8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) fisica presenza del candidato a Roma. Leggi di questo tipo se non miravano alla delegittimazione di Cesare, quantomeno prefiguravano un serio deterioramento dei rapporti tra i due ex triumviri. La fase più acuta della guerra gallica si era conclusa nel 52, quando Cesare aveva preso d’assedio sino alla capitolazione Alesia, presso Digione, dopo un’ultima rivolta generale divampata in tutta la Gallia sotto la guida di Vercingetorige, re degli arverni (odierna Alvernia, Francia centrale) 21. Cesare rimase nella regione ancora a lungo; con lo scopo di raggiungere il consolato senza abbandonare l’imperium e dunque il comando delle legioni in servizio in Gallia, tramite i tribuni della plebe riuscì a fare votare l’autorizzazione delle candidature in absentia, quantomeno in casi speciali come il suo. In realtà, l’aspetto giuridico della controversia, che di fatto precipitò gli eventi, rimaneva contrastato e impugnabile anche per le complicate implicazioni cronologiche sulla data esatta di scadenza della proroga; proprio facendo leva su tali incertezze, il senato, finalmente schierato con Pompeo, inviò a Cesare un ultimatum ingiungendogli di abbandonare la provincia e congedare il suo esercito, se voleva rientrare da privato cittadino a Roma per presentare a norma di legge la candidatura al suo secondo consolato, per il 48 a.C., passati così almeno dieci anni dal primo. Con una lettera al senato del Io gennaio del 49 a.C., Cesare dichiarò che avrebbe sciolto l’esercito se altrettanto avesse fatto Pompeo con quello messo in piedi – a suo dire – in previsione della guerra civile e della sua rovina (La guerra civile I 9, 5). Una volta constatato che i suoi interlocutori non erano disposti a nessuna concessione e che i tribuni della plebe gli garantivano una solidarietà significativa anche sul piano simbolico, giunse sino al Rubicone, limite tra la sua provincia di Cisalpina e il resto dell’Italia, al di là del quale non era autorizzato a condurre un esercito in assetto di guerra. L’11 gennaio varcò con le sue truppe il ponticello che lo guadava; ora tutte le decisioni sarebbero passate alle armi. La mentalità romana aveva una accentuata propensione verso le problematiche giuridico-religiose e verso le deviazioni rispetto alle norme e alla prassi costituzionale, viste come elemento dal quale potevano scaturire ed essere giustificate anche le iniziative più gravi. Cesare dichiarava di essere stato costretto alla guerra, di agire in difesa della sua dignitas ingiuriata, della libertà repubblicana, dei tribuni e della plebe la cui volontà era stata calpestata (Svetonio, Vita di Cesare 30-32; Cesare, La guerra civile I 7). Per questo iniziava la marcia verso Roma. Cicerone negli stessi giorni esprimeva in una epistola all’amico Tirone la convinzione che Pompeo avesse purtroppo iniziato tardi «a temere Cesare» (Cicerone, Epistole ai familiari XVI 11, 3) 22. 161 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 8.5 La guerra civile e la dittatura di Cesare Durante la sua rapida discesa lungo la Penisola, molte città passarono dalla parte di Cesare o furono da lui occupate diventandone basi strategiche. Pompeo con i suoi decise di imbarcarsi a Brindisi; egli cercava di rafforzarsi militarmente e di spostare il baricentro del conflitto nel settore balcanico e in Oriente, dove godeva di appoggi e clientele. Dopo una diversione in Spagna che gli garantì il supporto delle legioni di quell’area (in realtà anch’essa già prevalentemente pompeiana), Cesare passò in Epiro, dove, nonostante l’inferiorità numerica delle sue truppe, ebbe la meglio nella decisiva battaglia campale dell’agosto del 48 a.C. presso la città di Farsalo in Tessaglia. L’ex triumviro fuggì in Egitto, ma gli ambienti della corte egiziana del giovanissimo Tolomeo XIII anziché un rifugio si rivelarono una trappola mortale: Pompeo venne assassinato a tradimento. Cesare, frattanto sbarcato nel paese del Nilo, dove soggiornò per circa un anno dal settembre 48 e consolidò il protettorato romano, manifestò (in modo ipocrita secondo lo storico di età imperiale Cassio Dione) il suo disprezzo per l’atto e volle rendere pubblicamente omaggio alla memoria dell’avversario. La sorella e secondo l’uso dinastico sposa di Tolomeo, la regina Cleopatra (sulla sua figura ci soffermeremo nel prossimo capitolo), ebbe una lunga e non clandestina relazione col generale romano e forse – i moderni pongono in merito più riserve degli antichi – gli dette un figlio, Cesarione; Cesare pure continuava a vivere con la moglie Calpurnia: ma coesistenze tra matrimonio iustum, dunque monogamico, e concubinato di forma quasi poligamica non erano aberrazioni per il costume sociale romano, così come non lo erano casi di “uteri in affitto” 23. Le ultime resistenze dei pompeiani furono vinte prima nel 46 a.C., a Tapso in Africa, quindi nel 45 a Munda in Spagna. In Africa, a Utica, si suicidò Catone (di qui il soprannome di Catone l’Uticense), repubblicano irriducibile e irriducibile nemico di Cesare. Assicuratosi stabilmente il potere, come console dal 48 in poi e soprattutto come dittatore – lo era stato per un anno dalla fine del 49 a.C., nel 46 fu nominato dal senato dittatore per dieci anni, nel febbraio del 44 divenne dictator perpetuus –, Cesare si dedicò a un piano di riforme istituzionali e di ricostruzione morale della società dilaniata dai conflitti. Sul piano politico, egli reintegrò spesso l’avversario e il nemico con la sua clementia, peraltro abilmente propagandata e presto divenuta valore etico centrale della cultura e dell’ideologia imperiale. In un’orazione del 46, Cicerone tocca il tema con una stucchevole 162 8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) retorica adulatrice, tutta giocata linguisticamente sull’idea di vittoria, anche se a suo parziale alibi sta il desiderio di ottenere dal dittatore la grazia per amici e pompeiani 24: Ma questa tua giustizia e mitezza d’animo fiorirà ogni giorno di più, così che il tempo consegnerà alle tue lodi tutto quanto sottrarrà ai tuoi monumenti. E senza dubbio tu avevi già prima vinto in equità e misericordia tutti gli altri vincitori delle guerre civili, ma oggi hai vinto te stesso. Ho il timore che ciò che dico non possa essere inteso esattamente nel senso, ad ascoltarlo, di come io stesso lo sento nel concepirlo: tu hai vinto la stessa vittoria nel momento in cui hai restituito ai vinti quei beni che essa aveva ottenuto. Infatti, mentre in base alla legge propria della stessa vittoria noi tutti, che siamo stati sconfitti, saremmo morti, siamo stati graziati dal giudizio della tua clemenza. Giustamente dunque sei invitto tu solo, dal quale anche la legge violenta propria della stessa vittoria è stata vinta (In difesa di Marcello 12). Possiamo qui soltanto elencare le maggiori iniziative intraprese dalla dittatura. Esse si muovevano nell’insieme in una direzione di attenuazione dei livelli di indigenza e di riassetto dell’ordine sociale e istituzionale: il rilancio di una politica coloniaria in grande stile, specialmente extraitalica con stanziamenti garantiti ai proletari, a una gran massa di veterani e anche, con decisione più inconsueta, ai liberti, per esempio a Corinto; la realizzazione di grandi opere pubbliche quali il tempio di Venere Genitrice e il Foro Giulio; lo scioglimento delle associazioni professionali di mestiere (collegia) formate a scopo di mutua assistenza, religioso e ricreativo, alcune delle quali già in passato avevano fomentato disordini; la forte riduzione dei beneficiari delle distribuzioni gratuite di grano nell’Urbe (ridotti a 150.000); l’ampliamento del senato a 900 membri con una cospicua immissione dei propri seguaci. In un altro ambito, va segnalata la razionalizzazione del calcolo del tempo, finalmente fondato sull’anno solare di 365 giorni (riforma del calendario civile, detto “giuliano”). Ma c’è un ulteriore aspetto che in particolare interessa: l’unione dei suoi formidabili poteri concreti in ambito religioso e civile (il pontificato massimo, le prerogative di tipo censorio concesse a vita, la possibilità di nominare personalmente i magistrati) con le titolature onorifiche e carismatiche (l’ascendenza divina, l’epiteto onorifico di Imperator, tipico dei trionfatori repubblicani, attribuitogli a vita, il valore di quello di Caesar) era o si avviava a divenire sinonimo di autorità sovrana. A proposito dell’anomalo conferimento decennale della dittatura, antica carica di solito di durata semestrale, lo storico Christian Meier ha posto il quesito: «si voleva forse, qualora non si fosse semplicemente ubbidito a un – esplicito o presunto – desiderio di 163 LA CITTÀ E L ’ IMPERO Cesare, distoglierlo, con questa generosa concessione, dall’instaurare una monarchia?» 25. Ormai in effetti molti erano convinti che mirasse a sostituire il governo repubblicano, per quanto degradato potesse essere stato negli ultimi decenni, con un regno, e la parola regnum suscitava istintiva diffidenza, o ripugnanza, alle orecchie dei romani. E che questa idea fermentasse sembrò confermato quando il console del 44 e attivissimo filocesariano, Marco Antonio, il 15 febbraio di quell’anno, durante la festa dei Lupercali, pochi giorni dopo il conferimento della dittatura a vita osò proporre a Cesare la corona reale 26. 8.6 Dalle “Idi di marzo” alla morte di Cicerone Il problema delle intenzioni di Cesare ha affascinato da sempre gli interpreti: il rifiuto dell’incoronazione fu, nell’opinione di antichi (cfr. per esempio Svetonio, Vita di Cesare 79-80) e moderni, soltanto una messinscena dalla quale doveva sortir fuori il tradizionalismo e l’attaccamento del dittatore all’ordinamento repubblicano. L’opposizione anticesariana si era venuta articolando variamente, fra ottimati, pompeiani, nemici privati anche ex cesariani, sinceri repubblicani e legalitari impauriti della deriva autocratica in atto. Pare comunque non fosse soltanto l’ostilità di un pugno di aristocratici, ma che avesse una certa diffusione presso il popolo (per esempio Nicolao Damasceno, Vita di Augusto 60-65). Parola chiave era libertas, ma naturalmente uno slogan di questo tipo stava da decenni sulla bocca di molti, anche di personaggi non del tutto credibili che lo potevano piegare ai loro scopi come Catilina in Sallustio o Clodio, promotore di iniziative edilizie per Libertas come astrazione divinizzata. In realtà, il ripristino della libertà repubblicana – se nel concetto si voglia includere un assetto che lasciasse il primato al senato, la previsione di uno svolgimento regolare di elezioni, la limitazione ai minimi termini degli incarichi eccezionali, la regolamentazione delle clientele militari e via continuando – era davvero, al punto in cui si era arrivati, una possibilità antistorica. Quella dell’ultima repubblica si configurò come una «crisi senza alternativa» (secondo la convincente formulazione di Meier, Res publica), ossia senza un’alternativa che non fosse autoritaria o monocratica 27. Prese corpo l’organizzazione del tirannicidio. Dopo numerosi abboccamenti, una sorta di comitato di congiurati – fra i quali spiccavano Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino, e poi Decimo Bruto, Gaio Trebonio, già legati a Cesare – decise di colpire per le idi (il 164 8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) giorno 15) di marzo del 44, quando era convocata una seduta del senato presso la curia annessa al teatro di Pompeo 28. La dinamica di questo assassinio, dal disvelamento del complotto a Cesare durante il tragitto verso il senato alla folla che si accalcava impedendogli di leggere il foglio con le prove, alle ventitré coltellate e alla reazione sbigottita del morituro, è troppo nota per essere qui raccontata. Anch’essa contribuì a creare il mito di Cesare, di straordinaria suggestione sino ai giorni nostri 29. Le “Idi di marzo” furono un motivo di soddisfazione per Cicerone, come sappiamo dalla sua fitta corrispondenza del 44 con Attico (XIV 4; XIV 6; XIV 10; cfr. anche I doveri I 8, 26). Quanto accadde nelle ore e nelle settimane seguenti deve in primo luogo spiegarsi con l’inadeguata capacità progettuale dei cesaricidi. Del resto, che avessero rinunciato all’occupazione del potere per un’effettiva restaurazione costituzionale o che non fossero abbastanza coesi per provarci, sembrò in un primo momento riprendesse il dialogo fra le parti: da un lato, veniva riconosciuto ai tirannicidi di avere agito in buona fede per amore patrio, ottenendo essi così una sorta di amnistia per la violenza commessa; dall’altro, si ritenne però di dover onorare la memoria di Cesare e di realizzarne le volontà espresse nel testamento. Esso fu letto in pubblico il 17 marzo. Prevedeva, oltre a un grosso lascito in sesterzi per la plebe urbana, che la sua eredità andasse al nipote nemmeno ventenne C. Ottavio, adottato nella circostanza, col quale Cesare aveva annodato legami negli ultimi anni (ampia narrazione di non molti lustri posteriore ai fatti: Nicolao Damasceno, Vita di Augusto 16-34). Ottavio, all’inizio di maggio, rese pubblica l’accettazione del testamento; il nome completo da lui preso dopo l’adozione da parte del dittatore fu C. Giulio Cesare Ottaviano. Per questo lo troviamo spesso menzionato nelle fonti greche semplicemente come Kaisar. Una svolta si ebbe nell’ottobre 44, quando Ottaviano promise ai veterani di Cesare in Campania che avrebbe vendicato l’assassinio del padre. Cicerone, il 4 novembre, così scriveva da Pozzuoli ad Attico, dando testimonianza della drammatica fluidità della situazione: In un solo giorno mi sono state recapitate due lettere insieme da parte di Ottaviano, che ora mi invita a recarmi immediatamente a Roma, dicendo che vuole agire attraverso il senato. Gli ho risposto che il senato non può essere convocato prima delle calende di gennaio; cosa che credo stia così. Ma egli aggiunge “con il tuo consiglio”. Perché farla tanto lunga? Egli esercita pressioni, però io mi prendo una pausa di riflessione. Non ho fiducia nella sua età, ignoro da quali intenzioni sia animato. Non voglio fare nulla senza il tuo 165 LA CITTÀ E L ’ IMPERO amico Pansa [N.B.: uno dei due consoli per il 43]. Ho paura che Antonio prevalga e non mi piace allontanarmi dal litorale. Ma al contrario temo che qualche impresa memorabile abbia luogo durante la mia assenza. A Varrone dispiace proprio il progetto del ragazzo, a me no. Dispone di truppe valide e potrebbe avere dalla sua parte Bruto. Svolge la sua azione alla luce del sole, a Capua forma le centurie dei suoi soldati e dà loro il soldo. Da un momento all’altro vedo scatenarsi la guerra (Epistole ad Attico XVI 9; trad. C. Di Spigno). Nel 43, nell’arco di pochi convulsi mesi, decaduto anche l’iniziale atteggiamento di Marco Antonio, incline alla pacificazione e conciliante verso i congiurati, si riaprirono gli scontri armati, in area Cisalpina e in altre province. Combattevano Antonio e i suoi contro i cesaridi, a loro volta forniti di legioni nelle province alle quali erano stati destinati come governatori. Nella convulsa lotta si inserì anche Ottaviano con un esercito privato che mise a disposizione del senato – un’ideologia, questa del privato che salvava lo Stato, assai significativa, in quanto giustificava i poteri straordinari e i personalismi. Ottaviano, affiancato dai consoli in carica Irzio e Pansa, intervenne militarmente a Modena, nell’aprile 43, contro Antonio che vi assediava Decimo Bruto. Più simile a una operazione di polizia militare che ad una guerra, in quanto non comportò stragi e vendette, la vicenda di Modena rafforzò ulteriormente il giovane leader, tanto che, tornato a Roma, riuscì ad imporre la sua elezione al consolato nell’agosto 43. Il 27 novembre dello stesso anno, una lex Titia lo nominava – insieme a Antonio, col quale frattanto si era riappacificato, e Marco Emilio Lepido, patrizio già console nel 46 e fra i più stretti collaboratori di Cesare – membro di un triumvirato costituente (secondo triumvirato: tresviri rei publicae constituendae). I triumviri erano dotati di poteri eguali o superiori a quelli dei consoli per un quinquennio. Uno dei primi atti fu puramente repressivo: liste di proscrizione di sequestro dei beni o di eliminazione fisica dei nemici di Cesare e degli avversari personali dei triumviri 30. Fra questi Cicerone, fatto uccidere nel dicembre del 43, in un momento nel quale era tornato a svolgere un ruolo principale in senato: l’oratore si era inimicato Antonio con le quattordici orazioni note come Filippiche (pronunciate fra il settembre 44 e l’aprile 43; Cicerone si riagganciava nel nome ai discorsi pronunciati dall’oratore di IV sec. a.C. Demostene contro Filippo II di Macedonia), nelle quali attaccava con durezza i misfatti e i difetti antoniani, al contempo con l’auspicio di indurre il giovane (ma non così malleabile) Ottaviano dalla propria parte, riconoscendo la legittimità delle sue aspirazioni alla leadership 31. 166 8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) Le implicazioni politiche di una fase cronologicamente ancora molto vicina alla morte di Cesare erano assai complesse: ottenere una sorta di primato come rappresentanti della memoria del dittatore scomparso, avrebbe potuto garantire forze reali, in termini di sostegno militare, di supporto popolare, di carisma; ma in contropartita avrebbe significato dover gestire sotto il profilo ideologico una scomoda eredità, sostanzialmente monarchica, e assumersi presto la sgradevole responsabilità di dare una sistemazione in terre ai veterani del dittatore. 8.7 Cicerone politologo Conservatore illuminato, Cicerone fu sempre vicino agli ottimati, o comunque a coloro che sul piano morale e sociale erano collocati su (o esprimevano) posizioni antinomiche alla “politica agitatoria” dei popolari, l’altro maggiore polo della politica romana. L’Arpinate era pienamente consapevole della crisi che aveva luogo sotto i suoi occhi. Nel corso del tempo elaborò, sia attraverso il filtro di trattati teorici sia in discorsi pubblici o in lettere private, un suo modello di riforma delle istituzioni e del sistema giudiziario 32. Non di rado egli cambiò prospettiva e intenzioni, a seconda di quanto dettavano le contingenze: «non bisogna rimanere sempre dello stesso parere quando le cose cambiano e cambiano i sentimenti dei buoni cittadini, ma bisogna adattarsi alle circostanze» (Epistole ai familiari I 9, 21, della fine del 54). Bisogna dunque distinguere, nel leggere Cicerone, le alleanze tattiche e le speranze riposte in momenti diversi della sua vita su uomini quasi provvidenziali come Pompeo, poi con frequenze più sincopate o per brevi periodi forse Cesare, e ancora Ottaviano (non introdurremo qui il pur dibattuto problema se Cicerone abbia mai visto se stesso come possibile grande timoniere di Roma verso una nuova era di prosperità), dallo schema generale rimasto costantemente valido di una società che doveva recuperare unità e coesione, ripristinando l’ordine costituzionale perduto e garantendo solidità all’intero impianto dell’impero mediterraneo, in un contesto di nuova moralizzazione e rigenerazione della cosa pubblica. Ebbene, da quest’ultimo punto di vista i contributi più significativi vengono esposti in scritti degli anni cinquanta, quando ancora esistevano fondate speranze per un rinnovamento civile. Nella già citata orazione In difesa di Sestio, del 56, nella quale l’Arpinate esprimeva 167 LA CITTÀ E L ’ IMPERO ampiamente il suo progetto, o nelle opere, di alcuni anni posteriori, di filosofia e politica come il dialogo su La repubblica e il Le leggi 33. La visione di Cicerone era fondata sulla necessità allo stesso tempo di educare gli uomini politici alla disciplina di statisti e di affidare le redini del governo a quello che egli definisce rector o gubernator o moderator rei publicae affinché operasse al di sopra delle parti per produrre una grande coalizione – si direbbe oggi – di unità nazionale capace di mettere d’accordo tutti gli ‘uomini dabbene’: un consensus omnium bonorum cioè di senatori, cavalieri, ceti elevati italici in crescita, ma anche individui provenienti dai ceti più modesti e persino liberti, di tutti i ceti produttivi che svolgevano onorevolmente le loro attività e che avevano la possibilità di ascendere nella scala sociale in base a meriti misurati sulla base dell’impegno, dell’espletamento dei propri doveri e del rispetto verso le gerarchie costituite 34. In questo quadro deve essere inteso il tanto discusso slogan espresso nella In difesa di Sestio 45, 98 di un equilibrato cum dignitate otium che avrebbe dovuto costituire la stella polare di ogni buon cittadino e uomo politico, attivo nella vita pubblica ma non corroso dall’ambizione e perciò capace di dedicarsi a pause di riflessione e di studio 35. Si aggiunga che come possibile ipotesi concreta di ‘principe’ (princeps) per un governo transitorio, un frammento del V libro del La repubblica sembra indicare che l’Arpinate pensasse a qualcuno che esercitasse una dittatura coadiuvata da un decemvirato, rimanendo in vita le altre magistrature 36. Dallo scoppio della guerra civile, durante la quale fu, per mancanza di alternativa, con Pompeo riservandogli attacchi anche retrospettivi assai duri (importante è Epistole ad Attico VIII 11 del febbraio 49, dove comunque rimane di attualità l’idea di un moderatore e guida della repubblica), Cicerone appare disilluso; motivi privati non gli facilitarono la tranquillità: verso la fine del 46, il divorzio da Terenzia, poi, nel febbraio 45, la scomparsa dell’adorata figlia Tullia, morta di parto. Non fu d’altra parte mai rinunciatario: se nel I doveri, composto negli ultimi mesi del 44, non mancano toni di sfogo quasi epistolare di amara e forzata solitudine di villa in villa (proemio del III libro), richiami più vivaci e “azionisti” non vennero mai meno, si pensi specialmente alle Filippiche, nelle quali può essere fotografato il tentativo di Cicerone sessantenne di coagulare intorno a sé tutte le forze antiantoniane, incluso il giovanissimo e straordinario Ottaviano. Ma le Filippiche furono davvero un ultimo grido d’allarme e un invito alla lotta contro chi, a suo avviso, andava precipitando nell’abisso definitivo i pezzi dello stato repubblicano 37. 168 8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) 8.8 Sallustio politico e storico Sallustio (86-35 a.C.) fu per le vicende del tempo innanzitutto un testimone. Non che avesse rinunciato a far politica: espulso per immoralità dal senato nel 50, avvicinatosi a Cesare che lo riabilitò e lo volle pretore nel 47, ebbe nel 45 ancora da Cesare il governo di provincia dell’Africa Nova (Numidia), provincia di fresca costituzione in regioni dove si era combattuto contro i pompeiani resistenti: ma Sallustio ne uscì male, avendo destato scandalo una sua gestione troppo disinvolta – pare – del denaro pubblico; anche nel privato non fu irreprensibile e le sue vibrate valutazioni morali sui vizi altrui riescono più letterarie, se non private di piena credibilità, al confronto con i suoi comportamenti. Si ritirò allora dalla carriera degli onori, vivendo lussuosamente in un monumentale parco, gli Horti Sallustiani, tra il Pincio e il Quirinale, che voci maligne dicevano avesse potuto acquistare proprio grazie alle sue ruberie. Proseguì comunque, in un certo senso, la politica da storico delle ragioni della decadenza della Roma contemporanea e da analista dei sintomi di tale decadenza: la litigiosità delle fazioni associata con il malcostume, l’ambizione e la sfrenatezza individuale. I suoi lavori furono tutti composti dopo il 44, durante il governo dei secondi triumviri. Il proemio della Guerra di Giugurta (1-4) è un piccolo manifesto della dignità della ricerca storica (così come la prefazione della Congiura di Catilina lo è della difficoltà di essa) e anche un’esplicita apologia del vivere appartati, lontani dalla corruzione della politica 38. Sallustio è un esempio fra i più limpidi del rapporto fra interessi e argomenti di studio e sensibilità verso l’atmosfera e le problematiche del proprio tempo. I temi e i momenti storici messi a fuoco nelle due monografie – un approccio storiografico minoritario rispetto a quello annalistico – furono scelti perché «meritevoli di memoria» (La congiura di Catilina 4, 2; cfr. La guerra di Giugurta 5) e meritevoli di memoria perché le riflessioni da esse suscitate potevano contribuire alla moralizzazione della società e perché le due situazioni presentate, pur nella specificità dei contesti, aiutavano a capire, mediante la ricostruzione dei lontani antecedenti e delle analogie sociopolitiche, come si fosse arrivati alla crisi attuale 39. Lo storico sabino focalizzava la sua attenzione su un’oligarchia nobiliare che giudicava superba e corrotta, sorda a ogni iniziativa che potesse mettere in discussione i propri privilegi e responsabile della fine della concordia, come valore tra i più alti e primo fondamento della repubblica (Sallustio, La congiura di Catilina 6-8). 169 LA CITTÀ E L ’ IMPERO Temi ideologici e virtù etiche analoghi – concordia, pace, libertà, patriottismo, moderazione, mancanza di cupidigia – sono valorizzati nelle due interessanti pseudosallustiane Epistole a Cesare e anche nelle Storie in 5 libri, opera di impianto annalistico che copre il decennio posteriore alla morte di Silla (78-67), incompiuta e pervenutaci solo in frammenti, fra i quali rilievo storiografico ha la oratio recta, ovvero i discorsi e le lettere attribuiti a una serie di significative e controverse personalità 40. Note 1. Cfr. Velleio Patercolo, Storia romana II 36; lo stesso autore pone la questione teorica del perché il corso della storia sia punteggiato da periodi brevi con un’alta concentrazione di grandi personalità (I 16-17). 2. Plutarco, Vita di Cicerone 48; ma per le diverse versioni della morte dell’Arpinate, Narducci, Cicerone, pp. 4-14. Circa l’epistolario, non si può qui affrontare il problema dei ritocchi testuali, rispetto all’originale, in funzione della diffusione antica. 3. Per una guida ai personaggi e alle loro opere basti vedere, privilegiando i saggi in lingua italiana (la bibliografia come si immaginerà è sterminata): per Cicerone, Grimal, Cicerone; May, Cicero; Narducci, Introduzione; Narducci, Cicerone; per Cesare, Meier, Giulio Cesare; Welch, Powell, Julius Caesar (immagine e scritti di guerra); Wyke, Caesar (ricezione e fortuna di Cesare); non se ne condivide qui l’approccio, ma cfr. anche Canfora, Giulio Cesare; Bibliografia di studi cesariani; per Sallustio, magistrale è La Penna, Sallustio; Syme, Sallustio; Mariotti, Coniuratio. 4. Sui congiurati e il loro seguito: Cicerone, Catilinarie II 8, 17-10, 23; Sallustio, La congiura di Catilina 14-17; 24-25 ecc.; Catilina rifiuta l’appoggio degli schiavi accorsi a lui per non pregiudicare la rispettabilità della sua rivolta: Sallustio, La congiura di Catilina 56. 5. Cfr. Sallustio, La congiura di Catilina 51-52, in merito al trattamento da riservare ai cospiratori con i discorsi per “dichiarazioni di voto” contrapposte, di Cesare, meglio riuscito e dai contenuti più avanzati, e di Catone. 6. Cicerone è definito homo levissimus (incostante come una donna), pauroso e voltagabbana, «Romolo d’Arpino»: Invettiva contro Cicerone 3, 5; 4, 7; ma Sallustio pure in controbattuta è accusato di essere un ambizioso irrispettoso delle leggi, homo levissimus e depravato sin dall’adolescenza, di origine modesta e arricchitosi in modo sospetto: Invettiva contro Sallustio 2, 6-7; 3, 8; 5, 13; 7, 19. 7. Si pensi a Machiavelli, Giacomo Harrington, Montesquieu, gli ideologi della Rivoluzione americana ecc. Naturalmente il principale modello di ogni comparazione fu sempre la democrazia diretta dell’Atene classica e, sul piano teorico e dei poteri nelle città-stato, la Politica di Aristotele. 8. Cfr. per esempio Cicerone, La divinazione II 18, 42-43; II 33, 70-39, 83; Le leggi III 12, 27. 9. Salerno, Tacita libertas; sul voto segreto in senato cfr. Pseudo-Sallustio, II Epistola a Cesare 11, 5; nelle assemblee cfr. Cicerone, Le leggi III 15, 33-17, 39; Nicolet, Mestiere, pp. 342-6. 10. Il dibattito recente è più articolato di quanto non sia stato qui presentato, per gli obblighi di una semplificazione: Millar, Crowd; Mouritsen, Plebs, specialmente 170 8. CICERONE E L ’ ETÀ CESARIANA (63-43 A . C .) pp. 1-17; Morstein-Marx, Oratory, specialmente pp. 1-23; in special modo si veda la messa a punto critica verso Millar e tesa a valorizzare altri approcci in Hölkeskamp, Reconstruire; cfr. Ricostruzioni. Importanti anche Nicolet, Mestiere; Pina Polo, Contra arma (su oratoria e contiones); Pani, Politica, pp. 140-56 (anche su posizioni di altri autori: E. Flaig, M. Jehne). Per le ripercussioni politiche dell’insegnamento dell’arte di parlare in pubblico in latino cfr. David, Promotion. 11. Sulla ricerca del “piacere a terzi”, come effetto della competizione, riflessioni confrontabili con la situazione di Roma antica si trovano nei lavori del sociologo Georg Simmel, cfr. Hölkeskamp, Reconstruire, pp. 87-90. 12. Sul punto anche Cicerone, In difesa di Murena (63 a.C.), 17, 36; Mouritsen, Plebs, p. 98. Sui comizi centuriati nella tarda repubblica: Yacobson, Petitio. Sugli spunti contenuti nell’orazione In difesa di Flacco (59 a.C.) cfr. Millar, Crowd, pp. 220-6. 13. Queste ramificazioni familiari avranno una notevole importanza quando, nella fase del passaggio da repubblica a principato, la gens Iulia legittimerà il proprio potere anche attraverso la rivendicazione della sua discendenza divina. Presunta aspirazione di portare la sua residenza a Troia: Nicolao Damasceno, Vita di Augusto 68. 14. I rapporti fra Cesare e Pompeo si strinsero anche sul piano familiare: Cesare dette in sposa a Pompeo la figlia Giulia, poi morta nel 54. 15. Una campagna diffamatoria contro il triumvirato sembra facesse Bibulo, frustrato console insieme a Cesare nel 59; un riflesso potrebbe esserne la satira Trikaranos (‘essere a tre teste’) composta in questi anni da Varrone. 16. Clodio nel 62 era entrato travestito da donna a casa di Cesare (pontefice massimo), dove si svolgevano le cerimonie per la Bona Dea, cui erano ammesse solo le donne, per appartarsi proprio con la moglie di Cesare. Cicerone ebbe un ruolo nel processo che ne conseguì; cfr. la versione di Plutarco, Vita di Cicerone 28-29; cfr. per esempio le frequenti allusioni allo scandalo nelle lettere di Cicerone ad Attico degli anni 61-59. Su Clodio: Tatum, Patrician Tribune; Fezzi, Clodio. 17. Garcea, Esilio; Kelly, Exile, pp. 110-25; Narducci, Cicerone, pp. 209-17. 18. Su Carre cfr. ora Traina, Imperi, pp. 38-48. 19. Pro Milone: Narducci, Introduzione, pp. 132-7 e Cicerone, pp. 321-7. 20. Fu questo l’anno della prima e unica esperienza ciceroniana di governatore di provincia, in Cilicia; cfr. Steel, Cicero, pp. 192-202. 21. Su Vercingetorige: Zecchini, Vercingetorige; il noto discorso di Critognato agli assediati, affinché tentassero una sortita rischiosa ma comunque migliore della servitù a Roma, è in Cesare La guerra gallica VII 77-78. 22. Sullo sconforto di Cicerone e la sua posizione defilata nella guerra civile cfr. per esempio Epistole ai familiari IV 1 (aprile 49); II 16, 2 (maggio 49). 23. Sono noti per la tarda repubblica vari casi di mogli in prestito per dare figli a amici. Una proposta di legge che consentisse a Cesare di sposarsi con più donne: Svetonio, Vita di Cesare 17; cfr. Cassio Dione, Storia romana XLIV 7, 3. 24. Meier, Giulio Cesare, pp. 375-89; Narducci, Introduzione, pp. 157-8. Cicerone a proposito della sua scelta di intervenire per Marcello: Epistole ai familiari IV 4, 3-4. 25. Meier, Giulio Cesare, p. 441. 26. Su questo momento, come più ampiamente sui rapporti tra Antonio e Cesare, cfr. Cristofoli, Antonio e Cesare, pp. 129-52. 27. Su libertas: Wirszubski, Libertas; bibliografia in Mouritsen, Plebs, p. 9 nota 23 cui aggiungere Arena, Libertas; Arena, Invocation (della stessa Arena è in corso di stampa un libro dal titolo Libertas and the Practice of Politics in the Late Roman Republic). Inoltre Pani, Politica, pp. 97-100. 171 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 28. Cfr. Nicolao Damasceno, Vita di Augusto 82-83; Plutarco, Vita di Cesare 66. 29. Sia sufficiente vedere ora Woolf, Et tu, Brute?; Giulio Cesare, specialmente pp. 235-97. 30. Appiano, Le guerre civili IV 31-44. Un indignato “j’accuse” contro Marco Antonio per avere voluto la morte di Cicerone in Velleio Patercolo, Storia romana II 66. 31. Narducci, Introduzione, pp. 198-200; più in generale Hall, Philippics. 32. Sul ritratto di se stesso oratore da parte di Cicerone cfr. Steel, Cicero, pp. 162-89. 33. Ferrary, Idee; Wood, Cicero’s Thought; Perelli, Pensiero, pp. 35-51; Narducci, Introduzione, pp. 104-12, 138-50, 150-4. 34. Lo scopo ultimo era ridare una «vita felice ai cittadini»: Epistole ad Attico VIII 11, 1. 35. Sul significato di otium cum dignitate cfr. Narducci, Introduzione, pp. 110-1. Sul progetto di Cicerone cfr. anche il classico saggio di Lepore, Princeps. 36. Perelli, Pensiero, p. 39. 37. Da ultimo Monteleone, «Terza Filippica»; Manuwald, Philippics. 38. Proemi: La Penna, Sallustio, pp. 15-67. 39. La cesura storica alla quale rimontava la crisi era la fine di Cartagine e, con essa, del collante sociale costituito dalla «paura di Cartagine /paura del nemico» (metus punicus, metus hostilis, cfr. PAR. 4.8). 40. Importanti, tra i discorsi, quello di Licinio Macro, in Storie III 48; fra le lettere cfr. specialmente quella di Mitridate al re dei parti, che offre – naturalmente tramite lo storico romano, IV, 69 – una prospettiva molto duramente antiromana, cfr. Desideri, Mitridate. In generale, La Penna, Sallustio (sulle Historiae, cfr. le pp. 247-311); Pastorino, Sallustio; Kraus, Woodman, Latin Historians. 172 9 La fine della repubblica romana 9.1 Il secondo triumvirato sino al 36 a.C. I cesaricidi Bruto e Cassio, che in area greco-balcanica e in Siria avevano riorganizzato un robusto esercito, furono debellati nel settembre del 42 a.C. sulla piana macedone di Filippi, in una duplice celebre battaglia della quale principale artefice sul campo fu Marco Antonio 1. Seguì una ripartizione delle sfere di governo fra i triumviri (PAR. 8.6), ormai padroni della situazione, Marco Antonio, Ottaviano e M. Emilio Lepido. Di Lepido abbiamo già menzionato le prerogative familiari, che lo rendevano influente insieme ai legami di amicizia con M. Antonio, il quale si adoperò per fargli ottenere il pontificato massimo dopo la morte di Cesare. Ma erano i primi due a avere le responsabilità maggiori. In Oriente, Antonio avrebbe dovuto dare una sistemazione all’assetto provinciale perturbato dalle recentissime vicende legate a Filippi e attenuare le molteplici contese intestine che minavano la stabilità dei regni alleati; era da rimarginare la ferita aperta dalla débacle di Carre (PAR. 8.4), tanto più che si doveva dare compimento alla spedizione allestita da Cesare contro il regno dei parti, alla quale il dittatore era premorto. Per Ottaviano, invece, si profilava il duplice compito di presiedere alle assegnazioni di terre italiche a molte migliaia di veterani usciti dalle recenti guerre – andando a intaccare beni appartenenti a privati, predestinati ad espropri senza alcuna forma di indennizzo – e di rintuzzare la guerriglia marittima del figlio di Pompeo Magno, Sesto Pompeo; costui, già proscritto, era emerso dai disordini delle guerre civili alla guida di forze eterogenee ed era pervenuto ad occupare la Sicilia e ad ostacolare l’approvvigionamento dell’Urbe. Rapida fu l’evoluzione del problema delle terre ai veterani: il malcontento dei piccoli e medi proprietari, in particolare etruschi e um173 LA CITTÀ E L ’ IMPERO bri, sfociò in una grave insurrezione, alla testa della quale si posero Lucio Antonio e la “pasionaria” Fulvia 2. Erano il fratello e la moglie di Marco Antonio. Nulla di sicuro è dato però sapere sull’atteggiamento di quest’ultimo: se, da lontano, avesse ritenuto opportuno mantenersi attendista o se si fosse mosso per alimentare una rivolta pericolosa in primo luogo per Ottaviano. Questi chiuse la partita a Perugia, dove i ribelli si erano asserragliati, senza procedere poi a ritorsioni (febbraio 40 a.C.) 3. In vari abboccamenti, avvenuti tra la fine dell’estate 40 e il 37, i triumviri ristabilirono la pace in Italia e tentarono un appeasement con Pompeo riconoscendogli una sorta di governo di fatto sulle isole italiche e sul Peloponneso. Gli accordi precedenti furono ribaditi con aggiustamenti dai quali i poteri di Lepido uscirono penalizzati (persa la Gallia Narbonense, gli rimase la sola Africa) e furono suggellati dalle nozze di Antonio, rimasto vedovo di Fulvia, con Ottavia, sorella di Ottaviano, il quale a sua volta nel gennaio 38 si sposò, dopo il divorzio dalla precedente moglie Scribonia, con l’aristocratica Livia Drusilla, donna che gli sarà al fianco per tutto il resto della sua vita 4. Nel 37, con il vertice di Taranto, i poteri triumvirali a scadenza furono prorogati per un quinquennio ulteriore. Soltanto Ottaviano si prese cura di avere l’approvazione popolare, a rimarcare un atteggiamento di rispetto formale verso le istituzioni repubblicane – in realtà anch’esso intermittente – sul quale andava costruendo la propria immagine di leader. Sempre a Taranto si era deliberato di eliminare Sesto Pompeo perché le sue attività piratiche erano proseguite impunemente. Pompeo fu sconfitto a Nauloco in Sicilia (36 a.C.) dalla flotta guidata da Marco Vipsanio Agrippa, fedelissimo di Ottaviano e suo futuro genero, e di lì a breve giustiziato. Antonio in questa circostanza aveva messo a disposizione una flotta di centoventi navi, ottenendo in cambio la promessa di ventimila uomini per le sue campagne orientali: una promessa che Ottaviano non manterrà mai. Lepido aveva combattuto contro Pompeo per recuperare autorità, ma venne ugualmente allontanato dal triumvirato: Ottaviano riuscì a prendere il controllo delle forze di Lepido, al quale fu tolta anche l’Africa; gli rimase (sino al 12 a.C.) solo il pontificato massimo, una carica di prestigio ma ininfluente, ora che tutto passava per il filo della spada. Per quanto tentativi di rivalutazione del suo ruolo siano stati fatti anche di recente, la posizione di Lepido era stata sin dall’inizio di sostanziale e progressiva subalternità rispetto ai due colleghi 5. Per avere contezza della straordinaria ascesa politica di Ottaviano, si tenga presente che in questi anni egli accumulò epiteti e prerogati174 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA ve complementari all’imperium detenuto come magistrato costituente: tra il 40 e il 38 poté assumere quale prenome (da porre dunque in testa alla sua titolatura onomastica) la designazione propria del generale vittorioso, quella di imperator; egli era già in precedenza chiamato divi Filius, figlio cioè di Cesare divinizzato post mortem (divus) con la procedura altamente formalizzata dell’apoteosi presieduta dal senato; infine, nel 36 fu votata a suo favore l’inviolabilità dei tribuni (sacrosanctitas), privilegio che nel 35, con caratteristica strategia parentelare di gestione del potere, estese a Livia e Ottavia assimilando la posizione delle due matrone a quella delle sacerdotesse di Vesta 6. 9.2 La politica di Marco Antonio in Oriente La salvaguardia del prestigio imperiale di Roma e l’opportunità di realizzare il progetto di spedizione oltre l’Eufrate interrotto dalle “Idi di marzo” rendevano una resa dei conti con i parti assai attraente per le credenziali di Antonio, che aveva da subito dopo Filippi proceduto a pesanti requisizioni di denaro e a ritorsioni contro le poleis che avevano appoggiato Bruto e Cassio. Nel 39-38, il suo legato P. Ventidio Basso vinse i parti che avevano aggredito i confini provinciali e ne riportò a Roma un trionfo; però, negli anni successivi le campagne di strategia più offensiva delle quali fu dux lo stesso Antonio furono bloccate sino a costringere le armate romane alla ritirata 7. Al mandato orientale di Antonio è riconosciuta maggiore efficacia in ambito amministrativo, specialmente prima delle sue personali campagne mesopotamiche: il generale sin dall’inizio coltivò con grande sagacia diplomatica le relazioni con i dinasti e gli stati satellite di Roma e ben riordinò il sistema provinciale e poliadico 8. Quel che il triumviro alla fine ottenne fu la resa senza combattere dell’Armenia e la deposizione del sovrano Artavasde, che aveva defezionato dall’alleanza militare antipartica a conflitto in corso. Le zecche emisero denari con la legenda in latino ‘l’Armenia sconfitta’ – ARMENIA DEVICTA –, ma il risalto dato di lì a breve a eventi militari dagli esiti né disastrosi né esaltanti si rivelò sproporzionato soprattutto quando nell’autunno del 34 venne celebrata una cerimonia trionfale sul proscenio di Alessandria d’Egitto. Allora Marco Antonio procedette anche alla cosiddetta «donazione di Alessandria» (Plutarco, Vita di Antonio 54; Cassio Dione, Storia romana XLIX 41), ossia alla concessione di parte cospicua dei territori anatolici, orientali e medio175 LA CITTÀ E L ’ IMPERO partici, questi ultimi persino ancora da conquistare, sia a favore di Cleopatra (cfr. infra, PAR. 3) e dei figli avuti dalla regina, sia di Cesarione, per molti rampollo di Cesare e Cleopatra e coreggente col nome di Tolemeo XV Cesare. La donazione implicava fra l’altro una severa destrutturazione dell’assetto provinciale pompeiano: che sorte avrebbero avuto i governatori, e se sopravvissuti, quali competenze erano previste per loro? E quale tesoro avrebbe inglobato il gettito fiscale? Anche soppesando la tendenziosità e le forzature, tracimate nella maggior parte delle nostre fonti, della propaganda favorevole a Ottaviano Augusto – quest’ultimo nome sarà assunto ufficialmente dal 27 a.C. –, in parte derivata direttamente dall’Autobiografia perduta dello stesso (che arrivava sino al 25 a.C.), è difficile dubitare fosse velocemente maturata nella mente di Antonio l’idea di creare una dinastia romano-egizia radicata nella terra del Nilo 9. Attratto dalle tradizioni e dai rituali di una regalità ellenistica di grande magnificenza e piena di elementi di continuità con l’epoca faraonica (la sentenza celebre «here is my space» dell’Antonio shakespeariano nella I scena del I Atto della tragedia è quanto mai efficace da questo punto di vista), lo stesso Antonio dava mostra di gradire che le onorificenze che gli venivano rese lo fossero con accentuate connotazioni religiose. La diffusione nelle iscrizioni del gentilizio Antonios testimonia, insieme alle notizie ricavabili dalle narrazioni letterarie, gli entusiasmi suscitati dal personaggio presso le cittadinanze anche di altre aree sotto il suo controllo, come l’Asia Minore. Fra i romani, l’audacia, l’antitradizionalismo, la contraddittorietà dei suoi comportamenti suscitarono tuttavia crescenti perplessità e perdite di consenso anche da parte dei suoi seguaci in Oriente, come vedremo trattando della genesi del conflitto con Ottaviano 10. 9.3 Il naso di Cleopatra Giovanni Boccaccio inserì l’ultima discendente dei Tolemei (o Lagidi) d’Egitto, la regina Cleopatra VII, nella sua raccolta in latino di centoquattro Donne celebri (datata 1361) a partire da Eva ricordandone le peculiari bellezza, lussuria, crudeltà. Si potrebbero aggiungere l’intelligenza fascinosa e la cultura, tratteggiate dalle pagine della Vita di Antonio scritta da Plutarco nell’ambito delle sue Vite Parallele. Infinita è la messe di scritti, romanzi, opere teatrali e cinematografiche, dipinti che hanno immortalato, reinterpretandola ogni volta, questa fi176 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA 13 Cleopatra, ritratto trovato nei pressi del santuario di Iside, Roma, via Labicana FIGURA gura che troverebbe spazio probabilmente anche se la selezione fosse fatta tra le pochissime più popolari figure femminili della storia 11. Quanto però più ci interessa rilevare – ben sapendo che risposte conclusive non sono raggiungibili – è quale sia stato il suo ruolo durante l’epoca triumvirale, in che misura la sua presenza sulla scena politico-militare ne abbia modificato le vicende e, infine, se l’elemento passionale e irrazionale abbia davvero contato, nel dare un segno a questa temperie. Le difficoltà di una ricostruzione coerente sono ovvie: le stesse fonti antiche presentano quadri in parte difformi e i moderni li seguono 12. Si oscilla tra visioni, vicine ai motivi della propaganda ostile, di un Antonio letteralmente prono ai desideri e ai piani della regina, ed altre che sottolineano come fu Cleopatra piuttosto ad essere in qualche modo vittima del tritacarne della lotta senza quar177 LA CITTÀ E L ’ IMPERO tiere tra i potentati romani di età cesariana e triumvirale, “usata” in quanto sovrana e capace amministratrice di un regno, quale l’Egitto, di centrale rilevanza strategica e economica 13. Della prima giovinezza di Cleopatra sappiamo poco, ma certo ella ebbe modo di ricevere un’adeguata educazione e di vivere esperienze interessanti se sono veritieri Plutarco e altri autori greci di età imperiale nel ricordare di lei, senza tacerne i difetti, la cultura, la conoscenza di molte lingue, che rendeva quasi inutili gli interpreti a corte, e come fosse autrice di opere letterarie; è in effetti probabile siano inattendibili, per accecamento da odio, quei numerosi autori che ne hanno evidenziato quasi soltanto i vizi, dalla falsità alla sfrenatezza dei costumi. Il suo aspetto fisico ha sempre destato grande curiosità e dovette essere determinante sulle sue relazioni prima con Cesare, nei giardini del quale visse a Roma una sfarzosa e onorata vita pubblica dal 46 al 44 prima di tornare in Egitto dopo la sua morte, e poi con Marco Antonio 14. L’aforisma di Blaise Pascal, secondo il quale se la forma del naso di Cleopatra fosse stata diversa, anche le sorti della storia sarebbero cambiate, può apparire umoristico, ma non è così. Il filosofo secentesco intendeva probabilmente riferirsi a un aspetto fisico qualunque, che avesse modificato di un’oncia il fascino complessivo della regina. Ma verifichiamo pure la testualità della sua frase. Il naso di Cleopatra, per come appare nelle monete che la ritraggono trentenne (la data di nascita si colloca al 69), era piuttosto pronunciato e adunco: un naso peraltro, come si usa dire, che denotava una forte personalità, e che in certo modo sembra confermare l’immagine plutarchea della regina, donna senz’altro avvenente, ma capace di attrarre gli uomini in modo quasi ipnotico anche con la voce suadente e la parola efficace 15. Dopo l’incontro fatale, avvenuto a Tarso in Cilicia nel 41, i destini di Antonio e Cleopatra si strinsero con un nodo che sarebbe stato indissolubile. Nel 40 e nel 36 Cleopatra diede tre figli al suo compagno, prima i due gemelli Alessandro Elio e Cleopatra Selene, poi Tolemeo detto Filadelfo. I nomi rivelano la tendenza di assorbire la prole nell’ambito culturale e di corte egiziano, con un innesto tra tradizioni egizie e progenie romana, bene esemplificato già in anni anteriori, attraverso l’implicito riferimento alla gens Iulia, da un’iscrizione dal Fayum di dedica al dio Coccodrillo (termine cronologico post quem il 44 a.C.): A nome della divina Cleopatra che ama suo padre e del divino re Tolemeo Cesare [ = Cesarione] che ama suo padre e sua madre, e dei loro antenati, al 178 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA divino grande Souchos, grande padre del loro padre (Supplementum Epigraphicum Graecum 1998, n. 1981) Non mancarono prolungati periodi di distacco fisico e forse anche sentimentale fra il triumviro e la regina, né si è in grado di stabilire se i due si siano mai sposati con una qualche cerimonia ufficiale; si ricorderà del resto che Antonio aveva in Ottavia una moglie dalle parentele quanto mai ingombranti e temute, per di più giovane e bella, ciò che suscitava apprensione femminile in Cleopatra. Già prima di Nauloco, proprio la carta di assecondare il desiderio di Ottavia di recarsi dal marito fu giocata con abilità provocatoria dal figlio adottivo di Cesare (Plutarco, Vita di Antonio 53). Ottavia fu accompagnata da una porzione minima delle truppe di rinforzo promesse a Antonio quale contraccambio del suo sostegno durante la guerra con Sesto Pompeo. Antonio era a un bivio, giacché gli atteggiamenti coniugali verso Ottavia simboleggiavano prese di posizione politiche di ben più ampio raggio. Senza respingere i pur modesti rinforzi, egli invitò la moglie, arrivata sino ad Atene, a fare dietrofront verso Roma, il che equivaleva a un ripudio; era ben conscio delle conseguenze di tale decisione. Su di essa giocarono considerazioni erotiche e più fredde valutazioni politiche, scettiche rispetto alla possibilità di ricucire con Ottaviano, il quale peraltro inizialmente non dette segni di percepire come un oltraggio la ripulsa della sorella: sino al 33 i rapporti con Antonio furono improntati a relativa correttezza formale e la stessa Ottavia assorbì il colpo mantenendo un comportamento da madre di famiglia ineccepibile. Dal 36/35 in poi, Antonio e Cleopatra condivisero con intensità la loro vicenda affettiva e le loro esperienze di personalità pubbliche. Non c’è scissione possibile tra componente umana e componente politica, perché una distinzione del genere, da qualunque dei due versi la si prenda, è un’esigenza di classificazione schematica. Che Antonio fosse preso nei lacci dell’innamoramento più di quanto non lo fosse la regina è possibile, ma non c’è motivo di arrivare al punto di fare di lui un uomo completamente stregato e di lei una cinica simulatrice attenta soltanto ad allargare il peso politico dell’Egitto, a meno di far propria – ancora una volta – un’immagine della relazione fra i due alimentata artificiosamente da certa pubblicistica. Nel trasformare l’Egitto di Cleopatra nel regno vassallo più potente dell’area semiticoorientale, il triumviro non agiva più per rafforzare l’impero romanoitalico (per il quale credenziali soverchianti andava ormai acquisendo Ottaviano), ma in definitiva spingeva per obiettivi autonomi con ogni probabilità ora incentrati nel conferire nuove basi geopolitiche all’im179 LA CITTÀ E L ’ IMPERO pero romano. Adeguandosi a Cleopatra ‘Nuova Iside’, Antonio percorreva la strada della divinizzazione del potere; come in passato altri sovrani greco-orientali (fra i quali Mitridate Eupatore), portò il titolo e si fregiò delle immagini esteriori, scolpite anche in statue monumentali, di ‘Nuovo Dioniso’ (Velleio Patercolo, Storia Romana II 82, 4; Plutarco, Vita di Antonio 54, 9; 60, 5; cfr. Cassio Dione, Storia romana L 5). In Egitto poi, il dionisismo era particolarmente popolare, celebrato all’interno delle quadriennali Ptolemaia ellenistiche, quando davanti a strade gremite di folla in festa sfilavano carri pieni di immagini, animali, persone vestite con tutte le ricchezze del regno, e infine un colosso di Dioniso, trainato da decine e decine di uomini, che dall’alto versava generoso vino da un gigantesco orcio 16. Ma nonostante tutto, a conferma della complessità del personaggio, Antonio non rinnegò la sua matrice culturale e politica di imperator romano provvisto di legioni, togato, triumviro (come almeno per un certo periodo è chiamato su conî egiziani: triōn andrōn). 9.4 La guerra dei mondi La vittoria su Sesto Pompeo fu seguita da altre guerre in Spagna, lungo le fasce alpine e in Illiria: queste campagne volute o condotte da Ottaviano servivano a dare sicurezza ai confini e anche per tenere pronte e allenate le legioni. Ottaviano appariva sempre più uomo provvidenziale per le sorti dell’Occidente, soprattutto se si comparavano con quanto andava accadendo nell’altro settore del Mediterraneo. Nel 36, dopo Nauloco, aveva dichiarato la fine delle guerre civili, significando anche, è lecito supporre, la cessazione dell’emergenza che aveva presieduto all’instaurazione del governo triumvirale: Lepido, del resto, era stato estromesso e Marco Antonio era avvertito che, di fatto, gli accordi del triumvirato confermati a Taranto erano obsoleti (di fatto: formalmente l’organismo non era stato sciolto). Viceversa, Antonio si tratteneva in Oriente, dove però non riusciva a ottenere la gloria militare e dove la complicità con Cleopatra rendeva la sua posizione ambigua se non minacciosa per la sopravvivenza di Roma e dell’Italia come centro dell’impero mediterraneo. Come è noto, il Leitmotiv dell’incalzante propaganda di Ottaviano – sviluppata nei suoi discorsi pubblici e capillarmente diffusa mediante tutti gli strumenti di comunicazione e i simboli disponibili all’epoca, ivi compreso l’uso del linguaggio delle arti figurative – era quello di un vero e proprio scontro tra mondi e civiltà. Paladino e difensore dei più 180 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA austeri valori romano-italici, delle istituzioni repubblicane, dell’Urbe come capitale (dove dal 35 in poi ebbe un forte impulso la costruzione di strutture edilizie di utilità o di monumenti che marcavano l’impronta della gens Iulia sull’architettura urbana) 17, il figlio adottivo di Cesare faceva di tutto per sensibilizzare l’opinione pubblica verso il rischio di una metamorfosi completa della res publica in una corte concepita alla maniera ellenistica. Da questa prospettiva, non si può sopravvalutare la notizia, apparentemente in controtendenza rispetto al tema del trasferimento della sede dell’impero (cfr. supra, PAR. 2), della presunta intenzione cleopatriana di “dare le leggi” dal Campidoglio, intenzione che potrebbe rivelare l’inclinazione, o la disponibilità, della regina ad esercitare la sua autorità giurisdizionale da Roma una volta ottenuta la vittoria. Non si può stabilire neppure, d’altronde, per mancanza di indizi concreti, quanto l’ideologia ottavianea avesse fondato sentimenti patriottici o invece ne cavalcasse di preesistenti (almeno nei ceti in grado di attingere alle informazioni su quanto accadeva nel mondo) e ostili alle tendenze orientalizzanti di Antonio, percepite come un tradimento della romanità. In genere le guerre esplodono perché stanno nell’ordine delle cose e più facilmente quando, stando nell’ordine delle cose, qualcuno crede di trarne vantaggio. La maggioranza dei senatori era schierata dalla parte di Ottaviano. Nel 33, i clan legati ad Antonio non dovevano aver perso ogni capacità di pressione e di incidenza nella politica romana se i consoli ordinari del 32 furono due antoniani della prim’ora, Gaio Sosio e Gneo Domizio Enobarbo, con i quali il triumviro aveva continuato a tenere contatti (Cassio Dione, Storia romana XLIX 41, 4). Il 1o gennaio, all’atto dell’insediamento consolare, Sosio svolse in senato un’orazione violentemente antiottavianea. L’atmosfera si fece presto rovente e Ottaviano poco tempo dopo si presentò nella curia con un seguito armato. Ci si è chiesti se si trattava di un colpo di stato: perché no, a patto di ammettere che la storia romana degli ultimi decenni era stata un susseguirsi di colpi di stato. Comunque fosse, la sua linea politica andava nel senso, oltre che di considerare Antonio decaduto dal triumvirato, di impedire la prevista sua nomina al consolato del 31, per sottrargli la possibilità di detenere un imperium legale. Frattanto, i due consoli e circa trecento senatori (un ordine di grandezza approssimato per eccesso) di fede antoniana avevano deciso di recarsi in Oriente per partecipare alla preparazione della guerra. Enobarbo si pentì della scelta, e non fu il primo né il solo: le diserzioni di molti amici, come quella di Munazio Planco, erano sintomo che la “nave stava affondando”, sintomo forse ai protagonisti reso più palpabile dal contatto diretto con la realtà 181 LA CITTÀ E L ’ IMPERO orientale, dove, contro l’opinione di molti, cocciutamente Antonio lasciava spazi di azione rilevantissimi alla basilissa egiziana. Planco informò Ottaviano che le vestali custodivano il testamento di Antonio e questo utile ritrovamento (così utile da far sorgere il sospetto di un falso antico) consentì una pubblica lettura ai romani: il testatore ribadiva la sua scelta ideologica orientale, fra l’altro chiedendo di essere sepolto, ovunque fosse deceduto, ad Alessandria, vicino a Cleopatra. Quando il suo grande avversario avviò la costruzione del proprio sepolcro monumentale, nel Campo Marzio, il contrasto emerse con assoluta evidenza. Antonio, sebbene non mancassero anche a Roma ammiratori dei suoi lussi, quale «magnifico spettacolo di felicità e di potere» (Plutarco, Opere morali 56 E), faceva fatica a stare al passo del formidabile battage propagandistico sviluppato in questo periodo da Ottaviano. A poco valeva che attraverso suoi emissari o mediante lettere si prendesse gioco degli oscuri natali del rivale o gli rovesciasse le accuse di lussuria. Di questo filone si rintracciano esili trame nella documentazione delle età successive, dominate invece dai racconti di fede ottaviano-augustea 18. Rispose inoltre ad una delle critiche più severe mosse a lui e alla sua compagna, quella di ubriachezza e di attitudini orgiastico-dionisiache, con un’orazione de ebrietate sua (non pervenutaci) 19. Infine, la guerra fu dichiarata ufficialmente a Cleopatra e all’Egitto: come sempre bene si sottolinea, quella che era di fatto una guerra civile ebbe i crismi legittimanti, sul piano etico e giuridico, di una lotta nazionale contro un nemico straniero. A sostegno del suo esercito e accanto alle province controllate dal figlio adottivo di Cesare, quasi tutte le comunità italiche pronunciarono a Ottaviano il loro solenne appoggio politico e militare (coniuratio totius Italiae; cfr. Res Gestae Divi Augusti 25, 2), per il tramite delle loro magistrature locali spesso rivestite da ex militari a lui vicini e dalle quali attingerà in buona misura per infornate nel senato di nuovo conio augusteo. Checché ne dicesse Ottaviano ormai Augusto nella grandiosa iscrizione sulle sue ‘imprese’ (Res Gestae) applicata lungo le pareti del suo mausoleo e composta durante il suo principato (l’ultima revisione è del 13 d.C. circa), non si trattò certamente di una pronuncia sempre entusiasta e spontanea: in posti nei quali Antonio vedeva ancora suoi supporters in maggioranza, si poteva opporre un rifiuto. La tolleranza mostrata in casi simili – è noto quello di Bologna (Cassio Dione, Storia romana L 6, 3; Svetonio, Vita di Augusto 17, 2) – si spiega con la loro rarità, con la valorizzazione del consenso raggiunto mostrando che dissenso poteva esistere, e anche 182 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA per rispetto istituzionale dei legami di clientela che nello stesso momento costituivano il fondamento del rapporto tra le comunità italiche e il loro dux 20. 9.5 Il trionfo di Ottaviano: la battaglia di Azio Fu Antonio a muovere dalla base di Efeso verso la Grecia. Il suo piano prevedeva l’attacco dell’Italia, con il supporto delle altre città dell’Asia Minore e dei principi orientali che gli fornivano assistenza. In questa fase operativa della deflagrazione del conflitto, l’esercito antoniano – il cui spostamento richiese, come in casi analoghi, un mastodontico sforzo organizzativo – ammontava verosimilmente a oltre 250.000 uomini, tra fanteria, reparti equitati e la poderosissima flotta 21. Spostò le basi principali lungo la costa dalmata-albanese e presso isole ionie come Corfù. Una quantità consistente di truppe era stazionata davanti alle coste dell’Epiro, esattamente nel golfo di Ambracia. Davanti al promontorio di Azio, in uno stretto che consentiva il coordinamento tattico e il collegamento con le strutture logistiche di terra, avvenne decisivo il 2 settembre del 31 lo scontro navale, dopo una lunga fase di blocco. Il principale campo di Ottaviano era spostato poche decine di chilometri a nord. Si trattò di una battaglia tra navi enormi, quelle di Antonio, dotate di molti artiglieri bene equipaggiati e armamenti da lancio come le catapulte, e la flottiglia più agile diretta da Agrippa per conto di Ottaviano, l’obiettivo della quale era danneggiare le strutture degli scafi nemici mantenendosi in alto mare onde evitare che la battaglia potesse trasformarsi in un corpo a corpo terramaricolo. La tattica riuscì perfettamente. Voci di matrice repubblicana o antoniana, comunque sensibili alla virtus combattente come fattore di legittimazione del primato politico, riaffioreranno nella tradizione secondo cui Ottaviano «vinse ad Azio facendo altro» (cfr. Panegirici Latini 9, 10; 6, 13, ed. Galletier). Però, nei fatti, politicamente fu un tripudio. Antonio e Cleopatra scelsero la fuga verso Alessandria, nella vana speranza di riuscire ad allestire una rivincita. Il resoconto delle nostre fonti, per esempio Plutarco, di tutta la fase successiva ad Azio mostra una Cleopatra colpita sinceramente dalla disgrazia di Antonio e non solo per le conseguenze che avrebbe avuto sulla propria fortuna. Sono pure fantasie “giallistiche” le teorie di una Cleopatra che avrebbe infine tradito Antonio rendendosi responsabile della sua morte. Alcuni mesi dopo, una volta arrivate le truppe 183 LA CITTÀ E L ’ IMPERO di Ottaviano, i due si uccisero, a distanza di pochi giorni e in frangenti controversi ma legati. L’Egitto divenne a tutti gli effetti un territorio romano 22. Il dio Febo Apollo avrebbe presieduto al successo di Ottaviano ad Azio e su quel sito fu fondata una nuova ‘città della vittoria’, Nicopoli, dove si tennero ludi in commemorazione di un evento che sarà celebrato solennemente dall’arte augustea. Dalle elegie “romane” di Properzio, si apprezzano alcuni squarci trasfigurati poeticamente dell’intera vicenda di Roma tra Oriente e Occidente prima e dopo la battaglia, che non a caso sarà calcolata anche in alcune regioni come anno 1 di una specifica èra (non si riporta la divisione in versi): Due mondi si scontrarono; gli scafi erano fermi sull’acqua, ma alle navi non eguale l’auspicio. Votata era una flotta al troiano Quirino e una mano di donna brandiva abbiette armi. Qui la nave di Augusto, col presagio di Giove a piene vele e, a vincere assuefatte, le insegne della patria [...]. Roma fidente in Febo vince, trova la femmina il castigo, l’onda ionia trasporta infranti scettri. E il padre Cesare che osservava dall’astro Idalio: “Un dio io sono; ne fa fede siffatta discendenza”. Tritone lo accompagna col canto ed ogni dea del mare applaude attorno alle libere insegne. Ella va verso il Nilo, da nave in fuga mal sorretta, questo solamente volendo, morire di sua mano. Meglio era se gli dèi lasciavano che fosse nel trionfo tratta lungo la via dove un tempo Giugurta! E fama ottenne Febo da Azio, poi che vinse con una sola freccia lanciata, dieci navi. Ma basta con la guerra; vuole la cetra Apollo vincitore e nei placidi cori lascia le armi. Sia splendente il convito nel tenero boschetto, cadano dolcemente sul mio collo le rose, dai torchi di Falerno esca premuto il vino, la spiga di Cilicia mi inondi per tre volte le chiome. E che l’ingegno nei poeti assopiti provocare voglia la Musa; Bacco, sei fertile al tuo Febo. L’uno scriva i Sicambri nelle loro paludi sottomessi, ma l’altro canti Meroe, gli etiopi oscuri regni, un altro il Parto, lento nei patti e a darsi vinto. “Renda presto le insegne di Remo e dia le sue”. Pur se Augusto risparmia le orientali faretre, che affidi ai propri figli queste vittorie. Godi, Crasso, se ancora intendi tra le sabbie insidiose del deserto: si può lungo l’Eufrate andare al tuo sepolcro. Così tra coppe e canti io passerò la notte finché il giorno diriga i raggi sul mio vino (Properzio, Elegie IV 6, vv. 19-24; 57-86; trad. G. Leto) 23. Note 1. Livio, Perioche 124; Plutarco, Vita di Bruto 40 ss.; Appiano, Le guerre civili V 1, 3. Per il fitto intreccio degli eventi evocati anche in questo capitolo la narrazione classica è Syme, Rivoluzione. 2. Virlouvet, Fulvia. 184 9. LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA 3. Volponi, Sfondo; per una prospettiva archeologica sugli insediamenti dei veterani cfr. Keppie, Colonization; prospettive di poeti (opposte) sulla guerra e i suoi prodromi: Properzio, Elegie I 21-22; Virgilio, Egloghe IV. 4. Cluett, Roman Women. Questo matrimonio, che sembra sia stato anche d’amore, permetteva ad Ottaviano di legarsi a due prestigiose gentes, la Claudia e la Livia. 5. Su Lepido cfr. da ultimo Allély, Lépide; sulla sua «eliminazione politica», ivi, pp. 189-92. 6. Improbabile che si trattasse di una inviolabilità magistratuale; il passo è Cassio Dione, Storia romana XLIX, 38, 1. Sul triumvirato cfr. in generale Gara, Foraboschi, Triumvirato; Pelling, Period. 7. Sulle campagne antoniane in Oriente: Plutarco, Vita di Antonio 37-52; Cassio Dione, Storia romana XLIX 24-33. Esagera Plutarco, Vita di Antonio 34, 3, nel parlare del successo del 38 come di «piena vendetta delle disgrazie di Crasso»; sull’incancellato disonore procurato dall’evento cfr. ancora gli echi tardoantichi in Zosimo, Storia nuova III 32, 3. 8. Di tale riordino abbiamo tracce epigrafiche, per esempio Orientis Graeci Inscriptiones Selectae 453. 9. Brambach, Cleopatra, pp. 192-4; David, République, pp. 257-9. 10. Profilo biografico in Traina, Marco Antonio; approfondimenti su aspetti e bibliografie aggiornate nella miscellanea Traina, Studi. 11. Sulla fortuna di Cleopatra nella cultura moderna cfr. Hughes-Hallett, Cleopatra e brevemente Clauss, Cleopatra, pp. 115-22. 12. Un ritratto sfumato dell’ethos e della psicologia di Antonio, in Scuderi, Antonio. 13. Su quest’ultimo aspetto: Clauss, Cleopatra, pp. 46-8. 14. Clauss, Cleopatra, pp. 109-14. Iconografia di Cleopatra: Kleiner, Cleopatra. 15. Plutarco, Vita di Antonio 27; Cassio Dione, Storia romana XLII 34, 4-5; Brambach, Cleopatra, pp. 79-81. 16. Callisseno di Rodi, in Ateneo, I sofisti a banchetto V 25-35; Virgilio, Lancia, pp. 101-2. 17. Zanker, Augusto, pp. 71-84. Fondamentale fu l’attività di Agrippa, già console “tornò indietro” nel cursus honorum per poter rivestire l’edilità nel 33 e provvedere a una significativa riorganizzazione delle infrastrutture; cfr. ad esempio Eck, Augusto, pp. 37-8 e Fraschetti, Augusto, pp. 75, 81. 18. Charlesworth, Fragments. 19. Scott, Propaganda. 20. Su questa fase cfr. per esempio Jacques, Scheid, Roma, pp. 16-9; Eck, Augusto, pp. 33-41; per la propaganda nelle arti figurative cfr. Zanker, Augusto, pp. 62-71. 21. Cifre in Clauss, Cleopatra, p. 84. 22. Su Azio cfr. Velleio Patercolo, Storia romana II 84-87; Plutarco, Vita di Antonio 63-68 e specialmente Cassio Dione, Storia romana L 15-35. Il racconto delle morti di Antonio e Cleopatra può essere piacevolmente letto in Brambach, Cleopatra, pp. 326-45. Azio al centro di un discorso più generale: Gurval, Actium. 23. Affideremo agli inizi della prossima parte, dedicata al passaggio tra repubblica e principato, il necessario riepilogo sul complesso di concause del collasso finale della repubblica, culminato con Azio. 185 Parte terza L’impero da Augusto agli Antonini (31 a.C.-192 d.C.) 10 Augusto e la fondazione del principato I primi due secoli della nostra èra, sino a Marco Aurelio (161-180) e suo figlio Commodo (180-192), sono tradizionalmente ritenuti un periodo di prosperità del governo di Roma retto da una forma di monarchia moderata, e contrapposti a una fase di maggiori difficoltà a vari livelli, culminata nella crisi della metà del III secolo e poi approdata, con le riforme di Diocleziano, a un sistema nel quale il sovrano era visto come padrone unico dello Stato (Dominus) 1 e i suoi poteri avevano un fondamento teocratico più dichiarato che in passato. Queste distinzioni genericamente tratteggiate meriterebbero una serie di riflessioni critiche. Esse stanno a fondamento della terminologia con la quale si definisce tradizionalmente questo periodo ‘alto impero’ o ‘principato’. Di esso seguiremo la genesi, e in dettaglio l’opera dell’uomo che la segnò, facendone uno spartiacque della storia romana. 10.1 La “rivoluzione romana” e la res publica Nel proemio alla Storia di Roma dalla sua fondazione, Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) inserì una formulazione tanto celebre quanto di viva universalità. Nell’evocare il degrado della società romana affermò che ormai «si è arrivati a questi tempi, nei quali non siamo più in grado di tollerare né i nostri vizi né i rimedi ad essi» 2. Non è chiaro a cosa in concreto alludesse Livio con questa enigmatica frase, non priva forse di una punta polemica: forse al fatto che le risposte della politica, come si direbbe oggi, non erano state in grado di salvare Roma dall’emergenza mantenendone l’ordinamento a guida del senato? Che l’interpretazione moralistica liviana sulle cause della crisi tardorepubblicana (analoga a quella più articolata di Sallustio) fosse o meno quella corretta, non c’è dubbio che nel secolo dopo i Gracchi fossero intervenuti notevoli mutamenti, che è utile ricordare: l’ingresso della 189 LA CITTÀ E L ’ IMPERO violenza e del più aggressivo giustizialismo nell’agone politico, l’accentramento dei poteri politici fondati su seguiti personali in grado di forzare il funzionamento delle istituzioni, l’inedito rimescolamento delle élites dirigenti legato al peso assunto a vari livelli dall’Italia, con un importante e rinnovato quadro della distribuzione delle ricchezze, anche in rapporto col fatto che l’antica classe senatoria era stata in parte rovinata dalle guerre intestine. Quest’ultimo punto è al centro del libro dello studioso anglosassone Ronald Syme, pubblicato nel 1939 col titolo The Roman Revolution (‘La rivoluzione romana’): libro epocale per l’interazione tra descrizione storica e schema interpretativo, abbastanza avvincente nonostante il complicatissimo plot. Durante la transizione che portò all’instaurazione del suo regime, Ottaviano Augusto avrebbe ottenuto il pieno supporto dell’Italia, delle comunità più dinamiche della Penisola, di molte famiglie equestri e delle notabilità municipali; questi nuovi protagonisti (singoli e collettivi) delle dinamiche politiche saranno poi decisivi per garantire stabilità e consenso al suo governo. Successivamente, Syme attenuò il suo modello basato sul duplice dato della costituzione di un partito personale ottavianeo e della supremazia degli italici sulla nobiltà romana, e anche altri studiosi misero in rilievo come l’alta aristocrazia senatoria avesse continuato a esercitare una notevole influenza politica e come pure bisognasse evitare di lasciare sullo sfondo altri elementi (i fattori economici, il ruolo dell’esercito) 3. La morte di Cesare, nel 44, fu un evento che condusse a una fondamentale cesura per la storia di Roma antica: il passaggio dalla repubblica al principato. Questa cesura e questo passaggio non devono intendersi come determinabili cronologicamente a un momento storico esatto, essendo il risultato di un processo pluridecennale che iniziò prima di Cesare e finì dopo Augusto. Ma a cosa ci riferiamo con il termine ‘principato’? Cosa, di essenziale, cambiò con il regime di Ottaviano Augusto rispetto alla forma di stato repubblicano? Quale fu il contributo, quanto a nuove basi politiche, culturali e amministrative, di Augusto a un mondo romano che egli vantava di avere restaurato attenendosi al modello della res publica tradizionale (si noti che le fonti greche la chiamano demokratía)? Proprio la nozione di res publica, a Roma, estremamente complessa, sopravvisse come fattore legittimante in epoca imperiale, paradossale e puramente retorico perché i suoi legami con quel tipo di sistema fondato sull’annualità della magistrature, su una misura di controlli reciproci tra istituti e cariche, sul ruolo guida del senato erano sostanzialmente venuti ad affievolirsi sino a mancare. L’idea col suo nome sopravvisse nell’antichità romana imperiale (e persino ad essa) sulla base di una strana finzione – il principe come 190 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO incarnazione della res publica anche nelle sue forme tradizionali –, alla quale fu proprio il periodo che ci accingiamo a studiare che dette la sua impronta giuridica e pragmatica essenziale 4. 10.2 I poteri di Augusto principe e imperatore La genesi del nuovo regime ebbe una gestazione protratta e si attuò per tappe successive nell’arco di vari decenni. La “microfisica” dei poteri che lo sorreggevano era data da uno stato d’eccezione parzialmente dissimulato: dall’accentramento su di sé di una serie di titoli e funzioni, prerogative giuridiche tipiche di specifiche cariche svincolate o meno dalla rivestitura delle cariche stesse, le somme responsabilità militari, e poi una miscela di componenti quali poteri religiosi, mitizzazione della sua figura, studiatissima e capillare organizzazione di un consenso convogliato più facilmente su una personalità dotata anche di grandi capacità di amministratore. La forma di governo che definiamo comunemente principato fu probabilmente così chiamata dal ruolo di primo dei senatori, princeps senatus, riservato a Ottaviano dal 28 a.C. 5. Nel gennaio del 27 a.C., egli dichiarò di voler rimettere nelle mani dello stesso senato tutti i poteri di cui aveva continuato a disporre dopo Azio (consolato, titolo di imperator a vita ricevuto nel 29, inviolabilità personale). Il senato rifiutò e per contraccambio gli conferì ufficialmente la denominazione di Augusto (Sebastós nel mondo greco; su come si arrivò alla scelta, cfr. Cassio Dione, Storia romana LIII 16, 6-8), che etimologicamente si ricollegava a nozioni di sacralità e di eccellenza 6. Insieme, in suo onore fu esposto nella Curia Iulia uno splendido scudo aureo con l’incisione delle quattro virtù cardinali del suo potere: virtus, clementia, iustitia, pietas verso gli dèi e la patria 7. Poi, nel 23, abbandonato il consolato che iterava dal 31, Augusto ottenne il supremo comando degli eserciti (imperium proconsulare maius), e i poteri dei tribuni della plebe (tribunicia potestas). Dal 22 al 19 fu fatto responsabile dell’approvvigionamento urbano, ebbe una cura sui costumi e forse altre prerogative. Un elemento di straordinarietà dell’esperimento augusteo risiedeva nel fatto che rimaneva nel solco della tradizione repubblicana, in quanto attingeva a istituzioni già esistenti, ma al tempo stesso operava in modo rivoluzionario: scorporava l’esercizio delle attribuzioni delle cariche dalla loro piena titolarità. Aveva per esempio una sorta di proconsolato anomalo ed esteso e i poteri dei tribuni senza essere effettivamente tribuno, senza essere dunque sottoposto ai limiti 191 LA CITTÀ E L ’ IMPERO dell’annualità e della collegialità. Poteva così assommare più poteri contemporaneamente e vedersi garantita un’amplissima sfera d’azione sia in ambito militare che civile. In questo contesto non si può dimenticare la centralità attribuita a una nozione, tratta dalla stessa radice semantica del suo stesso cognomen: l’auctoritas, un tempo somma prerogativa politica e giuridica del senato, ora vocabolo che esprimeva una sorta di valore aggiunto che gli atti istituzionali, e non, del principe (e membro eccellente del senato stesso) avevano rispetto a quelli degli altri magistrati romani, e che qualificava Augusto come figura straordinaria, al di sopra dei concittadini in ogni campo dell’attività umana. Egli si autodefinì, alla fine delle sue Res Gestae Divi Augusti, per consenso generale «potente su tutte le cose», secondo una recente correzione alla tradizionale lettura di Mommsen 8. L’epiteto di ‘padre della patria’ (pater patriae) suggellò nel 2 a.C. la costruzione dei poteri augustei, richiamandosi a precedenti che lo avevano avuto – informalmente Cicerone, forse ufficialmente lo stesso Giulio Cesare – e configurando in termini benevolmente anomici ancora una volta le sue iniziative. Dell’importanza di questo titolo danno sufficiente prova le numerose e consapevoli fonti che ne parlano, e il fatto che i sovrani successivi lo assunsero come elemento costitutivo della loro nomenclatura (cfr. anche Res Gestae, 35) 9. Augusto non poteva essere un monarca di nome. Gli ordinamenti repubblicani erano presentati come restaurati. Il suo potere nei fatti era autocratico, ma a una, e sempre prudente, formalizzazione di un’effettiva superiorità del principe sulle leggi si arrivò solo molto dopo la sua morte 10. Il nuovo status rei publicae non esautorava il senato e i senatori, visti ancora come componente primaria e irrinunciabile del ceto dirigente (cfr. CAP. 11) e mentre i comizi elettorali romani andavano anche ufficialmente svuotandosi della loro autonomia a causa dell’inaugurazione di una prassi fortemente condizionante delle candidature volute dal principe, le magistrature tornarono più o meno a lungo e regolarmente in funzione. La questione se sul piano costituzionale l’ordine augusteo fosse o no una monarchia, un aspetto percepito ma trascurato durante il I secolo d.C. (almeno sulla base delle opere letterarie pervenuteci), ricevette risposte positive da autori latini e greci come Tacito, Appiano, Cassio Dione, vissuti nel II e nella prima metà del III secolo; presso costoro, la monarchia, caratterizzata quale regime più o meno moderato a seconda degli autori, era stata ed era una necessità storica, di cui casomai era giudicata ipocrita e nominalistica la finzione che non lo fosse 11. 192 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO La religione era un complemento necessario al modello di potere augusteo e è emblematico che il principe si autorappresentasse nelle sue Res Gestae come grande restauratore di culti. Tale opera fu realizzata per esempio col ripristino di nobili e decadute sodalità come i Fratres Arvales (per i quali l’epigrafia ci ha restituito importanti verbali delle riunioni) o i sodales Titii, e il consolidamento del ruolo dei quattro maggiori collegi sacerdotali (PARR. 2.4, 5.2); egli vantava inoltre di avere ridato all’Urbe una architettura religiosa mai vista prima, con nuove costruzioni di luoghi di culto e il restauro di tutti i santuari che ne avevano bisogno, senza trascurare il decoro dei templi in altre parti del globo (Res Gestae 20, 4; cfr. 24). Nel 12 a.C., Augusto ottenne infine il pontificato massimo, il più elevato sacerdozio romano, alla morte del vecchio ex triumviro Lepido che lo aveva detenuto sino ad allora, secondo la tradizione di un incarico vitalizio di cui il principe aveva voluto mostrarsi rispettoso. 10.3 Forme di culto dell’imperatore Oltre alla discendenza semidivina da Cesare, Divi filius, alle preghiere sacerdotali e ai giuramenti e ai voti pubblici che lo menzionavano 12, molti onori di tipo quasi divino furono decretati al principe. A Roma e in Italia, dove sarebbe stato imprudente poiché contrario alla sensibilità tradizionale, egli non autorizzò sacrifici rituali in propria celebrazione, identificazioni esplicite con dèi e che fossero eretti templi a lui solo dedicati, ma ammise il culto di divinità “domestiche”: del suo Genius, dei suoi Lari, di se stesso in associazione con la Dea Roma. Altrove incentivò, a volte con spregiudicatezza, a volte pure in modo mascherato, il culto alla sua persona e alla altissima funzione che incarnava. Sin da Augusto nacque perciò il culto imperiale 13. L’imperatore romano era di solito da un lato accostato a figure divine o eroiche, dall’altro era responsabilizzato nei suoi comportamenti, e l’eventuale assenza di virtus o, peggio, i suoi eccessi immorali spesso lo facevano decadere, agli occhi di molti, riuscendo a procurarne una rapida disgrazia, o dopo la morte il diniego dei requisiti di merito per avere l’apoteosi (su tale cerimonia, un bel passo in Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio IV 2, d’ora in poi Storia dopo Marco). Il culto imperiale si sviluppò nel corso del principato pervenendo a una organizzazione abbastanza precisa, con appositi templi, cerimo193 LA CITTÀ E L ’ IMPERO niali e sacerdoti attivi sia a livello cittadino sia provinciale. Ad esso erano nelle province istruttivamente congiunte – congiunzione di religione e amministrazione – assemblee annuali dove si riunivano “rappresentanti” (sulla cui scelta non sappiamo quasi nulla) delle singole città; si tenevano festeggiamenti in onore del sovrano nei capoluoghi provinciali o in altre città elette a tale privilegio, ma insieme le assemblee provinciali giudicavano l’operato del governatore e emettevano documenti nei quali esprimevano i loro desiderata (cfr. PAR. 14.3). Se in Oriente la divinizzazione delle grandi personalità viventi era un fenomeno che rifletteva attitudini tradizionali, nell’Occidente extraitalico un culto diretto dell’imperatore vivente non si realizzò mai appieno. Da un punto di vista sostanziale, gli si avvicinavano molto però i cerimoniali per il Numen, il Genius o altre entità astratte legate alla persona e al ruolo del sovrano; tali celebrazioni ebbero un impulso particolare non a caso nelle aree meno romanizzate, dove di fatto era più urgente stimolare il lealismo e il rispetto verso l’impero e la famiglia imperiale. A Narbona, centro di precoce romanizzazione (cfr. PAR. 6.4), l’anno 11 d.C., l’iniziativa di edificare un altare per Augusto sembra partisse dalla popolazione: Sotto il consolato di Tito Statilio Tauro e Lucio Cassio Longino, il 22 di settembre, al nume di Augusto, voto preso dalla plebe di Narbona in perpetuo: “che tutto sia buono, fausto, favorevole per l’imperatore Cesare Augusto, figlio di un divo, padre della patria, pontefice massimo, nella sua trentaquattresima potestà tribunizia, e per sua moglie, i figli e la famiglia, e per il Senato e il popolo di Roma e per i coloni e gli abitanti della Colonia Giulia Paterna di Narbona Marzia, che si sono obbligati a rendere il culto al suo nume in perpetuo. La plebe di Narbona ha eretto un altare nel foro di Narbona, presso il quale ogni anno il 23 settembre – il giorno nel quale la felice sorte dei tempi generò il rettore del mondo – tre cavalieri romani, scelti dalla plebe, e tre liberti sacrificheranno un animale ognuno e forniranno a proprie spese in quel giorno ai coloni e ai residenti incenso e vino per la supplica al suo nume. E il 24 settembre essi allo stesso modo forniranno incenso e vino per i coloni e i residenti e anche l’1 gennaio. Anche il 7 gennaio – il giorno nel quale egli per la prima volta prese gli auspici del suo impero del mondo – essi faranno una supplica con incenso e vino e sacrificheranno un animale ognuno e daranno incenso e vino ai coloni e ai residenti, in quel giorno. E il 31 maggio, dal momento che in quel giorno, sotto il consolato di Tito Statilio Tauro e Manio Emilio Lepido, egli riconciliò la plebe con i decurioni, essi sacrificheranno una vittima ognuno e forniranno ai coloni e ai residenti incenso e vino per la supplica al suo nume” (Corpus Inscriptionum Latinarum XII 4333 = Inscriptiones Latinae Selectae 112; segue un’altra sezione dell’epigrafe) 14. 194 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO 10.4 Guerra e pace Dopo la vittoria su Marco Antonio, l’esercito romano fu riportato al numero totale di 26 e poi 28 legioni, alle quali erano attaccati cospicui contingenti di truppe ausiliarie (auxilia) reclutate fra le popolazioni sconfitte e meno romanizzate. L’esercito di terra contava circa 300.000 uomini. Non essendo un generale di grande valore, Augusto si circondò di comandanti ottimi (per lo più legati alla casa imperiale), che con una serie prolungata di campagne gli permisero di dare la indispensabile aura di legittimazione militare al suo potere. Le spedizioni dovevano in primo luogo completare la pacificazione dei territori e proteggere l’Italia dal rischio di attacchi nemici, ma anche operare per la conquista di nuove regioni ampliando così i confini dell’impero. Non è qui possibile andare oltre una rapida elencazione dei principali fronti di intervento: l’Africa settentrionale e la Penisola Iberica nord-occidentale, dove le forze romane intervennero a più riprese per reprimere rispettivamente insurrezioni di tribù berbere e la coriacea resistenza delle popolazioni indigene di asturi e cantabri; il controllo dell’arco alpino, ultimato nel 14 a.C. dopo l’assoggettamento di quarantasei (!) tribù locali (Plinio il Vecchio, Storia naturale III 24, 136-137; dell’iscrizione originaria rimangono alcuni frammenti); nel settore danubiano le operazioni avviate nel 12 a.C. contro tribù indigene pannoniche, traciche, daciche ecc. garantirono faticosamente (una rivolta pericolosa costrinse i romani a sguarnire il fronte renano dal 6 al 9 d.C.) l’occupazione delle linee di comunicazioni terrestri tra l’Italia e la Macedonia, e riuscirono a provincializzare la Pannonia 15. Artefici maggiori di questi risultati furono Marco Vipsanio Agrippa, marito della figlia Giulia, e soprattutto Druso e Tiberio, figli di primo letto della moglie di Augusto, Livia. Fu in Germania che già nel 15 a.C. prese corpo il più ambizioso progetto della politica estera augustea, volto a occupare il territorio fra i fiumi Reno e Elba, forse percepito come limite avanzato e più sicuro. Il progetto non ebbe buon esito. Druso morì in Germania già nel 9 a.C., e nel 9 d.C., nella selva di Teutoburgo (il sito è di recente stato identificato su base archeologica nella collina di Kalkriese, a nord di Osnabrück), tre legioni guidate da Publio Quintilio Varo, governatore della provincia di Germania, furono distrutte da un’imboscata mossa dal Cherusco Arminio, che aveva anche approfittato della conoscenza delle tattiche nemiche, avendo militato fra gli ausiliari romani sino a pochi anni prima. Fu la più grave sconfitta in guerra su195 LA CITTÀ E L ’ IMPERO bita da Augusto. Da quel momento, i romani si dovettero attestare entro la linea del Reno e fu la fine del sogno di conquistare la Germania transrenana. A Oriente, il controllo del territorio era effettuato con buoni risultati sia dai governatori provinciali, sia dai principati “vassalli” di Roma. L’unico vero contraltare alla potenza romana era in questo settore il regno dei parti, che si estendeva al di là della Mesopotamia. Grazie alla pressione militare dell’esercito guidato da Tiberio nel 20 a.C. e ad abili trattative diplomatiche, l’Armenia, confinante coi parti e spesso sottomessa alla loro egemonia, nominò un re filoromano, incoronato dallo stesso Tiberio. Questa soluzione fu accettata dai parti, che restituirono a Roma le insegne strappate a Carre a Crasso nel 53 a.C. e una parte dei prigionieri sopravvissuti. L’evento, col quale si lavava l’onta di quella sconfitta, fu celebrato come un simbolo della grandezza del regime. Augusto, del resto, sapeva quanto contribuisse al rafforzamento del suo regime l’accentramento dell’ideologia della Vittoria – la Nike alata dell’iconografia greca, astrazione divinizzata anche a Roma: grazie al monopolio sulla presa degli auspici, i meriti militari erano ascritti innanzitutto al principe, al quale pure venne riservata la celebrazione dei veri e propri trionfi. Questa solennità continuava a essere percepita come di formidabile importanza. Lo si misura dal fatto che Augusto preferì personalmente astenersene (timori di suscitare critiche maligne sulla sua indegnità?), con una sola eccezione risalente al 29; allo stesso tempo stabilì che a chi non facesse a pieno titolo parte della sua domus fossero concessi altri tipi di onori militari, certo significativi (ovazioni, ornamenti trionfali) ma non altrettanto prestigiosi 16. Augusto fece passare come messaggio, più chiaro di quanto non fosse la realtà delle cose, di avere assicurato a Roma un perfetto equilibrio tra estensione dei confini dell’impero, sino ai massimi storici, e tranquillità interna ottenuta grazie a un efficiente controllo militare sul territorio. La conseguente pax Augusta, come pace universale, andava incontro alle comprensibili aspettative di tutti e si tradusse in uno slogan vincente del regime, ampiamente diffuso dalla letteratura e dalle arti figurative del tempo. L’Ara Pacis Augustae, l’altare recintato nel Campo Marzio settentrionale e dedicato nel 9 a.C., conteneva una serie di rilievi tesi a far risaltare l’armonia fra le varie componenti della società romana e della casa imperiale, nonché simbologie della prosperità universale conseguita 17. La pace fu esaltata anche in Res Gestae 13, dove si ricordava oltre all’Altare della Pace, l’unicità della triplice chiusura sotto il solo governo augusteo delle porte del 196 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO 14 Ara Pacis: pannello con la personificazione della Pax e simboli di fecondità FIGURA tempio di Giano, che tradizione voleva aperte quando lo Stato non era in pace ovunque per terra e per mare e chiuse solo due volte dalle origini di Roma 18. Il motivo della pace fu recepito anche al di fuori di Roma. Il cosmopolitismo dell’Urbe era già di per sé una garanzia da questo punto di vista, la fama di ciò che vi si vedeva era destinata a diffondersi dappertutto. Lo stesso testamento politico delle Res Gestae, epigrafe destinata a essere esposta all’esterno del Mausoleo di Augusto, fu poi riprodotto e reso pubblico anche nei centri provinciali, dove iniziarono a diffondersi altari con dediche per la Pax Augusta (o per la Securitas romana) vista come un numinoso portato del dominio romano. Non si perderà di vista, per evitare idilliache e superficiali immagini di un’età dell’oro romana indistintamente ammirata, che un serio limite alle nostre conoscenze è dato dal fatto che in questo come in casi analoghi nei quali si giocava la partita del consenso verso l’impero non ci sia dato sapere abbastanza sulla rappresentatività di tale tipologia di documenti provinciali e, in generale, del successo incontrato anche a Roma e in Italia dai prodotti di quella che era una «arte al centro del potere» (R. Bianchi Bandinelli). 197 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 10.5 Ecumene Il rapporto tra pace e ecumenicità nell’ideologia augustea è stato spesso sottolineato 19. Augusto – in linea con anteriori tradizioni di matrice tardorepubblicana, costantemente alimentate dalla incessante conquista (un esempio è la statua riferita a Pompeo con il globo in mano conservata a Palazzo Spada a Roma) – aveva una chiara visione ecumenica del dominio di Roma. Ne lasciò testimonianza diretta ancora una volta nelle Res Gestae (capp. 3; 25-33, cfr. infra, PAR. 8) e in scritti perduti, come il catalogo delle province delle milizie delle entrate ecc. noto come Breviario di tutto l’impero (Svetonio, Vita di Augusto 101, 4), oltre che nelle rappresentazioni allegoriche di varie opere d’arte del tempo e anche attraverso il contributo di scrittori a lui vicini 20. Per una ipotetica storia delle idee in età romana, il periodo augusteo è probabilmente quello durante il quale la tensione verso il “mai raggiunto prima” da nessun uomo o da nessun romano assunse un’incidenza più forte: c’era in questo la dimensione della primazia politica (come nel tempo della Guerra Fredda fu per i voli spaziali), c’era la dura volontà di sfruttamento, ma anche una positiva e nobile curiosità scientifica che va a tutto merito dei pragmatici romani. Chiamati a governare spazi di ampiezza comunque eccezionale (ma cfr., per l’illusione del dominio romano su tutto il globo, Cicerone, La repubblica VI 20, 22), il principe e i suoi collaboratori dettero impulso a nuove iniziative tese a migliorare le conoscenze delle terre sottoposte, di quello che i greci chiamavano oikoumene e i romani orbis terrarum. Complementariamente a viaggi ed esplorazioni spesso collegati con spedizioni militari, si sviluppò anche l’uso di dare rappresentazioni cartografiche delle regioni dell’impero. Così, con la cosiddetta “carta di Agrippa” (menzionata da Plinio il Vecchio, Storia naturale III 3, 16-17), il genero di Augusto fece esporre nella Porticus Vipsania nel Campo Marzio, con la piena consapevolezza degli effetti di suggestione che avrebbe avuto, una grande carta di forma rettangolare dell’ecumene da lui elaborata facendo tesoro dell’esperienza ellenistica in materia geografica, cosmografica e matematica. L’opera di inventariazione («inventario del mondo», C. Nicolet) non rispondeva soltanto a curiosità etnografiche, né alla volontà di mostrare visivamente ai sudditi la vastità del dominio romano, ma aveva anche concreti riflessi sui modi dell’amministrazione, giacché rendeva più agevoli censimenti e catasti (cfr. Vangelo di Luca 2, 1-7, dove si evoca il momento della nascita di Gesù; Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XVIII 1, 1-3), e consentiva forme di regestazione archivistica a scopi statistici e, in particolare, fiscali 21. 198 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO 10.6 Roma Durante le ultime lotte civili, voci ricorrenti (che avevano riguardato Giulio Cesare ancor prima di Antonio), alimentate ad arte ma non del tutto prive di fondamento, volevano che il baricentro della res publica fosse spostato da Roma all’Egitto. Si capirà con quanto impegno Augusto si adoperasse per confermare il ruolo di Roma quale sede del potere, anche in questa attitudine però sulla scia del padre adottivo 22. Innanzitutto, l’assetto urbanistico conobbe un capillare rinnovamento dell’edilizia sia civile (completamento della Curia Iulia, dove si riuniva il senato, rifacimento di settori del Campidoglio e di teatri, come quello di Marcello, portici, basiliche, miglioramento delle infrastrutture di utilità e in particolare degli acquedotti), sia sacra (il Mausoleo nel Campo Marzio, innumerevoli templi eretti o restaurati «senza trascurarne nessuno che avesse bisogno di essere allora ripristinato»; cfr. Res Gestae 19-21 e 22-23, su altre forme di liberalità del principe che ne plasmarono la relazione privilegiata con la plebe romana). Basta una passeggiata archeologica nella Roma di oggi per imbattersi in monumenti che confermano l’impulso dato dal primo principe all’edilizia pubblica e quanto uso avesse fatto del bel marmo di Carrara. Anche esponenti della casa imperiale intervennero con iniziative prestigiose a rimodellare l’aspetto dell’Urbe; un esempio famoso è quello del Pantheon di Vipsanio Agrippa 23. Lo spazio politicamente più importante e architettonicamente più imponente fu il Foro di Augusto (originariamente misurava 125 per 118 m). Realizzato grazie ai bottini di guerra, richiese vari decenni di lavori (fu progettato nel 42 a.C.) e fu inaugurato nel 2 a.C. La costruzione della monumentale piazza coniugava le funzioni tipiche dei fori romani di spazi destinati allo svolgimento della vita giudiziaria e commerciale con esigenze di natura celebrativa. I portici che la circondavano contenevano una serie di nicchie con statue marmoree e basi epigrafiche con gli elogi di uomini illustri e dei trionfatori della storia di Roma, fra i quali spiccavano gli appartenenti alla gens Iulia (compresi i suoi mitici antenati, come Enea), la famiglia di Giulio Cesare e del suo figlio adottivo Augusto. I contenuti delle iscrizioni erano controllati dal principe al quale era dedicata al centro del foro una statua trionfale su quadriga. L’ideologia militare del potere augusteo riceveva così una commemorazione solenne e perpetua davanti al popolo romano 24. L’adiacente tempio di Marte Ultore (da ultor, ‘vendicatore’) era il simbolo della vendetta operata da Augusto contro i cesaricidi, i congiurati delle “Idi di marzo” del 44 a.C. 199 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 15 Pianta del Foro di Augusto FIGURA Ma la cura per Roma si caratterizzò anche per l’attenzione prestata alle concrete esigenze amministrative di una metropoli che di molto superava il mezzo milione di abitanti e che aveva avuto uno sviluppo urbanistico incontrollato durante la tarda repubblica. Contro i frequenti incendi, legati all’uso del legno per le case e al caos con cui si viveva nei quartieri popolari, fu costituito un corpo di vigili e poliziotti notturni che si occupavano di controllare i quartieri romani (o, meglio, le ‘regioni’ di Roma, essendo la città stata topograficamente ripartita a scopi amministrativi in quattordici regiones comprendenti più quartieri, o vici) sotto la guida di un prefetto di rango equestre (praefectus vigilum) 25. Augusto migliorò il funzionamento del trasporto e della distribuzione degli approvvigionamenti, la responsabilità affidata a un prefetto annonario. Le distribuzioni di frumento ai cittadini romani, istituzione che risaliva già a Gaio Gracco, avevano 200 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO del resto un significato del tutto speciale, in buona misura simbolico, giacché il principe era tenuto per responsabile dell’alimentazione (gratuita o a prezzo ridotto) di una plebe che in questa pratica aveva modo di riconoscere la propria privilegiata identità. Il quadro dell’organizzazione urbana era completato da altre due cariche destinate a un grande avvenire. In caso di assenza da Roma, il principe doveva essere rimpiazzato da un supplente, il senatorio prefetto urbano (praefectus urbi), che aveva ai suoi ordini tremila uomini. Questa carica, presto attiva anche quando il principe risiedeva in città, col passare del tempo sarebbe divenuta la massima autorità amministrativa dell’Urbe e tale sarebbe rimasta fino al tardo impero. Due prefetti al pretorio equestri (praefecti praetorio), di nomina imperiale, furono preposti a una forza di circa diecimila uomini, suddivisa in coorti, il reparto militare più prestigioso, anche in quanto considerato guardia personale del principe. Reclutati, almeno in età giulio-claudia (cfr. PAR. 11.1), fra i giovani delle notabilità romano-italiche, i pretoriani percepivano uno stipendio ben più alto di quello degli altri soldati, compresi i legionari. I prefetti al pretorio assumeranno presto influenza a corte divenendo determinanti nelle vicende politiche e persino nelle lotte per le successioni al potere. Il primo emblematico esempio, al quale faremo riferimento nel prossimo capitolo, fu quello di Seiano, sotto Tiberio 26. 10.7 Italia Con la guerra sociale e la concessione della cittadinanza romana agli italici (90-89 a.C.), nel 49 a.C. estesa anche agli abitanti della Gallia Transpadana, la “terra di Saturno”, l’Italia peninsulare – la terra Italia, antica nozione da cui erano escluse le isole – aveva acquisito una precisa unità politica e era ormai da tutti riconosciuta come patria del popolo conquistatore dell’impero. Un greco autore di un’opera sull’interpretazione dei sogni, Artemidoro di Daldis (II secolo), scriveva una frase che avrebbe potuto benissimo applicarsi all’età augustea: «come il cielo è la casa degli dèi così l’Italia lo è dei sovrani» (L’interpretazione dei sogni II 68). Dell’Italia durante la prima fase dell’impero si elogiavano la collocazione geografica e l’ecologia, dotate di riflessi positivi sulla disciplina e semplicità incorrotta degli abitanti, a loro volta legate alle radici agrarie della società, sulle loro attitudini alla cultura, alla guerra ecc. 27. Questi motivi trovarono interpreti altissimi come Virgilio (specialmente Georgiche II, vv. 136-176). Convo201 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 16 Le strade dell’Italia romana durante il principato FIGURA 202 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO 17 Le regiones augustee FIGURA gliatore di questa ideologia filoitalica, invero non priva di forzature, Augusto accompagnò le laudes idealizzanti con vari benefici materiali e precise iniziative amministrative (cfr. l’importante anche se problematico passo svetoniano, Vita di Augusto 46). Augusto fu autore di un’apposita ricerca geografica (discriptio di tutta l’Italia), dalla quale scaturì una ripartizione dell’Italia in undici regioni: la nostra documentazione per un’epoca più tarda rende chiaro che le regiones, in origine costruite sulla base di apparentamenti 203 LA CITTÀ E L ’ IMPERO etnici, vennero a costituire circoscrizioni per la gestione della rete viaria, la riscossione dei tributi sulle eredità o quelle altre imposizioni fiscali straordinarie che riguardavano la Penisola e che vennero introdotte nel 6 d.C. con lo scopo di rinsanguare casse pubbliche che davano segni di devitalizzazione. In effetti, all’inizio dell’impero permaneva la posizione privilegiata dell’Italia rispetto alle province: essa era, con l’eccezione dei reparti di stanza a Roma e della flotta armata con basi a Ravenna e Miseno, smilitarizzata, non pagava da lungo tempo le più onerose (e un po’ umilianti) imposte dirette, non era sottoposta a governatori, i suoi prodotti e manufatti venivano esportati nelle province, incapaci per il momento, e lo saranno ancora per vari decenni, di competere sul piano economico. Non sembra che si possa, come pure da taluno è stato ammesso, riconoscere (e già per i tempi in esame) una divaricazione storica fra un’Italia settentrionale meglio organizzata e in espansione e un meridione strutturalmente inchiodato alla depressione, in particolare per quanto riguarda il funzionamento del sistema municipale 28. Le città italiche godettero per buona parte del principato in ordinaria amministrazione di una relativa autonomia, finanziaria e giudiziaria (cfr. PAR. 14.3). Soltanto in caso di conflitti tra città Roma procedeva con azioni repressive, e per gravi discordie interne i processi erano celebrati da magistrati dell’Urbe, come consoli o pretori. La maturazione di idee di parificazione fra la condizione giuridico-amministrativa dell’Italia e quella delle province si fece strada un poco per volta, anche nelle leve centrali dello Stato 29. Non si arrivò mai ad una equipollenza totale della Penisola e delle province, ma durante il II secolo furono istituite istanze intermedie – non si trattava di governatori – che per conto della corte controllavano più da vicino le finanze municipali (curatores rei publicae) e il sistema giudiziario (iuridici). Solo con il tardo III secolo – molta acqua doveva dunque passare sotto i ponti – vi sarebbe stato introdotto un pieno e inequivoco sistema provinciale, come vedremo 30. 10.8 Cambiamenti nell’organizzazione delle province Da Augusto, i principi presero sulle proprie spalle il controllo della maggioranza dei territori romani. Per di più essi avevano sempre la possibilità di intervenire ovunque ritenessero opportuno. Era così introdotta una rottura secca con il sistema amministrativo precedente (CAP. 7). Sino dal 27 a.C., le aree extraitaliche furono suddivise in due raggruppamenti maggiori, le “province imperiali” e le “province 204 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO pubbliche”, dette in alternativa “del popolo romano e del senato”. Il dato alla base dei cambiamenti di ossatura e di concezione dell’amministrazione provinciale era naturalmente in un modo o nell’altro connesso con la comparsa del princeps e imperator Augusto, dall’impianto della cui riforma avrebbero poi preso corpo con gli imperatori successivi ulteriori mutamenti nell’articolazione del quadro 31. PROVINCE IMPERIALI Sono definite province imperiali le province che l’imperatore volle sotto di sé anziché lasciarle alla titolarità del senato, in quanto in origine richiedenti una cospicua militarizzazione. Affidare settori fortemente militarizzati a senatori di alto prestigio e non direttamente nominati dal principe poteva essere rischioso. Questo fatto indica anche che le differenze fra i modelli di governo dei due tipi di province avevano implicazioni politiche non trascurabili, almeno sino a che il regime non si consolidò. I governatori delle maggiori province imperiali, pur appartenenti all’ordine senatorio (va evitata anche per questo, nonché per la sua assenza dalle fonti antiche, la manualistica e ambigua definizione di “province senatorie”), erano mandatari del principe e la durata di esercizio della carica era variabile sulla base della sua decisione (in media tre anni). Il loro titolo ufficiale – come ad esempio lo leggiamo nelle sempre più numerose iscrizioni onorifiche del tempo – era di legati Augusti pro praetore, e tale titolo era applicato, dopo Augusto, sia ad ex consoli inviati nelle province dove erano di stanza sotto il loro comando più legioni, sia ad ex pretori inviati nelle province dove era stanziata un’unica legione. Fra le prime e più stabili province imperiali, fatti salvi i sempre possibili scambi di titolarità fra l’augusto e il senato e gli sdoppiamenti, possiamo menzionare la Siria, la Germania non ancora divisa in Superiore e Inferiore, le province della Hispania, quella tarragonense Citerior e quella Ulterior (di cui faceva parte la Transduriana provincia del mandato di un legato augusteo attestata da un editto epigrafico del 15 a.C. e che fu negli stessi anni divisa in Lusitania e Betica, l’una imperiale, l’altra pubblica) 32. Le province pubbliche erano anch’esse affidate a senatori la cui autorità stavolta legalmente derivava proprio dal senato di Roma. A tale bipartizione corrispondeva una separazione delle entrate tributarie e anche una separazione dei tribunali esaminanti le cause di appello dopo le sentenze dei governatori. L’alta responsabilità politica sull’ambito fiscale era, insieme alla giurisdizione, 205 18 L’impero romano tra Augusto e Traiano FIGURA Conquiste di Traiano LA CITTÀ E L ’ IMPERO 206 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO fra le maggiori competenze dei governatori, come già accadeva durante la repubblica 33. Alle operazioni di collazione tributaria cooperavano anche a livelli di base appaltatori e, in modo regolare, le unità periferiche municipali. La riscossione dei tributi nelle province imperiali era organizzata da procuratores per un certo periodo tratti dallo stesso apparato del palazzo, e il ricavato confluiva nel tesoro del principe (fiscus Caesaris); quelle riscosse dalle province pubbliche, del cui gettito si occupavano dei questori, confluivano invece nell’antica cassa del popolo romano gestita dal senato (aerarium e successivamente aerarium Saturni, poiché conservata nel tempio di Saturno). I primi principi avevano una certa attenzione alla qualità dell’amministrazione onde evitare che tecniche estorsive e malversazioni spudorate colpissero oltre misura i provinciali esasperandoli 34. ORDINE SENATORIO E ORDINE EQUESTRE Con Augusto, i membri dell’ordine equestre ebbero nuove responsabilità amministrative a Roma e in provincia, mentre contemporaneamente fu meglio marcata la distinzione di ruolo sociale e di funzione amministrativa (più che di connotazione politica) fra senatori e cavalieri 35. Divergevano i presupposti di accesso a questi due ordini a cominciare dal censo, per continuare con le rispettive filiere di carriera, così come vesti, ornamenti, posti riservati nelle tribune dei luoghi di spettacolo e altri status symbol. Erano membri dell’ordine senatorio i detentori di rendite di 1.000.000 di sesterzi e dell’ordine equestre coloro che ne possedevano 400.000. L’ingresso nella carriera senatoria avveniva con la rivestitura di una magistratura minore, mentre a ciascuna delle successive magistrature (dalla questura, che garantiva il vero e proprio accesso in senato, in su) corrispondeva la possibilità di accedere a un certo numero di cariche, di progressiva importanza e responsabilità. I figli dei senatori erano purtuttavia considerati equites sino al loro avvio nella carriera degli onori, i cursus honorum non prevedevano scivolamenti dall’una nell’altra salvo il caso di un intervento del principe, che con una nomina d’ufficio promuoveva direttamente un equestre ad un grado magistratuale del senato (l’istituto dell’adlectio); questo tipo di procedimento era usato con morigeratezza, giacché un’inflazione degli ingressi in senato attuata per arbitrio del principe avrebbe modificato gli equilibri politici e rischiato di turbare la funzionalità dell’ordinamento gerarchico come principio ordinatore della società. 207 LA CITTÀ E L ’ IMPERO PROVINCE IMPERIALI AFFIDATE A EQUESTRI Alcune province minori, per esempio i distretti alpini di recente conquista, ebbero come governatori altri equites, col titolo di procuratore o di prefetto, e come reparti di sostegno forze tratte dagli auxilia. In casi particolari, come il Norico (odierna Austria) e la Giudea, dei prefetti equestri governavano in una posizione di subalternità rispetto alle province imperiali adiacenti, come l’Illirico-Pannonia o la Siria 36. Oltre alle prefetture romane (eccettuata quella urbana, di rango senatorio; cfr. supra, PAR. 6) e al di sopra delle cariche a palazzo di procuratores di tipo ministeriale, una responsabilità elevata facente parte del cursus equestre era quella di prefetto d’Egitto; si trattava di operare in un contesto dalle forti specificità economiche, demiche, culturali, e il modello adottato per dirigerne il territorio fu anch’esso non ordinario: l’Egitto fu annesso come una sorta di provincia, ma al suo praefectus Alexandreae et Aegypti furono sottoposte ben due legioni, contravvenendo con ciò a una consolidata regola che riservava a senatori i comandi delle legioni. La concezione teocratica del potere radicata sin dall’epoca dei faraoni e la funzione di principale fornitore di grano dell’Urbe facevano dell’Egitto un’area strategica, nella quale un’eventuale ribellione avrebbe potuto rivelarsi di particolare pericolosità. Cornelio Gallo, poeta e primo prefetto equestre di provata fede ottavianea, cadde in disgrazia proprio per avere svolto in quell’area operazioni militari brillanti e per averle ingenuamente, o spregiudicatamente, esaltate in pubblico con toni imperiali e inediti richiami a culti locali con questa famosa epigrafe trilingue (geroglifici, latino e greco) del 29 a.C.: Gaio Cornelio Gallo figlio di Gneo, cavaliere romano, primo prefetto d’Alessandria e d’Egitto, dopo la sconfitta dei re ad opera di Cesare figlio di un dio, vittorioso in due battaglie campali nei quindici giorni durante i quali soppresse la rivolta della Tebaide, espugnando cinque città (Boresis, Coptus, Ceramice, Diospolis Magna e Ophieum) e imprigionando i capi rivoltosi; avendo condotto il suo esercito oltre le cataratte del Nilo, regione nella quale mai in passato erano state portate truppe dal popolo romano o da monarchi egiziani; avendo soggiogato la Tebaide, terrore comune di tutti i re; avendo ricevuto a File ambasciatori del re degli etiopi, accolto e protetto quel re, e insediato un principe nel Triacontaschoenus, un distretto dell’Etiopia; dedicò questa offerta di ringraziamento alle sue divinità ancestrali e al Nilo suo compagno (Corpus Inscriptionum Latinarum III 14147). Un papiro di Ossirinco (P. Oxy. XXXVII 2820) sembra indicare che Gallo avrebbe portato più avanti la sua politica personale facendo co208 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO niare moneta a suo nome e con altre iniziative autonomistiche. Forse anche a seguito di questi suoi comportamenti Augusto limitò per legge gli ingressi in Egitto dei senatori e degli equestri ‘illustri’ a chi fra loro aveva avuto il suo permesso (Tacito, Annali II 59, 2-3) 37. PROVINCE ‘PUBBLICHE’ (O ‘DEL SENATO E DEL POPOLO ROMANO’) Dei metodi di riscossione e della destinazione dei tributi ricavati dalle province dipendenti dal senato abbiamo già accennato sopra. Si trattava di distretti sostanzialmente pacificati, di conquista più antica, dove, con pochissime e solo iniziali eccezioni, non erano ammessi stanziamenti di legioni. I governatori erano senatori (proconsoli anche in questo caso di rango consolare o pretorio a seconda dell’importanza), per eleggere i quali si procedeva con meccanismi tradizionali quali l’estrazione a sorte e che stavano di norma in carica per un anno, secondo un principio che prevedeva frequenti e regolari ricambi. Nel campo giurisdizionale era evidente la vasta discrezionalità delle sfere di ingerenza del principe e dovette accadere che non pochi processi teoricamente di pertinenza del senato finissero con l’essere giudicati dalla corte imperiale. Fra queste province, la Gallia Narbonense, l’Africa, l’Asia, la Sicilia, l’Acaia, la Macedonia, il Ponto-Bitinia. 10.9 Consenso e opposizione politica La riorganizzazione augustea dell’impero andava di pari passo con l’intensa campagna di pubblicizzazione tesa a convincere i sudditi dello spirito costruttivo e quasi paterno che ispirava l’operato del principe. Il complesso dei valori e dei temi messi in campo in questa campagna costituisce ciò che noi definiamo “ideologia augustea”. Elementi caratterizzanti (cfr. già supra, PAR. 6) ne furono la rinascita dello stato romano, la felice miscela di componenti tradizionali e componenti innovative che formavano la figura del leader politico secondo il modello incarnato da Augusto, la restaurazione morale e religiosa, l’ecumenismo dell’impero, la pace ottenuta con la forza delle armi romane 38. Una contributo importante (una spinta di avvio, più che altro) all’elaborazione dei motivi dell’ideologia augustea fu fornito da alcuni grandi scrittori del tempo. Il maggiore storico dell’epoca, Tito Livio, del quale pure abbiamo evocato un passo del proemio nel quale si di209 LA CITTÀ E L ’ IMPERO mostrava capace di mantenere attitudini di libertà e franchezza, scrisse una monumentale celebrazione del passato di Roma, la cui gloria si riverberava sul presente regime, dopo la decadenza dei costumi durante la tarda repubblica; Virgilio, nell’Eneide, epopea del mitico fondatore di Roma e antenato della gens Iulia, fornì una sublime legittimazione del potere di Ottaviano Augusto; Orazio fu poeta sinceramente favorevole al programma augusteo e convinto del ruolo del principe come salvatore dello stato romano; un’espressione concreta del suo favore fu il Carmen Saeculare, un inno ufficiale con il quale celebrò i solenni giochi della “nuova èra” svoltisi nel 17 a.C. Amico di Virgilio e Orazio, nonché amico di vecchia data e collaboratore del principe, fu il nobile aretino di origine etrusca G. Cilnio Mecenate. Mecenate riuscì a stimolare il clima culturale e a sostenere con la sua mediazione fatta anche di patronato economico la produzione anche di altri letterati (come il più “difficile” Properzio), che indirizzò in un senso filoaugusteo senza peraltro interferire pesantemente nella loro autonomia artistica. La sua attività si espletò invero durante gli anni del secondo triumvirato e nei primissimi anni del principato. La letteratura aveva una circolazione ristretta, essendo destinata essenzialmente agli ambienti colti e all’alta società. Un impatto più capillare per la rappresentazione del principato come età di benessere generale ebbero altri strumenti: monete con immagini simboliche e legende (non è scontato, ma è verosimile un controllo imperiale sui tipi monetali) 39, edifici civili e religiosi, opere d’arte e prodotti delle arti minori, iscrizioni pubbliche, che conobbero una diffusione senza precedenti in Italia e nel resto dell’impero (l’analogia frequente con gli odierni mezzi di comunicazione di massa è però, anche come semplice analogia, piuttosto approssimativa). Augusto medesimo affidò al mezzo epigrafico il resoconto autocelebrativo della sua attività di statista, le già più volte incontrate Res Gestae Divi Augusti (‘Le imprese del divino Augusto’); copie contemporanee di questo lungo testo sono state trovate in tre città dell’Anatolia, in latino e anche in traduzione greca per la lettura del pubblico locale. Gli studi di Paul Zanker illustrano magistralmente i documenti principali e gli aspetti salienti di un programma politico-culturale che per sortire gli effetti sperati doveva essere costruito su una sofisticata e difficile alchimia tra novità e tradizione. Augusto stava bene attento, negli indirizzi dati all’edilizia e alle arti figurative, a non porsi come unico mattatore della scena pubblica. La sua arte fu eminentemente dialogica, dovendo dare almeno l’impressione di rispettare il ruolo sociale di ciascuno – famiglia imperiale, gruppi e ordini, sacerdoti e divinità, istituzioni, popolo –, con l’imperatore come cerimoniere antiautocratico 40. 210 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO Il consenso ottenuto da Augusto fu molto largo, ma non unanime. Dopo il 23, Mecenate risulta emarginato, probabilmente come conseguenza di una cospirazione orchestrata da un suo stretto congiunto. A partire dal 31/30 a.C. ne sono note diverse, contro Augusto e alti esponenti della corte. Esse crebbero sia in ambienti dell’aristocrazia senatoria che ancora non avevano rinunciato alla prospettiva di rifondare la repubblica, sia a seguito di iniziative estemporanee di singoli che miravano a scalzare Augusto dal potere (Svetonio, Vita di Augusto 19). Anche negli ambienti intellettuali, soprattutto nella seconda parte del regno e durante quello tiberiano, dovette crescere la consapevolezza dei limiti posti dal potere alla libertà d’espressione (Cassio Dione, Storia romana LIII 19; cfr. anche LIV 15, 1-4). Oratori e storiografi non allineati sulle posizioni del governo subirono processi e gravi forme di censura. Il poeta Ovidio (che pure aveva esaltato aspetti del governo augusteo, cfr. per esempio Fasti I, vv. 711-722) nell’8 d.C. fu addirittura relegato in una lontana località del Mar Nero: lo specifico capo d’accusa dell’esilio rimane oscuro, ma certamente l’atmosfera mondana di cui faceva parte Ovidio e certa leggerezza della sua poetica erano mal compatibili con l’ordine morale e sociale fondato sull’esempio della classe di governo del ‘duplice ordine’ (uterque ordo, per sottolinearne la auspicabile coesione come gruppi politici e amministrativi di vertice al quale era attaccato il principe) 41. L’oratore e storico T. Labieno non volle sopravvivere alla condanna al rogo delle sue opere, emessa verso la fine del regno di Augusto, e si fece chiudere nella tomba di famiglia (Seneca retore, Controversie X, prefazione 7). A sua volta l’annalista, come Labieno filorepubblicano, Cremuzio Cordo, già attivo sotto Augusto, vide i suoi libri bruciati in età tiberiana. Anche le campagne di propaganda a tema militare non sortirono affatto esiti sicuri: incontrarono alcuni ostacoli e, come già accennato, ma il punto è importante, seri dubbi vennero posti alla primazia di Augusto in questo campo 42. 10.10 La famiglia imperiale e il problema della successione Non conosciamo bene quale fosse l’idea, il progetto di governo augusteo per il dopo di sé. L’assetto istituzionale non era una monarchia dichiarata, ma il principe, che sapeva di avere dato origine a un nuovo modello di regime – Augusto fu davvero, come qualcuno l’ha definito, «architetto dell’impero», per l’esempio e il marchio indelebile della sua azione di statista –, si preoccupò sin dall’inizio di assicu211 LA CITTÀ E L ’ IMPERO rarne la sopravvivenza, utilizzando lo schema dell’alleanza matrimoniale o dell’adozione degli eredi prescelti. Uno dei più spinosi problemi pratici dinanzi ai quali si trovò Augusto fu proprio quello dell’investitura e del passaggio di mano. Un fattore di difficoltà abbastanza ovvio era la novità di un ordine imperiale così strettamente vincolato alla persona del suo autore, e era inevitabile che la prima successione si trasformasse in un esperimento pieno di incognite. In secondo luogo, Augusto apparve disgraziato nell’individuazione di “delfini” che gli premorirono sistematicamente, nonostante la più giovane età e la cagionevolezza della sua propria salute, assieme agli attentati uno dei motivi del suo precoce preoccuparsi di un erede 43. Nel 38, Augusto aveva sposato in seconde nozze Livia Drusilla, intelligente e influente matrona della più alta nobiltà romana, già consorte del pompeiano e patrizio Tiberio Claudio Nerone. Appartenente alla nobile gens repubblicana dei Livii Drusi, era la madre del futuro imperatore Tiberio (come suo padre si chiamava Tiberio Claudio Nerone), mentre non dette figli ad Augusto 44. L’assenza di figli maschi divenne presto un urgente affare politico. Fra il 23 a.C. e il 4 d.C., con una sequenza desolante e maledetta, morirono Marcello, cugino e marito di Giulia, figlia unica di Augusto, il fidato e abilissimo braccio destro Agrippa, altro marito della stessa Giulia, poi Druso maggiore, figlio di Livia e fratello di Tiberio, infine gli adorati nipoti Gaio e Lucio Cesari, figli di Agrippa e Giulia, deceduti nel 2 e 4 d.C. e per i quali fu proclamato un lutto pubblico (iustitium) di particolare solennità. Augusto non aveva legami viscerali, né particolare affetto per Tiberio, ma dovette prendere atto che rimaneva solo lui. Già messosi in luce in guerra in Illirico e in Germania, Tiberio aveva sposato Giulia, dalla quale poi, per volontà dello stesso principe, aveva divorziato. Giulia è un esempio tipico delle sventure che possono toccare una grande famiglia: «La vita di Giulia venne condizionata completamente dalle necessità politiche del padre. Anche per questo terminò in una catastrofe» (Eck, Augusto, p. 117): l’esilio a Ventotene, poi la segregazione a Reggio, dove morì nel 14 (Tacito, Annali I 53, 1-4). Dopo un periodo di ritiro volontario dalla vita pubblica, Tiberio era stato finalmente adottato da Augusto (4 d.C.) e dunque designato per la successione. Nel 13, il conferimento dell’imperium maius e il rinnovamento della tribunicia potestas, ponendolo quasi su un piano di parità formale col principe, sancirono la sua definitiva investitura. Augusto, il cui nome da personale divenne epiteto di tutti i suoi successori, moriva serenamente nel corso di un viaggio in Campania il 19 agosto del 14, all’età di settantasei anni. Si tramanda che sul letto di morte si guardò allo specchio e si fece sistemare i capelli, che 212 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO infine chiamò gli amici e chiese loro se avesse recitato bene la ‘farsa della vita’ (mimum vitae), spirando poco più tardi tra le braccia della moglie 45. Come per suo padre Giulio Cesare, il senato ne proclamò l’apoteosi e la divinizzazione: fu sempre chiamato Divus Augustus. Dopo le distruzioni materiali, la destabilizzazione sociale e la crisi psicologica causate dalle guerre civili, aveva creato un sistema politico e sociale integralmente nuovo, riuscendo a restituire ai romani un’identità collettiva e una speranza per il futuro fondata anche sul miglioramento generale del tenore di vita 46. Note 1. Donde l’espressione spesso ancora adottata, ma schematica e fuorviante, di Dominato per designare il sistema di governo dioclezianeo e postdioclezianeo; sul concetto di Dominatus (ma con precipuo riferimento alla tarda repubblica) cfr. da ultimo Arena, Invocation, pp. 67-73. 2. Livio, Storia di Roma, proemio 9. 3. Cfr. Syme, Rivoluzione; per la discussione: Rivoluzione; Révolution; Várheli, Sense of Change, pp. 358-60. 4. Raaflaub, Toher, Republic and Empire. 5. Béranger, Recherches, rimane molto interessante per lo studio del lessico, del comportamento politico, dell’ideologia del princeps. Cfr. Eck, Augusto, pp. 75, 120. 6. Radice latina aug-/auc- comune ad augurium, augere, auctoritas; sul rapporto tra augurium e auspicium cfr. Timpanaro, Divinazione, pp. XXXVII-XXXVIII. 7. Ne conserva una copia in marmo dell’anno seguente il museo dipartimentale di Arles; cfr. Res Gestae Divi Augusti 34, 2 e altre raffigurazioni dello scudo sono riportate nelle monete. 8. Su auctoritas cfr. Res Gestae 34, 3; la lettura potens rerum omnium riguarda 34, 1: Scheid, Res Gestae, pp. 82-6; Botteri, Integrazione. 9. Svetonio, Vita di Augusto 58; Orazio, Odi IV 2, vv. 41 ss.; cfr. Strabone, Geografia VI 4, 2. Sugli effetti dell’epiteto di pater patriae, cfr. per esempio Marotta, Liturgia, pp. 95-6. 10. Più tardi, sotto il regno di Vespasiano (69-79 d.C.), i poteri del principe, consolidati, ma rimasti ancora al livello di prassi politica, furono formalizzati per legge, lex de imperio Vespasiani. 11. Per esempio Appiano, Le guerre civili, proemio 5, 22-23; Cassio Dione, Storia romana LIII 17; cfr. ivi, LIII 28. 12. Eck, Augusto, p. 45. 13. Cfr. Souverains; Price, Rituals; Fishwick, Cult; Momigliano, Saggi, pp. 87-100; Brent, Cult. Ritiene improprio l’uso dell’espressione ‘culto imperiale’ Gradel, Emperor. 14. Si noti il linguaggio ripetitivo e formulare dell’iscrizione, che contiene allusioni a discordie interne alla città risolte con l’intervento pacificatore del principe. 15. Più a est, la Mesia, diverrà provincia nel 44 d.C. 16. Allora nasceva lo schema del principe come trionfatore perpetuo: Benoist, Rome, pp. 241-72. 213 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 17. Per l’edizione aggiornata ai risultati del recente e discusso restauro, con belle immagini dei particolari, cfr. Rossini, Ara Pacis. 18. Per la pace universale, per terra e per mare, dopo Azio, cfr. anche per esempio Livio, Storia di Roma I 19, 3. 19. Per tutti cfr. La Penna, Orazio, pp. 72-8. 20. Per esempio Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I 2; per il motivo in vari luoghi dell’opera di Orazio cfr. La Penna, Orazio, pp. 68-72; Velleio Patercolo, Storia di Roma II 106; Plinio il Vecchio, Storia naturale, per esempio II 67, 167. 21. Nicolet, Inventario, per l’aspetto scientifico e ideologico; Cresci Marrone, Ecumene, per l’aspetto politico-militare e ideologico. Su censimenti, catasti, archivi cfr. Nicolet, Inventario, pp. 123-205; sugli archivi si veda pure Moatti, Archives. 22. Sulla grandiosità della attività edilizia di Cesare cfr. le notazioni di Coarelli, Roma, p. 13. 23. Ancora oggi è possibile leggere l’iscrizione onorifica fatta apporre sull’architrave: «Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, fece costruire (quest’opera)». 24. Sul significato politico della sistemazione del Foro di Augusto cfr. Braccesi, Epigrafia; Zanker, Augusto, pp. 206-29; cfr. anche Coarelli, Roma, pp. 125-9; ora cfr. Geiger, Fame. 25. Ancora in epoca tarda era valida la partizione topografica di una Roma divisa in regioni, come mostrano i cosiddetti Regionarii: la Notitia Urbis Romae regionum XIV e il Curiosum Urbis Romae regionum XIV. 26. Eck, Augusto, pp. 77-9, 107-13. Per Roma e il principe (sotto molteplici prospettive) cfr. Fraschetti, Roma; Lo Cascio, Roma; Belayche, Rome. 27. Garnsey, Saller, Storia, pp. 5-9. Determinismo ambientale favorevole alla Penisola, in Vitruvio, L’architettura VI 1, 10-11. 28. Foraboschi, Lineamenti, pp. 110, 124; Gabba, Italia, pp. 97-103, 167-76; diversamente Cecconi, Governo, pp. 177-81. 29. Cassio Dione, Storia romana LII 22; Gabba, Italia, pp. 149-53. 30. Per le strutture municipali e le istanze intermedie sotto Augusto e durante il principato, cfr. negli ultimi decenni Camodeca, Curatores; Gabba, Italia, per esempio pp. 133-43; Eck, Italia; Christol, Iuridicus. 31. Le fonti letterarie che più diffusamente, anche se con qualche imprecisione, si soffermano sulla bipartizione augustea delle province sono Strabone, Geografia XVII 24-25 e Cassio Dione, Storia romana LIII 12-15. Sul ruolo dei regni clienti, altro elemento essenziale della geopolitica del primo principato, un resoconto utile in Cassio Dione, Storia romana LIV 9, 1-5; cfr. Marotta, Liturgia, pp. 58-60. 32. Costabile, Licandro, Tessera Paemeiobrigensis. 33. Sulle competenze dei governatori cfr. da ultimo Bérenger-Badel, Gouverneurs; Merola, Amministrazione. 34. Cfr. per esempio Cassio Dione, Storia romana LIV 21; sul funzionamento teorico dei meccanismi di riscossione e sul tributum cfr. Ulpiano in Digesto L 15, 3-4. 35. Per esempio Ordre. 36. Eck, Augusto, p. 99. 37. Jördens, Verwaltung, pp. 19 con nota 16; 36-41. La storiografia attuale sottolinea spesso gli elementi di comunanza tra amministrazione dell’Egitto e amministrazione delle altre realtà del Mediterraneo romano. In generale cfr. Geraci, Genesi; Mélèze-Modrzejewski, Egypte; Capponi, Augustan Egypt. 38. Una descrizione dettagliata, e decisamente appiattita su una propaganda ufficiale con elementi di mistificazione, offre nella sua Storia romana l’autore di età tiberiana Velleio Patercolo (II 89, 3-6). Sul paternalismo del potere, inteso come capacità 214 10. AUGUSTO E LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO di intervenire al di sopra delle leggi come interpreti unici del bene collettivo, celebre passaggio di Strabone, Geografia VI 4, 2. 39. Sul problema cfr. la bibliografia in Salamone, Imperatore, p. 11 nota 4. 40. Zanker, Augusto; per gli argomenti di questo paragrafo, nell’ambito di una vastissima letteratura critica, cfr. anche Canali, Potere; Galinski, Augustan Culture. 41. Sulla legislazione morale e sociale di Augusto, che toccava il diritto di famiglia, i reati a sfondo sessuale, l’adulterio e il divorzio, il rilancio della natalità, il controllo sulla pratica degli affrancamenti di schiavi, cfr. Venturini, Manumissiones; Cohen, Leggi augustee; Spagnuolo Vigorita, Casta domus; Milnor, Gender, p. 141 con nota 2. 42. Sull’ideologia della vittoria augustea: Cecconi, Felicitas; Hurlet, Auspices. Implicazioni politicamente “trasgressive” racchiude anche un anonimo Panegirico di Messalla, databile probabilmente ai primi anni del regime di Ottaviano Augusto: Schoonhoven, Panegyricus Messallae; Cresci Marrone, Conquista, pp. 310-8. 43. Rice Holmes, Architect; Pani, Successione. Sulla famiglia di Augusto: Fraschetti, Roma; Milnor, Gender. 44. Fraschetti, Livia. 45. Svetonio, Vita di Augusto 99. Il biografo insiste sulla serenità del decesso di Augusto, che aveva sempre manifestato la speranza di godere di quella che in greco chiamava proprio euthanasia, ossia una morte priva di sofferenze fisiche. 46. In generale su Augusto, fra le monografie in italiano, cfr. Fraschetti, Augusto; Eck, Augusto. Inoltre da ultimo, per vari aspetti cfr. la miscellanea edita da Galinski, Augustus. 215 11 Principi e senato Nel periodo compreso fra l’ascesa di Tiberio (14 d.C.), e la fine della dinastia Flavia (96 d.C.) assistiamo a un consolidamento della forma di governo della quale Augusto era stato artefice. Il mutamento storico dato dalla nuova distribuzione del potere non avrà costituito uno shock politico – come pure è stato definito –, ma certo l’aristocrazia senatoria e l’istituzione a cui faceva capo, il senato, dovettero reinventarsi una funzione all’interno dello Stato divenendo partner negoziali di un princeps da subito rappresentato come autentico delegato del popolo romano («la dottrina della sovranità popolare è restata in vigore fino alla fine dell’impero bizantino» così come «sotto l’impero la parola “repubblica” non cesserà mai di essere pronunciata» ricorda Paul Veyne, Impero greco-romano, pp. 11, 18). Dal momento in cui Tiberio assunse sulle sue spalle, su formale richiesta del senato, il ‘corpo dell’impero’ 1, il principato si avviò ad essere una realtà incontrovertibile, dato che l’accentramento del potere nelle mani di uno solo prescindeva dall’eccezionale personalità di Augusto. Il passo per nulla scontato che alla morte di un principe subentrasse un altro principe era fatto; si andò oltre, avvenendo le successioni secondo uno schema di ereditarietà, come poi accadde. La prima dinastia imperiale fu quella Giulio-Claudia, dai nomi delle due stirpi che le dettero vita (la gens Iulia e la gens Claudia), alla quale seguì quella Flavia, da Flavius, nome di Vespasiano. La trattazione cui si darà corso nel presente capitolo traccerà i lineamenti salienti della storia politica dei regni succedutisi in questo periodo, ricco di intrighi e di fatti di sangue spesso per l’appunto collegati alle lotte per le designazioni imperiali. Un occhio di riguardo avranno le relazioni tra gli imperatori e il senato, essenziali per capire la simbiosi tra antico e nuovo della natura del regime imperiale e filo di Arianna per la storia del potere di buona parte del principato. Il massimo studioso mai esistito della storia giuridica e istituzionale di Roma, Theodor Mommsen (1817-1903) 2, interpretava in ter217 LA CITTÀ E L ’ IMPERO mini di divisione dei compiti di governo e paritari i rapporti tra principe e senato in epoca augustea. Il discorso è impostato oggi diversamente e, sebbene non vi sia dubbio che il regime del principato sia nato sui bracieri mai interamente smorzati dell’antica res publica 3, nei due secoli di cui si occupa questa parte del volume questi rapporti oscillarono tra fasi di concordia e di forte tensione, ma sempre nel quadro di un predominio del principe, in grado di indirizzare le scelte politiche dell’impero e di intervenire anche nelle sfere di competenza, a Roma e in provincia, teoricamente riservate al senato 4. 11.1 La dinastia giulio-claudia LA PRIMA SUCCESSIONE: TIBERIO (14-37) 5 Due questioni principali, intrecciate fra loro, marcano l’investitura di Tiberio e la sua successione ad Augusto: il nuovo principe sarebbe stato all’altezza della situazione? La nobiltà senatoria, in parte ancora filorepubblicana 6, avrebbe cercato di sovvertire le linee politiche indicate da Augusto o avrebbe contribuito a radicarne la realizzazione? Un obiettivo prioritario di Tiberio era riuscire a svolgere il compito di traghettatore e continuatore dell’eredità augustea, e in tal senso si può dire che riuscì: un regime durato ventitré anni, capace di superare una transizione politicamente delicata senza rinunciare a svolgere un’attività di governo significativa. Tiberio caratterizzò la sua iniziativa come un’alchimia di prudente finezza – riconoscibile nell’enfasi data alla virtù della moderatio, ostentata per esempio con la rinuncia ai titoli di imperator e di pater patriae – e di energia portata talvolta al limite della spietatezza. Nonostante il suo passato di grande conduttore di eserciti, Tiberio fondò il suo potere soprattutto sulla componente civile delle attribuzioni imperiali, ossia sulla tribunicia potestas. Cercò l’appoggio del senato, avallando le proposte della curia e arrivando a trasferire la prerogativa di eleggere i magistrati dai comizi ai senatori (Tacito, Annali I 15, 1). Non sempre, però, Tiberio riuscì a stabilire con un senato succube e insieme ostile – così spesso nelle rappresentazioni storiografiche – una vera intesa e una produttiva collaborazione. Nella direzione degli affari esteri, Tiberio si allineò complessivamente agli indirizzi dichiarati da Augusto poco prima di morire, mantenere l’impero entro i confini da lui lasciati (Tacito, Annali I 11, 4), evitare avventurismi. Egli non si impegnò in offensive importanti: usò 218 11. PRINCIPI E SENATO 19 La dinastia Giulio-Claudia FIGURA Gaio Giulio Cesare Gaio Mario Giulia Gaio Giulio Cesare Sesto Giulio Cesare Calpurnia 3 Pompeia 2 Giulia Cornelia Gneo Pompeo 4 1 Ditt. 49-44 a.C. Caio Giulio Cesare 1 2 Giulia 3 (“maggiore”) Azia G. Claudio Marcello 1 Ottavio AUGUSTO 2 Imp. 27 a.C.-14 d.C. M. Claudio Marcello Marco Azio Balbo Gaio Ottavio Gaio GIULIO CESARE Giulia Scribonia Marco Vipsanio Agrippa Marzia, dei Regii 2 2 TIBERIO Claudio Nerone Imp. 14-37 d.C. Livia Drusilla Augusta Druso Antonia (“maggiore”) (“minore”) Druso Agrippa Postumo Gaio Cesare Lucio Cesare Giulia Agrippina (“maggiore”) Marco Antonio Tiberio Claudio Nerone 1 Vipsania 1 1 Ottavia 2 Livia Giulia (“minore”) Giulia Tiberio e Germ. Gemello Germanico 3 4 Tiberio CLAUDIO 2 Nerone Imp. 41-54 d.C. Drusilla Druso Cesare Giulia Livilla Agrippina 1 (“minore”) Nerone Cesare Cesonia 4 Gaio Cesare (CALIGOLA) Poppea Sabina Imp. 37-41 d.C. Gneo Domizio Enobarbo L. Domizio Enobarbo = Tiberio Claudio NERONE 2 Valeria Messalina 1 Ottavia Britannico Imp. 54-68 d.C. Giulia Drusilla Imp. = imperatore figlio/figlia figlio adottivo Ditt. = dittatore matrimonio 1, 2, ... numero del matrimonio invece la diplomazia, soprattutto nell’Oriente caucasico e mesopotamico, e si preoccupò di rafforzare le difese alle frontiere. L’unica nuova provincia fu la Cappadocia (nell’attuale Turchia). Un paio di pericolose insurrezioni antiromane costrinsero i suoi eserciti a combattimenti serrati: contro i berberi guidati da Tacfarinas su una lunga area di frontiera nordafricana (17-24) e contro le tribù federate dei treviri e degli edui capitanate da Giulio Floro e Giulio Sacroviro (21). Si noti che in simili frangenti, non diversamente dalla vicenda di Arminio (assassinato nel 19; cfr. PAR. 10.4), furono ex comandanti di stirpe indigena delle forze ausiliarie romane e per di più dotati della 219 LA CITTÀ E L ’ IMPERO cittadinanza a sollevare la ribellione: per Roma, un segno delle difficoltà di far avanzare la romanizzazione in assenza di un miglioramento vistoso del tenore di vita dei sudditi o, parallelamente, delle asprezze dell’amministrazione romana nei territori provinciali con aree a popolamento tribale e organizzate ancora in forma di società guerriera. Un caso di speciale rilievo, per la importanza delle sue implicazioni politiche, fu quello di Germanico, nipote e poi figlio adottivo di Tiberio (dal 4 d.C., per ordine di Augusto). Scrittore erudito, ma messosi in luce pure quale comandante in area renana, dove ottenne successi utili a dare un parziale senso di riscatto dopo la clades Variana, Germanico fu inviato dal principe in Oriente con un imperium maius che avrebbe dovuto metterlo in condizione di sistemare una situazione fragile in tutto il settore, dove i romani avevano fra l’altro perduto il controllo sul regno di Armenia. Va ricordato qui che una parte della tradizione antica (Tacito stesso) e molti commentatori moderni insinuano e insistono sulla rivalità tra Tiberio e Germanico, che sarebbe risultato concorrente temibile per i progetti politici e il prestigio stesso del principe. Il soggiorno egiziano di Germanico suscitò polemiche, per gli atteggiamenti “cosmocratici” ai quali il giovane fu propenso, fra i quali il solenne ingresso in Alessandria, forse non autorizzato dall’imperatore, come invece previsto da un provvedimento augusteo 7. Durante la missione in Oriente, Germanico morì (10 ottobre 19 d.C.). Calpurnio Pisone, il governatore di Siria fornito delle attribuzioni – ufficiali – di adiutor di Germanico, gli si era mostrato ostile, al punto di essere accusato e ritenuto colpevole di averlo avvelenato. La vicenda è controversa come un giallo politico, o come un assassinio di stato. Da Tacito e da iscrizioni di eccezionale interesse scoperte in Spagna negli ultimi decenni (Tabula Siarensis, SC de Cn. Pisone Patre) abbiamo notizie precise sui dibattimenti in senato relativi al caso e sugli onori pubblici resi alla memoria di questo personaggio carismatico, amatissimo dalla gente comune 8. Gli anni che vanno dal 23 al 31 sono caratterizzati da un’altra figura di spicco, quella intrigante e ambiziosa di Lucio Elio Seiano 9. Abile a rendersi gradito al principe, forte della carica vieppiù importante della prefettura al pretorio rivestita a contatto con gli ambienti della corte, Seiano nel 27 indusse Tiberio a ritirarsi a Capri, da dove non sarebbe mai più tornato nella capitale, ritagliandosi così ampi margini d’azione. Da un lato, il prefetto fungeva da portavoce del principe presso il senato, ma insieme andava acquisendo una crescente e alla fine intollerabile influenza politica. Tiberio non aveva rinunciato a dirigere il governo da fuori Roma, ma dopo alcuni anni, allertato da 220 11. PRINCIPI E SENATO solerti consiglieri 10 e timoroso di essere alla vigilia di una congiura di palazzo, riuscì a condannare Seiano col sostegno del senato; seguirono la damnatio memoriae (31 d.C.) e vendette sui seguaci. L’attività amministrativa di Tiberio, già settantenne, non si interruppe. Dovette fronteggiare situazioni di crisi economico-finanziaria (la “crisi del 33”, una sorta di grossa bolla creditizia inasprita dai comportamenti esosi dei prestatori di denaro: Tacito, Annali VI 16-17) 11. Ma sul versante politico prese il sopravvento la tentacolare realtà degli intrighi di palazzo, orchestrati dal prefetto pretoriano Quinto Nevio Cordo Sutorio Macrone, già fra gli artefici della caduta di Seiano. Più in generale, delazioni e processi per colpa di lesa maestà (crimen maiestatis) imperversarono e furono uno degli elementi più caratterizzanti di quest’ultima fase del regno, per la quale si risente della lacunosità della narrazione di Tacito (libri V e VI). Tiberio morì nel 37. La personalità del secondo principe rimane sfuggente e contraddittoria (per Tacito e Svetonio, l’ipocrisia e la simulazione ne furono tratti dominanti), anche se non gli si possono negare qualità di statista. La successione non era stata da lui definita. CALIGOLA (37-41) 12 Ottenne il trono venticinquenne Gaio Caligola, figlio di Germanico. La sua nomina, sicuramente influenzata dal mito paterno e dagli ambienti che intorno ad esso ruotavano, avvenne per acclamazione delle milizie e con l’iniziale consenso di tutta Roma. Ricevette dal senato l’investitura imperiale con l’assunzione congiunta dei diversi poteri a fondamento, «all’inizio il titolo di imperator, poi tutti gli altri: potestà tribunizia e insieme pontificato massimo, e poco dopo padre della patria [...] tutti i titoli anche che Augusto aveva impiegato anni a raccogliere e che Tiberio aveva in parte rifiutato» (Petit, Histoire, vol. I, p. 87) 13. Dopo pochi mesi giudicati persino con entusiasmo dalla storiografia antica, probabilmente anche per le prospere condizioni economiche dell’impero al momento della scomparsa di Tiberio (Filone, Ambasceria a Gaio 8-13), il suo regno prese la china che ne ha più segnato il ritratto. Gli aspetti connessi con le sue stravaganze e crudeltà gratuite saranno trattati nel PAR. 4, dedicato al significato reale di queste immagini (quanto stereotipate?) di despoti, megalomani, imitatori dei sovrani ellenistici, tipiche anche di altri principi, come Nerone e Domiziano e, dopo ancora un secolo, Commodo. Nel suo regno sembrano riconoscibili comunque alcune linee programmatiche. Per esempio il rapporto privilegiato istituito con la ple221 LA CITTÀ E L ’ IMPERO be romana, cui il principe pagò subito la ricchissima donazione lasciata da Tiberio e altre personalmente elargì e a favore della quale (e contro il senato) propose una riattivazione del ruolo degli antichi comizi, cui spettavano solo residuali attività di ratifica degli eletti anche prima che Tiberio ne trasferisse le attribuzioni al senato. In ambito religioso, Caligola ruppe rispetto ai precedenti optando per la divinizzazione della sua monarchia (Svetonio, Vita di Caligola 22) 14. Favorì rituali cruenti, si fece costruire templi e statue, lasciando cadere l’associazione prudenziale con la Dea Roma (cfr. PAR. 10.3); entrò in conflitto con gli ebrei a causa del suo progetto di farsi onorare nel Tempio di Gerusalemme 15; tentò di valorizzare la cultura e i riti egizi: in quest’ottica va inteso l’impulso dato al culto della divinità femminile egizia di Iside e anche la relazione incestuosa attribuitagli con la sorella Drusilla. In politica “internazionale”, preparò una campagna per la conquista della Britannia (peraltro sbeffeggiata da Svetonio, Vita di Caligola 44-46 e Cassio Dione, Storia romana LIX 25, 1-5), ma la spedizione sarà attuata solo da Claudio. La perdita di consenso di Caligola si accompagnò a una serie di tentativi di cospirazione. Nel gennaio del 41, il principe fu assassinato. Ne furono principali artefici i senatori, coi quali il deterioramento dei rapporti risaliva al 38, ma ad essa parteciparono anche liberti imperiali e ambienti della prefettura al pretorio. L’OPERA INNOVATRICE DI CLAUDIO (41-54) 16 Senza attendere le decisioni di tutti coloro che erano stati coinvolti nella congiura e del senato, la guardia pretoriana proclamò imperatore il fratello di Germanico e zio di Caligola, Claudio, all’epoca cinquantunenne (era nato nel 10 a.C. a Lione). Da molto tempo ormai si è data un’interpretazione meglio bilanciata rispetto alla poco edificante immagine tràdita su Claudio: impacciato, studioso ma inadatto al comando, vittima inerte dell’influenza nefasta delle donne di corte e dei suoi potentissimi liberti. Un doveroso riesame della documentazione porta a individuare nel suo regno un momento pieno di fermenti culturali e un’attività amministrativa efficace e innovativa, ancorché per certi aspetti impopolare, costruita su tre capisaldi: 1. l’ulteriore sviluppo del sistema provinciale; 2. l’estensione della cittadinanza e il coinvolgimento dei ceti dirigenti extraitalici in ruoli di governo; 3. la ristrutturazione dell’amministrazione centrale palatina 17. 1. La campagna militare più significativa fu condotta dai suoi generali in Britannia nel 43 e portò alla riduzione di una parte consistente 222 11. PRINCIPI E SENATO dell’isola in provincia: la vittoria fu esaltata anche perché fu la prima grande impresa dei romani dai tempi di Augusto, e Claudio a Roma celebrò il trionfo; suo figlio trasse dall’evento il soprannome di Britannico. Londra (Londinium) nasceva allora come porto vivace e pullulante di mercanti romani. Furono poi costituite altre province in Tracia (attuale Bulgaria), nell’area alpina e in Giudea, dopo la morte del dinasta Giulio Agrippa. In Mauretania, sin dall’inizio del regno, furono represse le rivolte di tribù berbere e furono create due nuove province. 2. In quest’ultimo territorio Claudio conferì come premio alla città di Volubilis (oggi sito archeologico fra i più importanti del Marocco), che era stata leale verso i romani, il diritto di cittadinanza; egli dette così una prova concreta della sua visione di un impero a vocazione universalistica e nel quale si doveva accelerare il processo di integrazione dei provinciali, processo al quale lo stesso Claudio mostrò altrimenti sensibilità (Tacito, Annali XI 24-25, 1; Inscriptiones Latinae Selectae 212, discorso del 48 per una piena ammissione delle élites galliche in posti di responsabilità in senato e ai vertici dello Stato) 18. Emblematica e formidabile macchina da romanizzazione giuridica fu il conferimento della cittadinanza romana, per meriti militari, a tutti quei soldati che prestavano servizio nei reparti ausiliari dell’esercito e dunque peregrini: a partire da Claudio, gli archivi centrali certificavano il nuovo statuto dei soldati veterani e dei loro congiunti. Su simili aspetti ci soffermeremo in uno dei prossimi capitoli (CAP. 13, specialmente PAR. 13.7, dedicato alla cittadinanza). 3. Un terzo maggiore ambito di intervento riformatore fu, da parte di Claudio, l’organizzazione dell’amministrazione della corte a Roma. Il principe chiamò all’esercizio di alti ministeri palatini, col titolo di procuratores, alcuni liberti di origine orientale: egli si rivolse a figure del suo entourage, nella loro tipica veste a metà tra il domestico e il funzionario. Scelse suoi favoriti, ma privilegiò anche la qualità della competenza “professionale”: Narcisso (capo della cancelleria-segreteria del principe, ab epistulis), Callisto (capo del dipartimento delle petizioni e delle questioni legali, a libellis), Polibio (soprintendente alle attività culturali, a studiis) e Pallante (capo della ragioneria di stato, a rationibus), pur non esenti da ambizione e propensioni ai giochi di potere, mostrarono notevoli capacità e contribuirono a un’efficiente amministrazione della cosa pubblica. Un atteggiamento coraggioso, ma sgradito a coloro che ritenevano inaccettabile che persone macchiate dalla nascita servile avessero responsabilità politiche tanto elevate. La potentia (un termine usato con un significato pregnante da alcuni testimoni antichi per definirne il potere) dei liberti altoimperia223 LA CITTÀ E L ’ IMPERO li raggiunse forse l’acme in questo periodo. Con i Flavi prese corpo un ridimensionamento dei liberti imperiali, che li pose in ruoli pubblici di minore livello, sostituiti nelle grandi procuratele da esponenti dell’ordine equestre. Una descrizione del regno di Claudio non può non evocare le vicende di palazzo degli ultimi sette anni. Solo per cenni fugaci: la pena capitale comminata nel 48 a Messalina, terza moglie di Claudio (e madre di Britannico), le successive nozze con Agrippina Minore e le trame di quest’ultima per coagulare intorno a sé un clan disposto a favorirne le ambizioni e, in primo luogo, i piani della successione a Claudio: pensava al figlio avuto da un suo precedente matrimonio, Tiberio Claudio Nerone (il futuro Nerone). Nel 50, questi fu adottato da Claudio, che d’altra parte sosteneva le ambizioni del figlio Britannico, anche con il supporto di Narcisso e delle sue clientele. Nell’ottobre del 54 d.C., Agrippina avvelenò il marito – secondo una notizia riportata quasi unanimemente dalle fonti. Il senato gli votò apoteosi e funerali di stato verosimilmente sotto la spinta delle stesse forze che l’avevano eliminato (Cassio Dione, Storia romana LX 35, 2; satira di Seneca contro la divinizzazione di Claudio: Apokolokyntosis) 19. Claudio fu così il secondo Divus dopo Augusto e come tale è ricordato nella documentazione. NERONE E IL NERONISMO (54-68) 20 Quella di Nerone (già Lucio Domizio Enobarbo, famiglia nobilissima, prima di essere adottato da Claudio) fu un’epoca, forse più di altre, di tensioni complesse e dinamiche di mutamento di cui è difficile mettere in ordine gli elementi e ricostruire organicamente il senso storico. Di una prima fase positiva, un felice “quinquennio di Nerone”, si parla per il periodo durante il quale il giovane figlio di Agrippina – aveva diciassette anni al momento del suo insediamento – regnò con la mitezza e la moderazione che gli derivavano dai consigli del suo precettore e prestigioso ghost-writer, il filosofo stoico di origine ispanica Lucio Anneo Seneca, e fu ben indirizzato per gli affari di stato e l’esercizio delle armi dal prefetto al pretorio Afranio Burro 21. Se lo schema risponde a un modulo tipico delle biografie degli imperatori “cattivi”, è però plausibile che il matricidio del 59 (Britannico comunque era stato eliminato da Agrippina nel 55), sul quale influì l’opposizione di lei al rapporto con l’aristocratica Poppea Sabina, segnasse in effetti una cesura politica in senso autocratico 22. I rapporti di collaborazione di Nerone con il senato, per vari anni ab224 11. PRINCIPI E SENATO bastanza armonici, puntualmente peggiorarono. Una serie di iniziative giudiziarie illiberali, di confische tese a arricchire il demanio imperiale e altre concause fecero maturare il malcontento senatorio sino alla cosiddetta “congiura dei Pisoni”, dall’onomastica della famiglia della vecchia nobiltà che avrebbe dovuto salire al trono. La congiura, risalente al 65, fu però scoperta e fallì. Seguì una fase di terrore ai danni di molti aristocratici romani sospettati di esservi coinvolti e di altre personalità del mondo politico e culturale come Seneca, già dal 62 ritiratosi dal suo ruolo a corte, al quale fu ordinato il suicidio, e suo nipote, il poeta epico Lucano (autore di una Pharsalia, epopea densa di implicazioni politiche della guerra civile tra Cesare e Pompeo), già filoneroniano, soprattutto insofferente dinanzi alla censura imposta dal regime alla sua poetica; lo stesso probabilmente accadde allo scrittore Petronio Arbitro, l’autore del lussureggiante affresco sociale del Satyricon, se si può identificare in lui il Petronio elegantiae arbiter dell’imperatore ricordato da Tacito (Annali XVI 18, 2). Fu una vera ondata di suicidi, accettati o ordinati dai segretari di Nerone: il suicidio lasciava – misera consolazione, ma anche ragione sufficiente per sceglierlo – agli eredi della vittima la proprietà sui beni, viceversa destinati a essere incorporati dal fisco imperiale in caso di condanne a morte. Nell’anno che precedette la congiura, si concentrarono una vicenda e una riforma significative. Il 18 luglio del 64 un incendio divampò per larga parte di Roma, senza risparmiare il palazzo imperiale 23. Nelle fonti (Svetonio, Tacito, Cassio Dione) lo si associa spesso al dolo di Nerone, che avrebbe fatto divorare la città dalle fiamme sia per il gusto perverso di assistere a un tragico ma straordinario spettacolo analogo a quello cui assisté Priamo a Troia, sia per poi procedere a una monumentale ricostruzione che assecondasse i suoi ideali urbanistici e celebrasse il culto della sua personalità. In zone distrutte fu infatti edificata la Domus Aurea, impianto gigantesco, che interessava il Palatino, l’Esquilino e il Celio, magnificente per architettura e decorazioni, all’ingresso della quale venne posto un Colosso bronzeo con le fattezze del principe identificato con Apollo (Helios, il Sole) 24. Nerone incolpò della catastrofe i seguaci della nuova religione cristiana nata in età tiberiana, quando in Giudea era stato condannato a morte, su autorizzazione del prefetto Ponzio Pilato, Gesù Cristo, e che poi era stata predicata in vaste plaghe del Mediterraneo propagandosi sino a Roma 25. Svetonio nella sua biografia di Nerone (16, 2) sembra preferire una versione ove dei cristiani avrebbe preoccupato l’identità religiosa in sé 26. In ogni caso, si spiega con tale evento, e va visto forse anche in 225 LA CITTÀ E L ’ IMPERO controluce con le attese epifaniche e la mistica popolare di un ritorno di Nerone dopo la morte del vero, l’identificazione in Nerone dell’Anticristo apocalittico, che si infiltrerà in parte della letteratura cristiana (sul cristianesimo cfr. ampiamente CAP. 15). Difficoltà di ordine finanziario, e forse l’aumento della spesa pubblica collegato alle necessità di ricostruire la città dopo l’incendio, indussero Nerone, sempre nel 64, a una riforma del sistema monetario, attuata diminuendo il “piede” della moneta d’oro (aureus) e svalutando la moneta d’argento (denarius), di cui venne ridotta la componente di metallo prezioso: un intervento che consentiva di coniare e mettere in circolazione un maggior numero di monete dalla stessa riserva di metallo in modo da smuovere le acque di un’economia stagnante; un intervento che ci aiuta a ricordare come Nerone fu anche un amministratore, già in anni anteriori preso, non senza una tipica punta di originale radicalità, dalle questioni finanziarie e fiscali (Tacito, Annali XIII 50-51; Svetonio, Vita di Nerone 10, 1) 27. Nella pacificazione della Britannia recentemente conquistata, Nerone incontrò vari ostacoli, ma fu alla fine efficace (come nella repressione della pericolosa rivolta di Boudicca del 61) e ottenne successi nella politica orientale. Il suo miglior generale, Domizio Corbulone, aveva iniziato sin dal 55 a combattere contro i parti ed ebbe modo di rinsaldare il controllo romano sullo stato-cuscinetto di Armenia. Nel settembre 66, Nerone partì per un viaggio in Grecia, dove si trattenne per oltre un anno. Qui prese parte ad agoni poetici e sportivi vedendosi regalare numerosi premi di ‘vincitore assoluto di tutti e quattro i giochi’ (periodoníkes pantoníkes), secondo un meccanismo adulatorio applicato allo sport o all’arte che ha attraversato i secoli sino ai nostri giorni; finalmente proclamò a Corinto, sede del governatore dell’Acaia, la libertà della provincia e l’immunità fiscale. Un gesto simbolico che, insieme a gesti più concreti come i lavori di canalizzazione dell’Istmo, voleva ribadire la vicinanza del principe al mondo ellenico. Un’iscrizione in marmo da Acraephia (Karditsa), in Beozia, ci ha conservato la breve ma suggestiva allocuzione di Nerone: Raccoltasi la folla in assemblea, egli proclamò quanto è scritto qua sotto: “Un dono per voi impensabile vi concedo, elleni, benché nulla sia insperabile dalla mia magnanimità, un dono così grande che non vi potevate spingere neppure a chiederlo. Voi tutti greci abitanti dell’Acaia e di quel che finora è chiamato Peloponneso ricevete libertà e immunità quali non avevate neppure nei vostri tempi più fortunati, ché eravate schiavi o di stranieri o gli uni degli altri. Magari avessi potuto concedere questo dono quando l’Ellade era al cul- 226 11. PRINCIPI E SENATO mine, affinché molti di più potessero godere del mio beneficio! Perciò io biasimo il tempo che ha sminuito la grandezza del mio beneficio. Ed ora, non per compassione ma per benevolenza, io vi faccio del bene e contraccambio i vostri dei, di cui sempre per terra e per mare ho sperimentato l’attenzione nei miei confronti: essi infatti mi hanno dato la possibilità di fare sì grandi benefici. Giacché anche altri governanti resero libere città, ma solo Nerone una provincia” (Inscriptiones Latinae Selectae 8794; trad. Campanile, Iscrizione, p. 193; cfr. Smallwood, Documents, nr. 64). Nerone non si richiamava esplicitamente ai lontani precedenti di epoca repubblicana e alla dichiarazione dell’Istmo di Tito Quinzio Flaminino (196 a.C.: cfr. PAR. 4.5), ma il confronto è fatto da Plutarco 28. In quel tempo lontano, i romani liberavano la Grecia dalla minaccia macedone. Ma allora, che la Grecia era provincia romana? Calato in una dimensione (potrebbe apparire vagamente nietzscheana) sovraumana e individualistica, come si coglie anche da alcuni dettagli del suo discorso, Nerone in qualche modo liberava la Grecia anche dai romani 29. Il filellenismo venato di anticlassicismo e aperto a suggestioni di matrice plebea di Nerone, l’attrazione esercitata su di lui oltre che dalla Grecia dall’Egitto, più nel clima culturale – letterario, architettonico, artistico – che religioso, alimentava il fenomeno («insieme un’estetica e un programma politico», Petit, Histoire, vol. I, p. 108) comunemente chiamato neronismo e di cui furono partecipi un po’ tutti gli ambienti vicini al principe, i suoi gruppi dirigenti al loro interno in una buona percentuale composti da “uomini nuovi” indulgenti verso gli aspetti più apertamente dispotici dell’ideologia politica di Nerone 30. Di ritorno a Roma nel marzo 68, seppe di una grave rivolta in Gallia e nel resto dell’Occidente, guidata dal governatore provinciale Vindice. Ne seguirono altre. Dichiarato nemico pubblico dal senato fuggì e si suicidò nel giugno del 68 (cfr. Cassio Dione, Storia romana LXIII 20 per le acclamazioni che lo avrebbero accolto; cfr. Tacito, Storie I 4 per Nerone eroe della «plebe torbida» e i sentimenti di soddisfazione delle altre classi sociali alla sua caduta). La guerra civile che porterà al potere Vespasiano era già iniziata. 11.2 La dinastia flavia 31 Fra la seconda metà del 68 e la fine del 69, la lotta per il potere si scatenò violenta nelle province. In effetti, le legioni dei diversi settori provinciali, che gli studi sulla loro composizione e reclutamento mo227 LA CITTÀ E L ’ IMPERO strano già iniziare a essere meno romano-italici di un tempo, acclamarono i loro comandanti come imperatori e divennero decisive per la scelta del nuovo sovrano. Dagli scontri fra quattro generali, il patrizio Galba, Otone, Vitellio e Tito Flavio Vespasiano, emerse vittorioso quest’ultimo. Verso la fine del 69, le forze di Vespasiano, raccolte nell’area danubiana e in Oriente, ebbero la meglio su Vitellio, il quale, dopo aver saccheggiato l’Italia settentrionale, era disceso sino a occupare Roma. Vespasiano, il 22 dicembre del 69, fu riconosciuto imperatore dal senato. L’anniversario ufficiale del regno (dies imperii) per la prima volta fu non questo, ma, in modo significativo, quello del pronunciamento dell’esercito, ad Alessandria d’Egitto, l’1 luglio dello stesso anno. Fu un anno lungo, rivelatore, come ci dice Tacito, che ormai il ‘segreto dell’impero’ (arcana imperii), creare di fatto un imperatore, stava nelle mani degli eserciti e poteva avvenire lontano dalla capitale. VESPASIANO (69-79) E TITO (79-81) Flavio Vespasiano era stato in realtà esponente del potere neroniano. Nell’anno 66 era scoppiata in Giudea un’insurrezione mobilitata da correnti ebraiche intransigenti e animata anche da componenti di tipo sociale che si opponevano al dominio romano in nome della loro identità religiosa. A Vespasiano fu affidato il comando delle operazioni, e più tardi le truppe di suo figlio Tito assediarono e presero Gerusalemme (settembre del 70). La città fu saccheggiata, il Tempio distrutto, come “effetto collaterale” della guerra o per deliberata volontà romana; i denari destinati al Tempio confiscati dai romani (fiscus Iudaicus). Nasce qui la seconda diaspora del popolo ebraico, dopo quella conseguente alla vicenda babilonese. Focolai di resistenza comunque proseguirono a lungo 32. Gli ebrei che si erano chiusi nella fortezza di Masada, nei pressi del Mar Morto, nel 73, ormai privi di vie d’uscita, compirono il gesto estremo del suicidio di massa. Tito, tornato a Roma, celebrò col padre il trionfo, che fu pubblicizzato e ricordato come uno degli eventi mirabili dell’impero flavio; il cosiddetto Arco di Tito, nella parte occidentale del Foro Romano, commemora questo evento. A Roma coi Flavi fu anche l’aristocratico ebreo Flavio Giuseppe, discussa figura di mediatore tra i romani e gli insorti ebrei, e nostra fonte principale sugli eventi con l’opera storica intitolata La guerra giudaica 33. Nato a Rieti, in Sabina, da una famiglia di affaristi e speculatori finanziari, Vespasiano era riuscito a far carriera e a entrare in senato. 228 11. PRINCIPI E SENATO Era un valente militare e amava presentarsi come uomo semplice, ma sincero e volitivo, valorizzando a tutti i livelli (religioso, ideologico, pratico) le sue radici italiche e le sue qualità migliori. Le sue ruvide fattezze sono ben ritratte nella scultura ufficiale. Politicamente obbligata fu la sua rottura con la memoria di Nerone, sotto il quale pure, come si è detto, aveva fatto carriera. Smantellò, con una decisione certo anche densa di risvolti simbolici, la Domus Aurea, procedendo con drenaggi di aree lacustri e facendovi costruire l’Anfiteatro Flavio (poi chiamato Colosseo). Uscito dalle lotte civili come Augusto, esattamente un secolo dopo, Vespasiano ebbe come Augusto il culto della Pax, alla quale dedicò un tempio destinato a eternare il ricordo della vittoria sugli ebrei, e come lui fu attento alle forme legali. Si fece confermare da un senatoconsulto votato dai comizi (la lex de imperio) le attribuzioni militari e civili dei “migliori” fra i suoi predecessori, Augusto, Tiberio, Claudio. Un esemplare epigrafico in bronzo del provvedimento fu scoperto (o per qualcuno dissotterrato ad arte) dal celebre Cola di Rienzo nel 1347, che lo riutilizzò per ritrovarvi valori e memorie che facevano anche molto al caso della sua attività di tribuno filorepubblicano 34. La tavola della lex elenca tali attribuzioni e contiene anche una clausola discrezionale, notevole perché formalizzava l’aumento delle prerogative dell’imperatore, i cui atti sussumevano dal superiore interesse dello Stato 35. Come amministratore, Vespasiano mirò innanzitutto a consolidare il bilancio statale, gravemente danneggiato dalle recenti vicende politico-militari. Fu severo nella concessione delle immunità fiscali, procedette a nuovi catasti e censimenti e recuperò a vantaggio del demanio pubblico i beni ottenuti indebitamente da privati. Regolamentò lo sfruttamento delle miniere e ne migliorò il rendimento. Nel quadro di una politica tesa a sviluppare l’urbanizzazione, concesse a tutte le comunità della Penisola Iberica il diritto latino («A tutta la Ispania l’imperatore Vespasiano [...] concesse il diritto latino»; Plinio il Vecchio, Storia naturale III 4, 30) per preparare il passaggio su larga scala al diritto romano dei ceti dirigenti locali, che lo avrebbero ricevuto automaticamente all’atto dell’esercizio delle magistrature (norma interna alla più ampia lex Flavia municipalis) 36. Quando Vespasiano morì, il potere passò (nel giugno 79) nelle mani di suo figlio Tito, già associato ai sommi poteri e nelle attività di governo: la successione dinastica appariva nell’ordine delle cose. Pochi mesi dopo che era salito al trono, vi fu l’eruzione del Vesuvio, che distrusse Pompei, Ercolano e Stabbia 37. Immerso in un dramma di immani proporzioni, Tito poté esercitare subito il suo senso organizzativo e la benevolenza per le quali fu molto amato, quantunque 229 LA CITTÀ E L ’ IMPERO di lui siano tramandati anche delitti efferati. La brevità del regno rende difficile ogni valutazione, tuttavia il suo stile di governo sembra essersi differenziato da quello del padre: Tito fu più incline a svolgere una politica di apertura al mondo orientale, soprattutto sotto il profilo religioso (onorò divinità egizie come Iside e Apis) e fu – a parte la catastrofe del 79 – meno oculato, o meno avaro, nella gestione delle risorse pubbliche. Portò a termine i lavori per la costruzione del Colosseo, iniziati dal padre, e nell’80 lo inaugurò con uno spettacolo di cento giorni, durante i quali si ricorda vennero uccise migliaia di fiere 38. Morì l’anno successivo. IL ‘NERONE CALVO’: DOMIZIANO (81-96 D.C.) 39 Domiziano, l’altro figlio di Vespasiano, non è stato sin qui evocato anche perché, pur fruendo della qualifica ufficiale di Caesar, che assegnava un posto di primo piano nella gestione della cosa pubblica (si ricordino ad esempio i nipoti di Augusto, Gaio e Lucio), era tenuto piuttosto in disparte dalla gestione diretta della cosa pubblica. Svetonio lo definisce «il Nerone calvo», alludendo a una sua caratteristica fisica e al tempo stesso al suo modo dispotico di interpretare il ruolo di principe. Ebbe una concezione religiosa dell’autorità politica e ricercò, senza vedersela mai conferire ufficialmente – ossia dal senato –, la denominazione ancora trasgressiva per la sensibilità comune di ‘signore e dio’ (dominus et deus, Svetonio, Vita di Domiziano 13, 2). Fra le righe di una documentazione spesso pregiudizialmente ostile, si intravedono valide iniziative amministrative in ambito economico, con un occhio di riguardo all’Italia, verso la quale sembra avere attuato una politica di tipo protezionistico, onde evitare rischi di sovrapproduzione. Certo, la politica estera è il settore dove anche i principi dalla fama più trista ottenevano spesso i migliori risultati, che questo avvenisse perché erano supportati da abili comandanti o per la presenza di ambienti militari senatorio-equestri in grado di garantire una rete protettiva rispetto ad eventuali iniziative sconsiderate. In campo militare, Domiziano ottenne parziali successi. In Germania respinse, partecipando personalmente alla guerra, le incursioni delle bellicose tribù dei catti, mentre in Britannia la frontiera fu spostata più a nord: conosciamo le vicende dalla biografia dedicata da Tacito al suocero Agricola, il protagonista, invidiato da Domiziano, di tali vicende belliche. Più alterna fortuna ebbe il conflitto in Dacia (attuale Romania), dove la popolazione indigena capeggiata da un vigoroso personaggio, il re Decebalo, costituiva una minaccia per le province 230 11. PRINCIPI E SENATO danubiane, sinché nell’89 i romani furono costretti a un patteggiamento a loro sfavorevole 40. Fu solo negli ultimi anni, a partire dal 93, che tornò a esplodere la detestabile pratica delle delazioni verso presunti cospiratori e colpevoli di lesa maestà, con la conseguente applicazione arbitraria della pena di morte, la persecuzione di filosofi stoici (come Elvidio Prisco) oppure di personaggi dalle simpatie cristiane (come un Flavio Clemente cugino dell’imperatore). I casi noti, tuttavia, sono relativamente pochi, l’ordine di grandezza complessivo delle persone da lui fatte eseguire è ignoto, ma se nell’antichità si poté configurare il regno di Domiziano come quello di uno spietato autocrate, forse imbarazzati dai livelli della violenza dei regolamenti di conti fra potentati rivali negli stati totalitari del Novecento e operati dai tiranni sanguinari del nostro tempo, facciamo fatica a esprimere giudizi di merito altrettanto secchi 41. Nel settembre del 96 Domiziano perì a seguito di un complotto. 11.3 Donne e potere La componente femminile ebbe in epoca giulio-claudia un ruolo spiccato nella storia della corte e del potere, ed è facile constatare per questo periodo la particolare concentrazione di donne famose dell’antichità romana, magari confuse e caricaturizzate nella mente di molti di noi. Livia, madre di Tiberio e moglie di Augusto; la figlia del primo princeps Giulia (PAR. 10.10); le due Agrippine – la Maggiore, nipote di Augusto e moglie di Germanico, e sua figlia, sposa di Claudio e già madre di Nerone – ; Giulia Drusilla, la sorella amata che Caligola volle divinizzare dopo la morte; Messalina, altra moglie di Claudio; Poppea, amante e poi moglie di Nerone; la dotta liberta Atte, che dell’ultimo dinasta giulio-claudio fu insegnante, ma anche il più saldo e fedele amore. Col primo principato, la centralità della scena pubblica era occupata dalla famiglia imperiale, dalla domus Augusta, e tutto ciò che la riguardava era automaticamente fatto politico: è questo dunque un essenziale denominatore comune che spiega la fama e l’importanza politica di queste donne, che finirono col partecipare direttamente alle vicende della famiglia imperiale e a trame di corte spesso seguite da terribili scie di sangue. Ciascuna aveva la propria personalità ed usò le migliori armi a sua disposizione. Livia ebbe il prestigio di una nobile matrona e di una lunga vita resa straordinaria dall’esperienza di essere stata osservatrice intelligente e protagoni231 LA CITTÀ E L ’ IMPERO sta di tutti gli eventi della genesi del principato; Agrippina Maggiore oltre ad essere avvenente donna di cultura, si trovò ad ereditare la popolarità e il carisma del suo uomo Germanico e a cercare di mettere politicamente a frutto questa eredità, sino all’esilio e alla morte sotto Tiberio. In altri casi è probabile che vi sia stato un utilizzo strumentale e consapevole della seduzione e dell’erotismo su figure quali Claudio, particolarmente sensibili al fascino femminile, e si siano verificate situazioni nelle quali alcune donne si trovarono a esercitare con audacia il controllo di fatto del governo – una delle cause che portò Agrippina Minore alla morte – e ciò proprio in funzione delle crisi dei passaggi di regime: in diverse circostanze, infatti, simili transizioni erano rese più complesse da alleanze matrimoniali e manovre che avevano portato all’impero giovani principi quantomeno inesperti, come Nerone o lo stesso Caligola. Le donne furono anche protagoniste indirette di prese di posizione esemplari – dai loro comportamenti poteva dipendere l’immagine di un governo e delle sue politiche: si pensi a Giulia o alla principessa ebrea Berenice, allontanata da Roma a malincuore da Tito 42 – e di vendette “trasversali” di nemici politici degli uomini che erano loro legati, spesso ammantate da accuse di adulterio, che le condussero a messe a morte o esili. Uno scontro diretto tra donne caratterizzò il regno di Claudio e fu quello tra Agrippina e Messalina, conclusosi con l’esecuzione di quest’ultima nel 48. L’anno successivo, Agrippina ricevette il titolo di Augusta: ed era la prima volta che ciò accadeva, essendo vivo il principe. L’opposizione a Nerone si manifestò verso il 62 con il rovesciamento delle statue di Poppea Augusta e l’esaltazione della moglie dalla quale aveva divorziato, Ottavia 43. 11.4 Despoti megalomani: un problema storico Caligola dissipatore di ricchezze, incestuoso, imprevedibile in ogni suo atto, psicopatico. Nerone narcisista, crudele, egocentrico. Domiziano tirannico e privo di scrupoli. Tutte caratteristiche almeno parzialmente interscambiabili tra questi imperatori (la “follia al potere”, la “crudeltà nell’esercizio del potere”, la “orientalizzazione del potere”), bramosi di farsi onorare come dèi in terra, ma anche abili nell’utilizzare cariche e titoli tradizionali per accumularli con più sobrio pragmatismo. Su di essi si è addestrata la letteratura antica e moderna, ma anche spessissimo il teatro e il cinema. Sono state azzardate persino letture psicanalitiche, come nel caso dei presunti traumi in232 11. PRINCIPI E SENATO fantili di Caligola 44. Il principato augusteo, così circospetto nella sua lucida costruzione di un nuovo sistema politico, sembra lontano, con loro. Senza procedere necessariamente con repressioni sanguinose, essi suscitarono odio e repulsione nei ceti sociali elevati, e in primo luogo nei senatori, con i quali, a un certo punto del loro regno, entrarono regolarmente in conflitto. Furono da subito considerati «cattivi principi», data l’impronta senatoria della storiografia romana repubblicana e imperiale (anche quando a scrivere di historia non erano appartenenti all’ordine senatorio, ma funzionari di estrazione equestre o dignitari di corte, i giudizi storici e i modelli espositivi dipendevano da quella tradizione) e gli autori moderni hanno a lungo seguito serenamente le indicazioni delle fonti antiche. Se appare fin troppo facile dipingere un quadro fatto solo di aspetti negativi, il compito si intrica quando dallo stereotipo moralistico si cerca di enucleare un giudizio più libero, per capire chi furono realmente queste personalità e quale fu la loro politica. Certamente la tensione a riconoscere nelle loro attività delle linee comprensibili è una tensione metodologicamente positiva e utile 45, sebbene talvolta si sia pervenuti troppo superficialmente a trattare, per reazione contro le idee ricevute, da statisti di grande valore quegli imperatori in passato deprivati di una qualunque razionalità operativa. Un rischio in cui talora incorre la critica storica è appunto quello di smussare fino al loro annullamento le componenti di follia megalomane di questi imperatori, attribuendole alle invenzioni malevole delle fonti. Elemento comune a Caligola, Nerone e Domiziano fu una concezione eroica e sublime del potere imperiale cui erano stati chiamati. Ad essa si lega da un lato la passione per gli eventi spettacolari e il gusto della prodigalità (costruzioni, distribuzioni e spese per l’organizzazione dei giochi) che li avvicinava alle folle e in primo luogo alla plebe romana 46, dall’altro un modo di interpretare l’azione di governo sulla base delle proprie convinzioni e dunque in modo innovativo e originale sino ad incorrere in eccessi non disconoscibili, ma eccessi che potevano muoversi anche lungo una linea di eccessivo tradizionalismo (cfr. le punizioni comminate da Domiziano alle vestali colpevoli di reati sessuali: Svetonio, Vita di Domiziano 8, 3-4). Ciascuno di questi principi, lo si è potuto seguire, si impegnò d’altra parte in un’attività più normale, con interventi in campi diversi: da quello costituzionale a quello finanziario, alla politica militare e all’organizzazione territoriale, al potenziamento di propri interessi e proprie vocazioni che favoriva un determinato clima culturale e artistico, come per i mutamenti introdotti da Nerone 47. 233 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 11.5 Principi e senato Una volta irrobustito il regime imperiale, in condizioni di “ordinaria” libertas, tra il principe e il senato venivano dibattuti gli affari politici, e il senato come corpo, riportato a 600 membri dopo tre revisioni della lista (lectiones) operate da Augusto, si vide riconosciute competenze non trascurabili: accresciuta l’attività legislativa sfociante nei senatus consulta, date funzioni consultive per le questioni fiscali e relative al tesoro, rinnovato il suo peso come corte di giustizia e custode della pubblica moralità, il senato manteneva poi spazi di autonomia nell’amministrazione delle province pubbliche (cfr. PAR. 10.8). Le magistrature (da quelle rivestite in ingresso anche prima della questura sino al consolato) non subirono clamorose perdite di ruolo – se si eccettua il caso più evidente di crisi, concettuale e pratica, della carica tribunizia – e costituirono il gradino per l’esercizio di rilevanti attività di governo a Roma, in Italia e nelle province 48. Ad assicurare la relativa vitalità del senato c’era il rinnovamento interno grazie ad una composizione che andava garantendo, secondo gli orizzonti individuati da Claudio, un progressivo inserimento di provinciali provenienti dalle più potenti e dinamiche famiglie magnatizie dell’impero, spesso già pervenute all’ordine equestre 49. D’altra parte, qualunque confronto con la forza politica dell’antico organismo repubblicano sarebbe pleonastico. Il confronto risulterebbe piuttosto inclemente innanzitutto ove si cercasse un riscontro degli effettivi poteri decisionali del senato altoimperiale: il principe non era in grado di comandare tutto, ma aveva in ogni campo un’autorevolezza e una strumentazione giuridico-costituzionale che ne facevano qualcosa di ben maggiore di un suggeritore di indirizzi. La composizione del senato dipendeva dal principe, che inoltre aveva un suo consilium ristretto (consilium principis) che lo affiancava nelle decisioni. Di esso facevano parte anche senatori, ma in linea di massima fedeli all’autorità sovrana, e ciò, insieme al compito affidatogli di predisporre l’ordine del giorno delle sedute del senato, era un ulteriore strumento di controllo. Le relazioni tra imperatori e senato – ove per senato si intenda: casi rilevanti rappresentati da individualità della curia, maggioranze formatesi al suo interno sulle singole questioni, gruppi che erano visti dall’esterno come emblema unitario del corpo, eccezionalmente coesione effettiva dell’intero organismo – sono il più significativo asse portante della politica del I secolo d.C. 50, una politica beninteso molto mutata dalla repubblica, ma nella quale il raggiungimento di ampi 234 11. PRINCIPI E SENATO consensi interni al senato consentiva di condizionare (o di legittimare maggiormente) le scelte imperiali, e viceversa tali possibilità erano ostacolate dalla costante presenza di divisioni interne al senato (per esempio Tacito, Storie IV 43, riferito al periodo flavio). Una chiave interpretativa dei rapporti tra principi e senato, di sapore quasi tacitiano, è stata avanzata di recente: il senato, ormai debole e demotivato, non avrebbe aspirato alle somme responsabilità di governo, ma a far parte di un sistema politico nel quale si legittimava la monarchia imperiale e si lasciava agire liberamente purché essa non calpestasse gli ideali dell’identità senatoria (ideali che a loro volta non erano più venati di nostalgie repubblicane che non fossero letterarie), e non conculcasse quote di un potere che rimaneva fonte di una serie di responsabilità, privilegi e “vetrine” importanti 51. La forma della coesistenza fra principi e senato oscillava anche all’interno di uno stesso regno. Quando, negli ultimi anni del governo tiberiano, il senato ricevette da Tiberio competenze dirette in materia di elezioni dei magistrati, già da tempo l’atteggiamento complessivo del principe verso di esso era cambiato, e in peggio 52. Morto Tiberio, il senato poteva sperare di incrementare la propria influenza su un principe giovane e inesperto rispetto agli ultimi difficili anni tiberiani, ma le sue aspettative furono abbastanza presto disilluse. Poi, la transizione tra Caligola e Claudio fu caratterizzata da traumatici confronti tra il nuovo imperatore e un gran numero di singoli senatori (Svetonio, Vita di Claudio 29, 1-2; Tacito, Annali XI 1, 5), presto sfociati in un’amnistia e in una serie di altri gesti di cortesia e amicizia, fra i quali la personale partecipazione alle riunioni, con i quali Claudio intese mostrare deferenza verso una curia che rimaneva importante per la preservazione del potere e della stabilità politica 53. Da Nerone a Domiziano tali ondeggiamenti tornarono a presentarsi, con una regola, nella prospettiva senatoria, significativamente così enunciabile: «dopo un pessimo principe, il primo giorno è quello migliore» (Tacito, Storie IV 42). Un aspetto del conflitto fra principi e senato nella fase neroniana e flavia coinvolge la cosiddetta opposizione stoica: critiche morali ai comportamenti degli imperatori, intolleranza imperiale verso le forme di filosofia più direttamente interessate alla politica 54. Nel 66 fu eliminato Trasea Peto, espressione degli ideali etici e dei modelli comportamentali stoici – la ricerca dell’atarassia individuale era associata e non scindibile dalla indipendenza politica – intorno ai quali si coagulò un importante filone di opposizione, destinato a permanere nel contesto politico flavio con la leadership di Elvidio Prisco, genero di Trasea. I momenti di scontro più aspro erano caratterizzati tipicamente dalle procedure per lesa maestà, alle 235 LA CITTÀ E L ’ IMPERO quali gli imperatori ricorrevano con processi-farsa di tipo inquisitorio che si tenevano a corte; essi facevano per lo più seguito a delazioni che sollecitavano la sempre latente sindrome del sospetto e dunque inducevano i principi a temere per la tenuta del loro governo e l’incolumità della loro stessa persona. Il ricorso da parte degli imperatori ai processi politici poteva andar contro alle promesse fatte o a normative esistenti: in particolare, gli imperatori erano impediti – se non avessero voluto issarsi al di sopra delle leggi – di condannare a morte senatori, perché erano loro pari; talvolta essi si impegnarono persino con il senato a rifuggire da comportamenti tirannici esercitando con la massima cautela e temperanza la giurisdizione 55. Così: Nerone entrò nella curia e, dopo aver parlato dell’autorevole conferma del senato e della proclamazione da parte dei soldati, ricordò i consigli e gli esempi che gli stavano dinnanzi per assumere nel modo migliore la carica di principe [...]. Tracciò le linee del futuro governo, dichiarandosi soprattutto alieno da quegli abusi, che avevano suscitato un’avversione ancor viva. Egli, infatti, non sarebbe stato giudice in tutti i processi ad evitare che, racchiusi nella reggia accusatori ed accusati, spadroneggiasse la potenza di pochi; nulla in casa sua sarebbe stato posto in vendita o alla mercé dei favoriti; la corte sarebbe stata distinta dallo Stato. Il senato avrebbe dovuto conservare le antiche sue competenze, mentre l’Italia e le pubbliche province avrebbero dovuto d’ora innanzi ricorrere ai tribunali dei consoli, che sarebbero stati a loro volta intermediari tra loro e il Senato (Tacito, Annali XIII 4; trad. B. Ceva). Altre meccaniche di sopruso e di violenza antisenatorie erano possibili. Sotto Nerone, ma antecedenti sono noti anche negli anni di Caligola, una sfilza di processi per cattiva amministrazione colpì governatori provinciali di rango senatorio, ma anche, in egual misura, responsabili equestri 56; del resto è ormai giustamente prevalsa nella storiografia la convinzione che il duplice ordine senatorio-equestre al vertice dello Stato non possa essere considerato caratterizzato da un’antinomia interna quanto a rapporti col principe. Dalla prospettiva senatoria, pure Domiziano si meritò la damnatio memoriae, con la distruzione delle sue statue o la decapitazione delle teste dalle stesse, per il clima oppressivo instaurato, le sue attitudini autocratiche degli ultimi anni e la tendenza ad esorbitanti cumuli di antiche e gloriose cariche fra le quali il consolato. Plinio il Giovane, nel Panegirico a Traiano (58,3), esprimeva bene la percezione orgogliosa di possesso verso le antiche istituzioni diffusa fra i senatori «ecco un’altra testimonianza che era ritornata la libertà: console era un altro all’infuori dell’imperatore» 57. L’idea romana di libertas conserva una sua funzione, nella medesima ottica di conservare al senato autorità morale e politica. 236 11. PRINCIPI E SENATO Come ebbe a ricordare Tacito in un famoso passo (Agricola 3, 1), dopo la caduta di Domiziano «principato e libertà, cose un tempo inconciliabili» poterono di nuovo coniugarsi in un nuovo ordine di pace sociale e di rispetto per i costumi politici tradizionali: anticipato da Cocceio Nerva, sarà questo un elemento centrale dell’ideologia dell’età antonina alla quale ci avviciniamo 58. Note 1. Questa metafora organicistica, già antica, è stata poi ripresa in epoche moderne: Dohrn-Van Rossum, Organ, pp. 526 ss. 2. Rebenich, Mommsen; Mommsen e l’Italia. 3. Veyne, Impero greco-romano, pp. 18-9. Sul concetto di res publica e sul suo impatto politico-culturale in epoca repubblicana e imperiale ha un libro in preparazione Claudia Moatti, che ringrazio per avermene informato. 4. Per i secoli I e II, ancora prezioso è Garzetti, Impero. 5. Levick, Tiberius; Yavetz, Tiberio. 6. Cfr. ora Troiani, Console repubblicano, per il 41 d.C. 7. Svetonio, Vita di Tiberio 52, 2; Tacito, Annali II 59; cfr. anche i documenti richiamati da Sherk, Roman Empire, pp. 60-1; inoltre Braccesi, Alessandro, pp. 65-80. 8. Su Germanico e la documentazione epigrafica che lo riguarda: Gallotta, Germanico; Hurlet, Collègues, pp. 163-208; Yavetz, Tiberio, pp. 17-32; Fraschetti, Germanico; Tabula Siarensis: “Année Epigraphique”, 1984, 508; Eck, Caballos, Fernández, Senatus Consultum; Rowe, Princes. 9. Velleio Patercolo, Storia Romana II 127-128 ricorda in una pagina di impronta panegiristica le origini familiari, equestri patrilinearmente, nobili per discendenza materna. Nel 23 muore Druso Minore, figlio di Tiberio: le principali fonti letterarie, eccettuato Velleio, incolpano Seiano. 10. Tra cui sembra abbia avuto un ruolo centrale la cognata e madre di Germanico Antonia Minor: Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche XVIII 181-182. 11. Mazzarino, Impero, pp. 146-8; Yavetz, Tiberio, pp. 73-5; Tchernia, Crise. 12. Momigliano, Personalità; Auguet, Caligola; Ferrill, Caligula (fra i pochi studiosi a vedere oggi in Caligola davvero un folle e a rimarcare la vicinanza della tradizione antica con la realtà delle cose); Winterling, Caligola. 13. Sul punto cfr. anche le notazioni di Gradel, Emperor, pp. 140-1. 14. Gradel, Emperor, pp. 146-59. 15. Auguet, Caligola, pp. 108-11. 16. Levick, Claudius. In italiano una vecchia ma interessante monografia è Momigliano, Claudio; bibliografia aggiornata: Fasolini, Aggiornamento. 17. Importanti furono anche le opere pubbliche a Roma e in Italia, con particolare riguardo a quelle collegate con l’ingegneria idraulica, canalizzazioni, bonifiche, nuovi acquedotti, prima costruzione di Portus. 18. Sulla Tavola claudiana di Lione e sul problema se vi fosse o meno una limitazione ai cittadini romani provinciali del diritto di ottenere cariche pubbliche in Urbe (questione dello ius honorum) cfr. Sherwin-White, Citizenship, pp. 234-6, 237-50; Chastagnol, Sénat, pp. 79-96; Giardina, Italia, pp. 3-17, in particolare pp. 12-5; Roda, 237 LA CITTÀ E L ’ IMPERO Senato, p. 154. Sul rapporto tra testo epigrafico e parallelo tacitiano cfr. De Vivo, Tacito e Claudio. 19. Sull’operetta di Seneca basti vedere Grimal, Seneca, pp. 166-73. 20. Warmington, Nerone; Cizek, Nerone; ora soprattutto Champlin, Nerone. Da considerare anche la collana di contributi miscellanei pubblicata dall’Università di Lovanio sotto il titolo Neronia. 21. Su Seneca come consigliere del principe: p. es. Warmington, Nerone, pp. 34-50, 63-73; Seneca uomo politico; sul suo trattato del 56 d.C., La clemenza, di consigli sulla monarchia ideale indirizzato a Nerone, cfr. p. es. Cizek, Nerone, pp. 98-102; Grimal, Seneca, pp. 73-9. In questo periodo Nerone smussò una parte della politica claudiana, come quella di centralizzazione burocratica affidata ai liberti. 22. Cizek, Nerone, pp. 54-8. La congiuntura 58-59 non fu facile e fu segnata anche dai disordini sociali più gravi che la storia italica altoimperiale conosca: gravi tensioni interne a Pozzuoli, una vera e propria guerricciola tra pompeiani e nocerini attizzata forse da rivalità sportive. 23. Da ultimo Champlin, Nerone, pp. 156-62; 230-69. 24. Sciortino, Segala, Domus Aurea; Ball, Domus Aurea. 25. Sui cristiani e l’incendio da ultimo specificamente Giovannini, Incendium; González Salinero, Persecuciones, pp. 45-6 (attacco anticristiano occasionale); diversamente Sordi, Impero romano e cristianesimo, pp. 173-80. 26. Si veda il celebre discusso brano di Tacito, Annali XV 44, 2-5, con il primo compiuto riferimento di fonti romane sulla diffusione del cristianesimo e sulla reazione delle autorità ad essa. Il lettore sappia dell’esistenza di un dibattito (un po’ ideologizzato) sul significato dell’institutum neronianum menzionato da Tertulliano, Alle nazioni I 7, 14, come fondamento giuridico della persecuzione del 64; cfr. per esempio Carrié, Rousselle, Empire en mutation, p. 114 (Carrié). 27. Sul progetto di riforma fiscale cfr. per esempio: Mazzarino, Impero, p. 219; Cizek, Nerone, pp. 120-4. 28. Plutarco, Vita di Flaminino 12, 8, con la distinzione fra la proclamazione fatta dall’araldo a nome del generale repubblicano e il discorso fatto personalmente da Nerone; cfr. inoltre Pausania, Descrizione della Grecia VII 17; Cassio Dione, Storia romana LXIII 11, 1. 29. Quel che è certo è che l’evento fu celebrato nelle emissioni monetarie greche e apprezzato dall’opinione pubblica colta di quel mondo: Warmington, Nerone, pp. 159-60; Champlin, Nerone, pp. 70-9; 175-7. 30. Picard, Auguste et Néron, pp. 85-107; Cizek, Nerone, pp. 107-53. 31. Levick, Vespasian; Boyle, Dominik, Flavian Rome. Per la drammatica transizione di potere del 68-69, cfr. Bessone, Rivolta. 32. Sartre, Haut-Empire, pp. 371-87. 33. Cfr. in una sconfinata bibliografia: Hadas-Lebel, Flavio Giuseppe; Price, Rivolta; Edmonton, Mason, Rives, Flavius; Rives, Flavian Religious Policy. 34. Fra i contributi più recenti, Collins, Cola. 35. Sulla lex de imperio Vespasiani (la tavola è oggi conservata ai Musei Capitolini; Corpus Inscriptionum Latinarum VI 930; Crawford, Roman Statutes I, pp. 549-54) cfr.: Brunt, Lex; Jacques, Scheid, Roma, pp. 31-6. Da ultimo, nell’ambito delle celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano, cfr. il convegno svoltosi a Roma dal 20 al 22 novembre 2008, dal titolo La lex de imperio Vespasiani e la Roma dei Flavii e ora Coarelli, Divus (pp. 518-39, bibliogr.). 36. González, Lex; Lamberti, Tabulae Irnitanae. 37. Le esalazioni uccisero Plinio il Vecchio, autore della Storia naturale, avvicinatosi troppo all’epicentro del fenomeno vulcanico, mosso dalla curiosità scientifica e 238 11. PRINCIPI E SENATO dal desiderio di aiutare amici che si trovavano in pericolo. Plinio era stato anche funzionario al servizio dei Flavi, senza divenirne mai un servile commis. Su di lui mi permetto di rinviare a Cecconi, Passato e presente. 38. Hopkins, Beard, Colosseo. 39. Non ci sono monografie recenti in italiano. Cfr. Jones, Domitian; Southern, Domitian. 40. Stefan, Guerres daciques. Incidentalmente si noti qui che il settore renano della Germania Superiore era unito all’area di confine danubiana da un complesso sistema di strutture militari, strade, terre colonizzate, noto come Campi Decumati, che era stato a sua volta istituito in età flavia. 41. Svetonio, Vita di Domiziano 10, 2, parla di molti senatori (complures senatores) fatti uccidere dal tiranno. Elenco delle vittime note della repressione domizianea, in Jones, Domitian, pp. 182-92. 42. Ragioni di stato gli imposero di rinviare lontano la principessa ebrea Berenice di cui era, ricambiato, innamorato, cfr. Svetonio, Vita di Tito 7. Su Tito fra dimensione privata e funzione politica si vedano le pagine di Mazzarino, Impero, pp. 281-7. 43. Per un approccio diverso da quello delle immancabili biografie romanzate, cfr. Bauman, Women, pp. 99-210; Wood, Women. 44. Momigliano, Personalità, p. 205; Auguet, Caligola, pp. 45-6, 160-4. 45. Champlin, Nerone, incentra su questo punto, fornendo una risposta sostanzialmente positiva, la sua indagine sul regno neroniano. 46. Per esempio Cassio Dione, Storia romana LIX 5; LXIII 1; 4; 8; Auguet, Caligola, pp. 59-60; Cizek, Nerone, pp. 109-13. 47. Su Nerone, la sua educazione, la sua passione per l’arte e la cultura greca: della ampia bibliografia cfr. Warmington, Nerone, pp. 146-64, per esempio pp. 150-1; Champlin, Nerone, pp. 69-108. Sugli imperatori “folli” cfr. inoltre Veyne, Impero greco-romano, pp. 33-8, con acute notazioni. 48. Sulle procedure comiziali di età augusteo-tiberiana, nelle quali si distinguevano delle centurie “destinatrici” prima senatorie poi senatorio-equestri collegate alla commemorazione della famiglia imperiale, informazioni essenziali forniscono la Tabula Hebana e la Tabula Siarensis: Roda, Senato, pp. 157-8. La trattazione più completa del senato imperiale è quella di Talbert, Senate; cfr. anche Jacques, Scheid, Roma, pp. 85-98; Chastagnol, Sénat; Roda, Senato. Dell’antipatia tacitiana verso Tiberio e della critica sferzante dell’inerzia vile dei senatori è espressione, fra tante altre, Annali I 81, proprio riferito al controllo imperiale, mediante candidature, sul funzionamento dell’assemblea destinata a eleggere i consoli. 49. Su tale processo, ricostruibile mediante il metodo prosopografico, cfr. PAR. 13.5. 50. Per esempio Rudich, Dissidence, pp. XVII-XXXIV, 250-1; Pani, Politica, pp. 248-50; Roda, Senato, specialmente pp. 143-7; Roller, Autocracy; Roman, Empereurs; Veyne, Impero greco-romano, pp. 22-4, sulle forme del compromesso tra principe e senato. 51. Veyne, Impero greco-romano, specialmente pp. 22-3; cfr. Rudich, Dissidence, pp. XIX-XX. 52. Levick, Tiberius, pp. 113-5. 53. Levick, Claudius, pp. 93-4. 54. Garnsey, Saller, Storia, p. 116. 55. Cassio Dione, Storia romana LXVII 2, 4; LXXV 2, 1; Veyne, Impero greco-romano, p. 20 e nota 81 (a p. 53); più in generale Fanizza, Delatori; Rivière, Délateurs. 239 LA CITTÀ E L ’ IMPERO 56. Cfr. Cassio Dione, Storia romana LIX 18; LIX 27; Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche XVIII 304-309. 57. Evidentemente ciò era allo stesso tempo sentito come un oltraggio e toglieva spazi utili, ma in questo Domiziano non era più invadente del padre e del fratello: Jones, Domitian, pp. 160-9. Cfr. Jones, Senatorial Order. 58. Vervaet, Senatorial Opposition; Fanizza, Senato. Su Tacito, più volte citato in questo capitolo, un’opera classica scrisse R. Syme; cfr. ora Giua, Ripensando Tacito. 240 12 L’impero nel II secolo: dall’apogeo alla perturbazione degli equilibri Nel periodo che stiamo per esaminare, l’impero romano raggiunse la sua (effimera) massima espansione, con Traiano, il potere centrale fu in grado di impostare una efficace politica di controllo alle frontiere e di continuare ad amministrare piuttosto serenamente i frutti della pace e dell’integrazione garantite all’impero a partire dal riassetto augusteo (cfr. CAPP. 13 e 14). Però è evidente che questo equilibrio doveva covare alcune uova di serpente, giacché esso, quando lampeggiarono le prime serie difficoltà militari ai confini, pur essendo sedati i pericoli immediati, rivelò elementi di crisi a vari livelli, mai registrati in modo così inquietante durante il principato. Al II secolo è stato anche attribuito uno “spirito del tempo”, una mentalità individualistica, come dimostrerebbe la rilevante crescita nei meandri della società della preoccupazione di sé, dall’attenzione alla salute, alla ricerca del senso della propria esistenza. A questo tipo di sviluppi, di solito collegati con una presunta “fine della politica”, chi scrive guarda con scetticismo, e pertanto si limita a rinviare per dovere di cronaca a lavori significativi che se ne sono occupati 1. 12.1 Il principato da Nerva a Adriano (96-138) NERVA E L’INSEDIAMENTO DI TRAIANO, OPTIMUS PRINCEPS (98-117) 2 Estinta la dinastia flavia con la caduta di Domiziano, vi fu una cesura abbastanza netta nel sistema di devoluzione del potere. La “scelta del migliore” tra i senatori, attuata mediante adozione 3, divenne vera e propria teoria politica: l’ereditarietà era sottoposta a revisione critica e rifiutata; ora gli imperatori avrebbero designato non in base a rischiosi criteri dinastico-parentelari, ma alle qualità e al prestigio di uomini mossi dallo spirito di servizio e non dall’amore per il potere. 241 LA CITTÀ E L ’ IMPERO Tale impianto ideologico fu animato e declinato da filosofi, consiglieri e amici del monarca; nella prassi, la sua realizzazione fu favorita dal fatto che Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio – tutti sovrani sui quali ci soffermeremo in queste pagine – non ebbero figli maschi e potenziali eredi al trono. Marco Cocceio Nerva (96-98 d.C.), nominato al soglio imperiale dai congiurati che avevano eliminato Domiziano, era un anziano e rispettato senatore, prescelto essenzialmente per traghettare il passaggio ad una situazione di maggiore stabilità: già nell’ottobre del 97 Nerva adottò con una cerimonia solenne in Campidoglio il governatore consolare di una delle province di Germania, Marco Ulpio Traiano, al quale vennero subito conferiti il titolo di Caesar e i supremi poteri militari e civili. Con questa iniziativa, Traiano era associato al potere e aveva ricevuto l’investitura formale per la successione, avvenuta alla scomparsa di Nerva nel gennaio del 98. Traiano era di Italica, in Betica: fu il primo imperatore che si possa ritenere di famiglia davvero radicata in provincia, e proveniva da quella Hispania che era forse nella seconda metà del I secolo l’area mediterranea più dinamica sia sul piano economico, sia sul piano culturale, avendo illustrato in un passato recente la vita pubblica di Roma, con figure come Seneca e Lucano o, scrittori di più modesta origine, il poeta Marziale, l’avvocato e maestro di eloquenza Quintiliano. La sua figura diventerà simbolo tradizionale del potere spagnolo, basterebbe ricordare il Trionfo di Traiano, dipinto di una sala del Palazzo Reale di Madrid. Aveva raggiunto il primo consolato nel 91 sotto Domiziano, il cui regime non aveva ancora imboccato definitivamente la china del dispotismo. Lungi dall’essere un uomo di paglia, Traiano sin dall’inizio si prestò a un progetto voluto dai gruppi più influenti di un senato finalmente capace di rialzare la testa, i quali ne fecero subito un modello ideale secondo i valori tradizionali dell’organismo col quale già da Nerva era stata ripristinata una cordiale intesa e dai cui ambienti dipendeva ancora in larga misura la costruzione dell’opinione pubblica del tempo; Traiano sembrava incarnare tutte le migliori virtù aristocratiche: onestà e semplicità, coraggio e esperienza in guerra, capacità politiche. Nel 103, le emissioni monetarie lo denominavano optimus princeps – un titolo conferitogli però ufficialmente solo dieci anni dopo – e risultava accompagnato nelle legende dal riferimento al senato e al popolo romano. Il titolo di Ottimo aveva anche implicazioni di natura religiosa: Traiano era visto come rappresentante in terra di Giove Ottimo Massimo; il Panegirico recitato da Plinio il Giovane (così come il gruppo di quattro orazioni Sulla 242 12. L ’ IMPERO NEL II SECOLO regalità di Dione di Prusa) è una suite continua su tutti questi motivi. La nuova età dell’oro era fondata sul ritorno a una normalità della libertas senatoria, una normalità che da oltre un secolo si riteneva rappresentata dalla assidua presenza del princeps alle sedute nella curia; ed essa era posta in contrasto con l’epoca asfittica e illiberale che l’aveva preceduta (Plinio il Giovane, Panegirico a Traiano 76, 1-3) 4. TRAIANO: POLITICA AMMINISTRATIVA E NUOVO SLANCIO IMPERIALE Plinio il Giovane, amico e collaboratore di Traiano, ci fornisce anche con il suo epistolario una preziosa e meno enfatica testimonianza dei primi lustri del II secolo. In particolare, il X libro, contenente il carteggio fra i due durante il governatorato pliniano di Bitinia all’incirca nel triennio 111-113 d.C., getta luce sui meccanismi concreti di funzionamento delle comunicazioni fra corte e amministratori provinciali, la cui fruttifera dipendenza dal principe divenne un elemento dell’ideologia ufficiale 5. Un marchio specificamente traianeo fu la gestione dell’Italia: Traiano implementò il controllo dei bilanci delle città provinciali, ma con intensità particolare di quelle italiche attraverso appositi delegati (curatores rei publicae) e prese iniziative importanti per promuovere la ripresa demografica ed economica della Penisola, la cui posizione di primato e di centro del mondo romano mediterraneo andava subendo una flessione, legata allo sviluppo e dunque alla concorrenza delle province, sia per la produzione agricola, sia per quella manifatturiera 6. A lui è attribuibile lo sviluppo (l’ideazione del programma sembra già di Nerva: Epitome sui Cesari 12, 4) di una speciale forma di prestito ipotecario, per lo più proporzionale alla dichiarazione del valore dei fondi e delle costruzioni ivi presenti, a proprietari terrieri peninsulari, i cui interessi vennero devoluti al sostentamento e all’educazione di ragazzi bisognosi. L’istituto è noto come Alimenta, e delle operazioni gestionali, poi ripartite in vere e proprie circoscrizioni, si occupavano appositi funzionari di alto rango. Nonostante le testimonianze non manchino – fra le quali spiccano le due tavole bronzee di Veleia nel piacentino (in Emilia) e di una località nota anticamente come Ligures Baebiani (in Campania) –, sulla finalità del programma nell’ottica imperiale non si è arrivati a un’opinione condivisa: ostentazione non priva di astuzia propagandistica della indulgentia, della generosità, imperiale? Effettiva volontà di ridar linfa alla sfibrata demografia dell’Italia anche con l’obiettivo di rimpinguare le potenzialità dell’esercito legionario? Tentativo di rilanciare lo 243 LA CITTÀ E L ’ IMPERO sviluppo di un’agricoltura peninsulare che dava segni di crisi? Le indicazioni a favore e contrarie all’una o all’altra teoria si bilanciano, ma evidentemente la sollecitudine particolare verso l’Italia ne è denominatore comune, di per sé significativo 7. Come è ben noto, la fama di Traiano, la cifra del suo regno, è data in primo luogo dalle sue campagne militari che alla luce di valutazioni abitualmente accolte condussero, sia pure per una stagione effimera, alla massima espansione territoriale mai raggiunta dall’impero (cfr. FIG. 18, p. 206). I fregi della Colonna di Traiano, ancor oggi visibile nel foro dello stesso principe 8, alle spalle della valle del Colosseo e lungo la linea dei fori imperiali, forniscono, per uno sviluppo che va in altezza sino a 40 metri, una dettagliata narrazione delle campagne daciche: attraversamenti del Danubio, discorsi imperiali alle truppe, battaglie, sottomissioni dei barbari, scene di sacrifici ecc. Traiano, pur non avendo partecipato direttamente agli scontri militari (anche se una delle sue peculiarità di imperatore fu proprio quella di avere delegato il meno possibile a altri generali la conduzione delle guerre, cfr. per esempio Cassio Dione, Storia romana LXVIII 10, 4), vi risalta quale protagonista assoluto delle due guerre (tra il 101 e il 106) combattute contro i daci del re Decebalo, popolazione che aveva già messo in difficoltà Domiziano, e proprio tale confronto avrà costituito un titolo di merito specialmente enfatizzato dai gruppi vicini al potere. Tutta la regione, ricca di giacimenti minerari, fu assoggettata e fu ripartita in tre province transdanubiane 9. In queste operazioni svolse un ruolo importante L. Licinio Sura, senatore originario di Barcellona, tre volte console, probabilmente il più stretto amico e consigliere del principe. Il tesoro dei daci servì alla preparazione delle altre campagne militari. Traiano ottenne l’annessione del regno arabo dei nabatei, che fu trasformato nella provincia di Arabia Felix (corrispondente all’odierna Giordania), e a partire dall’autunno 113 si avventurò in un’offensiva contro i parti. Roma aveva esigenze strategiche, il migliore controllo e l’avanzamento del confine mesopotamico, e i suoi principi la sempre viva ambizione di ripercorrere le gesta orientali di Alessandro il Grande. Furono prese varie città, fra le quali Ctesifonte, capitale del regno partico, e Babilonia, e venne progettata la creazione delle province di Assiria e Mesopotamia. Lo scoppio di una serie di rivolte in diverse zone nevralgiche dell’area vicino-orientale ne rese difficile il pieno assoggettamento. Data una sistemazione piuttosto precaria all’Oriente, nell’agosto 117, Traiano morì in Cilicia, sulla via del ritorno 10. 244 12. ADRIANO L ’ IMPERO NEL II SECOLO (117-138 D.C.): VIAGGI ED ELLENISMO 11 Forse adottato dal predecessore in punto di morte (così affermava Plotina, moglie di Traiano, per legittimare le sue riuscite trame nella vicenda della successione), col quale era imparentato 12, Adriano fu acclamato ad Antiochia di Siria, provincia della quale era governatore. La sua carriera anteriore a questo incarico è riportata da un’iscrizione tipica, con cursus honorum senatorio di alto livello e significative responsabilità militari: Publio Elio, figlio di Publio, della tribù Sergia, Adriano, console, septemviro dei banchetti religiosi, sodale dei sacerdoti del divino Augusto, legato propretore dell’imperatore Nerva Traiano Cesare Augusto Germanico Dacico nella Pannonia inferiore, pretore e allo stesso tempo legato nella guerra dacica della I Legione Minervia Pia e Felice, e anche tribuno della plebe, questore dell’imperatore Traiano, e compagno nella spedizione dacica, da lui decorato due volte con decorazioni militari, tribuno della II Legione Adiutrice Pia e Felice, e anche della V Legione Macedonica, e anche della XXII Legione Primigenia Pia e Felice, seviro di uno squadrone di cavalieri romani, prefetto delle ferie latine, decemviro giudicante (Inscriptiones Latinae Selectae 308, a. 112/ 113, da una base di marmo nel teatro di Dioniso ad Atene; segue in greco una formula con la quale le istituzioni ateniesi rendono onore a Adriano). Il riconoscimento del senato sancì il suo arrivo al regno col nome di Publio Elio Traiano Adriano. Il segno di continuità della nomenclatura fu inizialmente smentito da una purga operata nei confronti di quattro prestigiosi consolari collaboratori di Traiano: un lontano antefatto della sorda ostilità del senato alla divinizzazione di Adriano, che sarà però fortemente voluta dal suo Pius successore (cfr. oltre). Adriano dette subito un indirizzo di risparmio e sicurezza al suo governo: almeno in tal senso deve interpretarsi il sostanziale abbandono delle recentissime conquiste mesopotamiche, per mantenere le quali le strutture centrali del potere avrebbero dovuto incrementare fortemente la pressione fiscale, mentre le intenzioni di Adriano andavano in una direzione opposta 13. L’Arabia e la Dacia rimanevano invece sotto il controllo di Roma e nelle rispettive aree si procedette al rafforzamento delle difese. Questo atteggiamento di prudenza, se non di ripiegamento, nel settore militare stava anche alla base della costruzione del Vallo di Adriano, un lungo e articolato muro fortificato – non l’unica opera difensiva adrianea, ma la più emblematica – costruito da mare a mare in Britannia ai confini con l’antica Caledonia, e del quale rimangono poderosi resti, nell’odierna Inghilterra settentrionale al confine con la Scozia. Questo complesso difensivo, lungo 245 LA CITTÀ E L ’ IMPERO oltre 120 km, aveva uno spessore di 2,5 metri e una altezza di 5-6 metri. Fu costruito tra il 122 e il 130 in parte in pietra, in parte in terra e legno ed era completato da fortini disposti a intervalli regolari, fossati e altri dispositivi 14. La sua notevole e variegata opera di statista si caratterizzò per l’impulso dato al settore agrario e alla regolamentazione dei rapporti fra manodopera e proprietari (lex Hadriana de rudibus agris) e per la valorizzazione della scienza giuridica (collaborazione con la corte di giuristi quali Salvio Giuliano, Nerazio Prisco), nel quadro più ampio di una ristrutturazione degli organici e dei comparti di corte, con posti importanti di nuova istituzione riservati all’ordine equestre (advocatus fisci) e aumento numerico e razionalizzazione dei posti di procurator 15. Massimamente suggestivo e efficace fu il modo in cui Adriano concepì il ruolo dell’imperatore e realizzò questa concezione. Per lui il governante aveva il dovere di essere il più vicino possibile ai provinciali, dunque di viaggiare. Durante i suoi spostamenti, accompagnato dall’apparato di corte, aveva modo di rendersi conto con i propri occhi della situazione delle periferie dell’impero, di dare più precise disposizioni in ordine alle attività militari, di occuparsi degli assetti monumentali delle città e via dicendo. Pratiche quali l’adventus (l’arrivo solenne del sovrano a cavallo) furono di conseguenza moltiplicate, prefigurando situazioni più tarde 16. L’elenco dei suoi itinerari delinea una serie di tragitti degni di un solerte viaggiatore dei giorni nostri 17. Poco dopo la nomina al soglio imperiale, rientrato dall’Oriente a Roma, si trattenne nella capitale dal 118 al 121. Nell’estate di quell’anno si recò nelle Gallie e di lì nelle Germanie e in Britannia. Fra il 122 e il 123 si trasferì nella Penisola Iberica e quindi partì per la Siria. Nel 124-125 visitò l’Asia Minore e poi fu nell’amata Atene, nel Peloponneso, a Delfi. Il 126-127 fu deputato all’Italia, dove l’imperatore rinfocolò i legami specie con le comunità locali più nobili per tradizione culturale e artistica 18. Dal 128 a tutto il 131 fu prima in Africa (dove tenne un discorso ai legionari di Lambesi: adlocutio, il discorso imperiale alla Legio III ivi stanziata) 19, Grecia, Anatolia e poi in Siria, Egitto e di nuovo ad Atene; durante il soggiorno in Egitto trovò la morte nel Nilo il suo giovane favorito Antinoo, forse sepolto a Tivoli o forse nella nuova città (l’unica fondata in Egitto dai romani) al suo nome intitolata, Antinoupoli 20. Al 132 risale l’evento più drammatico dell’impero di Adriano: una grave rivolta giudaica guidata da Simon Bar-Kokhba, durata sino al 135. È verosimile che fra le cause scatenanti la rivolta (che provocò decine di migliaia di morti fra gli ebrei e pesanti perdite romane), della quale un 246 12. L ’ IMPERO NEL II SECOLO pericoloso precedente si era avuto negli ultimi anni del regno traianeo in Cirenaica e Egitto, ci siano state la rabbia dinanzi al progetto di trasformare Gerusalemme in una città romano-ellenistica, centrata anziché sul Tempio sul santuario di Giove Capitolino (e nominata colonia Aelia Capitolina), nonché l’insofferenza per un divieto di riti religiosi che prevedevano mutilazioni genitali esteso alla pratica ebraica della circoncisione. Adriano si spinse in Palestina, prima di rientrare a Roma e stabilirsi per gli ultimi anni nella sua villa di Tivoli 21. Un elemento, notissimo ma non per questo meno caratterizzante, di questi anni fu il filellenismo imperiale, nato negli anni della formazione letteraria, filosofica, musicale, sportiva (la passione per la caccia su tutto). Esso tradusse una vocazione culturale in iniziative politiche e finanziarie. Adriano ultimò e costruì ex novo edifici civili e religiosi in varie città della Grecia (Corinto, Mantinea), mentre spesso si vide conferire denominazioni celebrative e assimilazioni a divinità di salvezza e liberazione secondo lo schema dei monarchi e gli evergeti ellenistici. Ebbero inizio col suo regno «i grandi giorni dell’Atene romana» (J. Oliver). Di Atene l’imperatore fu cittadino e magistrato onorario, nonché grande benefattore ed esempio per prestigiosi e ricchissimi senatori e uomini di cultura greci, come Erode Attico 22. Nella città, l’imperatore ebbe il gradito onere di ginnasiarca perpetuo, col quale assicurava cospicui finanziamenti alla città, una tribù ateniese gli fu intitolata, e volle anche ricollegarsi con Pericle, di cui riprese un progetto di organizzazione panellenica (appunto, il Panhellenion), formata da delegati di tutte le città greche, con al centro la capitale di quell’Attica la cui lingua egli si sforzava di usare con purismo. I suoi gusti estetizzanti all’estremo – ma, si noti, problematicamente contrastanti rispetto all’immagine di uomo semplice fornitaci da parte della tradizione – e impregnati di un ellenismo che ci appare a volte stucchevole si ritrovano nella ritrattistica ufficiale del tempo (Adriano è il primo imperatore con la «barba da greco» folta, in contrasto deliberato almeno con la rasatura perfetta e i capelli pettinati di Traiano) e nella sua residenza tiburtina 23. Dopo che una malattia lo colpì nel 136, Adriano cominciò a pensare all’eredità dell’impero, in un primo momento affidandosi a un nobile di talento al quale fece fare esperienza con un modello di quasi coreggenza: Lucio Ceionio Commodo, meglio noto come L. Elio Cesare 24. Questi però gli premorì, e Adriano adottò T. Boionio Arrio Antonino, un rispettabile senatore nato nel Lazio, da una famiglia di Nîmes (Gallia meridionale), già console nel 120 e proconsole d’Asia 247 LA CITTÀ E L ’ IMPERO tra il 133 e il 136, che gli subentrerà alla morte, avvenuta il 10 luglio del 138. 12.2 La dinastia degli Antonini (138-192) ANTONINO PIO (138-161), REGNO “FELICE” MA “SENZA STORIA”? La stagione di cinquant’anni che si venne ora ad inaugurare è la sola a corrispondere, in rigidi termini di onomastica gentilizia, alla dinastia Antonina, sebbene sia abituale allargarne la periodizzazione risalendo sino a Nerva: come dire un’ampia e unitaria temperie caratterizzata dalla designazione all’impero stabilita per adozione e da un sostanziale buongoverno, sino a raggiungere lo zenit e a iniziare a declinare 25. In modo peculiare, all’interno di questo periodo, la fase postadrianea è tradizionalmente considerata la più pacifica, armonica e prospera dell’intera storia dell’impero romano. Alla costituzione di simile graduatoria di merito hanno contribuito, insieme alla ricchezza dell’evidenza documentaria, i giudizi favorevoli e a tratti persino euforici delle fonti letterarie antiche. Fra le altre, non si può non citare l’encomio A Roma, pronunciato proprio nell’Urbe in questo periodo, verosimilmente nel 144, dal retore asiano Elio Aristide 26, un documento bello e significativo per numerose ragioni, l’interpretazione dell’impero o la questione dell’integrazione dei ceti dirigenti grecoorientali sotto il dominio romano, ma di rappresentatività sopravvalutata se visto come testimonianza di uno stato di benessere generale procurato dal governo di Roma. T. Elio Adriano Antonino Pio, questo il nome del nuovo principe dopo l’adozione 27, invertì nello stile di governo, senza dubbio per attitudini psicologiche e comportamentali (sedentarietà) e culturali (amore per le antichità romane e italiche), un dato tipico di quello adrianeo: tanto Adriano era cosmopolita e amava il contatto con il mondo provinciale, quanto Antonino fu statico, al punto da non spostarsi mai da Roma e dall’Italia. Nei ventitré anni nei quali resse il potere, in questo in continuità con l’indirizzo adrianeo 28, l’impero non operò iniziative espansionistiche, verso le quali pure c’erano aspettative di tipo identitario – appartenere a uno Stato che agiva con la dovuta grandeur – e culturale – nella concezione storiografica antica essendo ritenuta la guerra, come la libera competizione politica animata dall’eloquenza, la materia e fonte perché si potesse scrivere 248 12. L ’ IMPERO NEL II SECOLO in modo elevato di storia (cfr. Tacito, Annali IV 32) 29. In Antonino, una politica militare dimessa si accompagnava all’immobilismo personale – forse caratteriale – del principe, e se ciò poteva suscitare qualche riflesso di ammirazione giocato sul motivo topico del buon sovrano che evita attacchi inutili contro popolazioni tranquille, dovette attirare anche non poca diffidenza e fastidio 30. Persino la campagna più efficace, condotta in Britannia da Lollio Urbico, fu oggetto di polemiche riaccese nel tardo III secolo, perché ad Antonino ne conseguirono meriti bellici non suoi, proprio in quanto egli non si era mosso da Roma (Panegirici Latini IV 14, ed. Galletier) 31. Il regno di Antonino, dunque, per l’apparente mancanza di eventi epocali e anche per l’insoddisfacente stato della documentazione storiografica antica che lo riguarda, ha ricevuto modeste trattazioni monografiche moderne 32. Esso non fu però senza storia, anche perché la storia (il suo racconto, le sue letture) non si affievolisce, beninteso, né rischia mai di spegnersi. Possiamo evocare pochi tratti della vicenda meno sanguigna di questa figura equilibrata e abile a mediare; rispettosa verso il senato; attaccata ai culti tradizionali, ma affascinata dalle tendenze di tipo dionisiaco, misterico, solare; con alto senso della funzione imperiale, dimostrato dal tempo dedicato ad essa (cfr. infra, PAR. 4). Manteneva i migliori dei suoi magistrati e funzionari in carica ben oltre i tempi abituali; era proclive a una politica economica di risparmio, in grado di favorire una diminuzione del carico fiscale; restauratore piuttosto che costruttore ex novo (cfr. per esempio Digesto L 10, 7, pr.), scrupoloso nel sorvegliare i conti di province e città: legiferò per frenare atti di evergetismo eccessivi, ambascerie inutili, salari sovrabbondanti agli impiegati municipali. Ampliò il progetto degli alimenta traianei, agendo anche a nome di sua moglie, l’augusta Faustina; intervenne a più riprese e con rapidità per ricostruire aree colpite da calamità naturali, specialmente anatoliche. La liberalitas della coppia imperiale venne a costituirsi come uno dei temi distintivi anche dell’iconografia del potere 33. DIFFICOLTÀ SOTTO MARCO AURELIO (161-180 D.C.): ESERCITO, CONFINI, BARBARI Antonino Pio morì nella proprietà suburbana di Lorium nel marzo del 161. Una necessità operativa di tutti gli imperatori, alla quale neppure Antonino si era sottratto, era il rafforzamento delle fortificazioni ai confini. Interventi di questo tipo riguardarono la Britannia (ove il Vallo Antonino, costruito nel 142, avanzò il fronte difensivo 249 LA CITTÀ E L ’ IMPERO romano sino alla Scozia centro-settentrionale), l’area renana e l’area danubiana. Ma essi non avevano eliminato alcune serie debolezze, per così dire strutturali, della strategia difensiva romana. Ai confini, durante il principato, era stanziata una fortissima concentrazione di truppe legionarie e ausiliarie, ma essa rimaneva inadeguata per tamponare eventuali attacchi simultanei in più punti del limes, che avrebbero costretto i reparti mobili, le vexillationes, a tragitti dispendiosi, a imprese impossibili 34. Anche a seguito dei drammatici eventi del periodo di cui ci andiamo a occupare (con l’apertura contemporanea di almeno due fronti di guerra, quello danubiano e quello orientale), verranno fatte riforme, da Settimio Severo (PAR. 16.2) e da più tardi imperatori del III secolo, secondo il principale criterio della difesa dislocata anche all’interno dei territori provinciali e della progressiva formazione di riserve e reparti mobili. Sul concetto di limes si è molto dibattuto negli ultimi decenni, ed è decisamente prevalsa l’opinione che esso debba essere non solo riferito alla lunghissima linea di diversa profondità – edificata, costituita da barriere naturali, comunque sia sistematicamente militarizzata – che dava sicurezza fisica e identità morale ai romani, ma in larga misura anche allo spazio di collegamento e interazione culturale, economica e diplomatica con le realtà sociali e etniche non sottomesse all’impero e che costituivano il composito mondo dei barbari 35. Fra questi, le ultime minacce all’Italia, da parte di popolazioni germaniche, risalivano all’epoca delle incursioni dei cimbri respinte vittoriosamente da Caio Mario; successivamente c’era stata una politica volta per volta di espansione, sfruttamento, controllo, che nel settore transdanubiano era garantito dopo Traiano dalla conquista in Dacia (cfr. Tacito, Germania 37, 2). Mai si era trattato di impaurito contenimento difensivo. GUERRE Con Marco Aurelio, adottato da Antonino Pio nel 138 e marito di sua figlia Faustina Minore, saliva al potere un filosofo stoico, rimasto famoso perché autore di un libro di Ricordi o A se stesso, nel quale rifletteva su come avrebbe dovuto adempiere alla missione affidatagli dalla sorte, mantenendo costantemente la propria libertà interiore e agendo con benevolenza, spirito di eguaglianza e scrupolo per il bene di Roma e del mondo 36. Proprio i Ricordi, quest’opera di riflessione così profonda, furono scritti dall’imperatore durante alcune campa250