L’EPISTEMOLOGIA DI GASTON BACHELARD
E QUELLA DI LUDOVICO GEYMONAT
G. Bachelard nacque a Bar-sur-Aube nella Basse Champagne nel 1884. La
famiglia di origine era di modesta condizione economica: calzolai e vignaioli! Finiti
gli studi superiori e conseguito il baccalaureato dovette cercarsi un impiego per
rendersi autonomo economicamente. Dal 1903 al 1913, entrato per regolare concorso,
lavorerà all’amministrazione delle poste e dei telegrafi. Tuttavia, mentre lavorava,
trova il tempo e la capacità di conseguire la laurea in matematica. Poi subentra la
prima guerra mondiale e, alla fine di questa, decide di cambiare professione e di
dedicarsi all’insegnamento. L’esperienza della guerra lo ha cambiato accentuando in
lui la capacità di confrontarsi sul piano umano con i grandi temi della vita.
Dal 1919 al 1928 insegna fisica e scienze al Collége di Bar-sur-Aube e nel
frattempo si laurea in Filosofia (1920) e nel 1927 si laurea in lettere all’Università
della Sorbonne con una tesi che sarà pubblicata nel 1928 con il titolo di Saggio sulla
conoscenza approssimata.
Dal 1928 al 1940 insegnerà all’università di Digione e dal 1940 al 1954
all’università della Sorbonne. Infine nel 1961 gli verrà assegnato il Grand Prix
national des lettres. L’anno successivo morirà a Parigi all’età di settantasette anni.
Ci si è soffermati su queste date della biografia di Bachelard perché meglio di ogni
altra notazione individuano uno dei centri nodali di questo filosofo francese del
Novecento: l’oscillazione tra una cultura ed un sapere umanistico, a sfondo
psicologistico per un verso, e l’interesse per l’epistemologia intesa come sapere
matematico applicato alla fisica ed alla chimica.
Bachelard ebbe anche un altro merito che lo rende simpatico: dotato di una
straordinaria umanità ha esercitato una profonda influenza su quanti entrarono in
contatto con lui. E tuttavia, nel fondo rimase sempre un isolato! Ebbe a scrivere ad
un amico che: “ si ha un bel vivere quindici anni alla Sorbonne, avere come colleghi
i più grandi scienziati del mondo, ma accade che si resta isolati e solitari; fu questa la
mia sorte.”
E’ certamente da attribuire questa sua solitudine intellettuale e di rapporti umani al
fatto che i colleghi fisici e matematici non intendevano impegnarsi sul piano del
dibattito sul valore conoscitivo della scienza; mentre i colleghi di filosofia evitavano
il discorso sulla valenza conoscitiva della scienza perché il clima culturale era
impregnato dallo spiritualismo e dall’esistenzialismo. Dunque Bachelard resta in una
condizione di isolamento e finisce con il non polemizzare con nessuno dei
contemporanei e di confrontarsi intellettualmente solo con i maestri della precedente
generazione (Bergson e Meyerson).
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Chi ha letto alcune delle opere di Bachelard cominciando dalla “La psicoanalisi
del fuoco” (1938); oppure “La poetica della reverie” (1960) e “ La Terra e le reveries
del riposo. Saggio sulle immagini dell’intimità” (1948); od ancora “ La poetica dello
spazio” (1957) si è trovato spiazzato quando ha saputo che, in realtà, Bachelard
occupava all’università una cattedra di Filosofia della scienza. Non solo dalle opere
sopra citate nasceva un certo stupore ma questo si accresceva quando si andava a
leggere la sua più celebre opera di epistemologia: La filosofia del non!
Certamente anche chi ha fatto il percorso inverso si è trovato con un certo
imbarazzo dentro: l’epistemologo che scrive di psicoanalisi in modo fenomenologico,
puntando sul concetto chiave di “reverie” cioè di “sogno ad occhi aperti”, “ di
immaginazione creativa”!
Piano piano che ci si addentra nella personalità di Bachelard si va scoprendo che
nel periodo in cui egli insegnava a Digione, e cioè dal 1928 al 1940, aprì i propri
interessi verso le forme della produzione umana meno catalogabili scientificamente e
cioè la poesia, la musica, la pittura etc. E contemporaneamente si interessava del
valore conoscitivo della matematica, della fisica e della chimica. Anche alla
Sorbonne inaugurò dei corsi liberi sull’arte, sulla poesia, sull’immaginario che erano
frequentatissime da giovani artisti ed intellettuali che correvano ad ascoltarlo
affascinati dai temi che trattava e dalla cordialità umana che esprimeva con i suoi
alunni.
“I progressi del pensiero scientifico contemporaneo hanno determinato delle
trasformazioni negli stessi principi della conoscenza” dice Bachelard in apertura della
sua opera più famosa in campo epistemologico, La filosofia del non.
Questa frase ci pare particolarmente rilevante perché porta subito al nucleo del
problema che Bachelard intende affrontare: l’insieme delle nuove concezioni
scientifiche, come la teorie della relatività, le concezioni sull’atomo, la chimica
non “sostanzialista”, impongono radicali revisioni negli stessi modi di pensare il
concetto di razionalità.
Dirà Bachelard: “per lo scienziato la filosofia delle scienze appartiene ancora al
regno dei fatti…………per il filosofo la filosofia delle scienze non appartiene mai
totalmente al regno dei fatti”. Questo significa che una filosofia che si occupi della
quantità di verità insita nei processi metodologici e concettuali della scienza si trova
spesso ad oscillare tra empirismo e razionalismo. Ma per Bachelard il problema della
scelta per la filosofia della scienza tra razionalismo ed empirismo è un falso
problema: “ empirismo e razionalismo sono legati nel pensiero scientifico da un
legame forte come quello tra piacere e dolore. L’uno trionfa dando ragione all’altro:
l’empirismo ha bisogno di essere compreso; il razionalismo di essere applicato.”
Dunque la base di una filosofia della scienza consiste nell’accettare entrambe le
soluzioni metodologiche, dell’empirismo e del razionalismo, attraverso una nozione
dialettica nella quale il metodo sperimentale, a posteriori, si trasformi in leggi
generali che devono essere costantemente poste a confronto con nuove esperienze.
“Pensare scientificamente significa porsi nel campo epistemologico intermedio tra
teoria e pratica, fra matematica ed esperienza. Conoscere scientificamente una legge
naturale vuole dire conoscerla ad un tempo come fenomeno e come noumeno”
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Bachelard respinge dunque l’empirismo rozzo che vuole ridurre tutto
all’esperienza ed al metodo induttivo sperimentale; ma respinge anche il razionalismo
pure, cartesiano, che vuole usare solo i criteri di chiarezza e distinzione della ragione
senza ricorrere all’esperienza, al razionalismo assiomatizzato.
Il metodo proposto da Bachelard è definito come “ razionalismo applicato” o
“surrazionalismo” e consiste in un “razionalismo che progetta” sulla variazione
continua dei temi della scienza, e per il “quale l’applicazione non è una mutilazione”.
Il razionalismo aperto è una dialettica del mutamento del patrimonio della
conoscenza scientifica che ne sa cogliere le trasformazioni e valorizza la differenza.
“Lo spirito scientifico si costruisce distruggendo lo spirito non scientifico”, cioè gli
errori che continuamente si presentano: “Lo scienziato non si avvede che l’ignoranza
è un tessuto di errori positivi, tenaci, solidali”.
Il progresso delle conoscenze scientifiche non nasce da un vuoto di conoscenze
pregresse che possano essere intese come il buio e l’oscurità della ragione: l’errore se
scoperto e portato alla luce, se reso consapevole dalla razionalità, ha una sua valenza
positiva perché ha permesso questo lavoro di crescita razionale: occorre prendere
coscienza, scrive Bachelard, del fatto che l’esperienza nuova dice no
all’esperienza vecchia: senza questo no è evidente che non si tratta di
un’esperienza nuova.
Gli esempi che si possono portare nella storia della scienza sono tanti! Ma uno
basta per tutti: quando Galileo Galilei, attraverso una serie di osservazioni, costruì
una teoria che spiegava e semplificava tutti i problemi astronomici legati alla
concezione aristotelico tolemaica. In quel momento la nuova scoperta diceva no a
tutte le concezioni precedenti. Quando fu enunciata la teoria galileiana apparve come
una novità, un qualche cosa di radicalmente nuovo: ma poi fu accettata e stabilizzata.
Dirà Bachelard:” il divenire di un pensiero scientifico corrisponderebbe ad una
normalizzazione, alla trasformazione di una forma realistica in una forma
razionalistica”. Vale a dire ad una forma di razionalità superiore, più generale
perché comprende meglio il reale. Tuttavia questo processo non è concluso una
volta per tutte, ma è dialettico, vale a dire si ripropone nel tempo e nello spazio
storico. In ogni caso “la negazione deve permettere una generalizzazione dialettica.
La generalizzazione attraverso il NON deve includere ciò che nega……..Così la
geometria non euclidea racchiude quella euclidea; la meccanica non-newtoniana
racchiude quella newtoniana…………………..”.
Il razionalismo critico di Bachelard si conclude con l’affermazione che una
filosofia della scienza è una filosofia del NON perché affida alle condizioni della
dialettica del superamento lo scopo di conservare, in senso quasi hegeliano, le
esperienze delle conoscenze precedenti come casi particolari del successivo sviluppo
conoscitivo.
Ma abbiamo detto che chi legge Bachelard per la prima volta si imbatte in opere
completamente diverse, antitetiche, perché dedicate alla fenomenologia
dell’immaginario, della reverie come si dice in francese! Notate grandi cornacchioni
che in francese sogno si dice reve mentre reverie significa sogno ad occhi aperti,
immaginazione dunque! Ebbene l’immaginazione ci libera dalla realtà delle cose e ci
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permette di evadere da queste. Dirà Bachelard: “ le esigenze della nostra funzione del
reale ci costringono ad adeguarci alla realtà, a formarci come una realtà, a fabbricare
opere che sono della realtà. Ma la reverie, nella sua stessa essenza, non ci libera forse
dalla funzione del reale?” Dunque se tutta la nostra vita è programmata per vivere
nella realtà, l’immaginazione appare come la funzione contrastante a tale progetto e,
così come la razionalità nel confronto con il dato empirico, la reverie ci permette di
evadere dal dato empirico e di creare uno spazio dialettico di come noi desideriamo
che sia la realtà per noi.
Anche la nostra infanzia si costituisce nell’insieme delle immagini che di noi
raccontano gli altri e noi stessi costituiamo la nostra identità, il nostro esserci,
attraverso il racconto unitario che gli altri, tutti gli altri, ci hanno raccontato: noi
siamo il racconto degli altri sul quale abbiamo costruito la nostra identità. Ma
attraverso l’insieme delle immagini che produciamo diamo vita alla nostra vita,
all’immagine ed alle dimensioni di ciò che vogliamo essere e che il principio di realtà
del racconto degli altri ci nega di essere.
L’immaginare ci rende liberi, ci rende padroni di quella dimensione di mondo che
potrebbe essere nostra e che possiamo determinare con le nostre immagini. Vi è
anche una reverie matematizzante che usiamo per costruire edifici di immagini
matematiche o scientifiche. Così come possiamo determinare una ragione capace di
definire attraverso il “non” una serie infinita di progressi così, attraverso la reverie
poetiche e di immagine possiamo fondare una realtà sovradimensionata che potrebbe
essere la nostra realtà, il mondo del nostro essere fuori dai contorni ristretti del
mondo oggettivo.
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LUDOVICO GEYMONAT
L’orizzonte dell’epistemologia contemporanea annovera anche filosofi italiani che
si sono occupati in prevalenza di epistemologia, vale a dire del rapporto tra scienza e
filosofia e del rapporto metodologico che può essere scambiato fra queste discipline.
Dopo il periodo del Positivismo il problema di estendere alla filosofia e ad altre
discipline umanistiche il metodo delle scienze fisico matematiche divenne tematico
fino a configurare una nuova disciplina che prese il nome di Filosofia della scienza.
In Austria, a Vienna, si costituì un gruppo di scienziati e di filosofi che si
occupavano del criterio di verità implicito nelle proposizioni della scienza in modo
da potere delimitare ciò che costituiva le proposizioni scientifiche da ciò che non lo
era.
Il così detto circolo di Vienna si occupò dunque di una sorta di cernita delle
proposizioni dotate di senso, rispondenti cioè a criteri di verità, nettamente divise
dalle proposizioni che volevano essere scientifiche ma che erano invece
pseudoscienze. L’epistemologia segna così la nascita di un discorso critico verso i
criteri di verità insiti nel linguaggio e nel metodo scientifico.
In Italia il primo ad occupare una cattedra di Filosofia della Scienza fu Ludovico
Geymonat e precisamente all’università di Milano. Dopo l’abbuffata di neoidealismo,
dovuta all’egemonia culturale di Gentile e Croce, era necessario sprovincializzare
l’orizzonte culturale italiano e ricondurlo nell’ampiezza del dibattito europeo e
mondiale.
Nato a Torino nel 1909 si laurea in filosofia il 3/ novembre 1930 discutendo una
tesi di filosofia teoretica poi pubblicata con il titolo”Il problema della conoscenza nel
Positivismo.”. Nel 1932 si laurea in matematica.
In una delle tante interviste rilasciate da Geymonat poco prima di morire egli
affermò che era piuttosto amareggiato per non essere riuscito ad incidere sulle nuove
generazioni come avrebbe desiderato. Certamente la scelta del materialismo dialettico
come metodo epistemologico lo poneva in uno stato di minorità rispetto all’ambiente
culturale italiano impregnato di idealismo, di spiritualismo e, soprattutto, dalle
conseguenti istanze sociali moderate se non conservatrici.
Tuttavia la sua esperienza umana maturata nella Resistenza come commissario
politico della 105 brigata Garibaldi “Carlo Pisacane” ne faceva un filosofo diverso
da tutti gli altri: si potrebbe dire che incarnava l’ideale platonico del “filosofo
reggitore” che era impegnato sul fronte della cultura al fine di produrre la riforma
etico-politica della società. A differenza di tanti filosofi sedentari e parolai egli ha
rappresentato l’uomo d’azione e di pensiero: era solito ripetere ai suoi alunni che non
esiste prassi senza teoria ne teoria che non possa essere verificata attraverso la prassi.
E sotto questo profilo l’influenza di “Materialismo ed empireocriticismo” di Lenin si
faceva certamente sentire. Anche se, in ambiti completamente diversi, altri filosofi
detti pragmatisti, sviluppavano il principio che una idea è vincente se produce effetti
nella prassi, nell’impiego nella realtà: insomma se produce effetti concreti.
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Basterebbe citare J. Dewey per il quale il pensiero guida le forma pratiche della realtà
aiutandone la trasformazione.
Certamente uno dei meriti di Geymonat fu di trovare nella storia della civiltà
umana l’emergere ed il costituirsi della “ragione” come struttura di un dibattito, di
una serie di racconti, sempre più aperti e per l’emergere di una concezione laica della
vita e delle istituzioni civili.
Come abbiamo già ricordato si era laureato in filosofia e poco dopo in matematica.
Aveva vinto il concorso a cattedre per l’insegnamento della matematica nelle scuole
superiori ma aveva rinunciato al posto di ruolo perché non intendeva prendere la
tessera del fascismo: aveva preferito insegnare matematica e fisica in un liceo privato
di Torino, il “Giacomo leopardi”, dove ebbe come collega di materie letterarie Cesare
Pavese che era stato suo compagno di banco al liceo classico D’Azzeglio di Torino.
Deve comunque ben presto interrompere anche questo insegnamento privato perché
viene arrestato (1929) per avere scritto una lettera di solidarietà a Benedetto Croce in
FAVORE DELLA POLEMICA CONTRO Mussolini ed i Patti lateranensi. Dal 1943
in poi è assorbito dalla lotta partigiana e con la Liberazione partecipa alla vita politica
di Torino come consigliere comunale del PCI e viene eletto Assessore al bilancio
comunale.
Il suo primo lavoro di una certa importanza fu certamente il “Galileo” nel quale si
sottolinea la novità del metodo scientifico galileiano che usa il processo
dell’induzione per determinare le conoscenze sulla natura, il processo di
matematizzazione e quantificazione per studiare le leggi della natura in modo
oggettivo, e la “riproducibilità” per verificare le intuizioni ipotetiche dalle quali si era
partiti. Il metodo galileiano era una “rottura” radicale con tutto quello che si era
prodotto precedentemente nell’ambito della scienza ed era essenzialmente laico, cioè
non prendeva in considerazione risposte metafisiche. Il metodo galileiano scopriva la
“razionalità” come processo di conoscenza autonomo non legato a presupposti e a
pregiudizi di sorta. Infatti Geymonat sottolinea come Galilei scinde la conoscenza
fisico-matematica ed il metodo scientifico dalle Sacre scritture e dalle finalità della
metafisica. La scienza si rivolge allo studio della natura con un suo metodo e con il
linguaggio della matematica e non deve giustificare sul piano metafisico le sue
scoperte. Le Sacre scritture servono all’indicazione dei fini dell’esistenza e alla
conseguente morale. Sono due strade diverse che non hanno necessità alcuna di
incontrarsi perché la scienza è laica, non è assoggettata a nessuno scopo determinato
se non la scoperta delle regole fisiche del mondo.
Dall’autonomia e laicità della scienza deriva che essa è un metodo: quello nel
quale si realizza la razionalità umana. L’approfondimento del Marxismo e del
materialismo dialettico allontana Geymonat tanto dall’idea ottimistica di una crescita
della scienza in modo lineare proposta dal Positivismo quanto dall’analisi del
linguaggio del Neopositivismo. L’analisi delle proposizioni munite di senso è un
grande discriminante per determinare la scientificità di un linguaggio all’interno di se
stesso ma non risolve il problema della scienza “in tutte le sue molteplici
prospettive”. La scienza non è un’astratta contemplazione del mondo ma permette di
operare sul mondo e di modificarlo. La tecnologia è anche un prodotto della scienza e
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partecipa alla trasformazione del mondo: per questo motivo Geymonat declina con il
termine “patrimonio scientifico-tecnico” l’insieme delle conoscenze della scienza e
della tecnologia, nella loro fluidità storica e nel loro divenire. Un divenire che talvolta
è contraddittorio, nel quale teorie nuove smentiscono quelle vecchie oppure le
confermano come casi più particolari; tecnologie continuamente vengono affinate e la
stessa società, come contesto nel quale si producono beni materiali e si modifica il
mondo, sviluppa forme di conoscenza scientifica e tecnologica sempre nuove o forme
di razionalità “locale” per risolvere appunto problemi “locali” come egli definì il
pensiero debole proposto da Gianni Vattimo. Insomma il patrimonio scientificotecnico ha in se un processo di mutamento che Geymonat definisce come “dialettico”
cioè in rapporto con la società storicamente determinata e con i metodi di produzione
della ricchezza. La dialettica, il processo di memoria Hegeliana reinterpretato da
Marx, è il principio che intercetta il mutamento degli intorni della conoscenza
scientifica e ne giustifica l’evoluzione ed il cambiamento. Il patrimonio scientificotecnico è retto dalla dialettica perché in esso teorie nascono, si negano ed in tale
negazione determinano una nuova sintesi più generale ed estesa in una costante
approssimazione al vero. La scienza non è una fede e non è un dogma: semmai il
contrario. Essa procede nella sua totalità approssimandosi al vero, o meglio al “più
completo”, e non dicendoci mai una verità che valga per tutti e per sempre!
Ma questo significa allora che una teoria ne vale un’altra e che lo scetticismo
teoretico ha ragione? Geymonat risponde in modo assolutamente negativo!
Afferma Geymonat: “ Per decidere del valore delle nuove soluzioni ci si
rivolgerà alla pratica: andiamo a vedere quello che ha successo e lo accettiamo
come scientifico perché ha successo. Ma il successo garantisce veramente la
serietà razionale di quel modello teorico, oppure no? Ma allora la razionalità
sarebbe dettata e regolata dal successo, dall’ordine pratico? Effettivamente, da
questo punto di vista, esiste una tradizione che affonda le sue radici in Bacone ed
in Galileo secondo la quale la scienza deve essere, in primo luogo, una scienza
che serve, una scienza che risolve problemi concreti, che ci guida nel superare
problemi pratici. Si tratta di una tradizione che si sviluppa fino al marxismo il
quale sostiene appunto che occorre stabilire un nesso molto stretto tra pratica e
teoria………..Particolarmente importante è la funzione della prassi nel processo
conoscitivo. Secondo il materialismo dialettico infatti questo non si esaurisce in
una contemplazione istantanea del dato ma nell’elaborazione dei concetti
attraverso le teorie e nel passaggio da una teoria all’altra più completa e
soddisfacente. I classici del materialismo dialettico sono molto espliciti su questo
punto: il nostro giudizio avviene sulla base del confronto tra la teoria in
questione e la prassi. Ciò non significa che sia la prassi a dettarci i principi delle
teorie; ossia non significa che il materialismo dialettico si riduca ad una forma di
pragmatismo. La conoscenza e la prassi non si identificano una con l’altra ma
sono due attività dialetticamente legate fra loro: la prassi costituisce il banco di
prova delle teorie e queste sono la guida della prassi”.
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Dunque esiste un rapporto dialettico tra teoria e prassi e la teoria più giusta risulta
quella che ottiene maggiori risultati nella prassi e quindi una maggiore comprensione
della realtà.
Se allora il “patrimonio scientifico-tecnico” si sviluppa attraverso la dialettica in
una costante dilatazione attraverso il corso del tempo e si sviluppa approssimandosi
sempre più alla realtà, anche “il patrimonio delle istituzioni civili” segue lo stesso
andamento. A questa proposta è dedica una delle opere fondamentali di Geymonat:
“Scienza e realismo”. Se nel corso della storia il patrimonio scientifico-tecnico si
affina e spiega sempre maggiori pezzi di realtà, si approssima sempre più al vero,
nello stesso modo l’insieme delle istituzioni che reggono le società si vanno
modificando e perfezionando attraverso il processo della dialettica. Le strutture
sociali-istituzionali che hanno più successo, quelle ad esempio che meglio tutelano
gli esseri umani nelle loro condizioni materiali e morali, vengono inglobate
stabilmente nel diritto, nella morale, nell’economia, nell’educazione etc. etc. Per
questo motivo l’insieme sociale procede non verso la perfezione ma ad un
costante miglioramento delle condizioni oggettive di convivenza umana.
Dati i tempi disponibili non è possibile approfondire più oltre l’originalissimo
pensiero di Geymonat! Ma desidero sottolineare comunque una cosa: Geymonat ha
sottolineato costantemente che lo studio della conoscenza scientifica e del pensiero
filosofico contiene in se un paradigma fondamentale: l’accrescimento della
razionalità. Ma la razionalità vista in una sua dimensione teoretica potrebbe
risultare o dogmatica oppure inutile. La razionalità ha un senso se stimola la
critica e la riflessione! Egli dirà infatti: “in fondo quello che si tratta di
sviluppare non è tanto il concetto di ragione ma il concetto di critica. Noi
vogliamo essere critici: critici di noi stessi, critici dei fondamenti della
matematica, critici dei fondamenti della fisica, della biologia……………ma
soprattutto noi vogliamo essere critici”.
Il risultato finale dello studio della scienza e della filosofia è dunque quello di
insegnare a non avere certezze dogmatiche ed a sapersi costantemente mettersi in
discussione ed a rivedere le proprie convinzioni.
Geymonat diceva sempre che ad un giovane avrebbe dato come motto educativo:
“contesta e crea evitando di cadere nello scetticismo ma guardando sempre alla
storia”. Essere critici per un verso ed essere creativi per un altro è dunque la
raccomandazione che faceva Geymonat ai giovani di qualche generazione fa e che
ora sono piuttosto vecchiotti; tuttavia molti di quei giovani lo hanno seguito in questo
suo consiglio e non si sono trovati male almeno nella loro coerenza e nel rapporto con
il mondo della vita. Speriamo che anche le nuove generazioni lo seguano almeno per
riuscire ad essere critici: verso se stessi, verso le istituzioni, verso le mode e contro
l’imbecillità divenuta sistema!
Serafino Busacca
Ins. Lombardo radice di C.T.
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