Scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole

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Scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole
Italo Moscati
Era davanti a me, l’aria seria, il volto infossato, sereno, pronto ad
aprirsi a un sorriso leggero. Guardai nel suo piatto. Un piatto diviso in
due: da un lato il tuorlo di un uovo, dall’altro un cucchiaio di miele.
Eduardo, classe 1900, aveva ottant’anni. Parlava dolcemente quando
posava il cucchiaio.
Dopo tanto tempo, dopo i molti spettacoli e i molti film, lo avevo
davanti; non lo avevo mai incontrato da solo.
Eduardo quattro anni dopo se ne andò. Provai dolore.
Quel giorno del primo incontro, nella casa del quartiere Trieste, a
Roma, avevo in testa qualcosa da chiedergli che avevo il pudore di pronunciare. Mi intimidiva. Sentivo che aveva simpatia per me che avevo
scritto sull’«Europeo» una breve nota, in cui chiedevo perché avesse accettato in un teatro del centro di Milano un pleonastico premio alla carriera; un monumento utile soltanto a chi glielo aveva assegnato, un «cumenda» senza interessi artistici. Simpatia perché, altrimenti, non mi
avrebbe telefonato per sollecitare un incontro.
Cominciammo a parlare con calma, cercando le parole finché, avanzata la conversazione, mi decisi a fare una domanda su qualcosa che avevo letto, scritto da lui, proprio sul suo lavoro: «Eduardo, ritiene che ci
debba essere sempre qualcosa di profetico, alla fine di tutto, in ogni sua
opera. Che cosa vuol dire con la parola “profetico”? Che significa?».
Ero riuscito a stupirlo, forse. Eduardo appoggiò il cucchiaio. Sorrise.
Il volto segnato. Lo sguardo curioso, limpido. In quell’istante, mi ricordò una fotografia scattata con la famiglia, nel 1908: al centro, Eduardo
Scarpetta, ai lati la moglie Luisa De Filippo, Eduardo, Peppino, Titina.
In quella fotografia aveva l’espressione di sempre, composta, già adulta;
mi parve di vedere un filo di baffi sulla bocca sottile; aveva otto anni.
Mi rispose: «Profetico? È il sentimento della vita che non può finire
con la fine dello spettacolo, il sentimento di qualcosa che si prepara, che
verrà…».
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Da quell’incontro, ancora mi domando a cosa si riferisse con «verrà».
Disse che aveva questo sentimento che lo accompagnava da sempre.
La storia di Eduardo comincia sulle tavole del palcoscenico molto
presto. Era figlio d’arte, e così nasceva e sapeva già quel che si preparava, la famiglia aveva deciso, come aveva deciso per il fratellastro Vincenzo Scarpetta, e per i fratelli Titina e Peppino. Destini predestinati. «La
vita non finisce quando finisce uno spettacolo… qualcosa che si prepara, che verrà…»
Il destino di Eduardo, una vita in bilico tra verità e favole, nella Napoli che era ancora la vecchia Napoli di una bellezza estrema. Fatata.
Come mostrano le immagini, girate da Roberto Roberti, padre di
Sergio Leone, per il film Napoli che canta (1926). Immagini immacolate della baia e del cielo.
Immagini che hanno convinto, settant’anni dopo, Giuni Russo,
quando era malata senza speranza, a cantare questa Napoli. Giuni compose con l’amica Maria Antonietta Sisini, una musicista, la canzone Tu
si’ ’a chiù bella dalla poesia di Antonio De Curtis, Totò. È stato come
incidere la nuova colonna sonora di un altro film, un’altra «Napoli che
canta». Fatata.
Napoli lustra come uno specchio, limpida, senza odori o peggio;
c’era forse la munnezza, ma nel film di Roberti era nascosta, vergognandosi; c’era forse la gomorra, diversa da quella che abbiamo conosciuto,
col libro di Roberto Saviano; c’erano i fuochi davanti ai «bassi», e non
erano quelli della terra dei fuochi.
In quella Napoli, in quella famiglia della foto, il destino di Eduardo
era per sempre fissato. Teatro. Arte per la vita.
La famiglia non era povera. «Andavo a scuola in carrozza». Lo disse
perché ricordò di essere rimasto a lungo infastidito dalle inesattezze dei
ritratti che che gli avevano dedicato spesso i giornali, confondendolo
con i personaggi delle sue commedie. «Facevo le montagne», diceva;
non solo gli spettacoli in città. Fatica, disagi, viaggi attraverso gli Appennini tra Campania, Abruzzo, Puglia. Dopo il debutto che avvenne
presto; a quattro anni in Geisha, un’operetta, al teatro Valle di Roma,
uno degli attori lo aveva portato in braccio sulla scena. Fu Scarpetta a
volere così.
Scavalcamontagne
Non era una gran novità essere uno scavalcamontagne, faceva parte
del compito di guadagnarsi il pane. Un’iniziazione, anche per Eduardo;
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per altri, il solo modo di sbarcare il lunario. Le strade erano poche, disagiate, i mezzi incerti, le trattorie fumose; i piatti dai gusti forse genuini, certo micidiali; alberghi e locande da selezionare, capaci di dare sorprese. Per gli attori, una grande scuola. I teatri erano gremiti, non c’erano né cinema né altre forme per fare festa, distrarsi. Il pubblico era agitato, distratto, rumoreggiava, insultava; diffidente, con la voglia di giocare con l’intruso che si presentava in scena.
Il giovane Eduardo capì che bisognava fare qualcosa. Imparò il silenzio. Entrava, tardava a parlare; così l’incitavano. Ruppe il silenzio, faceva ridere. Fu un buon inizio.
Nei colloqui che ho avuto con Eduardo, assistendo ai suoi spettacoli teatrali ovunque, ho così creduto di aver avvicinarmi ai segreti d’artista, il silenzio e la diffidenza da rompere, esperienze che lo hanno aiutato a lavorare; ancora lo credo.
La lezione ricevuta come scavalcamontagne era un fatto che diventò
col tempo più raro. Il teatro aveva soprattutto per l’attore il carattere di
una sfida, una prova continua, per acquistare sicurezza in sé stesso e voglia di confrontarsi, vincere la sfida.
Non era un paese che avesse chiarito sé stesso, l’Italia unita. La politica dei Savoia era fragile, come i governi che non erano all’altezza dello stato nuovo che cercava faticosamente regole e soluzioni. Regioni e
porzioni di regioni che erano state da anni, se non da secoli, silenziosamente sottomesse al potere di re e di pontefici, di duchi e di feudatari.
In quegli anni gli italiani cominciarono a emigrare; lo faranno in
massa: venticinque milioni nel Novecento, fino al 1985. E intanto cominciarono le migrazioni interne, dal Sud al Nord: uno spostamento di
oltre cinque milioni, più due milioni nelle regioni del Nord e dal Nord.
Gli analfabeti erano il pubblico che gli scavalcamontagne dovevano sedurre.
Il paese si spostò ancora. Il fascismo, dal 1922, mobilitava i trasferimenti di burocrati, impiegati, militari e personale delle istituzioni.
Comici e attori dei drammi popolari erano gli allegri funzionari di
uno Stato che stava cercando il futuro, la lingua, le idee e i sogni per il
domani. Il «profetico» Eduardo si guardò intorno. Le farse, ereditate da
Scarpetta, e le prime commedie scritte dallo stesso Eduardo erano la risorsa disponibile per alludere a una diversità senza connotati che sarebbe venuta.
Glielo chiesi, mentre tuorlo e miele erano finiti ed erano arrivate le
tazze del caffè.
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Allargò le braccia, disse che agli spettatori uscivano dal teatro con il
sollievo gradevole dal divertimento, il guadagno di una attesa, in attesa
del prossimo appuntamento. Il sollievo faceva ben sperare.
Cattivo
Non metteva zucchero, Eduardo, nel caffè alla napoletana. Il dolce lo
evitava, solo nel miele lo tollerava. Gli sembrava che lo zucchero rendesse amaro il caffè. Cattivo? Domandai.
Non nascosi che volevo un dono: sapere della fama presto raggiunta;
sapere dei rapporti personali, negli ambienti del teatro e del cinema; sapere di giudizi, malignità, chiacchiere e articoli dei giornali.
Non lo negò, ricordava. Disse che gli ambienti parlano anche se nessuno di preciso dà una voce a episodi e fatti; seminano notizie e battute, voci e sussurri, pour parler, la frase spontanea, il sussurro che si avvicina alla calunnia, il montare della gelosia e dell’invidia, la voglia di catalogare, o meglio di condannare senza appello. «Ho sempre preso appunti su tutto ciò che poteva venire utile, e cestinavo molto». Era abituato a «sentirsi» circondato da un’attenzione che scavalcava ritegno e
rispetto, che cercava di speculare. Un’attenzione senza confini.
Gli amori. Frenetici e confusi, per le biografie. Seguiti con curiosità
speciale e morbosa. Una storia con una giovane di nome Ninì, scambio
di poesie, fughe di mezzanotte, dopo le recite. Il matrimonio nel 1928
con l’americana Dorothy Pennington, sciolto nel 1952 a San Marino e
a Napoli nel 1955; il divorzio in Italia arriverà solo nel 1970. Il secondo
matrimonio con Thea Prandi nel 1956, la nascita di due figli, Luisella e
Luca, la separazione, quindi il divorzio. La morte di Luisella, a nove anni, improvvisa, un dolore profondo. Il terzo matrimonio con Isabella
Quarantotti, ex moglie di Felice Ippolito, scienziato, nel 1977. I rapporti. Sempre difficili, sul filo del rasoio, con Peppino, il fratello; e la scelta
dei fratelli, compresa Titina, di andare ciascuno per la sua strada.
In questo libro compaiono i racconti – tavolta risentiti – dei compagni di lavoro; i pareri di colleghi famosi, simpatia e contrasti. Vita e retroscena del cinema e del teatro, tutto il teatro, compresi gli anni dell’avanguardia e del rapporto con Carmelo Bene. Il Carmelo dei recital
fatti insieme con grande succeso e degli screzi. È chiara la posizione di
Eduardo che non amava le confusioni.
In un filmato di Ferruccio Marotti girato al teatro Ateneo nel maggio 1982 è documentato un incontro tra Eduardo e Carmelo Bene. I
due uomini di spettacolo, due poeti, diversi, sono uno accanto all’altro.
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Comincia il dialogo. Carmelo dichiara di non trovarsi a suo agio; rifiuta lo scambio e dà ad Eduardo dell’«impunito perfetto», del Don Chisciotte senza speranza nella sua difesa della figura del teatro d’autore,
proponendo la visione di un teatro che muore, insieme a chi lo fa.
Le risposte di Eduardo sono distaccate, come se non volesse sentire,
e tantomeno condividere. Un uomo di ottant’anni che crede nell’arte
come scelta e professione, passione e fede.
Uomini e galantuomini entrambi, riconoscono la miseria del teatro
italiano in particolare, sono distanti (un dialogo tra sordi, si mormora
tra chi assiste). Condannano la politica, i partiti e i loro progetti. Ma
Carmelo è chiuso nel circuito delle proprie furie vittoriose, in scena e
fuori scena; Eduardo crede nel metodo, nella scuola del teatro, nella responsabilità, nei progetti, nella pazienza. In ultima analisi, nel lavoro.
Il dialogo è impossibile. Non andrà avanti. Carmelo vivrà ancora diciotto anni dopo la morte di Eduardo (morirà a sessant’anni, nel 2002).
Il teatro ogni anno di più cerca la sopravvivenza.
Restano loro. Eduardo, felpato, rabbia soffocata dentro, severo, deluso. I suoi testi e i suoi film circolano. La nostalgia di un mito che cresce. Carmelo ironico, giocoso, iracondo. I suoi spettacoli, i film circolano meno delle interviste raccolte da You Tube. La rivoluzione di Carmelo resiste in una protesta senza appello, e senza speranza. In un’area
di culto.
Genio consapevole
Napoli fatata. La città era stata fatata per Eduardo? I paesaggi luminosi e puliti non si vedono nelle commedie e nei film. Il sole c’è ma
cuoce. L’aria è pesante d’afa. Gli spazi sono opprimenti. Le persone vanno e vengono, un andirivieni che gira su sé stesso.
La ex donna di vita Filumena Marturano, chiusa tra le pareti della casa del benestante Domenico Soriano, finge di essere in punto di morte
per farsi sposare. Soriano scopre l’inganno e vuole l’annullamento, ma
quando scopre che uno dei tre figli di Filumena è suo, ci ripensa. Vuole sapere e non ci riesce, in un duello di nervi e di parole.
La reazione nobile, appassionata di Filumena è la sola luce che illumina l’appartamento colmo di noia e di risentimento, stratificati, soffocanti. Le parole palpitano nel buio.
In Matrimonio all’italiana (1964) di Vittorio De Sica, tratto dalla
commedia di Eduardo, il colore e la bellezza radiosa di Sophia Loren sono le luci di scena, il sole e il mare degli esterni sono sfondi. Napoli sof13
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ferta, che cerca il riscatto nell’amore. Palpiti e interessi. Amore associato all’idea della famiglia, unico rifugio in un mondo senza cuore. Napoli non è fatata.
Nel film Napoletani a Milano (1953), gli inquilini indigenti di un palazzo cadente, da abbattere, che non vogliono abbandonare, chiedono
un aiuto all’uomo di loro fiducia nel quartiere: la minaccia che suscita
paura, voglia di reagire, protesta, è l’acquisto del palazzo da parte di una
società di Milano. Il personaggio interpretato da Eduardo media, protegge, escogita; svolge il suo ruolo organizzando una spedizione degli
inquilini e di parenti falsi nella nella capitale del Nord.
Nella commedia Il sindaco del rione Sanità (1960), Eduardo propone il suo personaggio, simile al protagonista di Napoletani a Milano: un
altro uomo di fiducia del rione, «sindaco» non eletto, scelto dagli abitanti, carismatico, è colui che amministra la giustizia secondo suoi personali criteri, al di fuori dello stato e al di sopra delle liti, in un luogo
di violente vendette personali.
I due «sindaci» sono stati considerati uomini di camorra, nella lettura che ne è stata fatta, aprendo sospetti, polemiche, accuse. La camorra. Eduardo la guarda in faccia. Dopo il fascismo, negli anni della democrazia. Nei vent’anni della dittatura, la camorra si era nascosta, viveva, pronta a trasformarsi. Nello stato democratico si nasconde, colpisce,
ancora vive, allarga gli affari; è un potere. Indagini e arresti della polizia e delle forze anticrimine continuano, giorno dopo giorno. Le notizie arrivano. Di fronte a questa realtà, Eduardo descrive a distanza di
anni in due lavori fra teatro e cinema le situazioni di supplenza dei «sindaci», nella Napoli non fatata. I «sindaci» vengono da lontano, radicati
nella tradizione, ancor prima del Risorgimento. La tradizione crea le
abitudini e le consolida.
Eduardo descrive, fotografa, racconta e giudica. Giudica che le supplenze dei «sindaci» corrispondono a scelte chiuse nei rioni; così la famiglia è chiusa negli interni bui e soffocanti; non sono scelte dal basso,
spontanee, esempi di democrazia diretta tra i «bassi» dove vive la gente,
il popolo che non conta. Non sono democrazia, dimostrano che la democrazia non risponde fino in fondo ai suoi scopi: la legalità e l’autorità morale, la giustizia sociale. Questo dice Eduardo, da attore, da autore che conosce Napoli, la Napoli che attraverso il tempo e sotto l’incubo della criminalità e della politica stenta nel suo cammino che non
può dissolversi in una canzone: Tu si’ a chiù bella.
Eduardo, genio consapevole.
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