviene negli eritroblasti durante il periodo fetale. Con questo meccanismo il farmaco è dunque in grado di annullare la down-regolazione della sintesi delle catene di tipo γ. Tuttavia si è osservato immediatamente che la 5-azacitidina è soprattutto un agente citotossicocitostatico specifico della fase S, quindi inibisce la replicazione di cellule in attiva proliferazione, è potenzialmente cancerogeno, ha un’efficacia limitata nel tempo e causa una marcata inibizione dell’eritropoiesi, tutti fattori che hanno portatao all’abbandono di questo farmaco nella terapia della talassemia; un analogo della 5-azacitidina è la 5-aza2’-desossicitidina (decitabina). 2. L’idrossiurea (HU), un agente citostatico che blocca la replicazione del DNA inibendo il complesso enzimatico della ribonucleotide difosfato reduttasi. Questo 80 farmaco veniva preferito rispetto al precedente nella pratica clinica per il suo miglior profilo farmacocinetico e per la possibilità di somministrazione orale. Tuttavia, il suo effetto è transiente, variabile e, quindi, poco prevedibile, oltre a presentare anche una certa citotossicità. L’idrossiurea ha dimostrato di avere numerosi effetti sulle colture eritrocitarie; essa incrementa la porzione di HbF prodotta, diminuisce il numero delle cellule a causa della sua azione di inibizione della proliferazione cellulare, aumenta il contenuto cellulare di emoglobina (MHC) e infine fa aumentare il volume delle cellule eritrocitarie. L’entità di questi effetti è tuttavia correlata e dipendente dalla dose di farmaco e dal momento in cui è avvenuta la somministrazione. I risultati ottenuti suggeriscono che l’idrossiurea influenza il fenotipo emoglobinico interagendo direttamente con i precursori eritroidi tardivi, che sono già coinvolti nella produzione di emoglobina; questa interazione non richiede né la mediazione di altri gruppi cellulari (come ad esempio macrofagi, linfociti o cellule stromali), né fattori di crescita specifici come GM-CSF. I meccanismi attraverso cui l’idrossiurea agisce potrebbero coinvolgere la selezione di una popolazione cellulare, preesistente, rappresentata dalle F cellule, che hanno dei vantaggi sia nella crescita che nella sopravvivenza. Si pensa che questa tipologia cellulare possa essere coinvolta soprattutto nel caso di pazienti affetti da β-emoglobinopatie, dove le cellule F sono resistenti all’eritropoiesi inefficace. Un meccanismo alternativo potrebbe essere rappresentato dalla induzione diretta della maggior parte delle popolazioni eritrocitarie a produrre HbF, per esempio mediante la rimozione di proteine in trans che regolano negativamente la regione del promotore del gene per le γ-globine, oppure indirettamente modificando la cinetica del ciclo cellulare [93]. 3. L’eritropoietina, il principale fattore di crescita della linea eritroide. La somministrazione di quantità farmacologiche di eritropoietina, in soggetti affetti da β-talassemia intermedia, causa, durante la maturazione dei precursori eritroidi, la sintesi di γ-globine e, quindi, un incremento di HbF [94]. 4. Dalla metà degli anni ’80 l’attenzione è stata rivolta verso gli analoghi dell’acido butirrico, un acido grasso naturale con una catena di quattro carboni. E’ stato osservato che neonati di mamme diabetiche avevano alti livelli di HbF, fenomeno attribuito ad alte concentrazioni ematiche di acido butirrico e di altri acidi grassi a catena corta; sembra che il meccanismo con cui agiscono questi composti coinvolga l’enzima istone deacitilasi, responsabile del mantenimento di una configurazione della 81 cromatina che permette la trascrizione genica. Queste osservazioni sono state in seguito avvalorate dalla dimostrazione che individui con gravi disturbi nel metabolismo dell’acido propionico presentavano quantità elevate di HbF. Anche per quanto riguarda l’acido butirrico la risposta clinica si presenta estremamente variabile, ma tale fenomeno potrebbe dipendere dal background genetico del paziente. In vitro, il butirrato ha dimostrato di essere un inibitore dell’istone deacetilasi (HD) [95] e di indurre l’espressione dei geni per le globine γ. Il recente clonaggio dell’istone acetiltransferasi (HATs) e dell’istone deacetilasi (HD) ha chiarito che l’acetilazione permette l’attivazione trascrizionale dei geni bersaglio e che l’istone deacetilasi è responsabile dell’impacchettamento e del silenziamento genico. Un incremento della sintesi di HbF è stato notata in seguito alla combinazione di HD, agenti ipometilanti e gli inibitori dell’istone deacitilasi. Gli elementi sensibili al butirrato (BREs) sono stati identificati non solo nel promotore genico per le γ-globine, ma anche nei promotori di altri geni, la cui espressione indotta dal butirrato risultava essere nociva [96, 97]. Per lo studio dell’efficacia di nuovi agenti terapeutici in grado di indurre il differenziamento eritroide e l'espressione dei geni per le γ globine, sono state adottate nei modelli sperimentali le cellule eritroleucemiche umane K562. Questa linea cellulare rappresenta un modello d’indagine molto utile, in quanto le K562 presentano una sintesi basale di emoglobina molto bassa, che però può essere significativamente incrementata quando le cellule vengono trattate con molecole in grado di indurre il differenziamento eritroide. Un sistema innovativo per saggiare l'attività eritro-differenziante di nuove molecole potenzialmente utilizzabili nella terapia delle emoglobinopatie, consiste nell’utilizzo di colture di cellule staminali umane. Queste cellule staminali totipotenti, oltre ad essere presenti fisiologicamente nell'individuo, hanno la capacità di riprodursi e di differenziarsi, sotto l’influsso di determinati stimoli, divenendo così un potenziale modello per la valutazione di eventuali alterazioni dell'espressione di geni globinici embrio-fetali. Le tradizionali tecniche per identificare composti induttori di emoglobina fetale sono complesse e richiedono molto tempo; recentemente è stato sviluppata una metodica più rapida ed efficiente che si basa sull’utilizzo di un costrutto di DNA ricombinante nel quale le sequenze codificanti per i geni di due differenti luciferasi, denominate firefly e renilla, sostituiscono rispettivamente i geni per le globine γ e β 82 umane. L’attività di questi geni può essere distinta mediante un saggio enzimatico semplice e altamente sensibile condotto sul lisato cellulare. Le cellule trasfettate stabilmente con questo costrutto vengono messe in coltura con composti potenzialmente induttori di HbF e i loro effetti vengono determinati misurando e valutando i cambiamenti nell’attività delle due luciferasi. Gli induttori specifici per il gene per le γglobine vengono riconosciuti grazie alla loro abilità nell’aumentare l’attività del gene γfirefly luciferasi significativamente di più rispetto al gene β-renilla luciferasi. Tale metodo permette quindi di effettuare un rapido screening di agenti chimici sospettati di poter indurre l’espressione del gene γ globinico [98]. 4.d. La Rapamicina come agente induttore dell’attività eritro-differenziante. La Rapamicina, un macrolide lipofilico detto anche Sirolimus, è un prodotto di fermentazione isolato da un ceppo di Streptomyces hygroscopicus, degli attinomiceti trovati nel suolo dell’isola di Pasqua (Rapa Nui). Essa fu originariamente valutata per le sue proprietà antifungine, ma in seguito furono evidenziate anche attività immunosoppressiva e antitumorale in vivo [99]. L’uso della rapamicina è stato approvato come agente di prevenzione del rigetto in seguito a trapianti d’organo, in particolare di reni, nel settembre del 1999 dalla FDA e nel dicembre del 2000 dalla CPMP (Committee for Proprietary Medicinal Products), il corpo consultivo dell’EMEA (European Medicines Evaluation Agency) [100, 101]. Recentemente è stato dimostrato che la Rapamicina è in grado di indurre il differenziamento eritroide della linea cellulare leucemica umana K562. Le indagini in questa direzione hanno inoltre messo in evidenza che l’induzione prodotta dalla Rapamicina è superiore e più potente rispetto a quella ottenibile in seguito a trattamento con Ara C, Mitramicina e Cisplatino, noti induttori del differenziamento eritroide [102]. In aggiunta, mettendo in coltura precursori eritroidi umani, in presenza di Rapamicina, si è osservato un incremento della quantità di γ-mRNA e di emoglobina fetale in queste cellule, a livelli maggiori di quanto ottenibile usando l’Idrossiurea. Questi effetti mediati dalla Rapamicina, inoltre, non sono associati ad inibizione della crescita cellulare. E’ stato possibile testare e valutare tale composto su precursori eritroidi derivati da pazienti affetti da β-talassemia; i risultati osservati inseriscono la 83 Rapamicina nel gruppo dei composti in grado di incrementare i livelli di HbF e di essere, quindi, un potenziale approccio terapeutico per svariati disordini ematologici [100, 102]. In modo interessante, è stata presa in considerazione, in seguito, l’analisi di molte molecole strutturalmente correlate alla Rapamicina, che hanno dimostrato di possedere caratteristiche migliori rispetto alla stessa Rapamicina, in primis l’Everolimus [103]. 5. L’Everolimus. 5.a. Struttura della molecola. L’Everolimus (40-O-(2-OH-etil)-rapamicina; Certican®,Novartis Pharmaceuticals) è un analogo strutturale della Rapamicina, sviluppato in seguito alla scoperta del primo composto come promettente agente terapeutico in vari ambiti [99]. La sua formula bruta è C53H83NO14 e il suo peso molecolare è 958,224 g/mol e la struttura chimica è riportata in Fig. 17. In seguito all’addizione covalente di un gruppo idrossietilico alla posizione 40 della Rapamicina, si è ottenuto questo macrolide semisintetico con polarità maggiore rispetto alla molecola da cui deriva; infatti, l’Everolimus è stato sviluppato nel tentativo di migliorare le caratteristiche farmacocinetiche, in particolare la sua biodisponibilità orale e la velocità di raggiungimento dello steady state. La sintesi dell’Everolimus è tuttavia coperta da patent. In seguito a somministrazione orale, l’Everolimus è assorbito rapidamente e raggiunge il picco di concentrazione ematica in circa 2 ore, mentre lo steady state viene ottenuto in 7 giorni; negli individui adulti, la farmacocinetica dell’Everolimus non subisce variazioni dipendenti dal sesso, dal peso o dall’età, mentre nei bambini sono necessari adattamenti nel dosaggio in base al peso. La variabilità individuale delle caratteristiche farmacocinetiche dell’Everolimus possono essere spiegate dal sistema di metabolizzazione del farmaco stesso; l’Everolimus viene metabolizzato dagli enzimi della famiglia del citocromo P-450 3A (CYP3A) e costituisce un substrato anche per la glicoproteina P, una proteina di membrana coinvolta nel trasporto energia-dipendente di composti al di fuori della cellula. Di conseguenza l’Everolimus è in grado di interagire 84 sia con inibitori, che con induttori del sistema CYP3A e della glicoproteina P [101] e si è notata anche la presenza di interazioni farmaco-farmaco tra l’Everolimus e altri substrati metabolizzati dallo stesso sistema enzimatico. Fig. 17. Struttura chimica dell’ Everolimus. La molecola è formata da un anello a 31 atomi, un gruppo pipecolinico, un gruppo piranoso, un triene coniugato ed una regione tricarbonilica. Nella struttura sono presenti anche 15 centri chirali. Sia l’Everolimus che la Rapamicina condividono con il Tacrolimus (TAC) similitudini strutturali e tutti e tre i composti legano la stessa immunofillina FKBP12 (FK506-binding protein), un polipeptide del peso di 12 kDa, che si è dimostrato essere una peptidilpropil rotamasi citoplasmatica [104, 105]. Nonostante questa comune affinità di legame per la stessa immunofillina, il meccanismo d’azione dell’Everolimus (e della Rapamicina) è completamente differente da quello di TAC, che è un inibitore della fosfatasi calcineurina e blocca il ciclo cellulare tra le fasi G0 e G1. 85 5.b. Meccanismi d’azione. Essendo l’Everolimus un derivato strutturale della Rapamicina, condivide con questa molte caratteristiche e aspetti funzionali, tra cui il meccanismo d’azione, qui di seguito descritto. L’azione immunosoppressiva dovuta al blocco della crescita e della proliferazione delle cellule T della Rapamicina e dell’Everolimus, dipendono sostanzialmente dall’affinità di legame di queste molecole per la proteina FKBP12, molecola precedentemente nota per la sua capacità di legare il farmaco ad azione immunosoppressiva FK506. Il legame alla proteina FKBP12, non è tuttavia il reale meccanismo definitivo attraverso cui avviene il blocco della crescita cellulare. L’attività antiproliferativa esplicata dall’Everolimus (e dalla Rapamicina), richiede l’interazione con almeno due proteine intracellulari; infatti, dopo aver legato la proteina citoplasmatica FKBP12, il farmaco così complesso lega e inibisce l’attivazione di mTOR (mammalian Target Of Rapamycin), altrimenti detta FRAP protein (FKBP12-rapamycin-associated-protein), una proteina che si è rivelata avere un ruolo fondamentale nei meccanismi regolatori che controllano il metabolismo, la crescita e la proliferazione cellulari (Fig. 18) [106]. La proteina mTOR è una molecola altamente conservata nel corso dell’evoluzione ed omologa alle proteine TOR1 e TOR 2 del lievito Saccaromyces Cerevisiae, dal quale la molecola è stata isolata [99]. Nei lieviti, le proteine TOR1 e TOR2 sono grandi circa 280 kDa e presentano tra loro un’omologia molto elevata, che le rende uguali per il 67%. TOR1 e TOR2 controllano una serie di processi che contribuiscono alla crescita cellulare, in risposta alla disponibilità di azoto, inclusi: la progressione della fase G1, la regolazione della trascrizione, l’uptake di amminoacidi, l’organizzazione del citoscheletro e la degradazione delle proteine. E’ stato osservato che i lieviti mutanti per la proteina TOR1, erano completamente resistenti all’inibizione della crescita cellulare; questa osservazione, avvalorata dal fatto che mutazioni apportate a TOR1 (TOR1-1, Ser 1972 Arg) e a TOR2 (TOR2-1, Ser 1975 Ile) ne impedivano il legame da parte del complesso FKBP12-Rapamicina, ha dimostrato che effettivamente TOR è il vero e proprio target della Rapamicina e anche dell’Everolimus [107, 108, 109, 110, 111]. 86 Fig. 18. Rappresentazione dell’azione di mTOR sull’attività cellulare. La proteina TOR è un sensore di integrazione di segnali extracellulari ed intracellulari, grazie ai quali coordina la crescita e la proliferazione della cellula: è un chinasi che fosforila la proteina p70S6K, attivandola e incrementando la traduzione proteica; TOR ha come bersaglio di fosforilazione anche 4E-BP1, inibitore della traduzione quando è in forma defosforilata. Se viene fosforilato, invece, si dissocia dalla subunità eIF-4E e dà inizio alla traduzione proteica. Anche negli eucarioti la proteina TOR (Fig. 19) è stata ampiamente studiata ed è stato verificato il suo importante ruolo nel controllo della crescita cellulare; gli organismi eucarioti sembrano possedere però un unico gene codificante per TOR, scoperto per la prima volta nei mammiferi e per questo motivo denominato mTOR. La molecola mTOR è una serin-treonin chinasi importante per regolare l’attivazione e la proliferazione cellulare ed è stata identificata grazie alla sua capacità di legare in vitro il complesso FKBP12-Rapamicina [112, 113]. Successivamente è stato dimostrato che una mutazione di mTOR (Ser 2035 Ile), analoga a quella effettuata sui lieviti, conferiva alle cellule di mammifero resistenza all’azione della Rapamicina; si è ottenuta quindi conferma che, anche nei mammiferi, il bersaglio del complesso FKBP12-rapamicina è ancora mTOR e che il meccanismo d’azione di questo composto, per cui anche dell’Everolimus, viene conservato nell’evoluzione dai funghi all’uomo [107]. 87 Per mantenere la funzione di TOR è necessaria l’integrità del suo dominio chinasico, che presenta, all’estremità N-terminale, una regione costituita da 100 amminoacidi detta FRB (FKBP-Rapamycin Binding), a cui si lega il complesso FKBP12-Rapamicina. Nella struttura molecolare della Rapamicina sono distinguibili due domini funzionali, definiti dalla loro interazione con FKBP12 (binding domain) e con mTOR (effector domain) [115]. Fig. 19. Struttura della proteina mTOR. La figura descrive i differenti domini strutturali che compongono la molecola. Dall’estremità amminoterminale si riconoscono le sequenze ripetute in tandem HEAT, la sequenza FAT, il dominio FRB (importante per il legame con le Rapamicina), il dominio chinasico ed , infine, all’estremità carbossi-terminale le sequenza regolatoria NRD e la sequenza FACT. Valutando la struttura cristallina del complesso ternario FKBP12-RapamicinamTOR, si è evidenziato che l’unione delle due proteine è mediata quasi esclusivamente dalla presenza tra loro della molecola di Rapamicina, che ha la capacità di occupare simultaneamente due differenti tasche idrofobiche di legame; la struttura cristallina ha rivelato ampie interazioni tra la Rapamicina ed entrambe le proteine, ma scarsi contatti tra le due proteine [114]. All’estremità N-terminale della proteina TOR sono presenti, inoltre, 20 sequenze ripetute in tandem, dette HEAT repeats, (Huntington, Elongation factor3, subunità A della protein-fosfatasi di tipo 2A, proteina TOR), il cui nome deriva dalle iniziali delle quattro proteine nelle quali fu riscontrata per la prima volta la presenza di questi domini. Ogni sequenza HEAT ripetuta consiste in una struttura formata da due α-eliche 88 antiparallele di circa 40 amminoacidi [116, 117]. La funzione di queste sequenze HEAT ripetute nei lieviti potrebbe essere quella di ancorare la proteina TOR alla membrana plasmatica, probabilmente mediante l’interazione con una proteina transmembrana [118]. Ad una distanza di circa 500 amminoacidi dal dominio FRB, si trova il dominio FAT, che sembra avere una funzione simile a quella delle HEAT repeats nell’interazione proteina-proteina [119, 120]. All’estermità C-terminale della proteina si trova invece una sequenza di 35 amminoacidi, detta FATC, che sembra essere essenziale,assieme a FAT, alla funzione chinasica di TOR, poiché consente l’esposizione corretta del sito di catalisi al bersaglio [121, 122].Vicino a FACT è posizionato un elemento, con funzione di regolazione negativa, detto dominio NRD; esso agisce mediando una variazione configurazionale che impedisce l’esposizione fisiologica del sito catalitico [123]. La proteina mTOR è una componente centrale della sequenza di eventi, sensibile alla presenza di nutrienti ed ormoni, che controlla la crescita cellulare (Fig. 20). Fig. 20. Legame di mTOR con Raptor. Raptor è una proteina coinvolta nel meccanismo di fosforilazione mediato da mTOR; la figura mette in evidenza i fattori influenzanti il processo di legame e gli eventi risultanti dall’interazione tra mTOR e Raptor. Tale interazione è stabilizzata da una proteina simile alla subunità β delle proteine G, anch’essa descritta in figura. 89 La proteina mTOR, contiene all’estermità C-terminale un dominio chinasico, correlato molto strettamente alla famiglia delle fosfatidil-inositolo-3-chinasi (PIK), che include ATM, ATR e DNA-PK chinasi, le quali giocano un ruolo importante nel controllo del ciclo cellulare; l’inattivazione di mTOR provoca l’inibizione della fosforilazione della p70S6 chinasi (p70S6K, conosciuta anche come S6K1) e del fattore di iniziazione eucariotico 4EBP1 (4E binding protein1) (Fig. 21), fatto che impedisce, di conseguenza, la sintesi delle proteine necessarie alla crescita e alla proliferazione della cellula e arresta il passaggio del ciclo cellulare tra la fase G1 e la fase S (Fig. 22) [106]. Fig. 21. Rappresentazione schematica del meccanismo d’azione degli inibitori di mTOR (Everolimus e Rapamicina, in figura denominata SRL). Il ciclo cellulare è sottoposto al controllo mediato dai processi di assemblaggio, attivazione e rottura di complessi proteici composti da cicline e chinasi cicline-dipendenti. In particolare, un ruolo regolativo importante è rivestito dalle subunità catalitiche Cdk4 e Cdk6 delle cicline D. 90 IL CICLO CELLULARE: Fig. 22. Rappresentazione schematica delle fasi del ciclo cellulare. La mitosi e la citodieresi del ciclo cellulare hanno luogo dopo il completamento delle tre fasi preparatorie (G1, S, G2) che costituiscono l’interfase. Durante la fase S (sintesi) si duplica il materiale cromosomico. Due fasi G separano la divisione cellulare dalla fase S. Durante la fase G1, avviene l’accrescimento e la replicazione degli organuli citoplasmatici. Durante la fase G2 si assemblano le strutture direttamente associate ai mitocondri e alla citodieresi. Dopo la fase G2 vi è la mitosi (la divisione del nucleo) che è generalmente seguita dalla citodieresi (la divisione del citoplasma). L’Everolimus agisce bloccando le cellule nella fase G1 del ciclo cellulare [Figura tratta dal sito www.fhcrc.org]. Sebbene mTOR sia in grado di fosforilare entrambi questi target direttamente in vitro, il meccanismo di regolazione parzialmente riportato in Fig. 23 rimane tuttora da chiarire [124]. La p70S6K è un chinasi che viene attivata in seguito a fosforilazione sequenziale multi-sito, in risposta a insulina o a mitogeni in vivo. La sua attività in vivo è strettamente correlata alla fosforilazione del residuo di Thr-412, situato in un motivo idrofobico al C-terminale del dominio catalitico canonico. La sua funzione consiste nel fosforilare la porzione S6 della subunità 40S ribosomiale, consentendo l’attacco dell’mRNA e incrementando la traduzione [125]. Il fattore 4E-BP1, invece, quando si trova allo stato defosforilato, agisce inibendo la traduzione; esso possiede 7 siti di fosforilazione, di cui solo quattro (Thr37, Thr46, 91 Ser65, Thr70) si sono rivelati importanti per ottenere il rilascio della subunità eIF-4E. Infatti, in seguito alla fosforilazione di 4E-BP1, da esso si dissocia il fattore eIF-4E che, una volta libero, può prendere contatto con eIF-4G, eIF-4A ed eIF-4B e formare un complesso con il Cap 5’ di un mRNA per dare inizio alla sua traduzione in proteina [126]. Fig. 23. Rappresentazione schematica dei principali effetti degli inibitori di mTOR. Inibendo l’attività di mTOR, si ottiene la defosforilazione di 4E-BP1 (in figura PHAS-1) e di p70S6K. L’up-regolazione di p27, inibitore delle cicline, provoca l’arresto del ciclo cellulare alla fase G1. Lavori recenti hanno rivelato l’interazione di mTOR con una proteina di 150-kDa, altamente conservata evolutivamente e denominata Raptor (Regulatory Associated Protein of mTOR); questa proteina riveste un ruolo critico nel pathway di mTOR che regola la crescita cellulare in risposta ai livelli di nutrienti (Fig. 24). La sua presenza è necessaria per l’attivazione dell’effettore p70S6K e di 4E-BP1; in aggiunta, in condizioni di repressione di mTOR, l’associazione di Raptor con quest’ultimo diviene 92 più salda, conducendo ad una diminuzione dell’attività chinasica di mTOR [127]. La fosforilazione di 4E-BP1 catalizzata da mTOR in vitro è interamente dipendente dalla presenza di Raptor, mentre la fosforilazione di p70S6K, che normalmente avviene in vitro anche in assenza di questa proteina ausiliaria, viene aumentata di almeno cinque volte in presenza di Raptor. Recentemente, mediante mutagenesi sito-specifica, è stato possibile definire una sequenza di cinque amminoacidi chiamata TOS (TOR signaling motif), come regione minima funzionalmente importante, all’interno del segmento N-terminale non catalitico di p70S6K; similmente un motivo TOS è stato identificato anche in 4E-BP1. L’ipotesi che il motivo TOS fosse essenziale per il legame di p70S6K e 4E-BP1 a Raptor, è stata confermata operando mutazioni del motivo TOS che abolivano la fosforilazione di 4E-BP1 catalizzata da mTOR in vitro ed eliminavano la stimolazione Raptor-dipendente della fosforilazione di p70S6k sempre da parte di mTOR (Fig. 24). Raptor, dunque, non modifica in alcun modo la funzione catalitica di mTOR, ma funziona da ponte tra quest’ultimo e i suoi bersagli favorendo l’ancoraggio ad essi e la loro fosforilazione. Fig. 24. Legame di Raptor a 4E-BP1 e a p70S6K. Il motivo TOS (TOR signalling motif) è una corta sequenza conservata presente nei due polipeptidi e utile al legame con Raptor. Nella figura è dimostrato, mediante un esperimento di mutazione di sequenza, che il motivo TOS è essenziale affinché avvenga l’interazione di Raptor con le proteine 4E-BP1 e a p70S6K. 93 Il legame di Raptor a mTOR, è mediato dalle sequenze HEAT repeats; questa associazione, dipendente dalla quantità di nutrienti a disposizione della cellula, viene è stabilizzata dalla proteina mLST8, un polipeptide simile alla subunità β delle proteine G. In assenza di aminoacidi Raptor si associa a mLST8 impedendo l’interazione di mTOR coi suoi substrati (4E-BP1 e p70S6K); invece, la presenza di nutrienti induce una modificazione conformazionale che rompe il complesso Raptor-mLST8, e rende mTOR in grado di fosforilare i suoi substrati [128, 129]. Uno dei possibili meccanismi d’azione della Rapamicina e dell’Everolimus, per inibire l’attività chinasica di mTOR, potrebbe consistere proprio nell’impedire l’interazione tra Raptor e mTOR. Un secondo bersaglio di TOR, implicato nella cascata di trasmissione del segnale, è rappresentato dalla proteina Tap42 di lievito, il cui omologo mammifero è la proteina α4. Tap42 normalmente si lega alla subunità catalitica della proteina fosfatasi 2A (PP2A), formata dalle subunità Sit4, Pph21 e Pph22; il trattamento con Rapamicina o l’assenza di nutrienti, causano la dissociazione di Tap42 dalla subunità Sit4 di PP2A [130]. A conferma dell’ipotesi secondo cui l’attività chinasica di TOR è mediata anche da Tap42, sono state eseguite mutazioni di Tap42 che hanno dimostrato di provocare parziale resistenza alla Rapamicina. Essendo l’associazione di Tap42 a PP2A dipendente dalla fosforilazione operata da TOR, l’azione della Rapamicina su TOR impedisce la fosforilazione di Tap42, libera PP2A e attiva il sito Sit4, che può quindi esplicare la sua azione di defosforilazione su NPR1 e GLN3 [130]. NPR1 si trova allo stato attivo quando è defosforilata, condizione in cui fosforila GAP1 e TAT2; GAP1 è una permeasi che allo stato fosforilato è protetta dalla degradazione e consente agli amminoacidi di fuoriuscire dalla cellula, mentre TAT2 fosforilata diventa suscettibile alla degradazione e impedisce l’ingresso di azoto nella cellula. GLN3, invece, è un fattore trascrizionale che regola l’espressione di Gln1 (Glutamina sintetasi); quando GLN3 è defosforilato, si dissocia dal suo repressore URE2 ed è libero di traslocare nel nucleo, dove attiva l’espressione di geni codificanti per proteine coinvolte nell’utilizzo dell’azoto (Fig. 25). In seguito alla repressione di TOR da parte della Rapamicina, si può assistere, inoltre, all’attivazione dei fattori di trascrizione chiamati Mns2 e Mns4 e coinvolti in situazioni di stress ossidativo, come ad esempio la carenza di carbonio per la cellula. 94 Dissociandosi da BMH2, questi due fattori possono attivare l’espressione di geni bersaglio specifici [131]. GAP1 Fig. 25. Rappresentazione del possibile ruolo della proteina Tap42 nella trasmissione del segnale mediato da TOR. Tap42 lega la subunità catalitica della proteina fosfatasi 2A (PP2A). Il trattamento con Rapamicina o la mancanza di nutrienti, dissocia Tap42 dalla subunità Sit4, una delle subunità della PP2A attivandola. Sit4 agisce defosforilando i suoi substrati, ovvero le proteine NPR1 e GLN3. Quando NPR1 è defosforilata, vengono attivate e fosforilate GAP1 e TAT2, proteine coinvolte nella permeabilità della membrana. GLN3 è un fattore trascrizionale regolante l’espressione di Gln1 (Glutamina sintetasi), che quando defosforilato si dissocia dal repressore URE2, viene traslocato nel nucleo, dove attiva l’espressione del geni codificanti per proteine relate all’utilizzo dell’azoto. La proteina TOR può subire, oltre alle interazioni finora descritte, una regolazione sia diretta che indiretta; indirettamente, la fosfatidilinositolo-3-chinasi (PIK3), attivata da fattori di crescita esterni alla cellula, come l’insulina, produce fosfatidil-inositolo-3fosfato (PIP3), responsabile dell’attivazione di PDK-1 e dell’Akt-pathway, dove TOR potrebbe rappresentare un substrato diretto di PKB [132, 133, 134]. Questo meccanismo 95 può coinvolgere anche un complesso proteico, costituito dalle proteine TSC1 e TSC2, con funzione di soppressione tumorale; TSC2 è un attivatore di GTPasi, stimola cioè l’idrolisi di GTP operata da Rheb, una GTPasi simile a Rho appartenente alla superfamiglia di Ras [135]. La Rapamicina blocca l’effetto stimolatorio che Rheb esercita su TOR. 5.c. Impieghi terapeutici dell’Everolimus. Come la Rapamicina, anche l’Everolimus è una molecola ad attività immunosoppressiva, proprio grazie alla sua capacità di arrestare il ciclo cellulare nella fase G1; esso è infatti in uso nel trattamento profilattico del rigetto d’organo, in pazienti che hanno subito trapianto di reni o di cuore, in quanto l’Everolimus ha dimostrato di essere in grado di alterare il meccanismo associato al rigetto vascolare e alla proliferazione delle cellule muscolari lisce indotta da fattori di crescita [136]. La somministrazione orale di 0,75 o 1,5 mg di Everolimus, due volte al giorno, riduce significativamente, nei soggetti adulti che hanno subito trapianto di cuore, l’incidenza dei fallimenti già a 6 mesi dall’operazione, rispetto al trattamento con 1-3 mg/kg/giorno di Azatioprina (un profarmaco, rapidamente idrolizzato a 6-mercaptopurina, il principio attivo vero e proprio). La stessa dose di Everolimus ha dimostrato di ridurre anche l’insorgenza di vasculopatia cronica, a due anni di distanza dall’operazione. Dopo 1 o 2 anni dal trapianto cardiaco, i pazienti trattati con Everolimus dimostrano livelli di fallimento dell’efficacia dell’operazione significativamente inferiori a quelli dei pazienti trattati con Azatioprina. Rispetto all’Azatioprina e del MMF (Mofetil Micofenolato), un profarmaco che in pochi minuti viene idrolizzato nel principio attivo acido Micofenolico (MFA), l’Everolimus è associato ad una minor incidenza di infezioni da CMV (citomegalovirus) in pazienti sottoposti a trapianti di reni o cuore. Composti come la Rapamicina e l’Everolimus formano perciò una nuova classe di agenti immunosoppressori, il cui uso è in aumento nei casi di trapianto di reni, poiché, quando non associati a inibitori della Calcineurina (CNIs), una serin/treonin fosfatasi Ca2+/calmodulina dipendente, evitano l’insorgenza di nefrotossicità. I maggiori effetti 96 collaterali dell’Everolimus, comuni alla Rapamicina, sono rappresentati da ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, leucopenia e trombocitopenia L’efficacia di un agente immunosoppressore nel trapianto renale generalmente si traduce in un’altrettanto comparabile efficacia nel trapianto di fegato, ma bisogna considerare tuttavia la potenziale tossicità di questi agenti, che spesso porta ad abbandonare l’idea di applicarli in questo secondo impiego. Questo potenziale problema è messo in luce dagli inibitori di mTOR (Rapamicina ed Everolimus), per i quali la bassa nefrotossicità, notata negli studi sui trapianti di reni, potrebbe renderli idonei anche alla terapia antirigetto del trapianto di fegato. Comunque, come con molti agenti immunosoppressori, fatta eccezione per il tacrolimus (TAC), la valutazione del loro ruolo in altri tipi di trapianti d’organo è stata erroneamente trascurata [99]. Inoltre, l’Everolimus dimostra proprietà antiproliferative bloccando il segnale di trasduzione coinvolto nella progressione cellulare della proliferazione delle cellule T IL2-indotte, così come l’induzione generale della crescita mediata da fattori, sia di cellule ematopoietiche che non ematopoietiche, incluse le cellule della muscolatura liscia vasale [137]. Prima di entrare nella fase G1 del ciclo cellulare, i linfociti T devono essere stimolati dalla presenza di antigeni associati alle cellule APC (cellule presentanti l’antigene) e questo complesso interagisce col recettore TCR (T-cell Receptor), interazione che sfocia in una serie di reazioni di fosforilazione a cascata e attiva l’espressione genica dei linfociti T. I linfociti T attivati esprimono due differenti pattern di citochine: le citochine Th1 che producono IL-2 e IFN-γ e le citochine Th2 che producono IL-4, IL-5 e IL-10 [106]. In particolare, l’IL-2 stimola la divisione cellulare e la progressione del ciclo cellulare verso la fase G1, processo regolato, inoltre, da numerosi fattori tra cui oncogeni, fattori di trascrizione e geni correlati al ciclo cellulare. Il controllo del ciclo cellulare è dipendente, infine, dai processi di assemblaggio, attivazione e rottura di complessi proteici composti da cicline e chinasi ciclinedipendenti. In particolare, un ruolo regolativo importante è rivestito dalle subunità catalitiche Cdk4 e Cdk6 delle cicline D, regolate da piccole proteine con funzione inibitoria. Nei mammiferi, due famiglie di inibitori agiscono secondo meccanismi e bersagli specifici; tra questi inibitori p21, p27KIP1, p57KIP2, inibiscono i complessi proteici che contengono le cicline Cdk2, Cdk3, Cdk4 e Cdk6. L’attività di questi inibitori può essere regolata da un’ampia varietà di segnali esterni alla cellula, regolazione che porta ad impedire la sintesi di DNA e la progressione del ciclo 97 cellulare, portando le cellule al differenziamento terminale [138]. L’azione degli inibitori p21 e p27KIP1 media l’associazione del complesso ciclina D1/Cdk4 e Cdk6, mentre la formazione del complesso p27/ciclina D1/Cdk4 è favorita da fattori di crescita, attraverso il pathway di attivazione PI3K/Akt. L’arresto del ciclo cellulare in G1 è dipendente dalla scissione di p27KIP1 dal complesso e dal suo assemblaggio alla ciclina E/Cdk2 [139]. Nei linfociti T, mTOR rappresenta uno step intermedio nell’attivazione che segue il legame dei recettori di superficie, come CD28, o di recettori per le citochine, come il recettore per l’interleuchina-2. Gli inibitori di mTOR (TORIs, Rapamicina ed Everolimus) perciò bloccano l’attivazione dei linfociti ad uno stadio più tardivo rispetto ai CNIs (Tacrolimus e Ciclosporina) e impediscono la proliferazione delle cellule T, bloccando il ciclo cellulare tra la fase G1 e S. Esperimenti condotti in vitro hanno dimostrato che gli inibitori di mTOR riducono, inoltre, la proliferazione di cellule della muscolatura liscia, di fibroblasti e di linee cellulari tumorali [99]. Con questo meccanismo, l’Everolimus riesce a bloccare la proliferazione dei linfociti indotta dai fattori di crescita IL-2 e IL-5, ma è in grado di inibire allo stesso modo anche la proliferazione mediata da fattori di crescita sia di cellule ematopoietiche (linfociti T, linfociti B e monoliti), che non ematopoietiche (cellule della muscolatura liscia vascolare, macrofagi e fibroblasti). Un’applicazione nuova e interessante di questo meccanismo di inibizione proliferativa delle cellule T, sembra rappresentato dalla possibilità di utilizzare l’Everolimus nel trattamento della psoriasi, una malattia autoimmune mediata, appunto, dai linfociti T [106]. L’Everolimus e tutti gli altri inibitori di mTOR, possono essere utilizzati in associazione agli inibitori della calcineurina, con i quali hanno dimostrato di sortire un effetto sinergico [99]. L’azione associata dell’Everolimus e della Ciclosporina, ha dimostrato di essere complementare e sinergica in studi preclinici condotti in vitro e in vivo. 98 5.d. Effetto eritro-differenziante dell’Everolimus. Gli effetti dell’Everolimus sul differenziamento eritroide e sulla crescita cellulare sono stati determinati inizialmente, mediante uno studio condotto su colture di cellule eritroleucemiche umane K562 e, solo in seguito all’evidenza di un’attività della molecola su questo modello cellulare, l’analisi è stata spostata su colture di precursori eritroidi isolati dal sangue periferico di pazienti affetti da β-talassemia, impiegando mezzi liquidi di coltura differenti in due fasi successive, secondo la metodica descritta da E. Fibach [140, 141]. Per determinare gli effetti sul differenziamento eritroide, le K562 sono state trattate con concentrazioni crescenti di Everolimus e il differenziamento è stato valutato dopo alcuni giorni di coltura, attraverso il saggio della benzidina. L’Everolimus ha così dimostrato di indurre il differenziamento eritroide nelle cellule K562 (Fig. 26), manifestando un’inibizione superiore al 50% della % cellule positive alla benzidina proliferazione cellulare solo a concentrazioni superiori a 25 µM (Fig. 27). Tempo (giorni) Fig. 26. Incremento di cellule contenenti emoglobina in seguito al trattamento delle colture di K562 con Everolimus. Il grafico evidenzia l’andamento della quantità percentuale di cellule differenziate in seguito a trattamento con: Everolimus 500 nM (cerchi bianchi), Everolimus 1 µM (cerchi neri), controllo non trattato (quadrati neri) [Figura tratta da: Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006]. 99 Crescita cellulare percentuale (%) Everolimus (µM) % cellule positive alla benzidina Fig. 27. Effetti dell’Everolimus sulla proliferazione delle K562. Le cellule K562 sono state trattate con concentrazioni crescenti di Everolimus; la determinazione della proliferazione cellulare (cell/ml) è stata effettuata dopo 4 giorni e confrontata con un controllo non trattato [Figura tratta da Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006]. Everolimus (µM) Fig. 28. Induzione del differenziamento eritroide in cellule K562 da parte dell’Everolimus. Il grafico mostra i risultati ottenuti osservando le cellule al microscopio e sottoponendole al saggio della benzidina per evidenziarne l’avvenuto differenziamento in senso eritroide; la quota di cellule positive alla benzidina è stata valutata a partire dal 6° giorno di coltura [Figura tratta da Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006]. 100 L’induzione del differenziamento si è rivelata essere dose-dipendente (Fig. 28) e alla concentrazione di Everolimus 500 nM corrisponde un’induzione pari al 50% delle cellule K562 (Fig. 29d) [103]. E’ da sottolineare che non sono rilevabili evidenti effetti inibitori della proliferazione cellulare delle K562 a questa concentrazione (Fig. 27). Fig. 29. Effetti sul differenziamento eritroide delle K562 mediato da Everolimus. La figura mostra microfotografie fatte al 4° giorno alle colture di K562, rispettivamente a: assenza di trattamento o controllo negativo (a); in presenza di 50 nM di Everolimus (b), 250 nM di Everolimus (c), 500 nM di Everolimus (d) [Figura tratta da: Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006]. Perciò l’induzione del differenziamento avviene in condizioni non tossiche per la cellula in questo modello sperimentale; questo fatto riveste una notevole importanza, soprattutto a confronto con gli induttori finora noti e utilizzati, come ara-C , Cisplatino e Mitramicina, che dimostrano invece una spiccata inibizione della proliferazione cellulare. L’efficienza dell’Everolimus nell’indurre il differenziamento eritroide è stato confrontata con quella di svariati agenti eritrodifferenzianti [103], quali Ara-C [142], Mitramicina [143], Tallimustina [144] e Cisplatino [145]; inoltre, esso si è dimostrato più attivo nell’indurre il differenziamento delle K562 rispetto a due composti in uso nella terapia sperimentale della β-talassemia, come l’Acido Butirrico [146] e 101 l’Idrossiurea [147, 148]. Per determinare se l’induzione del differenziamento eritroide osservato nella linea cellulare K562 è associato anche ad un incremento selettivo dell’accumulo specifico di mRNA per le γ-globine, è stata eseguita l’estrazione dell’RNA totale, sia dalle cellule trattate che da quelle non trattate con Everolimus (controllo negativo), e mediante Real-time quantitative PCR si è valutato l’incremento di γ mRNA. Si è osservato che l’incremento di messaggero γ-globinico mediato dall’Everolimus è comparabile a quello che si ottiene con un’induzione di Ara-C. I dati descritti hanno condotto a pensare che l’Everolimus deve essere ulteriormente analizzato e preso in considerazione per il suo possibile effetto attivante l’espressione γ-globinica in precursori eritroidi derivati da pazienti sani o affetti da β-talassemia. Infatti, la seconda parte dello studio, è stata condotta su cellule progenitrici eritroidi umane derivate dal sangue periferico e coltivate in vitro. Il trattamento con Everolimus 500 nM è stato effettuato al sesto giorno di fase II e protratto per 4 giorni. Inizialmente, lo studio è stato condotto su precursori derivati da 4 soggetti sani ed ha dimostrato un incremento di 2,4 volte dell’aliquota di HbF rispetto al contenuto cellulare di emoglobina totale, corrispondente in media ad un aumento di HbF da 0,052 a 0,12 pg/cell. Un esperimento parallelo con Mitramicina 25 nM, ha evidenziato una concentrazione di HbF di 0,190 pg/cell [103]. Sulla base di tutte queste osservazioni, l’Everolimus ha attirato particolarmente l’attenzione sulla sua potenziale azione come agente induttore di emoglobina fetale nel trattamento di soggetti affetti da β-talassemia. Lo studio su questi soggetti è stato tuttavia eseguito solamente su 4 pazienti di origine israeliana nei quali il γ-mRNA è stato indotto dalle 2.8 alle 7.2 volte rispetto al controllo di cellule non trattate [103]. Inoltre, essendo l’Everolimus un composto già in uso clinico per la cura di altre patologie [99, 106, 136, 137] e dal momento che deriva da una molecola, la Rapamicina, già nota per la sua attività eritro-differenziante [103], si è ritenuto opportuno approfondire le indagini sulle proprietà di questo composto riguardo una sua possibile applicazione nella cura di disordini ematopoietici. 102 5.e. Trials clinici già effettuati con l’Everolimus. Un trial clinico è un esperimento progettato secondo schemi metodologici riconosciuti validi dalla comunità scientifica, che viene eseguito per testare l’efficacia e la sicurezza di impiego di un trattamento farmacologico, chirurgico o di una procedura diagnostica, nella cura o nella diagnosi di una malattia. Le fasi dello sviluppo clinico di un nuovo agente terapeutico sono: 1. lo screening di un gruppo di molecole di interesse e l’individuazione tra queste di un possibile candidato adeguato; 2. sviluppo pre-clinico; 3. sviluppo clinico, cioè gli studi di pre-registrazione dei composti in tre fasi successive (fase I, fase II e fase III), effettuate al fine di ottenere la registrazione della molecola da parte del Ministero della Sanità (A.I.C.); 4. registrazione; 5. lancio e fase IV (post A.I.C.), serve ad approfondire la conoscenza sull’efficacia e la tollerabilità su casistiche più ampie e in particolari sottogruppi di pazienti; La fase I degli studi clinici viene condotta su un numero limitato di soggetti, generalmente volontari sani; questa fase rappresenta la prima somministrazione sperimentale del farmaco all’uomo, allo scopo di valutarne la sicurezza, la farmacocinetica preliminare ed eventualmente la tossicità. Gli studi della fase II, condotti su un campione più folto di volontari (100-200), mirano a dimostrare l’efficacia del farmaco, precedentemente ipotizzata in base alle caratteristiche biochimiche della molecola e ai risultati ottenuti dagli studi sugli animali; inoltre, sono studi effettuati per identificare la dose più efficace tra quelle non tossiche e per definire in modo esauriente la cinetica del farmaco nei pazienti destinati ad usarlo. La fase clinica III viene condotta su una casistica più ampia di pazienti (>1000) e ha lo scopo di confermare l’efficacia del farmaco in soggetti non selezionati per gravità e varianti qualitative della malattia per la quale quel farmaco è indicato. Con gli studi di fase III si possono definire meglio la sicurezza d’impiego e la tollerabilità del farmaco in condizioni quanto più simili e vicine a quelle del futuro impiego. Gli studi post-registrazione, rappresentati dalla fase IV, consentono, infine, di diffondere la conoscenza sull’uso del farmaco tra i medici interessati, mediante un suo uso sperimentale controllato. 103 Per progettare un trial clinico occorre innanzitutto definire un’ipotesi da testare sulla base di un razionale scientifico, scegliere un valido trattamento di confronto e definire un disegno sperimentale appropriato. Inoltre, occorre identificare una variabile possibilmente sensibile al trattamento sottoposto allo studio, definire l’entità della variazione ritenuta clinicamente significativa, calcolare il numero di pazienti necessari affinché si evidenzi la variazione, definire criteri di inclusione ed esclusione e predefinire quali test si utilizzeranno per l’analisi statistica. Mediante il calcolo del campione viene determinato il numero di pazienti necessari affinché i risultati della sperimentazione siano statisticamente attendibili; studi effettuati con un numero di pazienti inferiore a quanto richiesto non mettono in evidenza differenze significative, mentre l’utilizzo di un sovrannumero di soggetti comporta solamente uno spreco di risorse. I pazienti vengono suddivisi in bracci di trattamento (gruppi di soggetti che assumono lo stesso trattamento), in gruppi placebo (soggetti che assumono solo gli eccipienti) oppure vengono randomizzati, cioè attribuiti a ciascun braccio di trattamento in maniera casuale e predefinita. I soggetti, inoltre, possono appartenere per tutto il tempo dello studio ad un solo braccio di trattamento (studio a gruppi paralleli) oppure appartenere in fasi successive ai diversi gruppi (studio a disegno “cross-over”). Se tutti i partecipanti conoscono quale trattamento è stato loro attribuito lo studio si dice “aperto”, se invece lo sperimentatore, ma non il soggetto, conosce il trattamento lo studio è “in singolo cieco” e, infine, se né lo sperimentatore, né il soggetto sono a conoscenza del trattamento lo studio viene definito “ in doppio cieco”. In un trial clinico, gli aspetti etici e legislativi sono regolati dalle GCP (Good Clinical Practice), normative sugli obblighi degli sperimentatori e degli sponsor, che nacquero nel 1977 su proposta della FDA, con gli scopi principali di proteggere i diritti degli individui che prendono parte alla ricerca e garantire l’affidabilità e l’accuratezza delle informazioni ottenute. Le aziende che non aderiscono alle GCP non ottengono l’approvazione dei loro farmaci, mentre lo sperimentatore che le infrange incorre in sanzioni quali l’esclusione da ulteriori studi. Gli elementi fondamentali che governano le GCP sono: a) la protezione dell’individuo (Consenso informato e controllo da parte del comitato etico); b) Procedure operative standard (SOP); 104 c) Documentazione e conservazione dell’archivio; d) Monitoraggio delle procedure e dei dati; e) Segnalazione degli eventi avversi; Tre studi clinici pilota de novo che hanno previsto l’impiego dell’Everolimus sono stati condotti su pazienti trapiantati, dopo aver considerato i risultati di studi pre-clinici condotti su primati non-umani, sottoposti a trapianto renale; questi dimostravano che l’Everolimus, non solo impedisce il rigetto e favorisce la sopravvivenza del soggetto, ma impedisce la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia e riduce anche la nefrotossicità della Ciclosporina. Questi studi clinici pilota sono stati chiamati: 1. B201 (condotto in Europa); 2. B251 (condotto in USA e Brasile); 3. B156 (condotto in Europa); I primi due studi confrontano l’efficacia e la sicurezza dell’Everolimus rispetto al MMF (Mofetil Micofenolato), mentre il terzo lavoro (B156) esamina gli effetti sortiti dall’Everolimus in un regime di riduzione della Ciclosporina. Nello studio B201, i tre gruppi di trattamento assumevano rispettivamente Everolimus 1,5 mg/g, Everolimus 3 mg/g e MMF. Il rigetto acuto dimostrato con biopsia è stato osservato essere il 23,2% e il 19,7% rispettivamente per i trattamenti con Everolimus, contro il 24% riscontrato con il trattamento con MMF. Tuttavia, i soggetti trattati con 3 mg/g di Everolimus, dimostravano un incremento pronunciato della concentrazione lipidica ematica, mentre i livelli di creatinina serica erano superiori nei pazienti sottoposti alla somministrazione di MMF. Similmente allo studio precedente, anche il trial B251 è stato effettuato per dimostrare la buona efficacia dell’Everolimus nel prevenire il possibile fallimento del trapianto o la morte del paziente. Il tasso di rigetto d’organo, provato mediante esame bioptico, non differiva sostanzialmente da quello riscontrato nello studio B201. Episodi di rigetto acuto, richiedenti terapia con anticorpi, sono statisticamente meno frequenti nei pazienti trattati con Everolimus 3 mg/g rispetto ai soggetti che assumono MMF. In questo studio clinico i pazienti che assumevano Everolimus hanno dimostrato incremento sia del colesterolemia che della trigliceridemia, ma anche della creatinina serica. 105 Infine, lo studio B156 ha raccolto, a 12 mesi dall’operazione, i dati relativi al rigetto acuto dell’organo, alla sua perdita di efficacia o alla morte del paziente e ha dimostrato, che tali valori erano significativamente inferiori nel gruppo di trattamento che aveva assunto una dose di farmaco più bassa in associazione con Neoral® (ciclosporina microemulsione), rispetto al gruppo trattato con la dose convenzionale. In seguito è stata osservata che il gruppo con dose ridotta dimostrava anche un incremento della filtrazione glomerulare (GFR) dal 25% al 30%, livello ancora più pronunciato dopo 12 mesi. La comparazione dell’efficacia d’azione dell’Everolimus rispetto a MMF nel trattamento antirigetto in seguito a trapianto renale, è effettuata anche con uno studio randomizzato, in gruppi paralleli e in doppio cieco; nonostante i risultati iniziali abbiano evidenziato un’efficacia comparabile tra i due farmaci, il monitoraggio della concentrazione ematica dell’Everolimus, ha permesso di definire che il rischio di rigetto acuto aumenta se tale concentrazione scende al di sotto di 3 µg/L. Il monitoraggio della concentrazione ematica è dunque uno strumento efficace per ottimizzare la terapia, quando questo composto è inserito in un protocollo come farmaco immunosoppressore [101]. L’unico studio randomizzato, riportato recentemente, per testare l’uso dell’Everolimus nel trapianto di fegato, prevedeva la somministrazione di Everolimus in combinazione con Ciclosporina (CsA). Un totale di 119 pazienti sono stati suddivisi in gruppi per ricevere da 1 a 3 combinazioni di Everolimus-CsA oppure solo CsA e placebo. Nessuna particolare differenza è stata osservata nella prevenzione del rigetto acuto del fegato tra i vari gruppi. Non sono state riportate nemmeno differenze riguardanti la dislipidemia o la soppressione midollare, mentre si sono verificati in tutto tre episodi di HAT (Hepatic Artery Thrombosis); uno nel gruppo placebo (3,3%; 1/30), due nei gruppi dell’Everolimus (2,2%; 2/89) [99]. Un altro studio clinico è stato effettuato indirizzando l’interesse sulla capacità dell’Everolimus di ridurre l’insorgenza di vasculopatie post-trapianto; studi pre-clinici condotti su ratti hanno evidenziato, infatti, che l’Everolimus impediva alterazioni vascolari successive al trapianto di aorta in questi animali. Il primo scopo di questo studio clinico è stato quello di valutare la sicurezza e la tollerabilità di quattro differenti dosi di Everolimus in pazienti sottoposti a trapianto renale e riceventi terapia steadystate con Ciclosporina; secondariamente si è voluto definire il profilo farmacocinetico 106 dell’Everolimus. Questo rappresenta il primo studio su un’ampia gamma di concentrazioni del farmaco in compressa, diversamente da un precedente studio a dose singola o a un recente studio a dose multipla, che riportava però il farmaco in capsula, formulazione non reperibile in commercio [137]. Uno studio ha confrontato l’efficacia dell’Everolimus a quella dell’Azatioprina nel ridurre la gravità e l'incidenza di vasculopatia da trapianto cardiaco. Un totale di 634 pazienti è stato assegnato in modo random a ricevere Everolimus 1,5 mg/die (n =209), Everolimus 3 mg/die (n=211) o Azatioprina 1-3 mg/kg/die (n=214 ) in associazione a Ciclosporina(CsA), corticosteroidi e statine. L'endpoint primario di efficacia dello studio era rappresentato da: morte, perdita del graft o ri-trapianto, rigetto acuto di grado 3° o rigetto con compromissione emodinamica. A 6 mesi, l'endpoint primario di efficacia è stato raggiunto nel 27% dei pazienti trattati con Everolimus 3 mg, nel 36,4% dei pazienti trattati con Everolimus 1,5 mg e nel 46,7% dei pazienti del gruppo Azatioprina. A 12 mesi dal trapianto, l'ultrasonografia intravascolare ha riscontrato un minor aumento dello spessore dell'intima tra i pazienti trattati con Everolimus, inoltre, l'incidenza di vasculopatia era significativamente più bassa nel gruppo Everolimus 3 mg (30,4%) e 1,5 mg (35,7%) che nel gruppo Azatioprina (52,8%). Infine, l'incidenza di infezioni da Cytomegalovirus era significativamente più bassa nel gruppo 3 mg (7,6%) ed 1,5 mg (7,7%) che nel gruppo Azatioprina (21,5%). I livelli plasmatici di creatinina sono risultati più alti tra i pazienti trattati con Everolimus [136]. Sulla base dell’ipotesi che farmaci come l’Everolimus e il Gefitinib possano fermare la crescita di cellule tumorali, il primo bloccando il flusso sanguigno alla massa tumorale e il secondo bloccando l’azione degli enzimi necessari alla crescita delle cellule neoplastiche, nel giugno del 2004 è partito un trial clinico di fase I e II, con lo scopo di studiare gli effetti collaterali e la dose migliore di Everolimus quando somministrato insieme a Gefitinib e di valutare se questi due farmaci cooperano tra loro nel trattamento di pazienti con glioblastoma multiforme progressivo. Tale studio clinico non randomizzato, coinvolge in tutto 58 pazienti e viene condotto in open-label. La fase I si propone di definire la massima dose di Everolimus tollerata dai pazienti affetti da glioblastoma multiforme progressivo, quando somministrato in combinazione con Gefitinib, mentre con la fase II ci si propone di stabilire la sicurezza e l’efficacia del regime terapeutico definito con la fase I. Si intende, inoltre, determinare le eventuali 107 interazioni farmacocinetiche tra i due farmaci e gli effetti farmacodinamici di tale regime terapeutico. Nella fase I i pazienti ricevono Everolimus per via orale al primo giorno di trattamento e Gefitinib una volta al giorno, dall’ottavo al dodicesimo giorno di trattamento; dal ventiduesimo giorno, ai pazienti viene somministrato Everolimus una volta alla settimana e Gefitinib giornalmente. Il trattamento viene proseguito somministrando l’associazione dei due farmaci solo se non si manifesta progressione della malattia o tossicità inaccettabile [149]. Sempre agendo attraverso il blocco del flusso sanguigno che irrora il tumore, si è pensato che l’Everolimus potesse essere un valido trattamento del melanoma maligno metastatico o melanoma di stadio IV; pertanto nell’aprile 2005 è partito uno studio multicentrico in open-label che coinvolge in tutto 73 pazienti e che ora è alla fase II. In questo caso, l’Everolimus viene somministrato ai pazienti, in cui la forma maligna di melanoma è stata confermata dall’esame istologico, una volta al giorno per 8 settimane; il trattamento prosegue oltre le otto settimane solo se si evidenzia il blocco della progressione della malattia e tossicità accettabile [150]. E’ in corso, inoltre, la fase I di uno studio che ha lo scopo di stimare sia la sicurezza che l’efficacia dell’Everolimus, quando somministrato con il Cisplatino a differenti dosaggi, in pazienti con tumori solidi allo stadio avanzato che non possono essere trattati con radioterapia, chirurgia o chemioterapia convenzionale. Questo studio nasce dall’osservazione secondo la quale l’Everolimus sembra migliorare l’attività del Cisplatino contro le cellule tumorali in vitro [151]. Nel 2005, invece, l’attenzione di un trial clinico si è focalizzata sulla possibilità che l’Everolimus impedisca la moltiplicazione cellulare di cellule tumorali. La fase I si svolge su pazienti in età pediatrica, con tumori solidi o tumori al cervello ricorrenti o refrattari, che non rispondono alle comuni pratiche terapeutiche, mentre la fase II si propone di trattare pazienti con rabdomiosarcoma o sarcoma dei tessuti molli nonrabdomiosarcomatoso. Nella prima fase, il maggior traguardo è raggiunto dalla determinazione della massima dose tollerata dai bambini sottoposti allo studio, cioè la dose più elevata di farmaco che può essere data ai pazienti in sicurezza; la seconda parte dello studio deve invece chiarire l’efficacia del farmaco, tutti gli effetti (benefici e non) che esso media ed eventuali variazioni nelle cellule del sangue e nelle cellule neoplastiche dei piccoli pazienti [152]. 108 Uno studio di fase I/II è stato fatto per determinare sicurezza ed efficacia dell’Everolimus nei pazienti con tumori ematologici maligni refrattari o recidivanti. Il disegno sperimentale prevedeva due livelli differenti di dosaggio, 5 e 10 mg/die somministarti per os in continuo, per definire la massima dose tollerabile da utilizzare nella fase II. Su 27 pazienti che hanno ricevuto Everolimus, non è stata osservata tossicità dose-limitante; gli effetti collaterali principali sono stati: iperglicemia (22%), ipofosfatemia (7%), stanchezza (7%), anoressia (4%), diarrea (4%). Un solo paziente ha sviluppato una vasculite leucocitoclastica cutanea, che ha richiesto il trapianto di pelle. La fosforilazione dei target situati a valle di mTOR, p70S6K e 4E-BP1, è risulta inibita in sei campioni su nove, inclusi quelli con elevata risposta piastrinica. In conclusione, l’Everolimus è ben tollerato ad una dose giornaliera di 10 mg e può avere attività in pazienti con patologie mielodisplastiche [153]. Tra gli studi più recenti, nel gennaio 2006 è iniziata la fase II di un trial clinico che indaga l’associazione dell’Everolimus con l’Imatinib mesylate nel trattamento di tumori renali metastatici o non resecabili [154] e nel gennaio 2007, infine, uno studio non randomizzato, in open-label e ad assegnazione parallela dei trattamenti, è partito con il proposito di investigare la combinazione di Everolimus, Trastuzumab e Paclitaxel nel trattare 60 pazienti affetti da cancro metastatico della mammella “HER2overexpressing” [155]. Approfittando delle numerose informazioni relative alla tossicità e alla farmacocinetica dell’Everolimus, ottenute da questa serie di trias clinici, si è pensato di definire un sistema o modello di saggi sperimentali al fine di poter selezionare un gruppo di pazienti talassemici da proporre per l’allestimento di un eventuale trial clinico, volto a testare anche il potenziale dell’ Everolimus come induttore del differenziamento eritroide, nel tentativo di proporre terapie alternative nella cura di patologie emopoietiche. 109 SCOPO Nel trattamento di patologie ematologiche ereditarie come la β-talassemia, malattia che può essere causata da molteplici mutazioni del gene per le β-globine e ampiamente diffusa nei paesi mediterranei, l’individuazione di composti in grado di indurre HbF, mediante la riproduzione della condizione fenotipica nota come HPFH, solleva uno spiccato interesse, in quanto è noto che un incremento di emoglobina fetale negli individui affetti da β-talassemia, permette un miglioramento delle loro condizioni cliniche [79]. L’obiettivo comune a molti gruppi di ricerca è quello di sviluppare tecniche innovative per l’individuazione della mutazione responsabile della patologia e metodiche diagnostiche sempre più efficienti che, unite ad una adeguata informazione ed educazione sanitaria, possano garantire ai soggetti affetti dalla patologia di poter effettuare delle scelte riproduttive informate e supportate da opportune analisi diagnostiche prenatali. Dal punto di vista terapeutico, invece, una notevole importanza è rivestita dalla terapia farmacologica per il trattamento della β-talassemia, soprattutto nei paesi in cui la terapia chelante e i regimi trasfusionali non sempre sono disponibili a causa degli alti costi e molto spesso gli investimenti delle compagnie farmaceutiche nel disegno e nella sperimentazione di nuovi farmaci per la cura della β-talassemia sono scoraggiati, proprio a causa del fatto che nei paesi sviluppati si può arginare la diffusione della patologia con le campagne di prevenzione e la diagnosi prenatale. Tuttavia, la ricerca si propone di individuare nei farmaci già in uso clinico per altre patologie, anche non correlate alla β-talassemia, molecole in grado di esprimere attività di induzione dell’espressione dei geni per le γ-globine. In particolare, l’oggetto di questa tesi è stata la prosecuzione di studi precedentemente avviati dal gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Roberto Gambari e presso il quale ho svolto la mia attività; questi studi puntavano l’attenzione sugli effetti eritro-differenzianti dell’Everolimus, analogo strutturale della Rapamicina e molecola interessante dal punto di vista terapeutico per la minore tossicità e le migliori caratteristiche farmacocinetiche evidenziate da trials clinici riportati in letteratura [99, 101, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155]. L’interesse rivolto all’Everolimus deriva 110 soprattutto dal fatto che è un composto relativamente poco tossico e presenta caratteristiche farmacocinetiche favorevoli e già descritte per l’utilizzo dell’Everolimus in altre patologie, come la terapia antirigetto post-trapianto renale [137]. L’Everolimus ha poi dimostrato di essere in grado di incrementare l’espressione dei geni per le globine embrio-fetali in cellule K562 ed di causare l’accumulo di mRNA per le γ-globine anche nelle colture dei precursori eritroidi provenienti da soggetti nonpatologici, mentre sono stati riportati dati limitati ad uno studio condotto su 4 soggetti israeliani affetti da β-talassemia [103]. Questi risultati hanno quindi aperto uno spiraglio sul potenziale effetto eritrodifferenziante che l’Everolimus potrebbe esercitare anche su precursori eritroidi isolati da pazienti affetti da β-talassemia, fornendo quindi un nuovo punto di vista per la valutazione di questo composto come potenziale agente terapeutico per la cura della β-talassemia. La mia analisi ha avuto come scopo soprattutto la quantificazione degli mRNA per le α- β- e γ-globine su cellule derivate da pazienti che presentavano β-talassemia con la tecnica della Real Time quantitative PCR, che unita alla quantificazione di HbF con la tecnica dell’HPLC ha permesso di approfondire le conoscenze sugli effetti dell’Everolimus in questo modello cellulare, più simile al target fisiologico. E’ stato possibile realizzare questo studio grazie alla collaborazione attivata con il Servizio di Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di Rovigo e con la Clinica Pediatrica I, Centro Sindrome di Down, Ospedale "Santa Chiara" di Pisa, che ci hanno fornito il sangue periferico di un numero significativo di pazienti talassemici di nazionalità italiana. I risultati incoraggianti ottenuti da alcune colture cellulari trattate in vitro con diverse concentrazioni di Everolimus, sia relativamente all’accumulo di mRNA specifico per le γ-globine, sia all’aumento dei livelli di HbF, ci hanno condotti a pensare che l’analisi del genotipo dei soggetti coinvolti in questo studio ed i loro livelli iniziali di HbF, potessero costituire un metodo di screening volto ad identificare un gruppo di pazienti da sottoporre ad un eventuale trial clinico, impiegando saggi di colture in vitro di precursori eritroidi derivati dal loro sangue periferico, oppure rappresentare un metodo per la selezione di pazienti da sottoporre a mirati trattamenti terapeutici con induttori di globine embrio-fetali. 111 Lo scopo di questa tesi è stato quello di verificare se tale metodo di screening potesse essere utile per selezionare, all’interno di un ampio gruppo di individui talassemici, i soggetti con le caratteristiche genetiche più idonee e che manifestassero la miglior risposta cellulare al trattamento farmacologico, nel caso specifico eseguito con l’Everolimus. In questo modo si è cercato di mettere a punto una metodologia d’indagine basata su saggi condotti su colture cellulari, che potrebbero essere estesi anche all’identificazione del miglior induttore all’interno di una serie di molecole attivanti l’HbF e mimanti la condizione HPFH, allo scopo di identificare e tener conto, inoltre, della sensibilità individuale ad un dato trattamento, ponendosi come obiettivo futuro l’allestimento di terapie individualizzate e mirate a migliorare le condizioni associate ad una particolare alterazione genetica responsabile della patologia, dando vita a nuove strategie curative in grado di sostituire o limitare la terapia convenzionale con trasfusioni di sangue. 112 MATERIALI E METODI 1. Coltura di precursori eritroidi isolati da pazienti affetti da β-talassemia. Un sistema cellulare molto utile per identificare molecole in grado di stimolare la produzione di HbF è rappresentato da precursori umani delle cellule eritroidi. Queste cellule staminali totipotenti, oltre ad essere presenti fisiologicamente nell'individuo, hanno la capacità di riprodursi e di differenziare, sotto determinati stimoli, divenendo così un potenziale modello per la valutazione di eventuali alterazioni dell'espressione di geni globinici embrio-fetali. Precedentemente questi precursori eritroidi non sono stati considerati un buon modello sperimentale in quanto erano studiati utilizzando un sistema di coltura semisolida, che impediva non solo un'analisi quantitativa, ma anche la caratterizzazione biochimica ed immunologica dello sviluppo cellulare. Negli ultimi anni è stata messa a punto una nuova tecnica che prevede il trattamento dei progenitori emopoietici in un sistema di coltura liquido schematizzato nella Fig. 30 [93, 140, 141]. Le cellule staminali vengono isolate da campioni di sangue periferico di pazienti affetti da β-talassemia che hanno sottoscritto un consenso informato. Per motivi etici legati al fatto che la disfunzione oggetto dello studio è una patologia ematologica, il volume di sangue che viene prelevato a questi pazienti è molto inferiore rispetto a quello che si può prelevare da un individuo sano. Presentando, infatti, questi individui bassi livelli di emoglobina a causa della loro patologia, un prelievo di sangue produce un ulteriore peggioramento del loro già grave stato anemico. In genere, prima che il paziente effettui la trasfusione, viene quindi prelevato il volume minimo di sangue (21 ml) necessario per preparare 20 ml di coltura; tale quantità può essere sufficiente per l’alta frequenza di precursori eritroidi, che vi sono comunque contenuti, situazione che è sostenuta dalla carenza stessa di emoglobina che spinge le cellule a riprodursi e differenziarsi. La coltura cellulare così ottenuta potrà produrre un massimo di 108 cellule. 113 Fig. 30. Rappresentazione del sistema di coltura dei precursori eritroidi in due fasi liquide successive. Le cellule rimangono in coltura per 14 giorni, in cui proliferano e differenziano in normoblasti ortocromatici, che producono emoglobina [Figura tratta da: Pope SH et al. Two-phase liquid culture system models normal human adult erythropoiesis at the molecular level The European Journal of Haematology, 64, 292-303, 2000]. L’isolamento dei precursori eritroidi avviene a partire dal sangue (circa 20 ml di sangue periferico); in seguito le cellule vengono coltivate in vitro secondo la metodica che prevede due fasi in terreno liquido. Il sangue viene diluito 1:2 per il processamento con PBS 1x (Buffer salino-fosfato) a temperatura ambiente. Il PBS 1x viene preparato per diluizione con H2O distillata da una soluzione PBS 10x, che consiste in una soluzione di NaCl 2 M, KCl 27 mM, Na2PO4 0,1 M, KH2PO4 18 mM, in H2O distillata; effettuata la diluizione, la soluzione di PBS1x viene sterilizzata per filtrazione con filtri di acetato di cellulosa aventi pori del diametro di 0,22 µm e conservata a 4°C. Il campione di sangue diluito è ripartito in aliquote di 40 ml, sottoposte a centrifugazione per gradiente di densità su Lympholyte-H (NycogradeTM polysucrose 400 e sodium diatrizoate, Celbio, Milano, Italy). In questo modo si crea un gradiente di destrano ed altre sostanze che permette la separazione delle diverse parti corpuscolate del sangue. La centrifugazione genera quattro strati distinti, che dall’alto verso il basso, 114 sono rispettivamente rappresentati da: siero; un anello biancastro contenente linfociti, fibroblasti, macrofagi e precursori eritroidi; una parte torbida contenente Lympholyte con cellule non separate; un fondo rosso costituito dagli eritrociti. Si preleva l’anello biancastro e lo si sottopone a lavaggi successivi con PBS 1x; le cellule ottenute vengono messe in coltura di fase I in un terreno così composto: terreno α-MEM (α-minimal essential medium, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA), preparato a partire da una polvere e diluito con acqua distillata, sali per bilanciare il pH ed una soluzione di PENSTREP (penicillina 50 U/litro e streptomicina 50 mg/litro di terreno, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA); FCS al 10% (Foetal Calf Serum, GIBCO, BRL, Life Technologies, Milano, Italy), scongelato e sterilizzato per filtrazione; medium condizionato (CM) al 10%, derivante dalla linea cellulare di carcinoma di vescica 5637; tali cellule tumorali esprimono numerosi fattori di crescita ematopoietici, (come ad esempio le interleuchine, ma non l’EPO), necessari per la crescita delle cellule staminali emopoietiche totipotenti. Il medium condizionato viene separato dalle cellule che lo producono per filtrazione del terreno di coltura; ciclosporina A (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) 1 µg/ml di terreno, preparata da ciclosporina diluita in etanolo assoluto e PBS 1x nel rapporto di 1:1. La ciclosporina A favorisce in questo stadio la selezione delle cellule staminali dai linfociti presenti nella coltura. La coltura cellulare viene poi incubata a 37°C, in atmosfera di CO2 al 5% ed umidificata. Ogni giorno le cellule vengono osservate al microscopio per verificare la vitalità cellulare e l’assenza di contaminazioni della coltura. Dopo 5-7 giorni di coltura in questo terreno di fase I, le cellule non aderenti alla fiasca vengono recuperate, lavate con PBS, centrifugate e risospese in un terreno fresco di fase II. La seconda fase, detta anche eritropoietina-dipendente, consiste nel coltivare le cellule in un terreno di coltura composto da: terreno α-MEM, FCS al 30%, albumina di siero bovino deionizzata (BSA, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) al 10%, disciolta in α-MEM, β-mercaptoetanolo (β-ME, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) 0,01 mM, preparato da una soluzione di partenza 100 mM diluita con H2O sterile, desametasone (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) 0,001 mM, preparato da una soluzione di partenza 6,4 mM diluita in metanolo sterile (questo composto è in grado di stimolare la linea eritroide, permettendo la proliferazione e la maturazione delle cellule staminali, dapprima in normoblasti cromatici e poi in eritrociti enucleati). Vengono aggiunte anche glutammina (Glu) 2 mM (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA), 115 eritropoietina umana (EPO) (Tebu-bio, Magenta, MI, Italy) 1 U/ml, Stem Cell Factor (SCF, PeproTech EC Ltd, London, England) 10 ng/ml, solubilizzato in acido acetico 10 mM. Alcuni di questi componenti (BSA, β-ME, desametasone, Glu) sono stati sterilizzati per filtrazione con filtrini aventi pori del diametro di 0,22 µm, e conservati al buio a -20°C. L’EPO e l’SCF, essendo fattori proteici, devono essere conservati a -80°C per evitarne la degradazione. Questa procedura frutta una popolazione eritrocitaria ampia e pura, che permette di studiare nel dettaglio la maturazione eritrocitaria, normale o patologica, e di analizzare gli effetti di vari farmaci sulla coltura primaria [93, 140, 141]. L’incubazione delle cellule in fase II dura da 4 a 6 giorni, periodo durante il quale è importante osservare quotidianamente le cellule al microscopio per verificarne la vitalità, l’assenza di contaminazioni, ma soprattutto per rilevare la formazione di gruppi o “cloni” di cellule nel supernatante. Solo se ci sono tali agglomerati cellulari di proeritrociti si può proseguire col trattamento addizionando le molecole in analisi. Se dopo i 4-6 giorni canonici della fase II, si evidenziano agglomerati cellulari scarsi e/o piccoli a causa di una crescita molto lenta, si può prolungare la fase II per altri 4-5 giorni al fine di avere una sufficiente proliferazione delle colonie e poter proseguire col trattamento. In ogni fase le cellule vengono contate utilizzando il Coulter Counter Z1 (Coulter Electronics Limited, Luton, Beds, England). Al quarto giorno della fase II viene aggiunto l’Everolimus a concentrazioni scalari, da 100 nM a 1500 nM, in modo da ricoprire un certo range di concentrazioni entro le quali individuare quella più efficace ed il valore di IC50, ovvero la concentrazione alla quale il farmaco inibisce la proliferazione cellulare del 50%. Quindi le cellule sono riposte nell’incubatore per altri 4 giorni di trattamento durante i quali il terreno di coltura non viene sostituito; al termine di questo periodo si procede con l’estrazione dell’RNA. Per avere un controllo negativo al quale fare riferimento per la valutazione dei risultati, un’aliquota di cellule non trattate sono state mantenute in coltura nelle stesse condizioni di quelle trattate. 116 2. Preparazione dell’Everolimus. L’Everolimus utilizzato per il trattamento delle colture cellulari è stato acquistato dalla Sigma Aldrich (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA). La soluzione madre è stata diluita con EtOH per ottenere la concentrazione di 10 mM utilizzata per il trattamento e conservata al buio a -20°C. Nei trattamenti delle colture di precursori eritroidi da soggetti talassemici sono state impiegate le seguenti concentrazioni di Everolimus: 100 nM, 250 nM, 500 nM, 1000 nM e 1500 nM. Oltre all’Everolimus, le cellule sono state sottoposte a trattamento o con Rapamicina, o con Mitramicina, che rappresentano i controlli positivi di induzione al differenziamento eritroide, essendo questi noti essere agenti differenzianti [100, 156, 157]. La Rapamicina utilizzata per il trattamento delle cellule è stata acquistata dalla Sigma Aldrich (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA). La soluzione madre è stata diluita con EtOH e DMSO nel rapporto di 1:2 per ottenere la concentrazione utilizzata nel trattamento e disciolta ad una concentrazione di 10 mM, quindi conservata a -20°C al buio. Negli esperimenti condotti è stata impiegata alle concentrazioni di 100 nM, 250 nM e 500 nM finale. Mentre la Mitramicina utilizzata per il trattamento è stata diluita con acqua e impiegata alle concentrazioni di 25 nM e 50 nM finale. 3. Estrazione dell’mRNA totale derivante da precursori eritroidi umani. Al termine della fase II è stato estratto l’mRNA citoplasmatico totale sia dai precursori eritroidi trattati con Everolimus che da quelli di controllo negativo non trattati, sia di controllo positivo trattati con Rapamicina o Mitramicina, utilizzando la metodica del “TRIzol”. Le cellule vengono centrifugate per 10 min a 1200 rpm, separate dal supernatante e quindi risospese in 1 ml di TRIzol per 5-10x106 cellule (Total RNA Isolation Reagent, Celbio, Milano, Italy). I campioni vengono incubati per 5 min a temperatura ambiente, si aggiungono 200 µl di cloroformio per ogni ml di TRIzol impiegato e si agita energicamente per 15 sec. Segue una centrifugata a 12000 rpm per 15 min a 4°C per estrarre la fase acquosa, alla quale vengono aggiunti 117 500 µl di isopropanolo per ml iniziale di TRIzol usato. I campioni vengono incubati per 10 min a temperatura ambiente e in seguito centrifugati a 12000 rpm per 15 min a 4°C. Il supernatante viene eliminato e al pellet, formato dall’mRNA precipitato sul fondo della provetta, viene aggiunto 1 ml di etanolo al 75% per ml di TRIzol. I campioni di mRNA ottenuti applicando questa metodica di estrazione, vengono conservati a -20°C fino all’esecuzione del saggio per valutare la loro quantità e integrità, effettuato impiegando l’elettroforesi su gel di agarosio e la lettura allo spettrofotometro. 4. Saggi per testare la quantità e la qualità dei campioni di RNA. 4.a. Quantificazione dell’RNA allo spettrofotometro. I campioni di RNA vengono centrifugati per 20 min a 12000 rpm a 4°C, essiccati all’aria e rispospesi in H2O DEPC. Per la quantificazione vengono usate cuvette di quarzo che consentono la lettura dei campioni allo spettrofotometro, ad una lunghezza d’onda di 260 nm. L’unità di lettura dello strumento è l’OD (optical density). La concentrazione si ricava dall’equazione: µg/ml=ODx40xDIL dove OD è il valore letto dallo strumento, 40 è il coefficiente di correzione per la lettura dell’RNA allo spettrofotometro (secondo la legge di Lambert–Beer) e DIL è il coefficiente di diluizione dell’RNA nella cuvetta, dove il volume del campione deve raggiungere l ml. Per verificare il grado di contaminazione proteica bisogna valutare il rapporto tra l’ assorbenza misurata a 260 nm e quella misurata a 280 nm, tale rapporto deve risultare intorno ad un valore di 1,8: se il valore del rapporto risulta inferiore, significa che c’è stata una contaminazione proteica, se invece è superiore, c’è stata una contaminazione organica, dovuta a residui fenolici derivati dalla metodica di estrazione. 118 4.b. Elettroforesi su gel di agarosio. Il gel di agarosio all’1% si prepara sciogliendo 1 g di agarosio in polvere in 150 ml di TAE 1x (ottenuto per diluizione dal TAE 50x = 2 M Tris-HCl, 0,05 M EDTA pH=8,0 e 5,71% acido acetico al 99,8%) e facendo bollire i reagenti per sciogliere la soluzione. Una volta ottenuta una soluzione limpida vi si aggiunge, sotto cappa, l’etidio bromuro10 µg/ml. Si fa quindi colare lentamente l’agarosio nell’apposito apparato elettroforetico, descritto in Fig. 31, in cui è stato precedentemente inserito il pettine per la formazione dei pozzetti per il caricamento dei campioni, evitando la formazione di bolle che potrebbero ostacolare la corsa dell’RNA lungo il gel. Fig. 31. Apparato elettroforetico per la corsa dei campioni di RNA o DNA su gel d’agarosio. Mentre il gel solidifica si preparano i campioni da caricare per l’analisi. L’RNA totale (in etanolo) viene fatto precipitare mediante centrifugazione a 12000 rpm, a 4°C per 20 min. Il supernatante viene prelevato con una siringa e buttato, mentre il pellet viene risospeso in 10 µl di acqua trattata con dietilpirocarbonato (DEPC) 0,1%, una 119 molecola in grado di disattivare eventuali RNasi presenti. I campioni vengono essiccati o all’aria, oppure in centrifuga sottovuoto (Speedvac) per 5 min. Le aliquote dei campioni da caricare sul gel vengono preparate in un volume totale di 10 µl, composto da: RNA (in genere 1-0,5 µg), un colorante contenente glicerolo per appesantire il campione, ed acqua DEPC per portare a volume. Una volta che il gel d’agarosio si è solidificato, si rimuove il pettine e si ottengono così i pozzetti in cui caricare i campioni; il gel viene sommerso con tampone di corsa formato da TAE 1x ed etidio bromuro (5 µl ogni 100 ml di tampone). Si caricano i campioni nei pozzetti e si fanno migrare a 80-100 Volt; le molecole migrano lungo il gel separandosi in base al loro peso molecolare e alla loro carica. La posizione dell’RNA sul gel è indicata dal colorante caricato col campione. Quando termina la migrazione elettroforetica dei campioni, il gel viene posto sotto illuminazione con raggi UV e fotografato. Le emissioni dell’etidio bromuro intercalato tra le basi azotate dell’acido nucleico lo rendono infatti visibile all’UV. L’analisi della foto ottenuta permette di ottenere informazioni relative allo stato del materiale (degradato o meno), osservando ad esempio, l’intensità relativa alla banda del 28S che deve essere circa il doppio rispetto a quella relativa al 18S, e di valutare indicativamente la quantità di RNA e/o la presenza di DNA genomico, che potrebbe essere presente accidentalmente nel campione. 5. Reazione di retro-trascrizione per la produzione del templato di cDNA dall’RNA di precursori eritroidi indotti e non dalla somministrazione di Everolimus. Le analisi mediante RT-PCR quantitativa dei geni bersaglio, la cui espressione può essere modulata dal trattamento con l’Everolimus, vengono condotte sul cDNA (sequenza di DNA codificante) complementare all’RNA citoplasmatico totale estratto dalle cellule trattate e non trattate. Questa conversione è effettuata mediante una reazione di retro-trascrizione; si esegue innanzitutto una PCR di controllo direttamente sull’RNA per verificare che non vi sia la presenza di contaminazioni di DNA genomico, 120 in questo caso sarebbe necessario trattare prima della reversione i campioni con DNasi I, prima di eseguire la reazione di retro-trascrizione. Come substrato per la produzione di cDNA a singolo filamento viene impiegato 1 µg di RNA totale citoplasmatico, che rappresenta la quantità massima utilizzabile per avere una retro-trascrizione efficace e quantitativa, nella quale tutte le molecole di RNA possano essere efficientemente retro-trascritte in modo stechiometrico in nuove molecole di cDNA. L’RNA viene inizialmente incubato per 10 min a temperatura ambiente con 10 U di inibitore dell’RNasi e con oligonucleotidi d’innesco della reazione di polimerizzazione alla concentrazione 2,5 µM, rappresentati da esameri random (l’utilizzo di questi oligonucleotidi d’innesco a differenza dell’utilizzo di oligod(T) dipende dal fatto che, essendo frammenti di soli sei nucleotidi con sequenza casuale, permettono l’innesco della reazione anche su substrati di RNA non completamente integri e privi della sequenza terminale stabilizzatrice di poli-(A). Questi oligonucleotidi hanno una temperatura di melting piuttosto bassa, per cui in queste condizioni si legano all’RNA. Le fasi successive prevedono 30 min a 48°C e 5 min a 100°C in tampone contenente MgCl2 5,5 mM, dNTPs 500 µM, RT-Buffer 1x (TaqMan RT Buffer 10x, Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy) e 1,25 U dell’enzima MultiScribe Reserve Transcriptase. Terminata la reazione, l’amplificato viene velocemente centrifugato in modo che non sia disperso lungo le pareti dell’eppendorf e conservato a -80°C. 6. Real Time Quantitative PCR per quantificare l’espressione dei geni globinici. Quando le colture cellulari utilizzate come modello sperimentale vengono trattate con potenziali agenti induttori del differenziamento eritroide con lo scopo di verificarne l’efficacia, i meccanismi cellulari coinvolti nella normale regolazione dei geni globinici subiscono dei cambiamenti. Per indagare queste variazioni sono stati ideati dei saggi che permettono di quantificare gli mRNAs prodotti dalle cellule in esame e specifici per 121 ciascun gene globinico. In particolare è interessante indagare l’espressione dell’mRNA γ-globinico, codificante per la subunità che costituisce l’emoglobina fetale. Partendo dal cDNA ottenuto dalla retro-trascrizione dei campioni di mRNA totale, si è voluto quantificare attraverso la tecnica della Real Time Quantitative PCR l’espressione dei diversi geni globinici. Questa tecnica d’indagine si basa sull’emissione di fluorescenza dovuta alla degradazione di sonde nucleotidiche fluorescenti, che si legano a substrati di acido nucleico in modo sequenza-specifico. La sonda è in genere costituita da un singolo filamento di DNA, che presenta all’estremità 5’ un gruppo cromogeno FAM (6-carbossi-fluoresceina), chiamato anche reporter, legato covalentemente e all’estremità 3’ un gruppo TAMRA (6-carbossi-N,N,N’,N’-tetrametilrodamina), detto quencher. Prima che la reazione di PCR inizi, la vicinanza del gruppo reporter al gruppo quencher impedisce l’emissione di fluorescenza da parte del cromogeno FAM; col procedere della reazione di polimerizzazione, la DNA polimerasi, durante la fase di estensione dei primers, incontra la sonda, sulla quale esplica la sua attività esonucleasica rimuovendo il reporter dalla sonda. A questo punto il gruppo quencher, non trovandosi più in posizione adiacente al reporter, non è più in grado di assorbirne l’emissione, fatto che ha come conseguenza la rilevazione della fluorescenza emessa da parte del sistema. Questo processo è descritto in Fig. 32. Ad ogni ciclo, aumentando il numero di sonde che ibridizzano il bersaglio e vengono degradate dalla DNA polimerasi con l’amplificazione, si registra un incremento della fluorescenza; i vantaggi principali offerti da questo sistema sono la possibilità di monitorare l’amplificazione ad ogni ciclo in tempo reale e la garanzia di rilevare solamente i prodotti amplificati in modo specifico, grazie alla selettività della sonda, che ibridizza col DNA o cDNA bersaglio. L’enzima impiegato è una particolare DNA polimerasi, prodotta dal batterio Thermus aquaticus, resistente alle temperature elevate e dotata di attività esonucleasica 5’-3’, attraverso la quale rimuove e degrada la sonda appaiata al DNA target che incontra durante la fase di estensione sul filamento di DNA. 122 Fig. 32. Emissione di fluorescenza dovuta alla degradazione di sonde nucleotidiche fluorescenti legate in modo sequenza-specifico a substrati di acido nucleico. La figura descrive la sonda sequenza specifica legata al DNA con il reporter in 5’ e il quencher in 3’. La fluorescenza diviene evidente e rilevabile dal sistema solo quando il reporter viene separato dal quencher dall’azione esonucleasica della DNA polimerasi. La Real Time Quantitative PCR è una tecnica sensibile e precisa per la quantificazione degli acidi nucleici, in grado di rilevarne anche minime quantità mediante la loro amplificazione. Per questo studio sono state utilizzati due primers specifici per ogni gene bersaglio indagato, uno forward e uno reverse. Le sequenze delle sonde ed i primers utilizzati per la quantificazione degli specifici mRNA sono riportati nella tabella 1. 123 Tabella 1. Sequenze degli oligonucleotidi impiegati nelle reazioni di PCR quantitativa. primer forward α-globine 5’-CACGCGCACAAGCTTCG-3’ primer reverse α-globine 5’-AGGGTCACCAGCAGGCAGT-3’ sonda α-globine 5’-FAM-TGGACCCGGTCAACTTCAAGCTCCT-TAMRA-3’ primer forward β-globine 5’-CAAGAAAGTGCTCGGTGCCT-3’ primer reverse β-globine 5’-GCAAAGGTGCCCTTGAGGT -3’ sonda β-globine 5’-FAM-TAGTGATGGCCTGGCTCACCTGGA-TAMRA-3’ primer forward γ-globine 5’-TGGCAAGAAGGTGCTGACTTC-3’ primer reverse γ-globine 5’-TCACTCAGCTGGGCAAAGC-3’ sonda γ-globine 5’-FAM-TGGGAGATGCCATAAAGCACCTGC-TAMRA-3’ Nella miscela di reazione, avente un volume finale di reazione di 25 µl, sono contenuti: TaqMan Universal PCR Master Mix 1x (Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy); la coppia di primers forward e reverse, utilizzati ad una concentrazione finale pari a 300 nM; la sonda TaqMan impiegata alla concentrazione finale di 200 nM. La TaqMan Universal PCR Master Mix contiene anche: i desossinucleotidi trifosfato (dNTPs), con il dUTP che sostituisce il dTTP; MgCl2 1 mM; il cromoforo “Rox”, che serve come riferimento per la normalizzazione dei dati da parte dello strumento e che è utile per annullare gli eventuali errori di volume effettuati durante le operazioni svolte dall’operatore stesso; l’enzima AmpliTaq Gold DNA Polimerasi; l’enzima AmpErase Uracil–N glicosilasi, che degrada sequenze contenenti uracile al posto di timina, lasciando intatto il filamento originario di templato. Questo enzima agisce nel primo step della reazione (quando la temperatura è di 50°C) eliminando tutte le molecole contaminanti, che possono essere presenti nella piastra o nei puntali; alla temperatura di 95°C si inattiva irreversibilmente. Sugli stessi campioni sono state effettuate in parallelo le reazioni di amplificazione per il gene housekeeping 18S, usato come gene di riferimento; la sonda e i primers specifici sono contenuti nel kit r18S (Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy), dove la sonda è stata marcata in 5’ con la molecola cromogena VIC (un composto sotto segreto brevettale) ed al 3’ col TAMRA. 124 Tutte le reazioni di PCR quantitativa sono state eseguite in doppia serie. L’amplificazione è stata eseguita utilizzando il sistema ABI Prism 7700 Sequence Detector costituito da: un Thermal Cycler, ABI Prism 7700, all’interno del quale sono posizionati i reagenti in piastre di plastica ottica da 96 pozzetti MicroAmp Optical (Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy); un computer ed un software (Sequence Detector Application Program versione 1.7) che gestisce la strumentazione e l’analisi dei dati. Inizialmente vengono effettuati due cicli (50°C per 2 min e 95°C per 10 min) necessari all’attivazione della funzione esonucleasica 5’-3’ della polimerasi; i successivi 40 cicli sono costituiti da una fase di denaturazione a 95°C per 15 sec ed una fase a 60°C per 1 min, nella quale avviene sia l’appaiamento dei primers e della sonda che l’estensione del filamento di DNA. Il sistema ABI Prism 7700 è dotato di una “camera a dispositivo di carica accoppiata”, che permette di misurare lo spettro di emissione della fluorescenza in un intervallo da 500 a 650 nanometri. Ad ogni reazione il segnale emesso viene controllato in modo sequenziale per 25 msec, con un monitoraggio continuo durante l’amplificazione, al termine della quale, ogni campione viene riesaminato per 8,5 sec. La variazione di fluorescenza emessa dal gruppo quencher durante l’amplificazione è minima rispetto a quella del gruppo reporter; per questo motivo essa viene utilizzata come riferimento interno, per ottenere in modo automatico la normalizzazione dell’emissione del gruppo reporter. Il sistema si basa sulla seguente relazione matematica: ∆Rn= (Rn+)-(Rn-) dove (Rn+) rappresenta il rapporto tra l’emissione del quencher e quella del reporter calcolato a ciascun ciclo di amplificazione, ed (Rn-) rappresenta il rapporto tra le due emissioni prima dell’inizio della reazione di PCR [Gison UEM, California 940804990]. Considerando i diversi valori di ∆Rn ad ogni ciclo, è possibile ricavare uno spettrogramma, che riporta il numero di cicli sull’asse delle ascisse e il valore calcolato ∆Rn (Normalized Reporter) su quello delle ordinate. Dallo spettrogramma si può ricavare il valore del ciclo Threshold, detto CT o ciclo “soglia”, che rappresenta il ciclo al quale è possibile registrare il primo apprezzabile aumento di intensità nella fluorescenza emessa, non coperta dal segnale di background. La linea di Threshold viene considerata nella fase esponenziale della reazione di PCR il più lontano possibile dal plateau, che rappresenta la fase di saturazione della reazione di amplificazione. Il valore della Threshold viene scelto dall’operatore e corrisponde ad un determinato 125 valore di ∆Rn al quale vengono confrontati tutti i campioni e sulla base del quale vengono ricavati i loro rispettivi valori di CT (riportati in ascissa). Per minimizzare l’errore sperimentale, la quantificazione di cDNA provenienti da campioni diversi è più attendibile se viene considerato anche un gene di riferimento interno al sistema. Attraverso questa strategia si ottiene una quantificazione “relativa”, basata cioè sulla differenza tra i livelli di espressione di un gene bersaglio in campioni differenti valutata rispetto ad un gene di riferimento, che deve essere ugualmente espresso in tutti i campioni analizzati. Solitamente i geni utilizzati come riferimento sono: il gene per la β-actina, la gliceraldeide 3-fosfato-deidrogenasi (GAPDH), la β2-microglobulina, oppure l’rRNA 18S. E’ possibile eseguire un’analisi quantitativa eseguendo una serie di reazioni con quantità differenti di cDNA dello stesso e calcolando la differenza tra il CT del gene bersaglio ed il CT del gene di riferimento, cioè ∆CT, che deve rimanere costante o al massimo variare di valori inferiori all’unità per tutti i punti della scalare di diluizione. Essendo il valore di CT inversamente proporzionale alla concentrazione del templato in analisi, il valore del “ciclo soglia” diminuisce all’aumentare della concentrazione di cDNA bersaglio. Allo scopo di quantificare un trascritto in campioni che lo esprimono a diversi livelli, si calcola la differenza tra i valori di ∆CT di ciascun campione in analisi ed il ∆CT del campione usato come standard di riferimento, ottenendo il ∆∆CT; considerando il ∆∆CT come esponente negativo di 2 (2-∆∆CT) è possibile valutare quante volte un determinato DNA o cDNA templato è espresso in un campione rispetto ad uno di controllo [157]. L’RT-PCR quantitativa presenta numerosi aspetti vantaggiosi, come la capacità di poter analizzare un elevato numero di campioni (96 per ogni analisi), nel momento in cui sia necessario eseguire una reazione di retro-trascrizione prima della PCR, per la produzione di cDNA a partire da RNA come templato, sia la reversione che l’amplificazione vera e propria possono venir eseguite anche in unico passaggio e, infine, consente di ottenere una visione in tempo reale, durante ciascun ciclo di amplificazione, ovvero un grafico da cui si può ricavare l’incremento di fluorescenza sviluppato da ciascun campione ad ogni singolo ciclo. 126 RISULTATI 1. Dati relativi ai pazienti appartenenti al gruppo di volontari considerato nello studio riguardante la risposta cellulare all’Everolimus, mediante lo screening su precursori eritroidi coltivati in vitro. La talassemia è una patologia ereditaria, autosomica recessiva, causata da alterazioni a livello della sintesi dei componenti proteici che costituiscono l’emoglobina. Le sindromi talassemiche sono classificate, sulla base delle catene globiniche coinvolte, in α-, β-, δ-talassemia; ognuna di queste forme patologiche presenta caratteristiche eterogenee. Il fenotipo talassemico, determinato da mutazioni a carico dei geni per le β-globine, raramente è rappresentato dalle stessa alterazione su entrambi i geni, mentre più spesso la patologia è la risultante della combinazione di genotipi differenti. Le alterazioni a carico dei geni globinici, sono solitamente rappresentate da delezioni più o meno estese o da mutazioni puntiformi di diversa natura. Gli effetti di queste alterazioni si possono manifestare nei processi di trascrizione e traduzione, portando di conseguenza alla totale assenza della sintesi proteica, ad uno squilibrio nella velocità di sintesi oppure alla produzione di catene proteiche altamente instabili. Si deve considerare, inoltre, che la gravità del quadro ematologico di un soggetto affetto da β-talassemia può essere influenzata anche da altri fattori, che possono interferire sull’espressione dei geni per le α- e le γ-globine. Solo in seguito alle evidenze sperimentali secondo cui l’Everolimus si è dimostrato un composto di notevole interesse come induttore del differenziamento eritroide nella linea cellulare K562 e in colture di precursori eritroidi di soggetti sani, l’analisi dell’espressione dei geni globinici è stata effettuata anche su cellule di pazienti affetti da β-talassemia [103]. Tuttavia questo studio riguardava un gruppo di soli 4 soggetti di origine israeliana affetti da questa patologia. 127 Il nostro interesse, invece, è stato rivolto a testare l’efficacia dell’Everolimus, impiegato su colture in vitro di cellule staminali umane, su un numero maggiore di pazienti di nazionalità italiana, che potesse apportare dati significativi aventi una valenza territoriale. I campioni di sangue periferico dai quali allestire le colture di precursori eritroidi e sulle quali testare gli effetti dell’Everolimus, sono stati donati da un gruppo totale di 14 pazienti affetti da β-talassemia volontari; 10 campioni provengono dalla Clinica Pediatrica I, Centro Sindrome Down, Ospedale “Santa Chiara” di Pisa e 4 dal servizio di Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di Rovigo. Ciascuno di questi soggetti ha dato la propria disponibilità alla ricerca, tramite la compilazione di un consenso informato, per il prelievo di 20 ml sangue necessari per allestire una coltura cellulare in vitro contenete circa 108 cellule. Per alcuni di questi pazienti è stato possibile ottenere anche alcune informazioni relative al sesso e all’età ed alcuni dati clinici come la quantità di Hb valutata prima della trasfusione, l’eventuale splenectomia, intervento necessario per evitare ulteriore danno da emolisi splenica, e l’attuazione di terapia trasfusionale; tutte queste informazioni sono riportate nella tabella 2. Tuttavia i dati relativi ai soggetti provenienti dall’Ospedale di Rovigo non sono ancora stati resi disponibili. Tabella 2. Dati clinici di alcuni dei soggetti impiegati nello studio degli effetti differenzianti dell’Everolimus. Paziente età sesso splenectomia trasfusioni Hb Pre-trasfusione Talassemia 1 31 a M + Ogni 4 sett 9,5 g/dl major 2 35 a F + regolari nd major 3 7a M + Non regolari 8,5-9 g/dl intermedia 4 17 a F - regolari nd major 5 20 a F - regolari nd major 6 12 a F + no 9,2 g/dl 7 23 a F + regolari nd 8 35 a M + regolari nd intermedia Beta-thal/ Hb Lepore major 9 29 a M - no 7,5 g/dl Talasso-drepano 10 31 a M + regolari nd major 128 2. Caratterizzazione genotipica: mutazioni responsabili della patologia talassemica nei soggetti presi in esame. Con la tecnica del sequenziamento del DNA, la cui utilità non è limitata solo al campo della diagnostica prenatale, è stato possibile effettuare la caratterizzazione della mutazione responsabile della patologia nei pazienti considerati per questo studio. Di questo aspetto si sono occupate alcune collaboratrici del Prof. Gambari, utilizzando un metodi di sequenziamento enzimatico automatizzato. L’analisi e l’identificazione della mutazione, responsabile di β-talassemia nei soggetti considerati in questo studio, rivestono una notevole importanza per la ricerca di un’eventuale correlazione con la risposta individuale al trattamento farmacologico. I dati genetici ottenuti potrebbero aiutare a definire o meno l’idoneità di ciascun soggetto considerato anche per l’inserimento in un eventuale trial clinico o futura applicazione terapeutica. Le mutazioni più frequenti nelle diverse regioni d’Italia, in particolare nella regione del Delta del Po, sono riportate nella tabella 3. Tabella 3. Distribuzione regionale delle mutazioni che più frequentemente sono responsabili della β-talassemia in Italia. I valori sono espressi in percentuale riferiti a ciascuna regione; la riga indicata come “percentuale” si riferisce alla percentuale nazionale. Allele Regione Codon39 CÆT IVS-I110 GÆA IVS-I- IVS-I6 1 TÆC GÆA Sardegna 95,7 0,5 0,1 0,03 Sicilia 35,5 23,6 16,0 Calabria 30,9 22,4 Basilicata 64,5 Puglia Codon 6 -A IVS-II- -101 1 CÆT GÆA 0,4 2,2 0,03 8,2 6,1 1,1 1,6 0,08 16,6 7,7 4,4 3,3 3,9 0,3 16,1 3,2 16,1 34,9 26,4 11,3 13,8 5,0 0,3 4,1 0,3 Campania 48,8 14,8 8,6 8,6 8,0 4,9 0,6 Lazio 48,1 11,5 3,8 5,8 11,5 Po Delta 61,5 25,6 2,6 2,6 Genova 33,3 15,0 18,3 10,0 5,0 3,3 Altri 38,4 19,9 19,2 4,7 3,6 % 66,84 11,21 7,54 3,99 2,78 129 IVS-II745 CÆG 7,7 5,8 Hb Lepore 0,4 1,8 1,9 2,6 1,3 2,2 4,5 1,7 0,5 1,90 1,48 0,25 0,20 Mentre in tabella 4 sono riportati i dati relativi alla caratterizzazione genica dei campioni oggetto di studio. I campioni 1-3-8-9-10, relativi ai soggetti provenienti dall’Ospedale di Pisa, non sono ancora stati caratterizzati. Valutando i dati della caratterizzazione genotipica, si può osservare che i pazienti 7-11-12-14, sono tutti omozigoti per la mutazione non senso β0-39, la più diffusa in Italia; questa mutazione è caratterizzata dalla conversione, in corrispondenza del codone 39, del codone CAG codificante per una glutammina, in un codone TAG, che rappresenta un segnale di stop nell’mRNA e causa pertanto l’arresto della sintesi proteica, conducendo alla produzione di una catena proteica troncata prematuramente [158]. Un quadro clinico di talassemia major è stato visto essere associato alla coereditarietà della mutazione non senso β0-39 e di (β+) IVSI-110 GÆA, come nel caso del paziente 5 [159]. La mutazione (β+) IVSI-110 GÆA, causata dalla sostituzione di una guanina con un’adenina nella sequenza consenso, collocata nel primo introne del gene β-globinico a 19 nucleotidi di distanza dal sito di splicing AG, conduce all’attivazione di un sito criptico di splicing che causa, a sua volta, un difetto nel riconoscimento della regione di giunzione esone/introne [160, 161]. Una situazione analoga è stata riscontrata per il paziente 2, che presenta le mutazioni (β+) IVSI-110 e (β0) IVSII-1 GÆA; la seconda è una mutazione puntiforme in posizione 1 del secondo introne nel gene β-globinico, che annulla il normale sito di splicing distruggendo il suo GT o il suo AG [2]. La mutazione del gene β-globinico individuata nel soggetto 4 è la (β+) IVSI-6, cioè la sostituzione TÆC nel sito di splicing del 1° introne che comporta la riduzione dell’efficienza del processo di processamento dell’mRNA [71]; il paziente presenta inoltre un polimorfismo CÆT nel codon 2 in eterozigosi, un polimorfismo CÆG IVSII-16, probabilmente in omozigosi e un polimorfismo GÆT IVSII-74 in eterozigosi. L’altra mutazione patologica non è ancora stata individuata. Analogamente, nel paziente 13 è stata riportata l’eterozigosi per la mutazione β+IVSI-110, ma non è ancora nota l’altra mutazione. Il paziente 6 presenta l’inserzione di una A nel codone 17, che produrrebbe uno sfasamento del frame di lettura e porterebbe ad ottenere una catena peptidica completamente alterata o abortiva. 130 Tabella 4. Mutazioni riscontrate in alcuni dei pazienti considerati nel nostro studio. Paziente Alterazione genetica 2 Eterozigote β+IVSI110/β0IVSII-1 Eterozigote β+IVSI-6 Polimorfismo CÆT in codon 2 4 Polimorfismo TÆG IVSII-74 Non individuata l’altra mutazione 5 Eterozigote β+IVSI-110/β039 Eterozigote +A in codon 17 6 Polimorfismo TÆC in codon 2 Delezione dell’altro allele β 7 Omozigote β039 11 Omozigote β039 12 Omozigote β039 Eterozigote β+IVSI-110 13 Non individuata l’altra mutazione 14 Omozigote β039 La mutazione del paziente 6 è in condizione di eterozigosi, mentre l’altro allele del gene per le β-globine è completamente deleto. Inoltre, questo soggetto presenta una sostituzione TÆC nel codone 2, che tuttavia non altera l’amminoacido inserito nella catena proteica in fase di sintesi. Quest’ultimo polimorfismo è presente anche nel paziente 4. Nel gruppo di volontari selezionati le mutazioni riportate rispecchiano la frequenza attesa sulla base della distribuzione nazionale. 131 3. Considerazione del contenuto di HbF iniziale nei soggetti indagati, per la loro suddivisione in fenotipo HPFH e non-HPFH. Un altro fattore importante da considerare, prima di un ipotetico trattamento con un agente eritro-differenziante, è la quantità di HbF prodotta costitutivamente dal paziente. Normalmente la sintesi dell’emoglobina fetale in un adulto è ridotta all’1-2% dell’emoglobina totale ed è ristretta ad una sottopopolazione eritrocitaria, detta F-cell (eritrociti contenenti HbF). Tuttavia, alcuni individui esprimono in età adulta i geni per le γ-globine agli stessi livelli riscontrati durante la vita fetale, manifestando il fenotipo denominato HPFH (High Persistence of Fetal Haemoglobin). I soggetti che manifestano il fenotipo HPFH presentano un miglioramento del quadro clinico, dovuto alla riattivazione dei geni per le γ-globine, in cui gli aumentati livelli di HbF compensano, almeno in parte, la carenza di HbA caratteristica delle sindromi talassemiche [2]. La determinazione della quota di emoglobina fetale nel sangue dei soggetti β-talassemici in esame permette di distinguere i pazienti in due gruppi: quelli con fenotipo HPFH, il cui quadro clinico talassemico è fortemente alleviato dalla persistenza di HbF nel soggetto e i soggetti non-HPFH, la cui percentuale di emoglobina fetale, seppur presente, è insufficiente a garantire loro un miglioramento evidente dei sintomi talassemici; come limite che suddivide le due categorie è stato considerato il valore di HbF pari a 15-20%. Tramite la tecnica dell’HPLC (High Performance Liquid Cromatography), una metodica molto rapida, ripetibile ed accurata, i vari tipi di emoglobina presenti nei campioni di sangue provenienti da ciascun paziente sono separati in bande distinte, definite frazioni di eluizione. Mediante un’analisi HPLC condotta precedentemente su un campione di sangue di un soggetto adulto sano, è stato possibile caratterizzare i picchi corrispondenti nel cromatogramma alle diverse emoglobine, che vengono eluite dalla colonna cromatografica in tempi diversi, in base alla loro affinità per la fase fissa di cui è costituita la colonna e la fase mobile rappresentata dalla miscela di eluenti, alla loro carica ed al loro peso molecolare. Dalla valutazione dei singoli picchi cromatografici è possibile determinare la quantità relativa di ciascuna emoglobina presente nello stesso campione, espressa come percentuale rispetto alla quantità totale. 132 La tabella 5 riporta i valori di HbF e delle altre componenti emoglobiniche ottenute dal sangue dei pazienti analizzati. Considerando i dati riportati in tabella si può concludere che solo i pazienti 2-3-6, esprimono il fenotipo HPFH, mentre i soggetti 1-4-5-10-11-12-13 non presentano questa favorevole condizione clinica. L’analisi dei campioni 7-8-9-14 non è ancora stata eseguita. La valutazione dell’HbF nel sangue dei pazienti talassemici prima della trasfusione è importante per una corretta e adeguata valutazione dell’effettivo accumulo di trascritti per globine fetali nelle colture cellulari di precursori eritroidi, in seguito a induzione farmacologica in vitro con agenti differenzianti. 133 Tabella 5. Valutazione dei dati relativi alla percentuale dei differenti tipi di Hb nel sangue. Paziente Emoglobine Composizione %Hb 3.39% HbF 91.76% Donatore sano HbA1 1 2 3 4 5 6 10 11 12 13 HbA2 2.5% HbF 2.54% HbA1 84.89% HbA2 4.31% HbF 15.52% HbA1 46.21% HbA2 3.82% HbF 35.69 % HbA1 37.13% HbA2 5.31% HbF 8.74% HbA1 74.56% HbA2 3.65% HbF 6.27% HbA1 67.76% HbA2 4.20% HbF 88.09% HbA2 0.57% HbF 11.01% HbA1 73.24% HbA2 3.5% HbF 4.89% HbA1 75.51% HbA2 5.27% HbF 4.63% HbA1 71.96% HbA2 1.86% HbF 3.06% HbA1 80.16% HbA2 6.54% 134 4. Colture di precursori eritroidi isolati dal sangue periferico di pazienti affetti da β-talassemia. Le cellule staminali derivate dal sangue prelevato dai donatori affetti da β-talassemia sono state messe in coltura secondo la metodica di coltura di precursori eritroidi in due fasi liquide, come schematizzato in Fig. 30 (capitolo “Materiali e Metodi”). Durante la prima fase, detta EPO-indipendente, i progenitori eritroidi precoci committed, cioè le cellule BFU-E, proliferano e si differenziano in CFU-E. Dopo sei giorni di coltura nel terreno di fase I, quest’ultima tipologia cellulare viene messa nel terreno fresco di fase II, addizionato con EPO e con fattori stimolanti e selettivi per la proliferazione cellulare verso la linea eritroide; in questa fase, infatti, le cellule CFU-E proliferano e maturano divenendo normoblasti ortocromatici e in seguito eritrociti enucleati [93]. Nella fase II di coltura le cellule iniziano quindi a produrre emoglobina, anche se a livelli bassi. Al 6° giorno di fase II viene eseguito, senza rinnovare il terreno di coltura, il trattamento farmacologico con Everolimus addizionato alle concentrazioni 100 nM, 250 nM, 500 nM, 1000 nM, 1500 nM. Un’aliquota di cellule non trattate rappresenterà il controllo di riferimento negativo. Per avere invece un parametro di riferimento positivo, alcune cellule sono state sottoposte a trattamento con altri composti eritrodifferenzianti, come Rapamicina (impiegata alle concentrazioni di 100 nM o 500 nM) e Mitramicina (impiegata alle concentrazioni di 25 nM o 50 nM). Dopo 4 giorni di trattamento, viene estratto l’RNA dalle cellule seguendo la metodica del TRIzol descritta in “Materiali e metodi”. Si è cercato di creare un duplice approccio analitico all’indagine sull’Everolimus, basato da un lato su saggi condotti su colture cellulari, e dall’altro su un’indagine genetica. In questo modo si è ritenuto di poter sia verificare l’azione eritrodifferenziante del composto in esame, sia la variabilità nella risposta individuale delle cellule del paziente, correlata probabilmente alla tipologia di mutazione che lo caratterizza. Questo studio combinato potrebbe aprire nuove strategie applicative nella terapia della β-talassemia, creando una corsia preferenziale per ciascun paziente, che potrebbe essere sottoposto ad una terapia su misura, in quanto più mirata e studiata sulla base di una particolare alterazione genetica. Oltre ad avere sviluppi importanti per la 135 terapia futura della talassemia, la caratterizzazione genotipica dei pazienti in studio può permettere di selezionare, all’interno di un ampio campione di soggetti, i pazienti che rispondono positivamente all’azione di un determinato composto farmacologico. L’analisi effettuata sulle colture cellulari dei precursori eritroidi permette di valutare la risposta individuale, mentre la caratterizzazione genetica potrebbe rivelare una corrispondenza diretta tra la risposta al trattamento e la mutazione responsabile della patologia. Si riuscirebbe in questa maniera, nell’ambito di un futuro trial clinico, a restringere fortemente il campo d’indagine attorno a soggetti con caratteristiche predisponenti alla responsività al trattamento. 5. Effetti del trattamento con Everolimus sulla proliferazione dei precursori eritroidi da ottenuti dai pazienti affetti da β-talassemia. La proliferazione dei precursori eritroidi viene monitorata contando le cellule nelle varie fasi di coltura utilizzando il Coulter Counter Z1 (Coulter Electronics Limited, Luton, Beds, England). La determinazione del numero di cellule permette di verificare la crescita ed eventualmente di osservare, dopo aver effettuato il trattamento con il composto in analisi, gli effetti di inibizione della proliferazione che le differenti concentrazioni di Everolimus possono provocare. Nel protocollo sperimentale eseguito, l’Everolimus è stato addizionato al 6° giorno di fase II in concentrazioni scalari in modo da coprire un range da 100 nM a 1500 nM. Ogni coltura allestita con i precursori eritroidi derivati da ogni singolo donatore ha evidenziato una sensibilità soggettiva al trattamento: gli effetti sulla proliferazione cellulare indotti dall’Everolimus si verificano a concentrazioni differenti per le diverse colture. Questo evento è probabilmente imputabile da un lato a fattori di sensibilità intrinseca delle cellule del paziente, dall’altro a condizioni dipendenti dall’andamento della coltura. La Fig. 33 descrive un esempio dell’andamento della proliferazione cellulare, in questo caso relativo al paziente 6, considerando il 1° giorno di fase I, il 1° giorno di fase II, il 6° giorno di fase II, prima del trattamento, e il 4° giorno di trattamento (10° giorno di fase II). Nell’istogramma è riportato il numero di cellule/ml osservato dopo un trattamento con Everolimus alla concentrazione 250 nM, ma anche i dati relativi alle 136 cellule trattate con due agenti noti essere induttori del differenziamento eritroide, cioè la Rapamicina (500 nM) e Mitramicina (25 nM) [93, 100], che rappresentano i controlli cellule/ml positivi di induzione. 2500000 Controllo 2000000 Everolimus 250 nM Rapamicina 500 nM Mitramicina 25 nM 1500000 1000000 500000 0 1° giorno 1° giorno 6° giorno 10° giorno fase I fase II fase II fase II tempo (giorni) Fig. 33. Proliferazione cellulare colture eritroidi del paziente 6. I precursori eritroidi derivati dal soggetto 6, sono stati incubati al 6° giorno di fase II con Everolimus 250 nM, Rapamicina 500 nM e Mitramicina 25 nM. Dopo quattro giorni di trattamento la proliferazione cellulare ha messo in evidenza che nessuno dei tre trattamenti farmacologici ha ridotto sensibilmente la crescita cellulare rispetto ad una coltura di controllo non trattata. I risultati descritti in Fig. 33 evidenziano una riduzione della proliferazione cellulare durante la fase II, dovuta al fatto che le cellule in coltura differenziano in senso eritroide e non proliferano più, alcune di essere termineranno il loro ciclo vitale durante il trascorrere del tempo e non saranno sostituite da nuove cellule nella coltura, pertanto il numero totale tenderà a diminuire. Inoltre, dal confronto del campione non trattato con quelli sottoposti ai trattamenti farmacologici è possibile ricavare il valore di IC50, ovvero la concentrazione alla quale si ottiene un’inibizione della proliferazione del 50%, che è in parte associata a fenomeni di tossicità cellulare. Nello specifico, la concentrazione di Everolimus 250 nM e quelle di Rapamicina 500 nM e Mitramicina 25 nM, concentrazioni attive per quanto riguarda l’induzione al differenziamento di questa coltura cellulare, non inibiscono in modo significativo la crescita. 137 Analogamente, la Fig. 34 riporta gli effetti sulla proliferazione delle colture provenienti da sei pazienti (1-6-8-9-10-11), prodotti dalle varie concentrazioni di Everolimus considerate utili per ottenere in vitro un’induzione eritroide. Infatti, ogni singola coltura cellulare risponde a concentrazioni differenti di Everolimus, all’interno del range di trattamento applicato (che va da 100 nM a 1500 nM), confermando una cellule/ml variabilità individuale nella risposta all’azione dell’agente differenziante. 1200000 controllo 1000000 Everolimus 800000 600000 400000 200000 0 paziente paziente paziente paziente paziente paziente 1 6 8 9 10 11 pazienti Fig. 34. Proliferazione cellulare al 10° giorno di fase II (corrispondente al 4° giorno di trattamento). Le cellule dei pazienti sono state incubate con concentrazioni differenti di Everolimus al 6° giorno di fase II; dopo 4 giorni di trattamento le cellule sono state contate con Coulter Counter per verificare l’azione dell’Everolimus sulla proliferazione cellulare, facendo riferimento ad un controllo non trattato. Le concentrazioni di Everolimus mostrate sono quelle che non davano, per quella determinata coltura, un’inibizione della crescita cellulare superiore al 50% (IC50). Le concentrazioni utilizzate nelle diverse colture cellulari sono rispettivamente: Everolimus 500 nM (per quelle provenienti dal paziente1), Everolimus 250 nM (6-9-11), Everolimus 100 nM (8-10). Tutte le concentrazioni efficaci di Everolimus sono state comparate in Fig. 34 al rispettivo controllo negativo, costituito dalle cellule non trattate; per nessuna concentrazione rappresentata è stato evidenziata un’inibizione della crescita cellulare superiore al 50%. 138 Quest’analisi sottolinea, sia una variabilità nella risposta individuale delle cellule provenienti dal soggetto talassemico, sia che le concentrazioni di Everolimus utili per ottenere un effetto differenziante, non inibiscono significativamente la proliferazione cellulare, indicando una bassa tossicità del composto in queste condizioni sperimentali. 6. Selezione dei soggetti sensibili al trattamento in vitro con l’Everolimus, mediante quantificazione dell’espressione dei geni globinici, utilizzando la tecnica della Real Time Quantitative PCR. Per studiare l’effetto sortito dal trattamento con Everolimus sull’espressione dei geni globinici nelle colture cellulari oggetto del presente studio, è stato estratto da queste cellule l’RNA totale, seguendo la metodica del TRIzol descritta in “Materiali e metodi”, ed in seguito ne è stata valutata l’integrità mediante analisi su gel d’agarosio all’1% e la quantità attraverso l’indagine con lo spettrofotometro. L’RNA messaggero di ciascun campione è stato amplificato con una reazione di retro-trascrizione, che ha condotto all’ottenimento dei cDNA corrispondenti agli mRNA di partenza. Ogni campione è stato sottoposto ad una reazione, eseguita in duplice copia, di Real Time Quantitative PCR, secondo quanto descritto nel capitolo “Materiali e metodi”. Oltre ai trascritti relativi ai messaggeri per le globine umane α, β e γ, è stato amplificato il trascritto dell’rRNA 18s, usato come controllo endogeno e rappresentante il gene di riferimento, che deve avere la stessa entità di espressione sia nelle cellule trattate che in quelle non trattate. Oltre al trattamento con opportune concentrazioni di Everolimus, alle colture cellulari sono state somministrate la Rapamicina e la Mitramicina, noti essere agenti differenzianti. In tabella 6 sono riportati i dati ottenuti in seguito all’analisi di Real Time Quantitative PCR, relativi all’espressione genica di α-, β-, γ-globine conseguente al trattamento con concentrazioni diverse di Everolimus, Rapamicina e Mitramicina. La tabella mostra i dati raccolti da tutti i campioni considerati in questo studio e derivanti dai donatori affetti da β-talassemia. 139 Tabella 6. Analisi di PCR quantitativa sulle colture di precursori eritroidi indotte con Everolimus ed altri agenti differenzianti. Paziente 1 2 3 Everolimus Rapamicina Mitramicina β=6.82 β=3.89 β=9.13 γ=4.50 γ=2.75 γ=11.16 α=2.89 α=2.19 α=3.84 α=14.12 α =40.79 α=20.82 β=8.17 β=11.47 β=8.75 γ=4.35 γ=7.84 γ=3.78 β=1.84 β=6.87 β=0.99 γ=1.82 γ=5.10 γ=0.98 α=1.33 α=0.70 α=1.64 β=1.16 4 γ=1.12 7 9 10 γ=0.82 nd β=4.99 β=9.92 β=5.24 γ=1.74 γ=3.99 γ=1.39 α=2.55 α=4.41 α=1.62 β=5.13 β=2.66 β=2.28 γ=0.40 γ=0.64 γ=0.35 α=1.13 α=1.25 α=0..96 β=2.95 β=0.70 β=0.14 γ=5.90 γ=0.89 γ=0.75 α=1.37 α=1.26 α=0.25 β=1.07 β=2.85 β=0.25 γ=0.42 γ=2.97 γ=0.17 α=1.75 α=2.46 α=0.78 13 14 γ=0.48 γ=7.57 nd α=1.09 β=0.69 β=1.09 γ=1.64 nd α=0.96 α=1.77 β=2.87 β=5.46 γ=3.25 ever rapa mitra 500 nM 100 nM 25 nM 100 nM 500 nM 25 nM 250 nM 250 nM 50 nM 100 nM nd 25 nM 1500 nM 500 nM 25 nM 1500 nM 500 nM 25 nM 100 nM 250nM 50 nM 250 nM 1500 nM 25 nM 500 nM nd 25 nM 1000 nM nd 25 nM 500 nM nd 25 nM β=1.24 α=0.46 γ=1.79 Conc. α=13.00 β=0.47 12 Conc. β=0.97 α=13.27 6 Conc. γ=7.52 nd α=0.34 α=1.53 140 Da questi dati riassuntivi appare evidente che nelle colture provenienti da ogni singolo paziente l’effetto eritro-differenziante è ottenuto a diverse concentrazioni per lo stessa molecola impiegata nel trattamento, in dipendenza da fattori quali la sensibilità individuale. Solo valutando accuratamente questa variabilità soggettiva sarà possibile definire in modo più preciso, sia un trattamento specifico e quindi con maggiori possibilità di successo terapeutico, sia un gruppo di soggetti adatti a rappresentare i pazienti da inserire in un eventuale trial clinico. Da queste due considerazioni deriva l’importanza che la nostra analisi riveste nello screening di una popolazione di individui affetti da β-talassemia, ai fini di poter individuare, in futuro, l’applicazione di trattamento terapeutico mirato all’induzione di globine embrio-fetali. Sono quindi descritti e considerati nel dettaglio i dati ottenuti dal trattamento di ciascuna coltura di precursori eritroidi mediante i saggi di Real Time Quantitative PCR. In una reazione di PCR quantitativa il prodotto generato raddoppia ad ogni ciclo di amplificazione, ma affinché sia rilevabile, sulla base della fluorescenza emessa dalla degradazione della sonda ibridizzata al templato (vedi la descrizione del principio in “Materiali e Metodi”, Fig. 32), sono necessari parecchi cicli. Lo spettrogramma, che rappresenta la fluorescenza registrata ad ogni determinato ciclo, ha un andamento sigmoide; mentre nel tratto terminale la curva comincia ad appiattirsi, poiché i substrati di reazione iniziano a scarseggiare ed i prodotti PCR non raddoppiano più, nel tratto iniziale della sigmoide si è certi di trovarsi in condizioni quantitative di amplificazione, in cui l’andamento della curva segue la funzione 2n. Qui la fluorescenza è direttamente proporzionale alla quantità di acido nucleico utilizzato come stampo. Si calcola a questo punto il numero di cicli (CT) necessari affinché il materiale in analisi abbia un emissione di fluorescenza superiore al rumore di fondo o background. Una volta calcolata l’intensità di fluorescenza significativa, il detector del sistema d’analisi traccia una retta parallela all’asse delle ascisse (linea di threshold) che interseca tutte le curve sigmoidi, relative ai differenti campioni analizzati, nel punto in cui ogni campione emette la stessa fluorescenza, ovvero possiede la stessa quantità di amplificato, che può corrispondere a cicli diversi nel processo di amplificazione in dipendenza dalla quantità di materiale di partenza. Nel nostro caso, i geni per le catene globiniche considerati per la quantificazione sono espressi con la stessa efficienza rispetto al gene di riferimento endogeno, per cui è 141 possibile quantificare l’incremento dell’espressione genica usando un approccio cosiddetto di quantificazione relativa. Per ciascun campione trattato e non trattato è necessario calcolare il valore definito ∆CT, cioè la differenza tra il valore di CT del gene globinici analizzato e il valore di CT del gene per la subunità ribosomale 18s. Dalla differenza tra il ∆CT dei campioni di cellule trattate ed il ∆CT dei campioni delle cellule di controllo, si ricava il ∆∆CT; tale valore rappresenta l’esponente negativo di 2 nel risultato finale di un’elaborata equazione matematica. Il calcolo del valore di 2-∆∆CT permette quindi di ottenere il numero di volte in cui un mRNA bersaglio viene espresso in più rispetto al riferimento non trattato. Di seguito vengono riportati, come esempio, gli spettrogrammi più significativi delle amplificazioni effettuate mediante Real Time Quantitative PCR sui geni per le globine nei campioni riassunti in tabella 6. Ogni spettrogramma comprende quattro curve, poiché ogni analisi è stata eseguita in duplicato, sia sul trattato che sul controllo; per ogni soggetto considerato le figure A, B e C, rappresentano l’andamento relativo all’amplificazione rispettivamente dei geni per le globinici α, β e γ. Le curve del campione trattato sono sempre indicate in blu e giallo, mentre le curve relative al controllo non trattato sono in rosso e verde. Le figure D di tutti gli spettrogrammi di seguito riportati, rappresentano l’amplificazione del gene interno di riferimento 18s; qui, le curve in verde e giallo descrivono l’andamento delle cellule trattate, mentre le curve in rosa e blu sono riferite al controllo. Per il paziente 1, sono riportate le curve di amplificazione relative ai tre differenti trattamenti; la Fig. 35 riporta gli spettrogrammi riferiti all’amplificazione dei geni per le globine umane (α, β, γ rispettivamente in figura A, B e C) e del gene di riferimento interno 18s (fig. D), per il quale il valore di CT delle cellule trattate (curve in verde e giallo) non si discosta in modo significativo dalle curve delle cellule di controllo non trattato (in rosa e blu). Le cellule trattate con Everolimus 500 nM (curve in blu e giallo) presentano, rispetto al controllo non trattato (curve in rosso e verde), un basso incremento delle α-globine (2.89), trascurabile se confrontato con l’induzione più elevata, esercitata sulle globine β e γ, rispettivamente 6.82 e 4.50, risultato che riveste notevole interesse terapeutico. Gli spettrogrammi riportati nelle Fig. 36 e Fig. 37 sono riferiti all’analisi parallelamente condotta sui campioni trattati, invece, con Rapamicina 100 nM e Mitramicina 25 nM rispettivamente. L’incremento di globine β e γ è pari a 3.89 e 2.75 per l’induzione con Rapamicina, che ha prodotto invece un basso 142 143 D B Fig. 35. PCR quantitativa sul campione 1. In A, lo spettrogramma relativo all’amplificazione del gene α-globinico; in B, quello del gene β; in C, quello di γ. In giallo e blu sono indicati i risultati relativi alle cellule trattate con Everolimus 500 nM, in verde e rosso le curve riguardanti le cellule non trattate. La figura D rappresenta invece i dati relativi al 18s. In verde e giallo il trattato, in rosa e blu il controllo. Ogni reazione di amplificazione è stata eseguita in duplicato. C A incremento di α-globine pari a 2.19, mentre l’incremento di globine β e γ è pari a 9.13 e 11.16 per l’induzione con Mitramicina, che ha prodotto invece un basso incremento di α-globine pari a 3.84. L’espressione delle α-globine non viene incrementata in maniera significativa in nessuno degli esempi riportati, soprattutto se posta a confronto con l’aumento registrato, invece, per l’espressione delle γ-globine e delle β-globine. 144 145 L’aumento dell’espressione genica per le α-globine, è un evento da tenere sotto controllo e possibilmente da limitare, poiché l’induzione della produzione di queste globine aumenterebbe il danno dovuto alla formazione di tetrametri di catene α. Il soggetto 1, risponde in modo positivo a tutti e tre i trattamenti farmacologici applicati, dimostrando, in tutti i casi, un accumulo sia dei trascritti γ-, che β-globinici, accompagnato tuttavia anche da un modesto aumento delle α-globine. La valutazione dei risultati riguardanti l’accumulo di mRNA per le globine γ ottenuto con trattamento con l’Everolimus è di notevole importanza dal momento che il paziente considerato non presenta nel sangue elevati livelli di HbF, per cui l’induzione dell’espressione delle catene γ ottenuta è da considerare soddisfacente e sufficientemente rilevante. Anche le colture di precursori del paziente 2 si sono dimostrate sensibili all’induzione con tutte e tre le molecole: Everolimus 100 nM, Rapamicina 500 nM e Mitramicina 25 nM. Questi composti hanno indotto un accumulo di tutti gli mRNAs globinici (α, β, γ) i cui valori sono riportati in tabella 6. Per quanto riguarda il paziente 2, la caratterizzazione genotipica ha sottolineato uno stato di eterozigosi per le mutazioni β+IVSI-110/β0IVSII-1; questa evidenza rende molto interessante, ai fini della nostra indagine, sia l’incremento di mRNA per le globine β, dal momento che una piccola aliquota di catene β viene prodotta endogenamente, che quello, anche se meno intenso, di γ-mRNA. L’aumento di mRNA per le γ-globine, nonostante risulti meno spiccato rispetto a quello degli altri trascritti globinici, è tuttavia molto significativo se si tiene conto del fatto che il paziente 2 presenta livelli iniziali di HbF (15.52%) già sufficientemente elevati, essendo un soggetto HPFH. Si dimostra quindi che i trattamenti applicati riescono ad indurre l’accumulo di mRNA per le γ-globine, nonostante una quantità di HbF endogena già fisiologicamente elevata. Tra i donatori che hanno risposto positivamente a tutti i trattamenti farmacologici effettuati, un altro esempio è descritto in Fig. 38, che riporta i quattro spettrogrammi relativi all’induzione, con Everolimus 1500 nM, delle globine α, β e γ (A, B e C) e del gene di riferimento interno 18s (D) per il paziente 6. Egli è affetto da β0-talassemia, in quanto presenta un gene per le globine β deleto e l’altro mutato per inserzione di una A al codon 17, mutazione che causa la formazione di un codone di stop e la produzione di una catena proteica non funzionale. 146 147 In questo caso gli aumenti di mRNA per le β-globine registrati in risposta ai trattamenti non sono utili dal punto di vista terapeutico, poiché dovuti unicamente alla rilevazione da parte della sonda di mRNA aberranti, che non produrranno catene globiniche funzionali. Tuttavia, è particolarmente interessante notare che, nonostante la scarsa induzione di γ-mRNA, il suo incremento seguito al trattamento, con tutti e tre gli agenti induttori usati, è eccezionale se si considera che il soggetto in esame è un individuo HPFH, che presentava già nel sangue una quota di HbF iniziale del 88,09%. Un ulteriore caso nel quale viene evidenziata un’induzione al differenziamento eritroide per tutti i trattamenti eseguiti con Everolimus, Rapamicina e Mitramicina, riguarda le cellule ottenute dal paziente 7, dove si è rilevato solo l’aumento della produzione di β-mRNA, che tuttavia è rappresentato da un trascritto aberrante. Dal punto di vista della mutazione responsabile della patologia talassemica, questo soggetto è infatti omozigote β0-39, quindi l’induzione di mRNA per le β-globine non è efficace per migliorare il suo quadro clinico. Poiché non è stata osservata alcuna induzione di mRNA per le γ-globine, il soggetto 7 non potrà trarre vantaggi da eventuali trattamenti con le tre molecole prese in considerazione. Nelle colture ottenute dai precursori eritroidi derivati dal sangue del paziente 3, gli mRNAs per le β- e le γ-globine sono state indotti solo con i trattamenti di Everolimus 250 nM e Rapamicina 250 nM, mentre nessuna induzione è stata ottenuta con l’addizione alla coltura di Mitramicina 25 nM. Questo dimostra che non tutti i soggetti in esame rispondono ai trattamenti applicati allo stesso modo e con la stessa intensità, a conferma dell’ipotesi sostenuta, secondo la quale la risposta è individuale in relazione alle caratteristiche del paziente. Del soggetto 3 non è nota la mutazione del gene per le globine β, tuttavia i valori di HbF del sangue (35.69%) evidenziano la presenza di un fenotipo HPFH, per il quale l’induzione di mRNA per le γ-globine mediata dai tre composti in analisi è sufficientemente elevata per poter produrre un beneficio clinico in questo soggetto. Per i campioni 13 e 14 l’induzione farmacologica è stata effettuata solo con Everolimus e Mitramicina, che hanno indotto, nei precursori eritroidi isolati dal sangue di questi due soggetti, l’accumulo di trascritti per le globine. Nel caso del campione 13, l’accumulo di trascritti era limitato e selettivo per le γ-globine; questo risultato è riportato in Fig. 39 e mette in evidenza, in C, come il trattamento con Everolimus 148 1000 nM agisce sulle cellule derivate dal paziente 13 inducendo esclusivamente l’incremento della produzione di messaggeri γ-globinici. Visti i risultati positivi ottenuti con l’Everolimus e la Mitramicina, che producono per ambedue i pazienti un accumulo di γ-mRNA, si può concludere che entrambi i composti potrebbero apportare un miglioramento effettivo del quadro clinico. 149 La Fig. 40 riporta gli spettrogrammi che mostrano gli effetti sortiti dal trattamento delle colture cellulari relative al paziente 9 con Everolimus 100 nM. L’incremento dell’espressione dei geni per le globine è stata ottenuto esclusivamente con l’Everolimus, mentre sia la Rapamicina, che la Mitramicina si sono dimostrate inattive. L’accumulo di mRNA per le γ-globine è quasi il doppio rispetto a quello per le β (Fig. 40 B), come osservato dalle curve di amplificazione relative al gene per le γ-globine (Fig. 40 C); infatti, a parità di threshold e di valore di fluorescenza emessa dal sistema (∆Rn), le due curve che rappresentano il campione trattato compaiono prima nei cicli di reazione e presentano valori di CT inferiori rispetto a quanto si osserva per il controllo non trattato. Nonostante il genotipo del soggetto 9 non sia stato definito, la spiccata attività dimostrata dal trattamento con Everolimus sulla coltura cellulare da esso derivata, rende questo composto un potenziale agente utile al trattamento terapeutico del soggetto. Un aspetto importante emerge dall’osservazione che alcuni campioni non sono stimolati a differenziare in senso eritroide in seguito all’esposizione a certi induttori, bensì rispondono selettivamente solo al trattamento con alcune delle molecole proposte, confermando quando suggerito dai dati relativi ai campioni 3-9-10-12, cioè che l’induzione genica dipende anche dalla sensibilità individuale ad una determinata molecola. Per quanto riguarda il soggetto 10, l’espressione dei genica per le globine è indotta esclusivamente con l’addizione di Rapamicina 1500 nM, mentre l’Everolimus incrementa prevalentemente i trascritti per le globine di tipo α; queste analisi preliminari rivelano l’inutilità di sottoporre il soggetto 10 ad un trattamento con Everolimus. Tale fenomeno è indesiderato, in quanto un aumento eccessivo di α-globine è la causa principale che sostiene la fisiopatologia di per sé caratteristica della patologia talassemica. Per il paziente 12 la risposta un’induzione significativa delle γ-globine è ottenuta solo con Mitramicina 25 nM, mentre l’Everolimus 500 nM non sortisce alcun effetto rilevante. 150 151 Il campione 4, sottoposto al trattamento con Everolimus 100 nM e Mitramicina 25 nM, in nessuno dei due casi ha mostrato incrementi di trascritti per le β- o γ-globine, che potessero essere significativi dal punto di vista terapeutico, bensì ha evidenziato solo un aumento ingente di trascritti α; questo risultato conduce a concludere che egli non sia sensibile a nessuno dei trattamenti testati, infatti, se la totale mancanza di induzione γ- e β-globinica fosse dovuta ad un problema relativo alle colture cellulari, non si avrebbe nemmeno il risultato riguardante l’incremento delle catene α. Tra tutti i 14 campioni analizzati, solo i soggetti 5, 8 e 11 (non riportati in tabella 6) non hanno mostrato alcun dato positivo al trattamento eseguito con Everolimus, Rapamicina o Mitramicina. Si è concluso che, con molta probabilità, questa totale assenza di risultati sia da imputare a problemi riguardanti le condizioni di coltura in vitro dei precursori dei pazienti stessi. Riassumendo i dati ottenuti e riportati per esteso in tabella 6, sette campioni (1-2-3-6-9-13-14) hanno risposto positivamente al trattamento con Everolimus che ha portato in ogni caso ad un aumento sia di β-, che di γ-mRNA, mentre il campione 7 ha evidenziato un accumulo di trascritti globinici solo a carico di β-mRNA, che non rappresenta tuttavia un risultato effettivamente utili ai fini terapeutici, essendo un soggetto β0-39. Per tre campioni (4-10-12), invece, le colture cellulari e l’induzione in vitro con l’Everolimus non hanno dimostrato risultati apprezzabili. Il campione 10 tuttavia si è dimostrato sensibile all’attivazione del differenziamento operata dalla Rapamicina, mentre il campione 12 è risultato sensibile alla Mitramicina. E’ importante notare che le concentrazioni efficaci di Everolimus usate nel trattamento sono variabili da paziente a paziente: i campioni 2 e 9 rispondono a 100 nM Everolimus, mentre il soggetto 3 a 250 nM, i pazienti 1 e 14 a 500 nM, il soggetto 13 alla concentrazione di Everolimus 1000 nM e il paziente 6 a 1500 nM. Anche da questi risultati si evince che la componente individuale gioca, per ciascun soggetto, un ruolo essenziale nel determinare la reazione positiva ad un trattamento. Inoltre, solo in base alla contemporanea valutazione dei dati riportati in tabella 4 e 5, relativi alla percentuale di HbF nel sangue del soggetto e alla determinazione della mutazione genica presente in ciascun paziente talassemico, sarà possibile effettuare uno screening, all’interno del gruppo in esame, degli individui con le caratteristiche 152 genetiche e molecolari più idonee per definire trattamenti mirati e quindi potenzialmente più efficaci . Si può concludere che nei campioni indotti al differenziamento eritroide operato con Everolimus, è stata osservata un’aumentata espressione a carico dei geni per le γ-globine. Questo risultato è essenziale per tutti quei soggetti che, essendo affetti da β0talassemia, possono ottenere un effettivo beneficio terapeutico unicamente dall’innalzamento della quota di γ-globine e quindi di HbF, che potrebbe sostituire funzionalmente, almeno in parte, l’HbA. L’induzione γ-globinica riveste uno spiccato interesse anche se avviene a livelli molto bassi, quando essa si realizza nei soggetti definiti HPFH; infatti, viene così dimostrato che è possibile indurre farmacologicamente l’espressione genica γ-globinica anche se già presente e fortemente attivata. Per i soggetti affetti da β+-talassemia (campione 2 in eterozigosi), invece, anche l’induzione β-globinica da parte dell’Everolimus, diventa un fatto rilevante dal punto di vista terapeutico. L’allestimento di saggi di questo tipo permette di valutare la soggettività della risposta all’induzione nelle cellule di pazienti talassemici con agenti eritrodifferenzianti. La selezione mediante lo screening su colture cellulari di precursori eritroidi permette di discriminare, in una vasta popolazione di candidati, quelli più adatti ad essere eventualmente sottoposti al trattamento con Everolimus. Questa molecola ha finora evidenziato risultati interessanti e scarsi effetti avversi e potrebbe quindi potenzialmente entrare nella rosa di composti utilizzabili nella terapia farmacologica della β-talassemia, addirittura surclassando composti già impiegati in passato come l’idrossiurea, ma presentanti una notevole tossicità [93]. 153 DISCUSSIONE Le sindromi talassemiche sono un gruppo di anomalie ereditarie, autosomiche recessive, causate da alterazioni a livello della sintesi dei componenti dell’emoglobina e caratterizzate da una quantitativa riduzione o abolizione delle catene globiniche α o β, che provocano rispettivamente l’α-talassemia o la β-talassemia [162, 163]. Le alterazioni a carico dei geni globinici riguardano mutazioni puntiformi o delezioni che determinano anomalie relative alla trascrizione, allo splicing dell’RNA, alla stabilità dei messaggeri e alla loro traduzione [2]. La condizione talassemica non è quindi associabile ad un unico difetto genetico, ma è piuttosto la conseguenza della somma di differenti alterazioni che producono effetti clinici simili. In alcuni pazienti affetti da β-talassemia è stata osservata un’anomala espressione dei geni per le γ-globine in età adulta, periodo nel quale normalmente la sintesi di catene γ risulta repressa e quindi praticamente assente; in alcuni casi questa riattivazione porta il livello di HbF di questi soggetti ad elevarsi dal 2.5% al 20%. Questo aumento di HbF comporta una condizione clinica nota come HPFH (High Persistence of Fetal Hemoglobin), che causa in questi individui un netto miglioramento del quadro clinico; infatti, la relativa riattivazione dei geni γ-globinici causa un aumento di HbF tale da poter in parte supplire alla carenza di HbA caratteristica delle sindromi talassemiche [79]. Lo sviluppo di tecnologie innovative e strumentazioni sofisticate hanno permesso, negli ultimi anni, la progettazione di nuove strategie terapeutiche, basate sulla modulazione dell’espressione di geni bersaglio e sviluppate in seguito allo studio e alla comprensione dei complessi meccanismi molecolari che regolano l’espressione genica. Si è quindi approfondito fortemente l’interesse della ricerca verso la progettazione e la sperimentazione di molecole in grado di avere un ruolo sulla modulazione dell’espressione di geni coinvolti nel differenziamento eritroide. La cura di patologie a carico del sistema emopoietico, come ad esempio la β-talassemia o l’anemia falciforme, potrebbe derivare proprio dalla ricerca e dallo sviluppo di molecole biologicamente attive capaci di provocare la riattivazione dei geni per le γ-globine; durante l’ultimo decennio, molti composti sono stati testati e indagati 154 per la loro potenziale attività come induttori della sintesi di HbF nel trattamento di disordini ematologici. In seguito alla dimostrazione che i pazienti affetti da disordini genetici al gene per le globine β traggono giovamento dall’induzione farmacologia di HbF, quando essa raggiunge percentuali comprese tra il 9% e il 20%, questo approccio terapeutico rappresenta un metodo alternativo per la cura delle β-emoglobinopatie e talassemie [164]. Quindi, uno degli obiettivi nella terapia sperimentale della β-talassemia è quello di aumentare la sintesi delle catene γ-globiniche, per compensare il deficit di quelle β, attraverso manipolazioni farmacologiche dello switch feto-adulto delle globine [91]. Tra i composti in grado di riattivare l’espressione dei geni endogeni per le γglobine, un discreto interesse è stato rivolto in questi ultimi anni alla Rapamicina, una molecola molto complessa sia dal punto di vista chimico-strutturale, che per quanto riguarda il potenziale meccanismo d’azione. Successivamente, anche analoghi della Rapamicina sono stati presi in considerazione, poichè hanno dimostrato di possedere minori effetti tossici [103]. L’Everolimus (40-O-(2-OH-etil)-rapamicina; Certican®,Novartis Pharmaceuticals), ad esempio, è un analogo strutturale della Rapamicina, disegnato in seguito alla rivelazione del primo composto come promettente agente terapeutico in vari campi [99]. L’Everolimus è stato sviluppato nel tentativo di migliorare le caratteristiche farmacocinetiche della Rapamicina, in particolare la sua biodisponibilità orale e la velocità di raggiungimento dello steady state. Essendo l’Everolimus un derivato strutturale della Rapamicina, esso condivide con questa molte caratteristiche e aspetti funzionali, tra cui il complesso meccanismo d’azione, che vede coinvolte molte proteine [101, 104, 105]. Il target biologico dell’Everolimus (e della Rapamicina) è la proteina mTOR, una chinasi che risente della regolazione a monte di molteplici fattori, tra cui fattori di crescita, infatti la proteina mTOR è una componente centrale della sequenza di eventi che controlla la crescita cellulare [107, 108, 109, 110, 111]. Il meccanismo d’azione che riguarda all’attività eritro-differenziante dell’Everolimus è attualmente supportato da molte ipotesi e alcune evidenze sperimentali, tuttavia si tratta di un processo non ancora pienamente conosciuto. L’Everolimus è attualmente impiegato in terapia come agente antirigetto, per la sua attività immunosoppressiva dovuta al blocco della crescita cellulare e della proliferazione delle cellule T; come la Rapamicina, proprio grazie alla sua capacità di 155 arrestare il ciclo cellulare nella fase G1, esso è in uso anche nel trattamento profilattico del rigetto d’organo in pazienti che hanno subito trapianto di reni o di cuore [136]. Inoltre, la bassa nefrotossicità dell’Everolimus, notata negli studi sui trapianti di reni, potrebbe trovare una sua applicazione anche nella terapia antirigetto del trapianto di fegato [99]. Inoltre, esperimenti condotti in vitro hanno dimostrato che gli inibitori di mTOR riducono la proliferazione di cellule della muscolatura liscia, di fibroblasti e di linee cellulari tumorali [99]. Un’applicazione nuova e interessante di questo meccanismo di inibizione proliferativa delle cellule T, sembra rappresentato dalla possibilità di utilizzare l’Everolimus nel trattamento della psoriasi, una malattia autoimmune mediata, appunto, dai linfociti T [106]. Un ulteriore indagine ha riguardato uno studio di fase I/II nel quale l’efficacia dell’Everolimus è stata testata in pazienti con tumori ematologici maligni refrattari o recidivanti. Il disegno sperimentale prevedeva due livelli differenti di dosaggio, 5 e 10 mg/die somministarti per os in continuo, per definire la massima dose tollerabile da utilizzare nella fase II. Su 27 pazienti che hanno ricevuto l’Everolimus, non è stata osservata tossicità dose-limitante; gli effetti collaterali principali sono stati: iperglicemia (22%), ipofosfatemia (7%), stanchezza (7%), anoressia (4%), diarrea (4%). In conclusione, l’Everolimus può avere un ruolo nel trattamento di pazienti con patologie mielodisplastiche, nei quali è ben tollerato ad una dose giornaliera di 10 mg [153]. Gli effetti esercitati dall’Everolimus sul differenziamento eritroide sono stati analizzati inizialmente su cellule eritroleucemiche umane K562, sulle quali l’Everolimus ha manifestato un’attività eritro-differenziante; in seguito a questa evidenza sperimentale, l’analisi è stata condotta anche su colture di precursori eritroidi provenienti da soggetti sani, ed infine su precursori isolati da pazienti β-talassemici. Tuttavia questo studio preliminare riguardava un gruppo di soli 4 soggetti talassemici di origine israeliana [103]. Il nostro interesse, invece, è stato rivolto a testare l’efficacia dell’Everolimus su un numero maggiore di pazienti italiani, che possa apportare dati significativi con una valenza territoriale. I campioni di sangue periferico dai quali allestire le colture di precursori eritroidi e sulle quali testare gli effetti dell’Everolimus, sono stati donati da un gruppo totale di 14 pazienti volontari affetti da β-talassemia; 10 campioni provengono dalla Clinica Pediatrica I, Centro Sindrome Down, Ospedale “Santa Chiara” di Pisa e 4 dal servizio di Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di 156 Rovigo. Per le colture in vitro dei precursori eritroidi sono stati impiegati terreni liquidi di coltura in due fasi successive; tali cellule rappresentano un sistema fisiologicamente migliore rispetto alle K562 [140, 141]. Dopo il trattamento con Everolimus dei precursori eritroidi coltivati in vitro, è stato estratto l’mRNA totale e retro-trascritto in cDNA; in seguito la quantificazione dell’mRNA dei geni globinici è stata effettuata mediante la tecnica dell’RT-PCR quantitativa. Inoltre, per alcuni pazienti in esame, è stato possibile ottenere anche informazioni relative alla caratterizzazione genotipica, effettuata mediante la tecnica del sequenziamento del DNA, che ha permesso la determinazione della mutazione responsabile della patologia talassemica in ciascun soggetto, e alla quantità di HbF nel sangue, valutata mediante HPLC, che ha evidenziato quali individui presentassero un fenotipo HPFH. La valutazione dei dati raccolti e l’intreccio delle caratteristiche riguardanti ciascun paziente, hanno permesso di effettuare un primo screening all’interno del gruppo di 14 soggetti, per selezionare tra questi gli individui che presentano le caratteristiche più idonee ad un eventuale trattamento terapeutico con l’Everolimus, impiegato come agente eritro-differenziante. Nel protocollo sperimentale eseguito, l’Everolimus è stato addizionato alle colture al 6° giorno di fase II, in concentrazioni scalari in modo da coprire un range da 100 nM a 1500 nM. Ogni coltura, allestita con i precursori eritroidi derivati da ogni singolo donatore, ha evidenziato una sensibilità soggettiva al trattamento: gli effetti sulla proliferazione cellulare indotti dall’Everolimus si verificano a concentrazioni differenti nei diversi campioni. Il monitoraggio della proliferazione cellulare ha permesso di verificare la crescita e di osservare gli effetti di inibizione della proliferazione che le differenti concentrazioni di Everolimus possono provocare. Dal confronto del campione non trattato con quelli sottoposti ai trattamenti con Everolimus, è stato possibile ricavare il valore di IC50, ovvero la concentrazione alla quale si ottiene un’inibizione della proliferazione del 50%, in parte associata a fenomeni di tossicità cellulare. L’analisi di Real Time Quantitative PCR ha riguardato l’eventuale espressione di α-, β-, γ-globine in seguito al trattamento con concentrazioni scalari di Everolimus e di altre due molecole, la Rapamicina e la Mitramicina, impiegate in quanto agenti differenzianti noti [93, 100]. I dati ottenuti dallo studio condotto sui 14 campioni disponibili, hanno evidenziato un aumento sia di β-, che di γ-mRNA in sette dei campioni (1-2-3-6-9-13-14) trattati con Everolimus. Un accumulo di trascritti globinici 157 è stato osservato anche per il campione 7, tuttavia limitato solo all’mRNA per le catene β; in tal caso, essendo questo un soggetto omozigote per la mutazione β0-39, il trattamento con Everolimus non avrebbe alcuna utilità terapeutica. Per tre campioni (58-11) l’assenza di risultati è da imputare a problemi riguardanti le condizioni di coltura in vitro, mentre i campioni 4-10-12 non sono stati indotti in modo specifico dall’Everolimus, pur presentando una risposta positiva ad altri agenti differenzianti. E’ importante notare che le concentrazioni efficaci di Everolimus usate nel trattamento sono variabili da paziente a paziente: i campioni cellulari 2 e 9 rispondono a 100 nM Everolimus, mentre il soggetto 3 a 250 nM, 1 e 14 a 500 nM, il campione 13 alla concentrazione di Everolimus 1000 nM e il campione 6 a 1500 nM. Questi risultati suggeriscono che la componente individuale giochi un ruolo essenziale nel determinare una reazione positiva di ciascun paziente al trattamento farmacologico. Inoltre, anche la contemporanea valutazione dei dati relativi alla percentuale di HbF nel sangue e la determinazione della mutazione presente nel gene per le globine β di ciascun paziente, aiuteranno la selezione degli individui appartenenti al gruppo in esame, presentanti le caratteristiche genetiche e molecolari più idonee ad un eventuale stimolazione con l’Everolimus, quale agente induttore di trascritti per globine embriofetali. Si può concludere che, nei campioni che rispondono in modo positivo al differenziamento indotto da Everolimus è evidente un accumulo di mRNA per le γ-globine, una condizione importante per tutti quei soggetti affetti da β0-talassemia, che possono in questo modo ottenere un effettivo beneficio terapeutico dall’innalzamento di γ-globine e quindi probabilmente anche di HbF. L’induzione γ-globinica riveste uno spiccato interesse anche se avviene a livelli molto bassi, quando essa si realizza nei soggetti definiti HPFH, come nel caso dell’incremento osservato per i campioni 2-3-6. Per i soggetti affetti da β+-talassemia (campione 2 in eterozigosi), invece, anche l’induzione β-globinica da parte dell’Everolimus, diventa un fatto rilevante dal punto di vista terapeutico. L’allestimento di saggi di questo tipo permette di valutare la soggettività della risposta all’induzione nelle cellule di pazienti talassemici con agenti eritrodifferenzianti. La selezione di campioni che si dimostrano sensibili al trattamento, permette di discriminare, in una vasta popolazione di candidati, quelli più adatti ad 158 essere inseriti nel futuro trial clinico per l’Everolimus o selezionati per essere sottoposti ad un eventuale futuro trattamento terapeutico. Per l’allestimento di un eventuale trial clinico saranno da considerare anche gli effetti collaterali dell’Everolimus, rappresentati da ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, leucopenia e trombocitopenia, quando impiegato nei trapianti renali come agente immunosoppressore post-trapianto; in questo caso la concentrazione efficace determinava una concentrazione ematica di 3-15 µg/l [101]. Mentre per i trapianti cardiaci l’effetto desiderato è riportato ad una dose di 3 mg/die [136]. Infine, quando l’Everolimus è stato impiegato in pazienti con patologie mielodisplastiche, una dose di 10 mg/die era ben tollerata, producendo come effetti indesiderati per lo più iperglicemia, ipofosfatemia, stanchezza, anoressia, diarrea [153]. Pertanto essendo già riportati per l’Everolimus alcuni impieghi terapeutici e presentando questo composto notevoli vantaggi dal momento che la sua farmacocinetica è già stata indagata, il suo utilizzo come agente eritro-differenziante presenta innumerevoli aspetti positivi. Dal momento che il nostro scopo non è quello di inibire la proliferazione cellulare, bensì quello di indurre il differenziamento eritroide incrementando l’espressione dei geni per le β- e γ-globine, il dosaggio eventualmente utilizzabile non dovrà superare la concentrazione equivalente al valore di IC50. Sulla base di queste considerazioni, la tipologia di coltura cellulare dei precursori eritroidi da sangue di pazienti talassemici, si rivela particolarmente utile ai fini di pretestare l’efficacia reale di un potenziale agente terapeutico, prima di sottoporre il paziente stesso al trattamento farmacologico. Oltre ad essere un nuovo approccio per creare terapie mirate e più adatte alle caratteristiche patologiche del singolo, lo scopo di questa indagine, associata alla valutazione delle variabili riguardanti il paziente, è proprio quello di effettuare una selezione dei soggetti più idonei al trattamento in esame, di modo da evitare la somministrazione di terapie non efficaci o di causare effetti non desiderati, anziché terapeutici. La realizzazione di strategie terapeutiche future basate sull’induzione farmacologica dei geni globinici endogeni, rappresenterebbe un’interessante alternativa alla terapia convenzionale, oggigiorno ancora basata prevelentemente sulle trasfusioni di sangue e potrebbe portare al miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti affetti da emoglobinopatie. 159 BIBLIOGRAFIA: 1. Stryer L. Biochimica. (ed. Zanichelli, S.p.A, Bologna), 1996. 2. Bianco Silvestroni I. Le talassemie. Un problema medico-sociale: ieri e oggi. 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