La politica fiscale nelle teorie macroeconomiche I classici e la

La politica fiscale nelle teorie macroeconomiche
I classici e la tradizione keynesiana
La nascita della moderna macroeconomia può essere ricondotta agli anni ‘30
e in particolare alla pubblicazione della “General Theory of Employment,
Interest and Money“ di J.M. Keynes nel 1936.
Prima di allora, la visione dominante era quella classica per la quale
nell’ambito delle economie di mercato non si potevano verificare situazioni
permanenti di disequilibrio, poiché i meccanismi di mercato avrebbero
operato spontaneamente e in modo efficiente per riportare il sistema
economico al suo livello di equilibrio. In particolare, la flessibilità dei prezzi e
dei salari avrebbe garantito un rapido adattamento del sistema alle condizioni
della domanda e dell’offerta e una tendenza naturale all’affermarsi
dell’equilibrio di pieno impiego.
L’equilibrio di pieno impiego è definito in corrispondenza del livello della produzione che
permette di occupare tutta la forza lavoro presente sul mercato.
Visione molto simile a quella sottesa al concetto di “mano invisibile”: in un
sistema capitalistico operano forze, mosse essenzialmente dall’interesse
individuale, capaci di assicurare da sole un equilibrio avente carattere di
ottimalità.
Fenomeni economici alla stregua di manifestazioni di leggi naturali e non
come il prodotto, almeno in parte del contesto istituzionale esistente.
Il mercato è l’unica istituzione considerata dai “classici”.
Negli anni ‘20 e ‘30, però, le maggiori economie di mercato capitaliste
sperimentavano situazioni di elevata e stabile disoccupazione che sembravano
mettere in discussione le conclusioni della teoria classica. In particolare, il
pieno impiego non sembrava più rappresentare lo stato normale
dell’economia.
In questo periodo, e in tale contesto, la teoria keynesiana si propone di fornire
una spiegazione e anche un rimedio alla crisi dell’economia.
Il punto fondamentale dell’analisi keynesiana è la convinzione che il sistema
economico di mercato sia inerentemente instabile e che si possa allontanare
dalla situazione di pieno impiego anche per periodi lunghi, senza che i
meccanismi spontanei del mercato siano in grado di riportare l’economia alla
piena occupazione. Secondo la visione keynesiana, quindi, il concetto di
equilibrio non è necessariamente collegato allo stato di piena occupazione.
Centrale rispetto a questa impostazione, prima nella contrapposizione con i
classici e successivamente nei confronti delle teorie macroeconomiche più
recenti, è la diversa interpretazione dei meccanismi che regolano il mercato
del lavoro.
L’equilibrio in questo mercato assume rilevanza perché definisce l’andamento
della curva di offerta aggregata, dalla quale si originano, come si vedrà,
posizioni diverse sulla necessità e sulla opportunità dell’intervento pubblico a
fini di stabilizzazione del ciclo economico.
I classici non ignorano l’esistenza della moneta ma pensano che l’essenza del
funzionamento sia dal punto di vista reale che prescinde da essa.
Vale la legge di Say, seconda la quale l’offerta crea la propria domanda: chi
risparmia compie un atto di investimento e assicura così l’equilibrio sul
mercato dei beni.
Se tutti i risparmi si trasformano automaticamente in investimenti
(indipendentemente dal livello del reddito) allora non vi sono problemi di
domanda: la produzione potrà essere quella di piena occupazione
Anche con una economia monetaria si potrebbe continuare ad assumere
uguaglianza dei piani di risparmio e di investimento se si pensa che esiste un
meccanismo capace di riequilibrare - coordinare – le relative decisioni: si
potrebbe ipotizzare l’esistenza di un prezzo del risparmio (il tasso di
interesse), i cui movimenti potrebbero consentire di eguagliare risparmio e
investimento ex ante.
Per esaminare il modo di formazione di una curva di offerta aggregata, si può
ricorrere alla figura 1.1,
Figura 1.1 – Il mercato del lavoro e la curva dell’offerta aggregata
2
nel quadrante (a) descrive l’equilibrio sul mercato del lavoro. Sull’asse delle
ascisse è riportata la quantità di lavoro N, e su quello delle ordinate il saggio
reale di salario w, uguale al prodotto marginale del lavoro e pari al rapporto
tra il salario nominale e il livello generale dei prezzi W/P. La curva DN
rappresenta la domanda di lavoro, che dipende inversamente dal salario reale;
la curva di offerta di lavoro SN rappresenta invece il luogo dei punti che
corrisponde alle scelte ottimali tra lavoro e riposo effettuate da individui che
massimizzano la loro utilità a diversi livelli dei prezzi. In equilibrio, la
quantità di lavoro N0 viene offerta al saggio di salario reale w0=W0/P0.
Nel quadrante (b) viene invece tracciata la funzione di produzione, cioè la
relazione tra la quantità di lavoro sul mercato (asse delle ascisse) e il livello
della produzione Y (asse delle ordinate). Da tale quadrante si legge che la
quantità di lavoro di equilibrio N0 genera un livello di produzione Y0 che
corrisponde al livello di piena occupazione.
Nel quadrante (c), la retta a 45° permette di proiettare
sul quadrante (d) il livello di produzione (e di reddito) Y0 compatibile con
l’equilibrio di piena occupazione sul mercato del lavoro, dato il livello dei
prezzi P0. Si ottiene così il punto 1 della curva AS.
La posizione degli altri punti della curva AS dipende dalle ipotesi sulla
reazione del mercato del lavoro alla variazione del livello dei prezzi. Se alla
variazione dei prezzi seguisse un adeguamento istantaneo dei salari nominali
in modo da mantenere invariato il livello del salario reale, anche l’equilibrio
sul mercato del lavoro rimarrebbe invariato, con quantità di lavoro e
produzione costanti al livello di piena occupazione.
Secondo questa interpretazione classica del mercato del lavoro, le variazioni
del livello dei prezzi determinano congiuntamente variazioni del livello
monetario dei salari tali da riportare il livello del salario reale a w0 (il livello
di equilibrio iniziale nel quadrante (a) della figura 1.1).
Ciò permette, per qualsiasi livello dei prezzi, di mantenere il mercato del
lavoro in equilibrio ed il reddito al livello di pieno impiego. Con un reddito
sempre al livello di piena occupazione Y0, sarà allora possibile scorrere la
curva AS solo in direzione verticale e il punto di equilibrio prezzi-reddito nel
quadrante (d) dipenderà solo dal livello dei prezzi (ad esempio, il punto 2
prevarrà con un livello dei prezzi P1<P0; mentre il punto 3 prevarrà con un
livello dei prezzi P2>P0).
3
Secondo i classici la flessibilità del salario reale, ottenuta attraverso una
variazione del salario monetario e una variazione dei prezzi, consentirebbe il
raggiungimento di un reddito di piena occupazione.
Indebita estensione al sistema nel suo complesso di una proposizione valida a
livello microeconomico: per una singola industria, la riduzione del salario
monetario implica lo spostamento verso destra della curva di offerta di
lavoro e un nuovo equilibrio in corrispondenza di un più basso livello del
prezzo e di un più elevato livello di produzione e di domanda
Una importante conseguenza del modello classico di piena occupazione è
quindi l’assenza di disoccupazione involontaria anche se può esistere
disoccupazione frizionale e/o volontaria. L’esistenza di disoccupazione si
spiega, all’interno di questa corrente di pensiero, solo ipotizzando l’esistenza
di attriti o interferenze nei meccanismi spontanei di riequilibrio.
A queste condizioni l’intervento pubblico per stabilizzare l’economia non
è né necessario né desiderabile. Nella teoria della finanza pubblica era
infatti dominante l’idea della “finanza ortodossa” per cui, nei periodi di
allontanamento temporaneo dal pieno impiego, sarebbe stato preferibile
mantenere il pareggio dei bilanci pubblici astenendosi dall’interferire sui
meccanismi spontanei di riequilibrio.
La curva AS keynesiana con salari monetari rigidi
Al contrario dell’interpretazione classica, in quella keynesiana non è affatto
scontato che prezzi e salari monetari si muovano congiuntamente. Se alla
variazione dei prezzi non segue l’aggiustamento dei salari nominali, ad
esempio per la presenza di fattori di rigidità, il saggio reale del salario subirà
corrispondenti variazioni, determinando una situazione di disequilibrio sul
mercato del lavoro (dato il livello della tecnologia).
Si osservi nuovamente il quadrante (a) della figura 1.1. Si consideri
inizialmente il caso di una riduzione del livello dei prezzi. Se i prezzi
dovessero scendere al livello P1, i lavoratori non saranno in generale disposti
ad accettare una riduzione del loro salario nominale (rigidità verso il basso);
quindi il salario reale crescerà al livello w1 (W0/P1), generando uno squilibrio
tra domanda e offerta di lavoro.
Si è però portati a ritenere che la rigidità del salario sia in un certo senso
asimmetrica; viene infatti in generale accettata l’ipotesi che un aumento dei
prezzi (il contrario del caso precedente, ad esempio a P2>P0) comporti un
adeguamento del salario nominale (da W0 a W2) che mantenga inalterato il
4
salario reale w0; i lavoratori, che non intendono accettare a lungo la riduzione
del salario reale indotta dall'aumento dei prezzi, richiederanno corrispondenti
incrementi del salario nominale.
Il risultato di queste ipotesi può essere sintetizzato come segue: i salari
nominali sono ritenuti flessibili verso l'alto, ma rigidi verso il basso: un
aumento dei prezzi non riduce il tasso di salario reale, ma una loro riduzione
tende ad aumentarlo.
Può così accadere che nel mercato del lavoro, a certi livelli dei prezzi, possa
prevalere un saggio di salario reale pari a w1 (più alto di quello di equilibrio
w0), che determina una offerta di lavoro pari a N2 e un livello di occupazione
N1, con conseguente produzione Y1 inferiore a quella di pieno impiego. E’ in
questo caso che si realizza uno stato di disoccupazione definito
“involontario”, pari, in termini grafici, al tratto N1-N2.1 Ciononostante, la
situazione di equilibrio è determinata dal fatto che gli operatori non hanno
nessun motivo per modificare le loro aspettative, il livello di occupazione e
quindi il livello di produzione, per cui l’economia si stabilizza su un
“equilibrio di disoccupazione”, che dà luogo al punto 4 nel quadrante d). 2
In generale, con l’ipotesi di rigidità salariale verso il basso, la curva
dell’offerta aggregata sarà crescente fino al reddito di equilibrio di piena
occupazione e poi verticale, come la ASK nella figura 1.1 (d). Ciò implica
l’esistenza di un tratto della curva di offerta aggregata sulla quale politiche
pubbliche possono produrre effetti reali sull’economia, con aumento di
produzione e occupazione, fino al livello di pieno impiego. Per di più,
nell’impostazione keynesiana, si assume implicitamente l’esistenza di un
tratto della curva dell’offerta aggregata infinitamente elastico, sul quale si può
aumentare il reddito reale senza determinare un aumento dei prezzi.3 E’ solo
quando il pieno impiego fosse stato ristabilito che, per Keynes, si poteva
accettare la validità dei principi della teoria classica, cioè un andamento
verticale della AS.
Nell’approccio keynesiano, al contrario di quello classico che si affida ai
processi spontanei di riequilibrio, diventa quindi importante esplicitare i
meccanismi attraverso i quali l’operatore pubblico può utilmente intervenire
per allontanarsi dagli equilibri con disoccupazione in direzione del pieno
impiego. A questo scopo, un utile punto di partenza è rappresentato dalla
descrizione del modello di determinazione del reddito che introduce nel modo
1 Questo stato riflette una domanda effettiva non sufficiente al raggiungimento del pieno impiego, dove per domanda effettiva si
intende la domanda totale di consumo e di investimento che gli imprenditori si aspettano dato il livello di occupazione da loro utilizzato.
2 In altri termini, con salari monetari rigidi verso il basso, il processo classico di aggiustamento spontaneo risulterebbe impedito,
lasciando il sistema in equilibrio con disoccupazione.
3 Nel corso degli anni Trenta, dato l’elevato livello della disoccupazione e la stabilità dei prezzi, era infatti ragionevole assumere
una curva di offerta aggregata orizzontale fino al livello di pieno impiego, e solo da questo punto verticale. Inoltre data la debolezza
delle forze di mercato nel produrre effetti reali, un ruolo fondamentale poteva essere attribuito all’intervento pubblico; le componenti del
bilancio pubblico diventavano perciò lo strumento più idoneo a riportare il sistema economico al pieno utilizzo della propria capacità
produttiva.
5
più semplice i principali canali di influenza del settore pubblico sul ciclo
economico.
Il modello Keynesiano di determinazione del reddito: lo schema semplice
L’analisi di seguito proposta è di breve periodo, con impianti, disponibilità di
risorse e tecnologie date. Il reddito nazionale dipende dall’uso effettivo della
capacità produttiva, che a sua volta dipende dalla domanda effettiva e può non
coincidere con la capacità produttiva potenziale nel sistema economico. Nella
formulazione più semplice si assume una economia chiusa alle relazioni
internazionali, dove sono quindi assenti scambi commerciali e finanziari con
l’estero, e un livello dei prezzi esogeno.
La possibilità per l’operatore pubblico di influire sulla determinazione del
reddito nazionale è, in questo semplice schema, garantita dall’esistenza di un
bilancio del settore pubblico, definito da spesa pubblica e da entrate fiscali.
La spesa pubblica si suddivide in spesa per beni e servizi (G) e spesa per
trasferimenti (F); le entrate sono invece costituite dal solo gettito delle
imposte (T).
Figura 1.2 – La determinazione del reddito nel modello keynesiano con il
settore pubblico
La sostanza del modello può essere colta osservando la figura 1.2, in cui
sull’asse delle ascisse è riportato il reddito nazionale Y, e su quello delle
ordinate la spesa complessiva D e le sue componenti (consumo, investimenti
privati e spesa pubblica). Quando il sistema è in equilibrio le due grandezze
sono uguali e vale la condizione seguente:
Y = D
(1.1)
che corrisponde alla retta a 45° riportata nel grafico. A sua volta, la spesa
complessiva D si ottiene come somma dei consumi C, degli investimenti
privati I e della spesa pubblica in beni e servizi G:
D=C + I +G
(1.2)
In termini grafici, la curva D è generata dalla somma verticale delle curve
relative alle sue diverse componenti. Per le singole componenti di spesa,
inoltre, valgono le seguenti:
C = a + cYd
I=I
a > 0; 0 < c <1
(1.3)
(1.4)
6
G=G
(1.5)
Nelle equazioni (1.4) e (1.5) sia il livello degli investimenti privati sia quello
della spesa pubblica in beni e servizi sono assunti esogeni. Nella (1.3), il
consumo è pari alla somma tra un ammontare minimo a (l’intercetta della
curva C, cioè la componente autonoma del consumo) e una quota c>0 del
livello corrente del reddito disponibile Yd, che rappresenta la propensione
marginale al consumo4 e determina l’andamento crescente rispetto al reddito
della curva C.
Il reddito disponibile Yd si ottiene dalla somma del reddito complessivo
percepito Y, al netto dei trasferimenti monetari F erogati dal settore pubblico e
delle imposte totali prelevate T:
Yd = Y + F − T
(1.6)
In questo schema, oltre alla spesa pubblica G, anche le altre due variabili sotto
il controllo dell’operatore pubblico sono assunte indipendenti dal reddito. In
particolare, i trasferimenti F sono esogeni e il gettito T è ottenuto attraverso
imposte in somma fissa. In simboli:
F=F
T =T
(1.7)
(1.8)
Nel modello (1.1)-(1.8), è immediato osservare che il settore pubblico può
influenzare la spesa complessiva D sia direttamente, attraverso variazioni di G
(equazione (1.2)), sia indirettamente, attraverso F e T, che concorrono a
definire il livello di consumo nel sistema economico (equazioni (1.6) e (1.3))
e, per questa via, il livello della spesa complessiva D (equazione (1.2)).
Si può ora identificare la posizione di equilibrio che il modello è in grado di
generare. Si consideri inizialmente la rappresentazione grafica della figura
1.2: il reddito di equilibrio (cioè il rispetto dell’equazione (1.1)) è definito nel
punto E0 dove la retta D interseca la retta a 45° e la spesa Y0E0 coincide con il
reddito OY0.
Da un punto di vista analitico, invece, la soluzione del modello si ottiene
risolvendo per Y il sistema di equazioni (1.1)-(1.8), da cui deriva la seguente
espressione per il reddito di equilibrio:
Y=
1
.(a + I + G + cF − cT )
(1 − c)
(1.9);
definendo:
4 La propensione marginale al consumo indica la parte di reddito destinata al consumo. Per esempio, con c = 0,7, L. 1000 di reddito
disponibile si traducono in L. 700 di consumo.
7
A = a + I + G + cF − cT
(1.10)
la (1.9) può essere riscritta:
Y=
1
⋅A
(1 − c)
(1.11)
Nella (1.10), A raccoglie le componenti autonome della spesa complessiva;
nella (1.11), invece, 1/(1-c) rappresenta il moltiplicatore keynesiano del
reddito, per il quale la variazione di una delle componenti della domanda
complessiva determina una variazione del reddito pari a:
∆Y = k ⋅ ∆A
(1.12)
con k=1/(1-c).5 Il valore del moltiplicatore dipende, come noto, dalla
propensione marginale al consumo: più elevato è c, maggiore è il
moltiplicatore, maggiore è la variazione del reddito conseguente a variazioni
delle componenti autonome della spesa.
I moltiplicatori quantificano l’effetto che un dato livello o una data
variazione, della spesa pubblica o delle imposte ha sul livello del prodotto
nazionale Y.
Il vuoto deflazionistico e il vuoto inflazionistico
Si è osservato in precedenza come, nella analisi keynesiana, il reddito di
equilibrio possa non corrispondere al livello di pieno impiego. Dato il livello
della spesa complessiva, quindi, Y potrebbe trovarsi a sinistra (quindi ad un
livello inferiore) o a destra (quindi ad un livello superiore) rispetto al reddito
di pieno impiego. Se, come sostenuto dall’analisi keynesiana, l’economia da
sola non è in grado di raggiungere il pieno impiego, come si è visto, il settore
pubblico potrebbe svolgere un ruolo attivo per il raggiungimento del pieno
impiego e il bilancio pubblico, nelle forme in precedenza esaminate, divenire
lo strumento per la stabilizzazione del reddito.
A questo riguardo, si possono considerare due casi: nel primo, dato il livello
della spesa complessiva, si può ipotizzare che il reddito di piena occupazione
si trovi a destra del livello di reddito di equilibrio. Nell’economia, quindi, si
determina una situazione di disoccupazione: la domanda non è sufficiente ad
occupare tutta la forza lavoro disponibile, dato il livello del salario corrente, e
si produce una situazione di vuoto deflazionistico. Se nella figura 1.3 si
assume che il reddito di pieno impiego sia pari a Y1>Y0, il segmento AA’, che
misura il divario esistente tra il livello del reddito di piena occupazione AY1 e
5 k va qui inteso come simbolo generico per rappresentare il moltiplicatore keynesiano. Diversi strumenti, come si vedrà, hanno
diversi valori del moltiplicatore, per cui k verrà successivamente qualificato sulla base dello specifico strumento analizzato.
8
la domanda complessiva A’Y1, rappresenta il vuoto deflazionistico.6 In questo
caso, una politica espansiva da parte del settore pubblico che, ad esempio con
un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle imposte sposti la retta
D in D’, potrebbe assicurare un nuovo equilibrio in A con il reddito al livello
di pieno impiego.
Al contrario, ed è il secondo caso, può accadere che il reddito di pieno
impiego si trovi a sinistra di quello di equilibrio; nella figura 1.3, si può
assumere che il reddito di piena occupazione sia pari a Y2<Y0. In questo caso
si determina un eccesso di domanda; il segmento BB’ definisce il vuoto
inflazionistico, in quanto al livello di pieno impiego la spesa aggregata BY2 è
maggiore del reddito B’Y2. Poichè l’economia è già al suo livello di pieno
impiego, l’eccesso di domanda (e quindi il passaggio da Y2 a Y0) non può
essere soddisfatto con un incremento di reddito reale, ma può solo
trasformarsi in un aumento dei prezzi e generare solo un incremento del
reddito monetario. In questo caso, l’economia si trova in una situazione di
inflazione. Il vuoto inflazionistico può essere assorbito con una politica
fiscale restrittiva che riduca la spesa pubblica o aumenti le imposte, e nella
figura sposti la retta D a D’’.7
Investimenti endogeni e mercato finanziario: il modello IS-LM
Estensione del modello keynesiano semplice considera l’ipotesi di
investimenti endogeni e l’introduzione del mercato finanziario. L’analisi può
essere sviluppata attraverso il modello IS-LM, che, nella sua forma generale,
esprime le relazioni tra economia reale e mercato finanziario attraverso il
legame rappresentato dal tasso di interesse.
La trattazione si svolge ancora con riferimento ad una economia chiusa, dove
il livello dei prezzi è dato. La fondamentale differenza con il precedente
schema di determinazione del reddito consiste nella dipendenza del livello
degli investimenti dal tasso di interesse, oltre che dalle aspettative e dal
prezzo dei fattori produttivi (beni capitali e lavoro). Gli investimenti I, quindi,
non sono più esogeni, ma dipendono inversamente da un tasso di interesse i
che si determina attraverso l’interazione tra il mercato dei capitali finanziari e
il mercato dei beni. Con questa nuova ipotesi, l’equazione degli investimenti
(1.4) diviene:
I = I (i ) = I − gi
dI/di < 0
(1.4a)
6 A tale concetto può essere associato quello di vuoto di produzione, espresso dalla differenza tra il reddito di equilibrio e il reddito
di pieno impiego, pari nel grafico al segmento Y0Y1.
7 Con riferimento alla figura 1.1, la produzione è al livello di pieno impiego e l’equilibrio è determinato in un punto sul tratto
verticale della curva ASK dove non è più possibile aumentare il reddito reale, ma si realizza solo un maggiore livello dei prezzi.
9
in cui, sul lato destro, I rappresenta la componente autonoma degli
investimenti e g indica la sensibilità degli investimenti al tasso di interesse. In
generale, più è elevato il tasso di interesse, minore è l’incentivo ad investire
per le imprese.8 Di conseguenza, risolvendo nuovamente il modello (1.1)(1.8) con la (1.4a) rispetto a Y, si ottiene, anziché la (1.9):
1
Y=
(a + I − gi + G + cF − cT ) = k ( A − gi)
(1.9a)
1− c
in cui i simboli hanno il consueto significato. In questo caso, per determinare
Y è necessario conoscere anche il valore di i. Esiste quindi una relazione tra il
valore di Y e quello del tasso di interesse i; esistono, di conseguenza, infiniti
punti definiti dalle diverse coppie (i,Y) compatibili con la condizione di
equilibrio. La curva D0 è tracciata per un dato livello del tasso di interesse i0;
con un tasso di interesse i1 più elevato, gli investimenti si ridurrebbero di un
ammontare g∆i e la curva della spesa complessiva si sposterebbe in D1. In
questo caso, il reddito di equilibrio diminuirebbe passando da Y0 a Y1, con la
dimensione della riduzione dipendente nuovamente dal moltiplicatore k.
La relazione tra livello del reddito e tasso di interesse può essere riportata
direttamente nella parte (b) della figura 1.4. Nel punto A’, al tasso di interesse
i0 corrisponde in equilibrio il reddito Y0; nel punto B’, al tasso di interesse i1>
i0 corrisponde il reddito Y1<Y0. L’unione di tutti i punti Y=D in
corrispondenza di diversi livelli del tasso di interesse genera la curva IS, con
inclinazione negativa: quanto più elevato è il livello del tasso di interesse,
tanto minore è il valore degli investimenti e della spesa aggregata e tanto
minore è il livello di equilibrio del prodotto nazionale.9 Qualsiasi punto sulla
IS rappresenta dunque un punto di equilibrio potenziale per l’economia, dove
la domanda e l’offerta di beni e servizi reali coincidono.
L’equazione della curva IS può essere analiticamente derivata dalla (1.9a),
risolvendo per il tasso di interesse:
A
Y
i= −
(1.19)
g
g /(1 − c)
L’intercetta, cioè la posizione della IS, dipenderà quindi dalle diverse
componenti autonome A della spesa complessiva; mentre l’inclinazione
dipenderà dal valore del moltiplicatore. Politiche fiscali espansive
sposteranno la IS verso destra, facendo aumentare il reddito di equilibrio;
8 Da una parte, infatti, se per investire si ricorre all’indebitamento, aumenta il costo dell’investimento. Dall’altra, aumenta la
convenienza a sostituire investimenti finanziari agli investimenti reali.
9 L’equilibrio dell’economia reale comporta, come si è visto, l’uguaglianza tra la domanda aggregata e il prodotto nazionale Y.
Nella formulazione più semplice e in assenza del settore pubblico (G=0, T=0 e F=0), il reddito nazionale, che è identicamente uguale al
prodotto nazionale, corrisponde al reddito disponibile Yd. A sua volta il reddito disponibile può essere destinato, per definizione, al
consumo C o al risparmio S. Abbiamo così Y≡(C+S). La spesa aggregata, dal canto suo, consiste soltanto delle componenti private del
consumo C e degli investimenti I. Quindi in equilibrio deve essere (C+I)≡(C+S) e perciò I=S, da cui l’uso della sigla IS per indicare la
curva che rappresenta i valori del prodotto nazionale di equilibrio Y corrispondenti a tutti i valori possibili del tasso di interesse i.
10
politiche fiscali restrittive la sposteranno verso sinistra, riducendo il reddito di
equilibrio.10
Figura 1.4 – La curva IS
Si consideri ora l’equilibrio nel settore finanziario, che riguarda le relazioni
tra variabili patrimoniali. Gli operatori economici devono infatti prendere
decisioni anche riguardo all’impiego delle loro attività o passività
patrimoniali. Si tratta in primo luogo di definire le possibili forme di impiego:
per esempio, scorte monetarie, depositi bancari, titoli obbligazionari, azioni.
Ciascuna forma di impiego è in teoria caratterizzata da un diverso rendimento
monetario atteso, da un diverso grado di probabilità di perdite o guadagni in
conto capitale, da numerosi altri fattori che la rendono, comparativamente, più
o meno conveniente.11 Il modello IS-LM, nella sua versione più semplice,
rimuove alcune delle difficoltà insite in un funzionamento così esteso del
settore finanziario, introducendo alcune semplificazioni. In particolare:
1) le diverse forme di impiego patrimoniale sono raggruppate in due categorie
principali: la prima include la moneta, la seconda tutte le altre attività
finanziarie (depositi, titoli obbligazionari privati e pubblici, azioni, ecc.);12
2) gli impieghi diversi dalla moneta sono rappresentati da titoli obbligazionari
a reddito fisso e a scadenza infinita. Per questi titoli, il valore di mercato V è
legato al rendimento monetario annuo R e al tasso di interesse i, dalla
seguente relazione:
R
V=
(1.20)
i
Con queste due ipotesi la scelta di portafoglio si riduce a due alternative:
detenere moneta o titoli. Per determinare l’equilibrio nel mercato finanziario è
però sufficiente definire solamente l’equilibrio nel mercato della moneta.
Esiste, infatti, un vincolo di bilancio patrimoniale per cui la quantità
complessiva domandata di moneta L e di titoli BD, che rappresentano la
ricchezza finanziaria domandata, deve coincidere con l’offerta complessiva di
attività finanziarie composta dallo stock reale di moneta in circolazione M, e
dall’offerta di titoli B. In simboli:
( L + B D ) ≡ ( M + B)
(1.21)
10 Questo effetto può essere facilmente verificato nella figura 1.4, ipotizzando, ad esempio, una politica fiscale espansiva che
aumenti la curva D1 a D0 e il reddito da Y1 a Y0, a parità di tasso di interesse i1.
11In linea generale, ogni attività dovrebbe essere definita da una sua curva di domanda e di offerta; l’equilibrio nel mercato
finanziario, quindi, finirebbe col dipendere dall’equilibrio simultaneo di tutte le diverse possibilità di impiego. Per tenere conto di questo
grado di complessità, è ovviamente necessario estendere il semplice modello IS-LM di riferimento, una strada che non costituisce
l’obiettivo primario di questa trattazione.
12 Questa distinzione è possibile in quanto la moneta si caratterizza per il massimo grado di liquidità, nel senso che può essere
convertita in beni e servizi reali immediatamente e senza costi. Le altre attività, invece, anche se in misura diversa, presentano dei
vincoli che ne riducono la liquidità, nel senso che la loro trasformazione in beni e servizi comporta dei costi di transazione e il rischio di
perdite in conto capitale. In questo senso, il tasso di interesse può quindi essere interpretato come la remunerazione corrisposta agli
operatori per indurli a rinunciare alla liquidità.
11
La presenza di questo vincolo rende sufficiente specificare la relazione di
equilibrio di uno dei due impieghi, essendo l’altra determinabile in via
residuale. In altri termini, se viene assicurata l’uguaglianza tra la domanda e
l’offerta di moneta (L=M), sono corrispondentemente assicurati anche
l’equilibrio sul mercato dei titoli e la determinazione del tasso di interesse che
garantisce l’equilibrio negli scambi nel settore finanziario.13 14
La quantità nominale di moneta offerta M è assunta esogena in quanto
determinata dalle autorità monetarie.15 Se P è il livello generale dei prezzi,
l’offerta reale di moneta M sarà allora uguale a:
M=
M
P
(1.22).
Nella figura 1.5(a), dove sull’asse delle ascisse è riportata la quantità di
moneta reale e su quello delle ordinate il tasso di interesse, l’offerta nominale
di moneta, assunta esogena, è rappresentata da una retta verticale
corrispondente ad un dato livello dei prezzi P1.
Si assume invece che la domanda di moneta L varî inversamente rispetto al
tasso di interesse e direttamente rispetto al livello del reddito, che determina il
volume delle transazioni e quindi la domanda di moneta per questo scopo.16
In simboli:
L = kY − ji
(1.23)
dove k e j esprimono rispettivamente la sensibilità della domanda di moneta al
livello del reddito e al tasso di interesse.
Nella figura 1.5(a), la curva della domanda di moneta L(Y) è costruita per i
due livelli del reddito Y1 e Y2, dove Y2 > Y1. I punti A e B, dove la curva di
offerta M incontra rispettivamente le due curve L(Y1) e L(Y2), determinano i
livelli del tasso di interesse i1 e i2 (con i1 < i2) che corrispondono all’equilibrio
sul mercato della moneta. Le diverse combinazioni di equilibrio del reddito e
del tasso di interesse vengono esplicitate dai punti A’ e B’ nella sezione (b)
13 Se la domanda e l’offerta di titoli sono in equilibrio, è fissato il prezzo di equilibrio dei titoli e quindi, per la (20), il livello del
tasso di interesse.
14 E’ chiaro che se L>M, e cioè vi è sul mercato finanziario eccesso di domanda di moneta, vi è contemporaneamente e per un pari
ammontare eccesso di offerta di titoli, e cioè BD<B. In altri termini, in virtù del vincolo di bilancio patrimoniale, ad ogni variazione della
domanda di uno dei due tipi di attività finanziaria corrisponde una variazione identica e di segno opposto nella domanda dell’altra
attività.
15 La decisione di modificare la quantità di moneta esistente risponde a criteri che attengono alla sfera della politica monetaria e
finanziaria. I canali istituzionali con cui si può modificare l’offerta di moneta sono costituiti o da operazioni sul mercato aperto effettuate
dalla banca centrale o dal finanziamento da parte di quest’ultima del disavanzo del bilancio dello Stato. Nel modello più semplice si
trascura il sistema bancario e inoltre, in una economia chiusa ai rapporti con l’estero, non esiste il potenziale canale di creazione o
distruzione di moneta costituito dalla bilancia dei pagamenti. L’abbandono di queste semplificazioni determinerebbe solo una maggiore
complicazione formale del modello.
16 Secondo la formulazione keynesiana, la domanda di moneta è legata a tre motivazioni principali: a) il motivo di transazione, b) il
motivo precauzionale e c) il motivo speculativo. Il primo è legato alla necessità di disporre in misura sufficiente di uno strumento
accettato come mezzo di pagamento. Il secondo motivo, quello precauzionale, riflette un aspetto prudenziale della detenzione di moneta.
Infine, il motivo speculativo, al quale Keynes diede particolare rilevanza, dipende dal fatto che non c’è ragione di detenere moneta se è
possibile trarre un rendimento dall’investimento in titoli. Sarà tanto meno conveniente detenere moneta anziché titoli quanto maggiore è
il tasso di interesse sui titoli stessi a cui si deve rinunciare.
12
della figura; esse definiscono la curva LM per una data offerta di moneta reale
M al livello dei prezzi P1.
Figura 1.5 – La curva LM
Analiticamente, l’equilibrio nel mercato della moneta è determinato dalla
uguaglianza tra la (1.22) e la (1.23), da cui:
i=
1
M
(kY − )
j
P
(1.24)
La (1.24) esprime in equilibrio la relazione tra il tasso di interesse e il livello
del reddito e definisce la curva LM, cioè il luogo dei punti in cui il mercato
finanziario è in equilibrio. La figura 1.6 riporta contemporaneamente la curva
IS e la curva LM; l’equilibrio del sistema economico si ottiene nel punto E0,
con un livello di reddito Y0 e un tasso di interesse i0, che determinano
contemporaneamente l’equilibrio sul mercato dei beni e su quello della
moneta.
Figura 1.6 – Il modello IS-LM e la politica fiscale e monetaria
La politica fiscale e la politica monetaria nel modello IS-LM
Il modello IS-LM può a questo punto essere utilmente impiegato per delineare
il ruolo della politica fiscale nella determinazione del livello del reddito e
dell’occupazione nel sistema economico; la specificazione del mercato
finanziario, inoltre, permette di assegnare un ruolo attivo nella politica di
stabilizzazione anche alla politica monetaria.
Si è già più volte affermato che, seguendo l’approccio keynesiano, non si può
assumere a priori che il livello di equilibrio determinato nel sistema sia
coincidente con la situazione di piena occupazione. Si assuma, nella figura
1.6, che il reddito di pieno impiego sia Yp e che inizialmente l’equilibrio sia
determinato dall’incontro tra la curva IS e la curva LM nel punto E0 in
corrispondenza di un livello del reddito Y0 inferiore a quello di piena
occupazione.
In questo caso, un intervento di politica fiscale espansiva, ad esempio un
aumento della spesa pubblica per beni e servizi G, può spostare la curva IS
verso destra. Nel grafico, si avrà quindi una nuova curva IS’ e un nuovo
equilibrio E’, dove sia il livello del reddito sia il tasso di interesse sono
aumentati passando rispettivamente da Y0 a Yp e da i0 a ip.17
17 Ma in realtà l’intreccio tra politica fiscale e mercato della moneta è ancora più complesso se si considera anche che l’aumento
della spesa pubblica deve essere in qualche modo finanziato e il risultato finale in termini di nuovo equilibrio dipende dalle conseguenze
derivanti dal diverso canale di finanziamento adottato. In particolare la maggiore spesa può essere finanziata: 1) aumentando le imposte;
13
Una politica fiscale espansiva, quindi, non produce solo effetti sul reddito, ma
anche sul tasso di interesse. In altri termini, l’aumento del tasso di interesse
suggerisce che, nel modello IS-LM, la politica fiscale possa influenzare anche
le variabili monetarie: un aumento della spesa pubblica aumenta il reddito,
che produce un aumento della domanda di moneta per transazioni. A parità di
offerta di moneta reale, ciò determina, a sua volta, un aumento del tasso di
interesse (al fine di riequilibrare il mercato della moneta) e una riduzione
degli investimenti privati (che dal tasso di interesse dipendono
negativamente). Questo effetto, definito di spiazzamento degli investimenti
privati, determina una riduzione dell’incremento del reddito potenzialmente
indotto dalla spesa pubblica.
Nella figura 1.6, infatti, se il tasso di interesse rimanesse costante al livello
iniziale i0, l’incremento del reddito sarebbe pari a Y0Ym > Y0Yp. Ne consegue
che più (meno) rigida la LM, maggiore (minore) l’effetto di spiazzamento,
minore (maggiore) l’efficacia della politica fiscale.
Alternativamente, anziché agire sulla IS, i responsabili della politica
economica potrebbero prendere in considerazione l’ipotesi di raggiungere il
reddito Yp, nella figura 1.6, attraverso un aumento dell’offerta nominale di
moneta. Ciò sposterebbe la curva LM in LM’ e consentirebbe di trovarsi in
una posizione di equilibrio E’’, con un minore tasso di interesse e un più
elevato livello del reddito.
È opportuno ricordare, a questo punto, che la posizione della LM dipende
dall’offerta di moneta. Ritornando alla figura 1.5, se l’offerta di moneta
nominale aumenta da M a M ' , l’offerta reale, a parità di livello dei prezzi,
passerà da M /P1 a M ’/P1; per ogni livello di Y, quindi, l’equilibrio richiederà
un tasso di interesse più basso (i punti C, D e C’, D’ nei due quadranti della
figura 1.5), graficamente rappresentato da uno spostamento verso il basso
della curva LM (la curva LM(M’,P1) nella figura 1.5).18
Guardando ora alla figura 1.6, si può rilevare che nel caso di aumento
dell’offerta di moneta, è l’effetto sul mercato monetario a trasmettersi sul
mercato dei beni: la riduzione del tasso di interesse stimola un aumento della
spesa per investimenti privati, aumentando il reddito di equilibrio da Y0 a Yp.
Maggiore è l’elasticità degli investimenti al tasso di interesse (e quindi
maggiore l’elasticità della IS), maggiore sarà l’efficacia della politica
monetaria in termini di aumento del reddito nazionale.
In sintesi: l’efficacia della politica fiscale e della politica monetaria dipendono
strettamente dalle inclinazioni della IS e della LM, che, come si vedrà tra
2) con l’emissione di titoli del debito; 3) attraverso la creazione di nuova base monetaria. L’analisi dell’efficacia della politica fiscale in
questi diversi casi è rinviata al capitolo 2 dove sono analizzati con maggiore dettaglio gli strumenti della politica fiscale.
18 Se aumenta la quantità reale di moneta M, per esempio in seguito ad una operazione di mercato aperto da parte della Banca
Centrale, dato il livello di Y e quindi della domanda di moneta, si realizza un eccesso di offerta di moneta (L<M) e quindi un eccesso di
domanda di titoli (BD>B). L’assorbimento dell’eccesso di domanda di titoli comporterà un aumento del loro prezzo e quindi una
riduzione del tasso di interesse di equilibrio.
14
breve, hanno dato luogo ad opinioni contrastanti in merito all’opportunità
relativa delle due politiche, monetaria e fiscale.
L’interpretazione keynesiana del modello IS-LM
Si è appena visto che nella interpretazione keynesiana del modello IS-LM, sia
la politica fiscale sia la politica monetaria sono in grado di produrre effetti
sull’economia reale. Ma quale è l’idea dei keynesiani in ordine alle pendenze
delle curve IS e LM? Essi ritengono che la LM sia generalmente molto
elastica e la IS sostanzialmente rigida. Di conseguenza, politiche fiscali
espansive risulterebbero molto efficaci, poiché l’effetto di spiazzamento
sarebbe limitato a causa dell’effetto non rilevante di crescita del tasso di
interesse. Sarebbe invece ridotta la capacità stabilizzatrice della politica
monetaria, poiché una riduzione del tasso di interesse indotta dall’aumento
dell’offerta nominale di moneta (spostamento verso il basso della curva LM)
non produrrebbe rilevanti effetti di aumento degli investimenti.
Per i keynesiani, inoltre, esiste un certo livello minimo del tasso di interesse
nei confronti del quale la politica monetaria diviene chiaramente inefficace. Si
tratta della c.d. trappola della liquidità; quando il tasso di interesse si
posiziona ad un dato livello minimo, gli operatori si aspetteranno un suo
aumento, e non reagiranno per evitare di incorrere in perdite in conto capitale,
qualsiasi sia l’offerta di moneta. In questo caso, nessuno intende acquistare
titoli che fruttano un tasso di interesse troppo basso e la preferenza per la
liquidità sarà assoluta.19 Il prezzo dei titoli e il tasso di interesse non
varieranno al variare dell’offerta di moneta e la politica monetaria diverrà
inefficace.
La trappola della liquidità può essere rappresentata, nella figura 1.7, come un
segmento orizzontale della LM ad un certo livello del tasso di interesse ie. Lo
spostamento della LM verso destra (a LM’) non muterà l’equilibrio iniziale
con la IS nel punto E0, cosicché resteranno invariati sia il tasso di interesse sia
il livello del reddito di equilibrio. Si può quindi affermare che il caso della
trappola della liquidità è associato a una elasticità infinita della domanda di
moneta al tasso di interesse.
Figura 1.7 – Il modello IS-LM e la trappola della liquidità
19 Nella analisi keynesiana, l’acquisto delle varie forme di attività finanziarie è influenzato dalle aspettative degli operatori circa il
livello futuro dei tassi di interesse. Se il prezzo dei titoli è molto elevato e quindi il tasso di interesse è molto basso, in relazione
all’opinione degli investitori circa il prezzo normale, si determinerà la tendenza a vendere immediatamente i titoli e a procastinare gli
acquisti progettati al momento in cui si avrà una diminuzione dei prezzi (e quindi un rialzo del tasso di interesse). In questo caso ci sarà
la tendenza a mantenere un grado più elevato di liquidità. Quindi quanto più basso il tasso di interesse tanto maggiore l’ammontare di
contanti che si desidera detenere. In corrispondenza di un tasso di interesse molto basso, la domanda di moneta per fini speculativi
diventa illimitata e cessa la convenienza all’acquisto di titoli a causa di probabili perdite in conto capitale, data l’aspettativa degli
operatori economici di un futuro rialzo dei tassi di interesse. Questa situazione di indefinito tesoreggiamento della moneta viene definita
trappola della liquidità. In questo caso, qualsiasi sia il livello dell’offerta di moneta il tasso di interesse non scende al livello tale da
indurre un ammontare di investimenti che possa garantire il pieno impiego.
15
Se la politica monetaria è inefficace, bisogna chiedersi cosa può fare la
politica fiscale espansiva. Una tale politica, spostando la curva IS,
modificherà il livello di equilibrio del tasso di interesse e del reddito,
portando l’economia, ad esempio, nel punto E’, con reddito Yp e tasso di
interesse ip.
L’interpretazione neoclassica del modello IS-LM
Intorno alla metà degli anni ‘50 emerge una nuova impostazione, denominata
sintesi neoclassica20, che si serve del modello IS-LM per mostrare in quali
condizioni sia possibile ritenere valida la tesi keynesiana, con equilibri non di
piena occupazione, e in quali circostanze debba invece ritenersi valida la tesi
classica di equilibrio di piena occupazione raggiungibile attraverso
aggiustamenti spontanei del mercato.
L’obiettivo principale della sintesi neoclassica è quello di verificare se le
condizioni di validità della tesi keynesiana siano effettivamente di portata
generale oppure rappresentino circostanze speciali all’interno dello schema
classico. Una delle principali conclusioni a cui la sintesi neoclassica giunge
non è molto incoraggiante per la visione keynesiana: essa, infatti, risulterebbe
valida soltanto in presenza di imperfezioni nel mercato che impedirebbero al
sistema di raggiungere autonomamente il livello di pieno impiego.
In particolare, la sintesi neoclassica individua tre casi principali a cui si può
ricondurre la validità della tesi keynesiana: a) se gli investimenti sono poco
sensibili al tasso di interesse, cioè nel caso di IS particolarmente rigida; b) se
esiste una trappola della liquidità, nel senso sopra osservato; c) se i salari
monetari sono rigidi verso il basso, cioè se il processo classico di
aggiustamento, in presenza di disoccupazione, fosse bloccato nella sua fase
iniziale.
Si tratta, in effetti, di casi già affrontati nelle precedenti pagine del testo; la
novità consiste nel fatto che per la sintesi neoclassica sono questi gli unici
elementi in grado di interrompere i nessi causali di aggiustamento sostenuti
dalla teoria classica e quindi in grado di spiegare l’esistenza di un equilibrio
non di piena occupazione.
Sulla base di queste analisi, si sviluppa, in questo periodo e nell’ambito dello
schema IS-LM, la contrapposizione tra attivisti e non attivisti della politica
fiscale e della politica monetaria in ordine alla capacità del mercato di
dirigersi spontaneamente verso l’equilibrio di piena occupazione. Poiché per
la sintesi neoclassica la validità della tesi keynesiana (attivisti della politica
fiscale) è da ricondursi ai tre casi speciali sopra evidenziati, c’è da attendersi
che i non attivisti abbiano, sulle inclinazioni delle curve IS e LM, opinioni
20 I principali esponenti statunitensi di questa corrente sono Hansen, Modigliani, Patinkin, Samuelson e Tobin. In Gran Bretagna,
Hicks, Harrod e Meade.
16
diverse. Essi, infatti, ritengono che la IS sia alquanto piatta e la LM piuttosto
rigida; il primo caso segnala un elevato valore della elasticità degli
investimenti al tasso di interesse; il secondo, invece, riflette la scarsa elasticità
della domanda di moneta al tasso di interesse.
In tale contesto la politica monetaria risulta più efficace di quella fiscale, dal
momento che l’elevata elasticità della IS rispetto a i, combinata con una LM
rigida, amplificherebbe l’effetto di spiazzamento e ridurrebbe l’effetto globale
di una manovra di bilancio espansiva; mentre la ridotta elasticità della LM
rispetto a i, combinata con la elasticità della IS, è in grado di amplificare
l’effetto su Y di una variazione dell’offerta di moneta.
Il culmine della sintesi neoclassica, ma per certi versi anche il suo
superamento, si raggiunge dopo la pubblicazione, nel 1956, di un
fondamentale contributo di D. Patinkin e l’elaborazione teorica del concetto
di “effetto saldi reali”(real balance effect).21 L’effetto saldi reali è, nella
concezione di Patinkin, l’effetto potenziale che sulla domanda aggregata
potrebbe essere esercitato dall’accrescimento delle disponibilità monetarie
reali detenute dagli individui a seguito di una caduta del livello dei prezzi, a
partire da una situazione di pieno impiego. Maggiori disponibilità monetarie
reali, afferma Patinkin, potrebbero generare un aumento della domanda
aggregata e un conseguente aumento della produzione e dell’occupazione,
sino a che l’equilibrio di pieno impiego non sia ristabilito. L’effetto saldi reali
è, per Patinkin, un effetto automatico e diretto che implica che il settore
privato dell’economia sia inerentemente stabile, una tesi, come vedremo tra
breve, che costituirà la base del pensiero monetarista.
L’esistenza di questo effetto diretto sul consumo è in grado di far fronte a due
dei tre casi speciali individuati dalla sintesi neoclassica che rendono valide le
proposizioni keynesiane. Infatti, attraverso l’effetto saldi reali, una posizione
di pieno impiego diviene raggiungibile, qualora il sistema se ne allontani,
anche nel caso in cui gli investimenti siano poco sensibili alle variazioni del
tasso di interesse e nel caso in cui ci si trovi in una situazione di trappola della
liquidità. In questi due casi, quindi, non sarebbe necessario procedere a
politiche economiche discrezionali che tendano ad avvicinare il sistema alla
situazione di pieno impiego, poiché il sistema è in grado di provvedere
autonomamente. Sotto questo profilo, l’unico fattore di impedimento al
raggiungimento di equilibri di piena occupazione continuerebbe a rimanere la
rigidità del salario monetario, poiché questo impedirebbe all’effetto saldi reali
di esplicare la sua efficacia.22
21 Questo effetto è in realtà stato anticipato da Pigou (1941), e per questo denominato anche ’effetto Pigou’. Si veda D. Patinkin,
Money, Interest and Prices: An Integration of Monetary and Value Theory, Row Ptereson, Evanston, 1956, trad. it. Moneta, interessi e
prezzi, Padova, Cedam, 1977.
22 Va infatti ricordato che una assunzione fondamentale dello schema di Patinkin è l’ipotesi di flessibilità dei salari e dei prezzi. Le
sue argomentazioni, quindi, restringerebbero la validità della teoria generale keynesiana ad un caso in realtà speciale, quello di rigidità
del salario.
17
Ma quali sono le conseguenze sul terreno della politica economica? In primo
luogo, dal lato della politica monetaria, il contributo di Patinkin tende a
riaffermare la neutralità della moneta, cioè l’assenza di effetti reali a seguito
di modificazioni delle variabili monetarie.23
In secondo luogo, l’utilità della politica fiscale sembrerebbe venire meno: con
le ipotesi di Patinkin e la capacità dell’effetto saldi reali di far fronte a due dei
tre casi speciali identificati dalla sintesi neoclassica, la necessità di politiche
fiscali espansive sarebbe limitata ai casi di rigidità dei salari, cioè alla
rimozione di una delle ipotesi sulle quali si regge lo schema di Patinkin.
Tuttavia, lo stesso Patinkin afferma che l’effetto saldi reali potrebbe essere in
realtà troppo debole per garantire il raggiungimento di una situazione di pieno
impiego; ne consegue che le politiche keynesiane potrebbero mantenere un
ruolo importante nella misura in cui possano accelerare il naturale
manifestarsi dell’effetto saldi reali o supplire al loro mancato verificarsi.
Dalla teoria keynesiana alla teoria monetarista
Il modello AD-AS
Si è notato in precedenza che la teoria keynesiana si è affermata in un periodo
in cui gli elevati livelli di disoccupazione e la stabilità dei prezzi
permettevano di assumere che le variazioni della domanda aggregata si
contrapponessero ad un tratto della curva di offerta aggregata perfettamente
elastico. Ciò implica, nel modello IS-LM, un livello dei prezzi fisso per livelli
inferiori alla piena occupazione, per cui variazioni della domanda aggregata
generano solo variazioni reali nei livelli di produzione e di occupazione.
La variazione del livello dei prezzi diviene invece centrale nel dibattito
macroeconomico che si sviluppa negli anni ’60, ’70 e ’80. A partire dagli anni
sessanta, infatti, l’ipotesi di prezzi rigidi comincia a costituire una limitazione
rilevante all’interno del modello IS-LM; la necessità di introdurre la
variabilità dei prezzi all’interno degli schemi di determinazione del reddito
genera così un nuovo schema di analisi, il modello AD-AS (Aggregate
Demand-Aggregate Supply).
La rimozione dell’ipotesi di prezzi fissi produce due principali conseguenze:
a) in primo luogo, la definizione dell’equilibrio nel sistema economico si
arricchisce della relazione che lega il reddito e il prodotto al livello dei prezzi.
L’equilibrio è così determinato dall’incontro tra la curva della domanda
aggregata e quella dell’offerta aggregata;
23 Come affermato da Caffè (1984; p.198), questa neutralità non è affatto sorprendente in quanto deriva dalle ipotesi che Patinkin
pone alla base della sua analisi, sostanzialmente conformi al contenuto classico della teoria quantitativa.
18
b) l’andamento della curva dell’offerta aggregata, che aveva già contrapposto
la visione dei keynesiani a quella dei classici, viene nuovamente posto in
discussione, facendo derivare da esso nuove conseguenze in termini di
efficacia delle politiche espansive. In particolare, si richiama la possibilità che
politiche dal lato della domanda producano anche o solo inflazione.
Questo passaggio dall’uno all’altro schema può essere interpretato come la
chiave di lettura delle principali discussioni che hanno investito il pensiero
macroeconomico negli ultimi trenta anni e in particolare il conflitto tra
keynesiani e monetaristi, ma anche tra questi ultimi e i successivi esponenti
della Nuova Macroeconomia Classica.
Per analizzare compiutamente le caratteristiche del modello AD-AS, si può
innanzitutto studiare la determinazione della curva di domanda aggregata.
Introducendo la variabilità del livello dei prezzi, la AD può essere
direttamente costruita a partire dal modello IS-LM. A questo scopo, nella
parte (a) della figura 1.8 è riportato nuovamente il modello IS-LM. La
riduzione del livello dei prezzi da P a P’ sposta la LM verso destra fino a
LM’24 e l’equilibrio passa dal punto E al punto E’, dove il tasso di interesse è
sceso da i a i’ e il reddito è aumentato da Y a Y’. Nella parte b) della figura, i
punti A e B identificano la relazione inversa tra il livello dei prezzi e il reddito
di equilibrio, da cui si genera l’andamento decrescente della curva della
domanda aggregata AD.25
Figura 1.8 – La curva di domanda aggregata
La pendenza e la posizione della curva della domanda aggregata dipendono
dalla posizione sia della IS sia della LM e quindi anche dai fattori che ne
determinano i relativi spostamenti. Per esempio, un aumento della spesa
pubblica che sposta la IS verso destra, dato il prezzo, sposterà anche la AD
verso destra. Allo stesso modo un aumento dell’offerta nominale di moneta, a
parità di prezzi, che sposta la LM verso destra, sposterà nella stessa direzione
anche la AD. Quindi, politiche fiscali e monetarie espansive della domanda
spostano la curva AD in alto verso destra; al contrario politiche restrittive la
spostano in basso verso sinistra.
Per determinare l’efficacia della politica fiscale e di quella monetaria non è
però sufficiente fare riferimento solo al loro effetto sulla domanda aggregata,
ma occorre specificare l’andamento della curva dell’offerta aggregata da cui
dipende il livello del reddito e dei prezzi di equilibrio per il sistema
economico. In particolare, può accadere che una variazione della domanda
24 Nella figura 1.6 se il prezzo scende da P1 a P2, l’offerta reale di moneta aumenta e quindi la curva LM(M, P1) si sposta verso
destra in LM(M, P2).
25 Si assume ora che la variazione dei prezzi non abbia effetto su altre variabili. Come si è visto in precedenza, essa potrebbe
influire sui livelli di consumo.
19
aggregata possa determinare, in equilibrio, una variazione dei prezzi piuttosto
che una variazione di produzione reale, e quindi generare solo inflazione e
non maggiore occupazione.
Nella figura 1.9 viene riportato lo stesso schema della figura 1.1 che
rappresenta il punto di partenza per introdurre gli sviluppi più recenti sul
ruolo dell’intervento pubblico. A partire dalla fine degli anni ’50 si constata
che l’erosione del potere di acquisto della moneta assume un carattere
moderato ma persistente; l’analisi dei processi inflazionistici ha perciò dovuto
spingersi oltre le abituali spiegazioni valide per l’inflazione finanziaria.26 Le
evidenze di pressioni di tipo inflazionistico, quindi, riproponevano, nella
impostazione keynesiana con salari rigidi verso il basso, una curva
dell’offerta aggregata come la ASK (riportata nuovamente nella figura 1.9)
dove il reddito è legato da una relazione positiva con il livello dei prezzi
almeno fino al raggiungimento del pieno impiego. Il costo, in termini di
inflazione, che è necessario pagare per ottenere un maggiore reddito diventa
molto elevato solo in corrispondenza del pieno impiego, cioè nel tratto
verticale della ASk.
Figura 1.9 – Interpretazioni alternative della curva di offerta aggregata
In questo modello, se la curva della domanda aggregata incontra la curva
dell’offerta aggregata nel suo tratto crescente, cioè prima del pieno impiego,
un’espansione della spesa pubblica G, che produce uno spostamento verso
destra della curva della domanda aggregata AD in AD’, produrrà un
incremento sia del reddito sia dei prezzi.
La teoria monetarista
A partire dalla fine degli anni sessanta, la teoria monetarista si contrappone
alla visione keynesiana del funzionamento del sistema economico corrente; a
questo riguardo, si possono individuare due momenti fondamentali della
critica monetarista alla impostazione keynesiana.
In una prima fase, la critica si fonda su una revisione della teoria quantitativa
della moneta e modifica alcune convinzioni che avevano guidato le politiche
di tipo keynesiano. In particolare: a) si ristabilisce la fiducia nell’operare
dell’economia di mercato; b) si assegna una più elevata priorità all’obiettivo
26 Un processo inflazionistico può trovare origine nelle esigenze di finanziamento di un conflitto bellico. In una circostanza del
genere, l’esuberanza dei mezzi di pagamento rispetto ai beni disponibili che contraddistingue la situazione trae alimento
dall’impossibilità pratica di fronteggiare le crescenti e inderogabili spese pubbliche con corrispondenti entrate fiscali. Si fa ricorso, allora
all’emissione dei biglietti da parte della Banca Centrale e per conto dell’erario: a motivo di questa origine, cioè lo squilibrio del bilancio
statale, il processo inflazionistico risultante è denominato inflazione finanziaria.
20
della stabilità dei prezzi; e c) si attribuisce all’intervento pubblico e alle
autorità monetarie la responsabilità del processo inflazionistico.
In una seconda fase, la critica si estende alla interpretazione della curva di
Phillips e se ne propone una nuova formulazione, in contrapposizione a quella
keynesiana, rivolta a spiegare il fenomeno inflazionistico postulando
l’inefficacia dell’azione di politica fiscale.
La prima critica monetarista
L’aspetto fondamentale della prima critica monetarista risiede nell’idea che
gli elevati livelli di inflazione sperimentati nel sistema economico siano il
frutto di una espansione eccessiva dell’offerta di moneta. Friedman si
richiama esplicitamente alla teoria quantitativa e ne propone una
riformulazione, sulla base delle seguenti osservazioni.27
In primo luogo, gli operatori prendono le loro decisioni sulla base delle
variabili reali del sistema, che riflettono il loro potere di acquisto.
Inoltre, la domanda di moneta si mantiene stabile nel tempo: esiste cioè
evidenza empirica di una relazione funzionale stabile tra questa e i fattori che
la determinano.
In base a queste nuove ipotesi, Friedman dimostra che il tasso di variazione
dei prezzi (cioè il tasso di inflazione) è pari alla differenza tra il tasso di
crescita dell’offerta di moneta e il tasso di crescita della domanda di moneta
per fini transattivi. Nel lungo periodo, se il tasso di crescita dell’offerta di
moneta supera il tasso naturale di crescita dell’economia, il risultato è
l’inflazione. Quindi l’inflazione non è solo un fenomeno monetario, ma può
prodursi in conseguenza del comportamento delle autorità monetarie.28
Alla base dello schema monetarista c’è l’idea che l’economia si trovi in uno
stato naturale di lungo periodo in cui non esistono squilibri nei singoli
mercati e tutte le variabili reali si trovano al loro livello naturale. Da questa
concezione si sviluppa il concetto di tasso naturale di disoccupazione, che,
sotto un profilo empirico, è il livello di disoccupazione che prevale quando
l’economia è al suo livello di pieno impiego.29 Secondo Friedman, se
l’economia si dovesse allontanare da questa situazione di pieno impiego, il
sistema, nel lungo periodo, tenderebbe naturalmente al riequilibrio.
Tuttavia, per Friedman, è possibile che nel breve periodo si verifichino
fluttuazioni cicliche intorno alla posizione di equilibrio di lungo periodo. E la
ragione di ciò risiede, secondo i monetaristi, nella possibile differenza tra
grandezze economiche effettive e grandezze economiche attese. Si introduce
27 Friedman, (1956).
28 In A. Friedman e Schwartz, “A monetary history of the United States, 1867-1960”, 1963, le variazioni monetarie nel periodo
sono interpretate come la causa e non la conseguenza delle maggiori recessioni economiche.
29 Si tratta, quindi, di un livello di disoccupazione fisiologico o frizionale.
21
così esplicitamente il problema della formazione delle aspettative degli
operatori economici sulle grandezze del sistema, rimuovendo una delle ipotesi
fondamentali della teoria classica, quella relativa all’esistenza di perfetta
informazione.
La seconda critica monetarista
La direzione dell’attacco monetarista contro la politica fiscale attiva dei
keynesiani cambia alla fine degli anni ‘60, rivolgendosi esplicitamente a
minare le basi della curva di Phillips attraverso l’introduzione, in quello
schema, del livello atteso di inflazione come variabile addizionale nella
determinazione del tasso di variazione del salario monetario. La spiegazione
keynesiana della possibilità di tassi di disoccupazione non decrescenti al
crescere delle pressioni inflazionistiche (ad esempio, inflazione da costi)
viene rifiutata dall’approccio monetarista che postula invece l’inefficacia e
l’indesiderabilità di politiche di intervento pubblico.
Infatti, nel saggio The role of monetary policy del 1968, Friedman negava
l’esistenza nel lungo periodo di un trade-off tra disoccupazione e inflazione
nella attuazione della politica economica.30 Come si è osservato in
precedenza, il sistema economico converge verso un tasso naturale di
disoccupazione compatibile con le forze reali del sistema economico e con
l’accuratezza delle previsioni dei soggetti economici. La politica monetaria e
l’intervento pubblico in generale non sono quindi in grado di sostenere
l’occupazione ad un livello prefissato diverso da quello naturale.
Tuttavia, l’approccio di Friedman, per l’esistenza di una asimmetria
informativa tra imprenditori e lavoratori, ammette, almeno nel breve periodo,
deviazioni del tasso di crescita della produzione e dell’occupazione dal loro
tasso naturale, e quindi la possibilità di una curva di Phillips inclinata
negativamente. Ma nel lungo periodo la curva di Phillips non può che essere
verticale al livello di disoccupazione naturale (UN).
Da questa impostazione è possibile derivare quattro conseguenze
fondamentali per la politica di stabilizzazione:
1) le autorità possono ridurre la disoccupazione al di sotto del tasso naturale
solo nel breve periodo e solo perchè il livello di inflazione non è ancora
anticipato in modo corretto. L’ipotesi di aspettative adattive implica
aggiustamenti graduali e non immediati delle aspettative e la politica fiscale
può ancora essere efficace nel breve periodo;
2) qualsiasi tentativo di tenere il livello della disoccupazione al di sotto del
suo tasso naturale produce solo una accelerazione della inflazione;
30 M. Friedman, “The role of monetary policy”, American Economic Review, 58, pp.1-17, 1968.
22
3) se si intende ridurre il tasso naturale di disoccupazione e quindi aumentare
il livello dell’output è necessario perseguire politiche dal lato dell’offerta per
migliorare la struttura e il funzionamento del mercato del lavoro piuttosto che
politiche dal lato della domanda;
4) il tasso naturale è compatibile con qualsiasi tasso di inflazione che a sua
volta è determinato dal tasso di espansione monetario come postulato dalla
teoria quantitativa. Data la convizione che l’inflazione è essenzialmente un
fenomeno monetario dovuto ad un eccesso di crescita monetaria, i monetaristi
affermano che l’inflazione può essere ridotta solo riducendo il tasso di
crescita della offerta di moneta.
La nuova macroeconomia classica
Durante gli anni settanta e ottanta la critica alle tesi keynesiane deriva
principalmente dalla Nuova Macroeconomia Classica (NMC), con l’obiettivo
di dimostrare il naufragio della sintesi neoclassica sia sotto il profilo teorico,
sia dal punto di vista delle conseguenze in termini di politica economica. La
base di riferimento è ancora quella del monetarismo di Friedman, ma i
contributi di R. Lucas e di altri autori31, rivolti a mettere in discussione anche
la curva di Phillips aumentata per le aspettative, tendono a negare qualsiasi
ruolo per le politiche fiscali e monetarie.
Per poter attaccare così profondamente le tesi keynesiane, la NMC ha però
bisogno di ripristinare alcune assunzioni proprie della teoria classica e di
modificarne alcune già presenti nel monetarismo di Friedman. In particolare:
a) tutti i prezzi, compresi i salari, sono perfettamente flessibili sia verso il
basso sia verso l’alto e il modello è di tipo walrasiano;
b) l’ipotesi di aspettative adattive considerata da Friedman viene rimpiazzata
da quella di “aspettative razionali”.32 Come in Friedman, l’analisi di Lucas
tende ad identificare la presenza di cicli economici con errori di formulazione
delle aspettative da parte degli individui, dovute alla limitata informazione
che essi possiedono sul livello dei prezzi. Al contrario di Friedman, però, gli
individui nel loro processo decisionale utilizzano non solo le informazioni
relative al passato (aspettative adattive), ma la teoria economica rilevante, in
modo tale che le loro aspettative sono identiche a quelle che potrebbero essere
formulate dalla teoria economica. Ne consegue che gli agenti economici non
sbagliano le loro previsioni e non soffrono di illusione monetaria; quindi solo
eventi inattesi o imprevedibili possono far divergere le aspettative dai risultati
effettivi del sistema.
31 Tra cui T. Sargent, R. Barro, E. Prescott e N. Wallace.
32 L’ipotesi di aspettative razionali è associata a J. Muth (1961) nell’ambito della teoria microeconomica. Si sostiene che la
distribuzione soggettiva di probabilità che gli agenti hanno riguardo agli eventi futuri tende a coincidere con la distribuzione oggettiva
matematica di probabilità che tali eventi hanno di verificarsi.
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Infatti, l’inesistenza di errori sistematici da parte degli agenti economici
implica l’impossibilità di una divergenza tra il livello dei prezzi corrente e
quello atteso. Nella figura 1.9 (a) non ci sono deviazioni dal valore di
equilibrio del tasso di salario reale che è determinato dal punto E: qualsiasi
variazione dei prezzi viene perfettamente anticipata e compensata da
variazioni del salario nominale. La curva AS, quindi, è verticale nel breve
periodo come nel lungo periodo; cioè, l’economia si trova sempre al suo tasso
naturale di occupazione e di produzione anche in seguito a interventi di
politica economica, poiché le conseguenze di tali interventi sono prevedibili e
attese.
Ne consegue che qualsiasi tentativo di produrre un tasso di disoccupazione
diverso da quello associato al tasso di crescita naturale dell’economia è
destinato a fallire. Infatti, qualora venisse attuata una politica fiscale
espansiva che sposti la AD in AD’ (figura 1.9), il settore privato sarebbe in
grado di comprendere che, data la curva di offerta ASS dove le loro
aspettative di prezzo sono pari a P0 e la nuova curva della domanda aggregata,
i prezzi saliranno a P1 (punto 5). Le aspettative degli agenti economici
saranno quindi immediatamente riviste ad un livello dei prezzi P2 spostando la
curva di offerta in ASS’ in modo da realizzare nel punto 6 la coincidenza tra
prezzo effettivo e prezzo atteso.
La conseguenza fondamentale del ragionamento di Lucas è quindi che
politiche pubbliche anticipate non possono influenzare la produzione reale e
l’occupazione, ma solo le variabili nominali. Osservata da un altro punto di
vista, la conseguenza è che solo politiche imprevedibili o shock inattesi
possono determinare variazioni delle variabili reali e portare
temporaneamente il sistema nel punto 5 con la produzione e l’occupazione al
di sopra dei loro valori naturali. Dovrebbe però essere chiaro che ciò esclude
qualsiasi ruolo per le politiche di intervento pubblico a fini di stabilizzazione.
Se infatti il governo agisce in modo casuale e imprevisto il risultato sarebbe
solo un aumento della instabilità e della variabilità del prodotto e
dell’occupazione attorno al suo livello naturale. Non esiste nessun trade-off
tra produzione e inflazione e nessun ruolo per le politiche di intervento
pubblico.
Pur accettando la casualità delle deviazioni dalle variabili naturali, ai nuovi
classici resta da chiarire la natura ciclica delle fluttazioni economiche. A
questo riguardo Lucas (1973)33 introduce una nuova curva AS nota come
surprise supply function, molto simile alla curva AS aumentata per le
aspettative dei monetaristi, ma con una diversa razionalizzazione. Di fronte a
fenomeni inattesi di inflazione tutti gli operatori economici (non solo i
33 R.E. Lucas, “Some international evidence on output-inflation trade offs”, American Economic Review, 63, pp.326-334, 1973.
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lavoratori) si trovano di fronte a una informazione incompleta34; non sono
cioè in grado di percepire la causa delle variazione dei prezzi. In particolare,
essi non possono distinguere se si tratta di una modificazione del livello
generale dei prezzi o dei loro prezzi relativi; gli aggiustamenti, quindi,
avverranno sulla base di questa percezione. Le imprese, in questo caso non
modificheranno il livello dell’occupazione istantaneamente, ma lo faranno
gradualmente (per ridurre i costi di assunzione e di licenziamento) e questo
determinerà un aggiustamento graduale dei livelli di produzione con la
conseguente formazione del ciclo.35
L’impianto teorico dei nuovi classici ha prodotto, quindi, conseguenze non
trascurabili sulla efficacia degli strumenti di politica economica. In primo
luogo, come osservato in precedenza, la NMC implica l’inefficacia di
politiche fiscali e monetarie sistematiche e anticipate.
In secondo luogo, e in conseguenza della proposizione di inefficacia,
l’operatore pubblico, e soprattutto le autorità monetarie, devono preoccuparsi
di controllare il tasso di inflazione e applicare una politica stabile che segua il
tasso di crescita naturale dell’economia.
In terzo luogo, in contrasto sia con i keynesiani sia con i monetaristi, i nuovi
classici affermano che nel caso di una politica monetaria restrittiva credibile,
gli agenti economici rivedranno immediatamente le loro aspettative sui prezzi
verso il basso e una politica deflativa potrà essere rapida e senza conseguenze
rilevanti in termini di disoccupazione e di reddito.
In quarto luogo, per rafforzare la credibilità della politica monetaria è
necessario evitare la possibilità di discrezionalità nella sua attuazione36. A
questo scopo si auspica l’assegnazione della competenza sulla politica
deflazionistica ad una autorità indipendente come la banca centrale.37
Infine, l’unica politica perseguibile per aumentare il reddito e ridurre la
disoccupazione in modo permanente è quella dal lato degli incentivi di tipo
microeconomico per le imprese e per i lavoratori, che producano
miglioramenti strutturali dal lato dell’offerta e non dal lato della domanda.
Questa affermazione fornirà la base per lo sviluppo, negli anni Ottanta, delle
tesi della supply side economics, rivolte a sostenere la necessità di intervenire
34 È questa, insieme all’ipotesi di aspettative razionali, un’assunzione fondamentale per il funzionamento degli schemi proposti dai
nuovi macroeconomisti classici.
35 Ad esempio, uno shock al livello generale dei prezzi dovuto ad un aumento non previsto dell’offerta di moneta potrebbe essere
percepito non come un aumento del livello generale dei prezzi, ma come modificazione dei prezzi relativi attribuibile a modificate
preferenze. Solo se così ingannati gli operatori potrebbero essere indotti ad aumentare la propria offerta rispetto al livello di pieno
impiego.
36 F. Kydland e E. Prescott, “ Rules rather than discretion: the inconsistency of optimal plans”, Journal of Political Economy, 85,
pp. 473-491, 1977.
37 Nel caso di discrezionalità, l’autorità monetaria potrebbe avere l’incentivo ad annunciare una politica restrittiva e attuare invece
una politica espansiva nel tentativo di aumentare il reddito reale. Questo renderebbe poco credibili le politiche annunciate e renderle
inefficaci.
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non con politiche di sostegno della domanda aggregata, ma direttamente sulle
determinanti del tasso naturale di crescita dell’economia. 38
La critica ai nuovi classici e i nuovi keynesiani
La maggior parte della critica alla Nuova Macroeconomia Classica si è
fondata sulla contestazione dell’ipotesi di aspettative razionali e di market
clearing; ma una parte della critica si è anche soffermata sull’idea che
l’operatore pubblico possiede informazioni migliori del settore privato; questo
vantaggio informativo potrebbe essere sfruttato, dal settore pubblico, per
stabilizzare e accelerare l’azione degli agenti economici privati.39
In questo caso, l’operatore pubblico potrebbe sfruttare la sua informazione per
attuare una politica attiva e migliorare il risultato che conseguirebbe da una
politica inattiva. Inoltre, anche se valesse l’ipotesi di aspettative razionali e
l’informazione fosse omogenea tra i privati e il settore pubblico, basterebbe
che quest’ultimo fosse più rapido nell’attuazione delle sue politiche per
giustificare un ruolo attivo nella stabilizzazione del reddito. Per i nuovi
classici, però, in questo caso il governo dovrebbe solo preoccuparsi di
diffondere l’informazione per lasciare operare il più efficiente settore privato,
e non di precederlo.
Dalla metà degli anni Ottanta, la scuola dei nuovi keynesiani si pone come
critica all’approccio dei nuovi classici. Le loro argomentazioni incorporano
l’ipotesi delle aspettative razionali, ma negano l’assunzione di continui
market clearing. La letteratura relativa a questa nuovo filone di pensiero è
molto ampia e non omogenea; tra gli autori principali si possono richiamare
G. Mankiw, O. Blanchard, G. Akerlof, J. Yellen, D. Romer, J. Stiglitz e B.
Greenwald. Ma il filone più importante si è soffermato sulle ragioni delle
rigidità dei salari e dei prezzi, che impediscono l’aggiustamento istantaneo dei
mercati. In particolare, alcune teorie hanno posto l’attenzione sulla rigidità dei
salari nominali giustificate dalle contrattazioni a lungo termine (overlapping
long-term wage contract); sulla rigidità dei prezzi nominali che deriva dalla
teoria dei menu costs nell’ambito dei mercati di concorrenza monopolistica;
sulle rigidità reali sia sul mercato del lavoro (teorie del salario di efficienza,
teorie di insider-outsider, modelli di contratti impliciti) sia sul mercato dei
prodotti; e, infine, dal lato dei fallimenti del coordinamento (coordination
failure).
38 La teoria della supply side economics è soprattutto rappresentata dalla formulazione della curva di Laffer. Buiter (1980) ha messo
in evidenza che le variazioni delle aliquote di imposta influenzano l’offerta di lavoro e le decisioni di risparmio; allo stesso modo le
aliquote contributive possono condizionare la domanda di lavoro da parte delle imprese, mentre gli incentivi fiscali, come i crediti di
imposta e gli ammortamenti anticipati, possono accrescere il tasso di investimento.
39 Minford e Peel (1983).
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Non esiste quindi un singolo modello in grado di definire la critica neokeynesiana; ma piuttosto un programma di ricerca delle spiegazioni delle
rigidità dei prezzi e dei salari e, quindi, delle loro conseguenze nel campo
macroeconomico.
Ciononostante, dall’analisi neo-keynesiana è possibile derivare alcune
implicazioni per la politica economica. In primo luogo, la riaffermazione di
rigidità nei salari e nei prezzi ristabilisce l’efficacia delle politiche fiscali e
monetarie, che possono di nuovo produrre effetti reali anche in presenza di
aspettative razionali. In questi modelli, una politica monetaria anticipata
potrebbe in effetti stabilizzare l’economia.
In secondo luogo, gli aggiustamenti graduali dei prezzi e dei salari indicano
che anche una politica monetaria deflativa credibile genera una recessione, in
termini di produzione e disoccupazione. Nel caso in cui il tasso di
disoccupazione rimanga a lungo al di sopra del tasso naturale, quest’ultimo
tende ad aumentare per il cosiddetto effetto di isteresi, in quanto tende a
crescere il numero dei disoccupati di lungo periodo. Questo effetto fornisce
una ragione importante, per i nuovi keynesiani, a sostegno di politiche di
domanda aggregata nel caso di prolungate recessioni.
Infine, si riafferma l’esistenza di disoccupazione involontaria in una
situazione di equilibrio. Ad esempio, nel caso dei modelli di salario efficiente,
le imprese sono riluttanti a ridurre il salario anche di fronte ad un eccesso di
offerta di lavoro, dato che tale politica potrebbe ridurre l’efficienza produttiva
dei suoi occupati.
La ricerca dei nuovi keynesiani, quindi, ha prevalentemente sviluppato
modelli per spiegare gli aggiustamenti graduali nei prezzi e nei salari e ha
ristabilito l’efficacia della politica fiscale e il ruolo dell’intervento pubblico
nella politica di stabilizzazione dell’economia.
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