Master IPSOA Analisi di Bilancio

 Master IPSOA Analisi di Bilancio DISPENSA Il sistema degli indicatori per l’analisi di bilancio. Uno schema redditività‐
rischio
Francesco Giunta Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Primo IL SISTEMA DEGLI INDICI DI BILANCIO 1.
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Dai valori riclassificati agli indici di bilancio Analisi per indici e valore fondamentale Il sistema degli indici di bilancio Interpretare gli indici di bilancio 4.1. Le comparazioni di bilancio 4.2. Gli indici mentali 4.3. La contestualizzazione degli indici di bilancio Capitolo Secondo L’ANALISI DELLA CRESCITA 1. Analisi per indici e crescita aziendale 2. Le misure della crescita 2.1. I numeri indice 2.2. I tassi medi annui di variazione 3. Interpretare le misure della crescita 3.1. Ripristinare l’omogeneità monetaria 3.2. Contestualizzare i fenomeni di crescita Capitolo Terzo L’ANALISI DELLA REDDITIVITÀ OPERATIVA 1.
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Valore fondamentale e redditività operativa Il tasso di rendimento degli investimenti operativi (R.O.I.) Le determinanti del R.O.I.: il modello di analisi DuPont La produttività del capitale investito 4.1. La produttività del capitale fisso 4.2. La produttività del capitale circolante 5. La redditività delle vendite 5.1. L’incidenza dei costi operativi 5.2. Le condizioni di produttività 6. Interpretare le determinanti del tasso di rendimento degli investimenti operativi 6.1. Il settore di attività economica 6.2. Le strategie competitive 6.3. Le fasi del ciclo di vita 6.4. L’albero del R.O.I. www.analisidibilancio.it 4 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Quarto L’ANALISI DELLA SOLIDITÀ 1.
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5 La gestione finanziaria e le condizioni di solvibilità La solidità patrimoniale La composizione del patrimonio aziendale L’analisi di correlazione Rischio finanziario e costo del capitale Capitolo Quinto L’ANALISI DELLA LIQUIDITÀ 1.
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Le condizioni di solvibilità e la liquidità Lo Stato Patrimoniale finanziario Il capitale circolante netto finanziario e la liquidità generale Il margine di tesoreria e la liquidità immediata La durata del ciclo monetario Il fabbisogno finanziario del ciclo operativo e le modalità di suo finanziamento L’analisi dinamica della liquidià e il rendiconto finanziario
L'analisi del flusso di cassa della gestione operativa corrente 8.1. L’anali si dell’autofinanziamento 8.2. L’analisi del capitale circolante Capitolo Sesto L’ANALISI DELLA REDDITIVITÀ NETTA 1. Il valore fondamentale e la redditività netta 2. Una misura di sintesi della redditività netta 3. Le determinanti della redditività netta 3.1. La logica additivo‐moltiplicativa 3.2. La logica moltiplicativa 4. Redditività netta e livelli di rischio 4.1. Il trading on equity 4.2. Redditività degli investimenti e rischio operativo 4.3. Il grado di indebitamento e le condizioni di rischio finanziario: gli effetti sul costo del capitale e sul valore fondamentale 5. La ricomposizione dei sotto‐sistemi di indicatori www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Primo IL SISTEMA DEGLI INDICI DI BILANCIO 5.
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Dai valori riclassificati agli indici di bilancio Analisi per indici e valore fondamentale Il sistema degli indici di bilancio Interpretare gli indici di bilancio 4.1. Le comparazioni di bilancio 4.2. Gli indici mentali 4.3. La contestualizzazione degli indici di bilancio 1. DAI VALORI RICLASSIFICATI AGLI INDICI DI BILANCIO
Raccolta la documentazione e riclassificati i prospetti di bilancio, si passa
all’individuazione degli strumenti attraverso i quali approfondire l’analisi. Gli strumenti
tipicamente utilizzati sono gli indici o rapporti o quozienti o anche ratio.
Obiettivo degli indici è esprimere l’andamento nel tempo e rispetto alle imprese
comparabili delle quantità patrimoniali, reddituali e finanziarie che determinano il
valore fondamentale. I quozienti infatti, a differenza dei valori assoluti, offrono una
misura relativa, e quindi confrontabile, dei risultati della gestione. La tavola 1
chiarisce il senso di questa affermazione.
Tavola 1 – Il capitale circolante netto in termini assoluti e relativi
www.analisidibilancio.it 6 Il sistema degli indicatori 2011
2. ANALISI PER INDICI E VALORE FONDAMENTALE La scelta degli indici da impiegare pone vari problemi. Infatti, gli indici virtualmente costruibili sono molto numerosi. La scelta deve essere guidata dalla considerazione delle variabili che concorrono a configurare il valore fondamentale dell’impresa. A questo proposito si ricorderà che i flussi di cassa sono alla base della determinazione del valore fondamentale dell’impresa secondo le logiche discounted cash flow (DCF). In via generale, il valore fondamentale misurato con le logiche in parola risulta dalla somma di due quantità (cfr. tavola 2): • valore attuale del flusso di cassa durante il periodo (t1Ötn) di previsione analitica; • valore attuale del flusso di cassa dopo il periodo di previsione analitica (terminal value). Tavola 2 – La determinazione del valore fondamentale con il metodo DCF La scelta dei flussi di cassa (CF) oggetto di attualizzazione configura due versioni della logica DCF (cfr. tavola 3): • asset side; • equity side. Le determinazioni asset side pervengono indirettamente alla misura del valore fondamentale del capitale di rischio. Esse, infatti, quantificano il valore fondamentale del complesso degli investimenti operativi netti (COIN) attraverso l’attualizzazione a un congruo tasso del free cash flow from operations (FCF). Per ottenere il valore fondamentale del capitale di rischio e, da qui, delle singole azioni che lo formano, occorre, poi, sottrarre dal valore economico del COIN il valore dell’indebitamento netto. La logica asset side ha il pregio di consentire misurazioni che www.analisidibilancio.it 7 Il sistema degli indicatori 2011
prescindono dagli effetti esercitati sulla redditività dalla struttura finanziaria dell’impresa e, quindi, dal rapporto di indebitamento. L’attenzione è tutta concentrata sui risultati operativi. Si rendono così comparabili imprese con strutture finanziarie diverse o la stessa impresa in vari momenti temporali connotati da un differente grado di indebitamento. Le determinazioni equity side, invece, misurano direttamente il valore fondamentale del capitale di rischio e, da qui, delle singole azioni che lo formano. Per farlo, si procede all’attualizzazione, a un congruo tasso, del free cash flow to equity (FCFE), ossia del flusso monetario disponibile per gli azionisti. In condizioni di assenza di crescita (steady state) e comunque nel lungo termine, reddito operativo (EBIT) e free cash flow operativo tendono a coincidere. Infatti, il CCNc si stabilizza e, quindi, la sua variazione è uguale a zero; inoltre, il capex è espresso da investimenti di mero rinnovo che eguagliano gli ammortamenti. Lo stesso vale per reddito netto (RN o corrente) e free cash flow to equity. Nelle condizioni ipotizzate, infatti, la struttura finanziaria resta costante e, quindi, l’indebitamento non varia; gli unici flussi da esso prodotti corrispondono agli interessi sul debito. Tavola 3 – La logica DCF: le formule e le variabili L’indicata coincidenza fra flussi monetari e redditi si manifesta sicuramente nel periodo di previsione sintetica assunto a base della stima del terminal value. Pertanto, in determinate condizioni e comunque nel lungo termine, il valore fondamentale può essere ottenuto non solo attualizzando flussi finanziari, ma anche risultati reddituali (cfr. tavola 4). In sostanza, i flussi di reddito rappresentano la principale determinante dei flussi finanziari dai quali dipende il valore fondamentale dell’impresa. Le formule richiamate rivelano che la determinazione del valore fondamentale richiede la stima del costo del capitale (i). Il costo del capitale esprime quanto deve rendere un capitale per ripagare il rischio che grava sulle attività nelle quali è investito. www.analisidibilancio.it 8 Il sistema degli indicatori 2011
Il costo del capitale di configura diversamente a seconda che esso trovi impiego nella logica asset side o equity side, ossia a seconda dei flussi che devono essere attualizzati. Tavola 4 – Flussi di cassa e redditi Nel caso di flussi operativi, il costo del capitale è espresso dal WACC, ossia dal costo medio ponderato delle due fonti di capitale impiegate per realizzare gli investimenti operativi (COIN): l’equity e i debiti finanziari. Se l’attualizzazione riguarda il solo free cash flow to equity, allora, il costo del capitale è relativo al solo equity. E’, peraltro, chiaro che il WACC comprende anche il costo dell’equity. Come noto, la formula di determinazione del WACC è la seguente: Kd x (1-T) (DB/DB+E) + Ke x (E/E+DB)
con: Kd = costo del capitale di credito T = aliquota di imposta DB = capitale di crediti E = capitale di rischio (equity) Ke = costo del capitale di rischio Le due variabili chiave sono, evidentemente, Ke e Kd; i restanti valori inclusi nella formula esprimono, infatti, solo i pesi necessari per ponderare i due “costi” in ragione del rilievo che le fonti di finanziamento, alle quali questi si riferiscono, hanno nella struttura finanziaria dell’impresa. www.analisidibilancio.it 9 Il sistema degli indicatori 2011
Senza entrare nello specifico di temi che pertengono alla finanza aziendale, e per i quali si rimanda a ogni buon manuale in materia, entrambe le voci di costo del capitale presentano due componenti: • un rendimento offerto da investimenti senza rischio, ad esempio rendimento titoli di stato con alto rating; • un premio per il rischio, il quale dipende dal grado di variabilità dei rendimenti probabili dell’investimento rispetto a quello atteso. Alla base del premio per il rischio, si ritrovano tre fattori: • la variabilità dei ricavi all’andamento dell’economia, da cui la componente del rischio denominata rischio di mercato; • la variabilità dei margini operativi al variare dei ricavi, da cui la componente del rischio denominata rischio operativo che trova la sua determinante nella struttura dei costi; • la capacità dell’impresa di far fronte ai propri impegni di pagamento, da cui la componente del rischio denominata rischio finanziario o di insolvenza, che trova la sua determinante nella struttura finanziaria dell’impresa. Mentre il costo del capitale di rischio (Ke) è influenzato prevalentemente dalle prime due componenti, quello del capitale di debito (Kd) dipende largamente dall’ultima. I tre fattori di rischio sono, tuttavia, interrelati. La solvibilità, infatti, non può prescindere dalla capacità dell’impresa di generare adeguati flussi monetari a livello operativo; e, questi ultimi, risentono delle condizioni di rischio operativo della gestione. Così pure, la solvibilità interessa anche i portatori del capitale di rischio, in quanto un indebitamento consistente accresce il peso degli oneri finanziari nel Conto Economico dell’impresa, rendendo il reddito netto più sensibile alle variazioni del risultato operativo. Quantificare l’effetto delle tre componenti è, in ogni caso, difficile. Per rendere la determinazione meno soggettiva, si ricorre a stime basate sui prezzi di mercato. Tuttavia, come ammonisce il guru degli investitori, Warren Buffett: “Risk cannot be appreciated without understanding fundamentals. Risk is generated by the fundamentals, and in assessing risk, it might be more useful to refer to those fundamentals rather than estimating risk from possibly inefficient market prices”. Da qui, il ricorso a stime basate sull’analisi dei fondamentali ricavati dal bilancio.1 Il bilancio, dunque, offre le informazioni necessarie per mettere a fuoco le determinati delle due variabili chiave del valore: i flussi di cassa e il costo del capitale (cfr. tavola 5). 1
Per quanto riguarda
www.mscibarra.com.
la
stima
del
Ke,
un’analisi
basata
www.analisidibilancio.it sui
fondamentali
è
proposta
da
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Tavola 5 – Le variabili chiave del valore e le loro determinanti Assumendo questa prospettiva, l’analisi di bilancio attraverso indici ha come scopo quello di aiutare a valutare (cfr. Tavola 6): - la capacità dell’impresa di generare reddito, visto quale principale driver dei flussi di cassa operativi o per gli azionisti; - i fattori dai quali tale capacità dipende; - le condizioni di rischio legate alla gestione operativa e alla struttura finanziaria che influenzano il costo del capitale. Con riferimento ai fini indicati, gli indici di bilancio devono essere impiegati per analizzare: • la redditività dell’impresa, intesa come capacità di generare reddito attraverso gli investimenti. La redditività deve essere apprezzata: o sia con riferimento all’ambito strettamente operativo; o sia considerando il più ampio novero di condizioni ricomprese nella redditività netta; • la solvibilità, quale capacità di far fronte agli impegni di pagamento. Questa capacità si apprezza su due piani distinti, ma complementari: o la capacità di far fronte complessivamente e definitivamente agli impegni di pagamento, ancorché non rispettandone i tempi convenuti. In questo senso si parla di solidità patrimoniale; o la disponibilità delle risorse monetarie necessarie per far fronte tempo per tempo agli impegni di pagamento. In questo senso si parla di liquidità. www.analisidibilancio.it 11 Il sistema degli indicatori 2011
A queste due aree di indagine, se ne aggiunge un’altra: quella relativa alla verifica dei livelli di crescita dell’impresa. L’intensità dei processi di crescita in atto nell’impresa, infatti, condiziona sia le variabili reddituali che quelle patrimoniali e finanziarie e, dunque, incide sia sulle condizioni di redditività che di solvibilità. 3. IL SISTEMA DEGLI INDICI DI BILANCIO L’individuazione delle aree di indagine e sicuramente un importante presupposto metodologico per la selezione degli indici di bilancio da costruire. Tuttavia, nella scelta degli indici e, ancor più, nella loro interpretazione è necessario tenere ben presente che l’impresa oggetto di analisi si configura come un “sistema”, ossia un insieme di elementi interrelati e interagenti. Non a caso, le determinanti del valore prima individuate sono fra loro correlate. Tavola 6 – Indici di bilancio e valore fondamentale Come conseguenza, l’analisi deve essere condotta integrando gli indici relativi ai diversi aspetti della gestione all’interno di una logica sistemica. Gli indici dovranno, cioè, evidenziare le principali grandezze che caratterizzano i prescelti profili di osservazione della gestione aziendale e dovranno esplicitare i fattori causali da cui tali grandezze sono determinate. Si tratterà, ad esempio, di comprendere in che misura il rendimento del capitale di rischio è influenzato dai volumi di attività produttiva, dalla struttura dei costi, dalle scelte finanziarie operate e dall’onerosità dell’indebitamento. Esplicitando i nessi causali fra le quantità reddituali, patrimoniali e finanziarie e il loro concorso alla formazione delle variabili del valore diventa, allora, possibile: ‐ capire cosa è successo in passato e perché; ‐ prevedere cosa succederà in futuro se … www.analisidibilancio.it 12 Il sistema degli indicatori 2011
La complessità del fenomeno aziendale, tuttavia, rende difficile ogni approccio totalizzante. Nello sforzo di costruire il “sistema”, forte è il rischio di perdersi fra mille possibili correlazioni. Per questo, nell’ambito del sistema generale degli indici, è opportuno definire e distinguere dei sotto‐sistemi di indici rivolti a indagare specifiche condizioni della realtà aziendale. Coerentemente con le aree di indagine in precedenza evidenziate, l’analisi dell’impresa, condotta mediante l’impiego dei dati di bilancio, si può fondare sul calcolo e l’interpretazione di 5 sotto‐sistemi di indici (cfr. tavola 7): • sotto‐sistema per l’analisi dei livelli di crescita; • sotto‐sistema per l’analisi della redditività operativa; • sotto‐sistema per l’analisi della redditività netta; • sotto‐sistema per l’analisi della solidità patrimoniale; • sotto‐sistema per l’analisi della liquidità. Ovviamente, poiché l’azienda è un fenomeno unitario, dove aspetti economici e finanziari sono intimamente collegati, i diversi sotto‐sistemi risultano fra loro altrettanto strettamente correlati. Alcuni indici impiegati in via primaria in un sotto‐sistema potranno, pertanto, essere presenti anche in altri sotto‐sistemi. Proprio grazie a questi “anelli di congiunzione”, i sotto‐sistemi possono essere legati fra di loro, ricostruendo così, il quadro unitario della gestione aziendale. Tavola 7 – I sotto‐sistemi di indici di bilancio 4. INTEPRETARE GLI INDICI DI BILANCIO Seguire una logica sistemica, articolata per profili di gestione, è essenziale per sviluppare un’analisi ordinata. L’analisi, tuttavia, si sostanzia nell’interpretazione dei risultati ottenuti. A questo fine, è indispensabile: www.analisidibilancio.it 13 Il sistema degli indicatori 2011
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procedere alla comparazione dei valori che emergono dagli indici di bilancio; fare ricorso a indici mentali. 4.1. LE COMPARAZIONI DI BILANCIO Le comparazioni possono essere di due tipi: • nello spazio; • nel tempo. Le due direttrici di comparazione, naturalmente, non si escludono l’una l’altra. Anzi, per trarre il massimo beneficio dall’analisi, l’andamento storico della gestione aziendale in un determinato periodo dovrebbe essere confrontato con l’andamento storico della gestione di aziende concorrenti nello stesso periodo, intersecando la dimensione temporale dell’analisi con quella spaziale (cfr. tavola 8). Tavola 8 – Le comparazioni di bilancio La comparazione nel tempo La comparazione nel tempo (time series analysis) si basa sull’osservazione dell’andamento di una serie storica di indici di bilancio. Una serie storica è un insieme di misure di un dato fenomeno ordinate rispetto al tempo. L’analisi della serie storica mette in evidenza: • il movimento tendenziale o trend. Detto anche movimento profondo o di lungo periodo, questo si manifesta, pur fra oscillazioni più o meno regolari, con un andamento crescente, o decrescente o costante; www.analisidibilancio.it 14 Il sistema degli indicatori 2011
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movimento ciclico. Questo è espresso da oscillazioni periodiche o non periodiche, dette anche movimenti congiunturali, intorno alla curva del trend, dovute ai cosiddetti “cicli economici”, che, in genere, hanno durata pluriennale e sono costituiti da quattro fasi: o prosperità: aumento maggiore dell’aumento dell’anno precedente; o recessione: aumento minore dell’aumento dell’anno precedente; o crisi: aumento negativo maggiore dell’anno precedente; o ripresa: aumento negativo minore dell’anno precedente. Questo ordine di comparazione, che può essere condotta sia sui bilanci dell’azienda, sia su quelli dei concorrenti, persegue due principali obiettivi: • fornire una diagnosi strategica dell’azienda; • misurare il grado di efficienza operativa della gestione aziendale passata. La diagnosi strategica mira, in primo luogo, a verificare se l’azienda è riuscita a concretizzare le intenzioni strategiche comunicate. In altre parole, analizzando i risultati si cerca di valutare se e come questi risultati sono stati ottenuti. L’analisi dell’andamento di alcune voci di bilancio, infatti, può immediatamente rivelare alcune carenze nell’esecuzione della strategia aziendale. Così, ad esempio, un’azienda che abbia comunicato l’intenzione di ridurre il proprio indebitamento finanziario attraverso economie di fabbisogno, da realizzare grazie una gestione più accorta delle politiche commerciali, dovrà evidentemente presentare valori del capitale circolante netto decrescenti nel tempo. La diagnosi strategica, inoltre, può rappresentare un’occasione per approfondire l’analisi delle determinanti dei valori economici e finanziari, i quali sono il risultato dell’azione sulle specifiche leve direzionali previste dalla strategia. Così, ad esempio, una progressiva riduzione dell’incidenza del costo del venduto sul fatturato, potrebbe essere la leva direzionale attraverso la quale il management ha realizzato l’intento strategico dichiarato di accrescimento di produttività. La misurazione del grado di efficienza operativa della gestione aziendale passata avviene studiando le relazioni tra i volumi di produzione e di vendita storicamente registrati e l’andamento di altre grandezze economiche e finanziarie. Così, una proporzionalità costante tra il capitale circolante netto commerciale e il livello del fatturato può rivelare che l’azienda non ha modificato le proprie politiche commerciali nel corso degli anni. L’informazione potrà essere utilmente proiettata nel futuro, stante la necessità di capire in che misura la situazione di contesto e di strategia potrà mantenersi invariata rispetto al passato. L’analisi dell’efficienza della gestione aziendale offre indicazioni preziose anche con riferimento alla sostenibilità delle strategie. È importante, infatti, comprendere il disegno strategico che sta alla base della formazione dei valori reddituali, patrimoniali e finanziari, ma è importante anche verificare in che misura questo potrà essere portato avanti, alla luce di ciò che è avvenuto in passato. Saranno poco credibili, quindi, le www.analisidibilancio.it 15 Il sistema degli indicatori 2011
intenzioni strategiche anticipate dal management che non risultino coerenti con i risultati ottenuti in passato, o che rivelino obiettivi troppo ambiziosi. Ovviamente, il primo aspetto da definire prima di procedere a una comparazione temporale è la durata dell’orizzonte di confronto. La comparazione dovrebbe riguardare un periodo sufficientemente ampio, tale da garantire il completamento del disegno strategico dell’azienda che consenta il raggiungimento di una certa stabilità dei risultati reddituali e finanziari (c.d. condizione steady state). In caso contrario, si rischia di distorcere l’interpretazione dei risultati della comparazione e di formulare ipotesi sulla base di informazioni ricavate da un’osservazione incompleta dei fenomeni che si vogliono preventivare. La scelta del periodo deve, inoltre, tener presente gli effetti derivanti dalla ciclicità dell’attività economica. Qualora l’orizzonte temporale di comparazione si limiti a osservare una sola fase di tale ciclo, ad esempio il periodo durante il quale il settore subisce una contrazione delle vendite, è evidente che i dati estratti non saranno in grado di interpretare correttamente la futura evoluzione della gestione se non si terrà in adeguata considerazione il potenziale che l’azienda potrà esprimere in una successiva fase di ripresa. Indicativamente, salvo casi particolari relativi a settori particolarmente giovani, l’arco temporale abbracciato dalle comparazioni è compreso tra i tre e i cinque anni. La comparazione nello spazio La comparazione nello spazio (cross sectional analysis) prevede di analizzare le prestazioni di un’azienda attraverso il confronto tra i valori dei suoi indici di bilancio e quelli di altre imprese. Questo tipo di comparazione è anche definito interaziendale. La comparazione nello spazio, al pari di quella nel tempo, persegue, seppur con modalità interpretative diverse, il duplice obiettivo di: • fornire una diagnosi strategica dell’azienda della quale si comparano i bilanci; • misurare il grado di efficienza operativa della gestione aziendale passata. In particolare, la diagnosi strategica è finalizzata a: • determinare l’intensità della competizione attraverso l’osservazione degli andamenti delle vendite e dei margini reddituali delle aziende confrontate; • individuare i fattori chiave della competizione, verificando quali sono le strategie competitive attuate dai concorrenti; • comprendere gli obiettivi dei concorrenti in relazione a quelli dell’azienda. L’analisi dell’efficienza operativa, invece, mira a individuare: www.analisidibilancio.it 16 Il sistema degli indicatori 2011
• la distanza (gap) che separa l’azienda dai propri concorrenti, con riferimento al raggiungimento di determinati risultati, evidenziando, ad esempio, dei differenziali nell’incidenza dei costi o degli investimenti sul fatturato; • i punti di forza e di debolezza dell’azienda in relazione ai punti di forza e di debolezza dei concorrenti, evidenziando, ad esempio, condizioni contrattuali di acquisto o di vendita più o meno favorevoli rispetto ai concorrenti; • il potenziale dell’azienda di superare o mantenere il gap rispetto alla concorrenza, con riferimento a determinate variabili, evidenziando, ad esempio, che il vantaggio di costo di cui gode l’azienda rispetto ai concorrenti si sta, nel tempo, assottigliando. Mentre per la comparazione nel tempo il problema principale è rappresentato dalla lunghezza del periodo di osservazione dei valori, prima di procedere alla comparazione dei bilanci nello spazio è opportuno definire quali imprese confrontare e, sulla base di tale scelta, individuare gli strumenti più appropriati per condurre l’analisi. Il confronto dei dati di bilancio può avvenire con riferimento a: ‐ aggregati di imprese; ‐ singole imprese. Il confronto con aggregati di imprese può avvenire considerando tutte le imprese del settore in cui l’azienda opera, oppure, all’interno di quel settore, con riferimento al raggruppamento strategico dell’impresa, cioè un aggregato più ristretto dell’ambiente competitivo nel quale essa si muove, che include solo quelle imprese del settore che perseguono strategie competitive simili. La perimetrazione del settore, ovvero l’individuazione delle imprese che operano in un determinato settore, può avvenire con riferimento: • alla domanda, cioè al tipo di beni o servizi prodotti, raggruppando nel settore le imprese i cui prodotti hanno un’elasticità di sostituzione elevata tra loro e bassa con tutti gli altri (criterio merceologico); • all’offerta, cioè ai metodi di produzione utilizzati, raggruppando nel settore le imprese che impiegano metodi di produzione simili o gli stessi fattori produttivi primari (criterio tecnologico). La scelta del criterio da utilizzare, naturalmente, varia in relazione alla specificità dell’analisi che si intende condurre, fermo restando che i due criteri possono essere impiegati congiuntamente, ad esempio raggruppando aziende che producono beni non solo merceologicamente simili (come le calzature), ma anche realizzati con le stesse tecnologie (calzature in cuoio piuttosto che in gomma). Di solito, si predilige il criterio della perimetrazione del settore in base alla domanda. www.analisidibilancio.it 17 Il sistema degli indicatori 2011
Un ulteriore elemento da considerare in fase di definizione del settore è rappresentato dalla possibilità che le imprese operino su diverse aree strategiche di affari e che, quindi, possano appartenere contemporaneamente a più settori. Laddove ciò accada, è necessario che si tenga conto di questo aspetto, considerando separatamente le diverse ASA, oppure il settore di attività prevalente dell’azienda. Un’ulteriore cautela relativa ai confronti settoriali riguarda il fatto che all’interno dello stesso settore possano operare imprese con dimensioni tra loro anche significativamente diverse. Per dare maggiore significatività alla comparazione, può essere opportuno suddividere il raggruppamento settoriale per classi di fatturato, allo scopo di considerare anche fattori di scala che potrebbero compromettere l’analisi. Anche la localizzazione geografica delle imprese può costituisce un aspetto di rilievo ai fini della comparazione. Infatti, se le aziende che operano nello stesso settore sono molto disperse sul territorio (ad esempio alcune operano al nord del paese e altre a sud), può essere opportuno separare i raggruppamenti settoriali anche per area geografica. La comparazione dei bilanci di aziende che operano all’interno dello stesso raggruppamento strategico rappresenta, infine, un affinamento della comparazione settoriale. Lo studio dei raggruppamenti strategici di un settore può essere condotto mediante la costruzione di una o più mappe. La costruzione delle mappe richiede l’individuazione delle due variabili da porre su un sistema di assi cartesiani. Ciò deve avvenire seguendo tre principi: • le variabili devono rappresentare le più importanti barriere che impediscono lo spostamento delle imprese da un raggruppamento all’altro; • le variabili prescelte non devono essere fra loro correlate. Occorre, invece, utilizzare variabili il cui incrocio consente di individuare le diverse alternative strategiche perseguibili dalle aziende del settore; • le variabili non possono essere continue. Individuato l’insieme delle imprese che costituiscono i concorrenti diretti, diventa fondamentale analizzare le caratteristiche rilevanti di ciascuna. La prima categoria di elementi che si tende a voler conoscere sono le risorse tangibili, in quanto facili da individuare. Sarà tuttavia necessario conoscere le risorse (umane, finanziarie, tecnologiche, produttive, organizzative ecc.) di ciascun concorrente, le mosse strategiche adottate, gli obiettivi perseguiti, i punti di forza e quelli di debolezza. A titolo indicativo gli elementi da investigare possono essere i seguenti: • obiettivi strategici perseguiti (crescita, mantenimento, disinvestimento ecc.); • struttura produttiva e organizzazione della produzione (capacità produttiva disponibile, tecnologia utilizzata, soluzioni logistiche, struttura del sistema produttivo, procedure di programmazione della produzione); • organigramma (metodi di selezione del personale, forme di incentivazione, metodi di controllo dell’attività lavorativa, piani di sviluppo carriere); www.analisidibilancio.it 18 Il sistema degli indicatori 2011
• organizzazione di vendita e politica di marketing (soluzioni contrattuali con la distribuzione, soluzioni tecnologiche, politiche di marketing ecc.); • dinamica economica, finanziaria e patrimoniale (bilanci, informazioni commerciali e finanziarie: liquidità, solidità patrimoniale, redditività, capacità di credito, compagine sociale). Ad esempio, se si considera il settore della produzione di macchine utensili, le due dimensioni rilevanti per classificare concorrenti tra di loro simili possono essere rappresentate dal grado di integrazione verticale e dal grado di specializzazione. In base alle due variabili selezionate, è possibile costruire una tabella a doppia entrata nella quale classificare le imprese del settore. Si giunge così a identificare due raggruppamenti: le grandi imprese, orientate alla realizzazione di soluzioni chiavi in mano, e le imprese decentrate, focalizzate su prodotti specifici che offrono soluzioni personalizzate. Il confronto tra singole imprese può avvenire con riferimento a: • concorrenti diretti; • imprese leader; • imprese con le più elevate prestazioni. Il confronto con uno o più concorrenti diretti rappresenta un espediente per superare i limiti di demarcazione del settore oggetto di analisi. Infatti, quando questo risulta molto frammentato, un’eccessiva aggregazione può determinare la perdita di informazioni necessarie per comprendere quali saranno le future mosse dei concorrenti potenzialmente più in grado di erodere o accrescere il loro vantaggio competitivo rispetto all’impresa analizzata. Queste imprese, infatti, più facilmente di altre possono diventare soggetto o oggetto di un attacco. Di conseguenza, la comparazione diretta risulta di estrema utilità per saggiare il grado di vulnerabilità strategica dell’impresa. Il confronto con l’impresa leader del settore o del raggruppamento strategico mira, invece, a evidenziare eventuali distanze che possono essere colmate dall’impresa oggetto di analisi agendo sulle medesime leve direzionali utilizzate dal leader. Attraverso questo tipo di comparazione si possono individuare delle proporzionalità nei valori di costo e di investimento che, evidenziando maggiori efficienze nello svolgimento dei processi produttivi del leader, possono costituire obiettivi strategici verso cui orientare l’impresa. Il confronto con imprese a elevate prestazioni, consente, infine, di identificare ambiti di miglioramento specifici su determinate attività e suggerire percorsi di innovazione di prodotto o di processo. Ciò può avvenire, e spesso avviene, attraverso il monitoraggio sistematico (benchmarking) delle pratiche adottate dalle imprese più performanti. Infatti, anche se queste non sono leader del settore o concorrenti diretti, l’osservazione della loro gestione, e in particolare dell’ambito di gestione in cui tali aziende sono particolarmente efficaci o efficienti (ad esempio la gestione del magazzino), può suggerire iniziative specifiche volte al miglioramento di tali ambiti nell’impresa oggetto di analisi. www.analisidibilancio.it 19 Il sistema degli indicatori 2011
4.2. GLI INDICI MENTALI 20 I valori che emergono dalla comparazione esprimono situazioni di fatto. Quella che si ottiene è un’informazione sulle tendenze dei fenomeni osservati: la redditività operativa è aumentata o diminuita, l’indebitamento è salito ecc. Occorre, però, comprendere se i tassi di redditività osservati sono soddisfacenti o meno, se l’indebitamento ha raggiunto livelli di guardia e così via. Per valutare criticamente le situazioni evidenziate dalla comparazione è opportuno ricorrere a termini di riferimento “assoluti” costruiti mediante un processo logico‐deduttivo: gli indici mentali o costruiti. Una valutazione in termini “assoluti” è utile per: - individuare punti di forza e di debolezza dell’impresa e dei suoi concorrenti; - giudicare la sostenibilità delle strategie; - prevedere minacce e opportunità. Il processo logico‐deduttivo sul quale gli indici mentali sono costruiti aiuta a individuare alcuni valori parametrici con cui confrontare i risultati derivanti dall’analisi. Argomentando sulla liquidabilità degli investimenti e sulle perdite che tale processo di liquidazione inevitabilmente determina, si potrà così, ad esempio, individuare un valore pari a 2 del rapporto di indebitamento, quale soglia oltre la quale il rischio di insolvenza dell’impresa si manifesta con più intensità. Per quanto riguarda la redditività operativa, invece, il naturale termine di confronto sarà rappresentato dal costo medio ponderato delle fonti di capitale (WACC) raccolte e investite appunto nella gestione operativa. 4.3. LA CONTESTUALIZZAZIONE GLI INDICI DI BILANCIO Le indicazioni emerse dalle comparazioni e dai criteri logico‐deduttivi vanno interpretate alla luce (cfr. tavola 9): • dell’analisi del contesto; • delle strategie adottate dall’impresa. Le condizioni di contesto e le scelte strategiche sono i fattori ultimi che determinano l’andamento dei valori contabili e degli indicatori e, quindi, il valore fondamentale. www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
Tavola 9 – Contestualizzazione degli indici di bilancio e formulazione delle previsioni Per quanto riguarda il contesto, l’attenzione deve essere rivolta, da un lato, al più generale sistema economico nel quale l’impresa è inserita, dall’altro, allo specifico ambiente competitivo in cui essa si misura con i concorrenti. Del contesto occorre ricostruire, anzitutto, le condizioni passate che hanno influenzato la formazioni dei risultati di bilancio. Tuttavia, è necessario anche prefigurare le probabili condizioni future perché solo alla luce di queste è possibile la compiuta valutazione dei risultati e la loro proiezione per la determinazione del valore fondamentale. Analogo ragionamento vale per le strategie. Queste rappresentano le scelte operate dall’impresa per rispondere alle condizioni di contesto e raggiungere posizioni di vantaggio rispetto ai concorrenti. Le dinamiche reddituali, patrimoniali e finanziarie evidenziate dagli indici sono profondamente influenzate da tali scelte. Peraltro, obiettivo dell’analisi è anche quello di verificare il grado di coerenza fra quanto perseguito dall’impresa e i risultati da essa ottenuti. Il disallineamento fra obiettivi e risultati rivela, infatti, un’incoerenza nella formula imprenditoriale adottata dal management della quale tener conto al momento di formulare previsioni sull’andamento delle determinanti del valore. www.analisidibilancio.it 21 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Secondo L’ANALISI DELLA CRESCITA 22 4. Analisi per indici e crescita aziendale 5. Le misure della crescita 2.1. I numeri indice 2.2. I tassi medi annui di variazione 6. Interpretare le misure della crescita 3.1. Ripristinare l’omogeneità monetaria 3.2. Contestualizzare i fenomeni di crescita 1. ANALISI PER INDICI E CRESCITA AZIENDALE L’analisi mediante indici del bilancio si sviluppa lungo due coordinate: ‐ redditività; ‐ solvibilità. A queste due aree di indagine, se ne aggiunge una terza: quella relativa alla verifica dei livelli di crescita dell’impresa. L’intensità dei processi di crescita in atto nell’impresa, infatti, condiziona sia le variabili reddituali che quelle patrimoniali e finanziarie e, dunque, incide sia sulle condizioni di redditività che di solvibilità. Parlando di crescita si pone l’esigenza di definire i profili he questa può assumere. Due sono allora gli aspetti della crescita osservabili: • crescita qualitativa; • crescita quantitativa. Il primo aspetto fa riferimento al miglioramento degli assetti organizzativi, all’impiego di tecnologie all’avanguardia, allo sviluppo della rete di relazioni delle quali l’impresa gode, al rafforzamento della reputazione sui mercati di acquisto e di sbocco, nonché nel più vasto sistema economico e sociale. La crescita quantitativa, invece, si traduce in incrementi dimensionali del complesso produttivo. Tali aumenti possono riguardare la dimensione corrente della gestione o quella strutturale. Ovviamente, si tratta di dimensioni correlate, in quanto la crescita strutturale è il presupposto per sostenere maggiori volumi di attività corrente. Analogamente, i due richiamati aspetti della crescita sono tra loro interdipendenti, dal momento che la crescita quantitativa deve essere accompagnata e sostenuta da quella qualitativa. Nella prospettiva dell’analisi dei valori di bilancio, tuttavia, la crescita quantitativa è quella che meglio si presta a essere misurata e comparata nello spazio e nel tempo. A questo fine, occorre, anzitutto, individuare le quantità la misurazione delle cui variazioni segnala l’intensità dei processi www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
di crescita dell’impresa. Coerentemente con le dimensioni prima richiamate, le quantità in parola si distinguono fra quantità correnti e strutturali. Varie possono essere le misure della dimensione corrente e di quella strutturale. All’atto pratico, comunque, l’attenzione si concentra su: • fatturato, quale espressione dell’attività corrente; • capitale investito operativo, per quanto riguarda il profilo strutturale. 2. LE MISURE DELLA CRESCITA La crescita può essere misurata come variazione nel corso del tempo delle variabili ritenute espressive della dimensione corrente e strutturale dell’azienda. A questo fine occorre procedere alla comparazione nel tempo e nello spazio dei dati di bilancio che esprimono tali dimensioni mediante la costruzione di serie storiche. L’esame delle serie viene condotto attraverso: • numeri indice; • tassi annui medi di variazione. 2.1. I NUMERI INDICE I numeri indice sono rapporti in cui al numeratore e al denominatore compaiono le misure della stessa variabile misurate in due diverse circostanze di tempo. Il loro diffuso utilizzo è giustificato dalla capacità di agevolare la comprensione della variazione nel tempo di un determinato fenomeno. I numeri indice possono essere: • a base fissa; • a base mobile. Per calcolare i numeri indice a base fissa è necessario individuare un anno di riferimento, che prende il nome di anno base. Il valore assunto dalla variabile in tale anno diventa la base rispetto a quale rapportare il valore della variabile negli altri anni. La formula per il calcolo è la seguente: t(n)I n+x = (valore variabile in tn+x/valore della variabile in tn) x 100 La Tabella 1 riporta il calcolo dei numeri indice di una serie di valori di fatturato con base 20x0 in relazione al periodo di osservazione 20x0‐20x6. La rappresentazione grafica dei numeri indice evidenzia immediatamente se si sono manifestati trend di crescita o di riduzione (cfr. grafico 1). www.analisidibilancio.it 23 Il sistema degli indicatori 2011
Tabella 1‐ Andamento serie storica del fatturato rispetto a un anno di riferimento 24 Fatturato base fissa variazione % 20x0 1.500 100 0 20x1 1.300
86,67
‐13,33
20x2 1.600
106,67
6,67
20x3 1.650
110,00
10,00
20x4 1.800 120,00 20,00 20x5 2.000 133,33 33,33 20x6 1.500
100,00
0,00
Grafico 1‐ Andamento serie storica del fatturato rispetto a un anno di riferimento 145
135
133,33
125
120,00
115
110,00
106,67
105
100
95
85
1
100,00
2
3
4
5
6
7
86,67
I numeri indice a base fissa, tuttavia, facendo riferimento a un unico anno base, non riescono a esprimere adeguatamente i cambiamenti intervenuti nei singoli periodi osservati, rispetto al periodo precedente. Per comprendere tale dinamica, allora, può essere opportuno impiegare dei numeri indici calcolati su base mobile. I numeri indice a base mobile si ottengono rapportando i valori della variabile osservata (registrati in diversi periodi) al valore registrato nel periodo immediatamente precedente (base del numero indice). In formule: t(n‐1)I tn = (valore variabile in tn/valore della variabile in tn‐1) x 100 La Tabella 2 riporta il calcolo dei numeri indice con base mobile relativi alla serie precedente di valori di fatturato e al periodo di osservazione 20x0‐20x6. L’informazione offerta dai numeri indice a base mobile è analoga a quella offerta da un tasso annuo di variazione della grandezza esaminata. Il Grafico 2 formalizza l’evoluzione dei numeri indice a base mobile calcolati in Tabella 2. È evidente che l’utilizzo combinato dei due ordini di numeri indice fornisce la visione più completa del fenomeno osservato. Infatti, mentre la rappresentazione a base fissa sintetizza l’evoluzione periodica della variabile con riferimento all’intero periodo di osservazione, la base www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
mobile spiega meglio le variazioni registrate nei singoli periodi. Così, con riferimento ai dati della Tabella 1, il numero a base fissa indica che alla fine del periodo di comparazione le vendite si riassestano sul loro valore iniziale, chiudendo un ciclo che, dopo le fasi di crisi e recessione ha messo a segno una decisa ripresa che si è, poi, esaurita nell’ultimo anno esaminato. Tuttavia, l’intensità delle varie fasi del trend, ossia delle variazioni manifestatesi di anno in anno può essere apprezzata solo con il calcolo di numeri indice a base mobile. La sequenza dei numeri indice a base fissa della tabella 1 e il correlato grafico 1, infatti, mostrano che, nel periodo compreso fra l’anno x2 e l’anno x5, il fatturato cresce costantemente; i numeri indice a base mobile della tabella 2, invece, evidenziano che l’anno x3 segna un deciso rallentamento di tale crescita, dopo il picco in x2; rallentamento al quale segue un fase di ripresa ma di intensità sempre minore di quella registrata in x2. Il grafico 2 rivela chiaramente questa dinamica. Tabella 2 ‐ Andamento serie storica del fatturato rispetto all’anno precedente Fatturato Base mobile variazione % 20x0 1.500 100 0,00 20x1 1.300
86,67
‐13,33
20x2 1.600
123,08
23,08
20x3 1.650
103,13
3,13
20x4 1.800 109,09 9,09 20x5 2.000 111,11 11,11 20x6 1.500
75,00
‐25,00
Grafico 2 ‐ Andamento serie storica del fatturato rispetto all’anno precedente 130
123,08
120
110
111,11
109,09
103,13
100
100
1
2
3
4
5
6
7
90
86,67
80
75,00
70
2.2. I TASSI MEDI ANNUI DI VARIAZIONE Le serie storiche mostrano il trend delle variabili, ma non sono in grado di rappresentare una misura media dell’intensità con la quale il fenomeno osservato si è modificato nel periodo di www.analisidibilancio.it 25 Il sistema degli indicatori 2011
riferimento. A questo fine è utile impiegare nell’analisi storica anche uno strumento che sia in grado di fornire un’indicazione di sintesi. La statistica più immediato da utilizzare in questi casi è la media aritmetica semplice. A fronte di una serie di valori raccolti per la variabile osservata in un certo periodo di tempo, la media semplice fornirà un’indicazione puntuale secondo la nota formula: n ∑ = gt /n t =1 dove g è la variazione della variabile osservata. La media semplice, tuttavia, per quanto di agevole calcolo, risente di alcuni limiti che possono portare a un’interpretazione distorta del fenomeno osservato. Tale statistica, infatti, tende a livellare il valore delle modalità assunte dalla variabile intorno a un punto centrale, che diventa tanto meno rappresentativo, quanto più il fenomeno presenta un’elevata variabilità nel tempo e presenta anni con tassi di variazione negativi. Per superare questo limite, al posto della media semplice, si preferisce spesso utilizzare la media geometrica, detta anche CAGR (Compound Annual Growth Rate): n √ (vn/v t1) – 1 dove v è il valore assunto dalla variabile osservata, mentre n è l’intervallo di tempo rispetto al quale si calcola la media meno 1. Si osservi il seguente esempio, dove vengono riportate la media aritmetica e la media geometrica della variazione annua di una serie storica di fatturati rilevati per il periodo 20x1‐20x5 (Tabella 3): Tabella 3 ‐ I tassi medi annui di variazione Fatturato variazione annua media semplice media geometrica 20x0 10.550 20x1 11.748
11,4%
20x2 11.645
‐0,9%
20x3 4.273
‐63,3%
20x4 8.027 87,9% 20x5 10.550
11,4%
8,8%
‐6,6%%
I dati confermano che media semplice non riesce a sintetizzare adeguatamente l’andamento del fatturato: la fotografia che propone è di una crescita media dell’8%, nonostante il fatturato abbia scontato forti ribassi nel 20x3 e nel 20x4, per riportarsi poi sui livelli del 20x0. La media geometrica, al contrario, considerando gli effetti cumulati dei tassi di variazione annui, tende ad avvicinarsi con maggior precisione alla variazione effettiva. I tassi annui di variazione e i loro valori medi aiutano ad arricchire l’informazione fornita dai bilanci espressi in common size. La presentazione in common size prevede di riesprimere i dati di www.analisidibilancio.it 26 Il sistema degli indicatori 2011
bilancio in valore percentuale rispetto a una grandezza opportunamente scelta. La rappresentazione in valore percentuale delle grandezze di stato patrimoniale, conto economico e rendiconto finanziario, consente di superare i limiti di confronto nello spazio e nel tempo legati alle variazioni in valore dei dati contabili. Si pensi, ad esempio, all’osservazione di un incremento del costo del venduto rilevato per una certa impresa in un certo periodo. Qualora ci si limiti a considerare i valori di costo in termini assoluti, la crescita può portare a ipotizzare un peggioramento dell’efficienza dell’impresa, quando tale crescita è solamente il frutto di un incremento fisiologico dovuto a un aumento delle vendite. Nella costruzione dei bilanci in common size è importante la scelta della grandezza rispetto alla quale relativizzare i valori. Per i dati patrimoniali, solitamente il riferimento è al valore del capitale investito (CIN), anche se in determinate circostanze, è utile ricorrere al fatturato. Quest’ultimo è il naturale termine di riferimento per il Conto Economico e il rendiconto finanziario. Indubbiamente, le variazioni di composizione espresse dal common size risultano più significative se accompagnate dalla variazione percentuale annua, di ogni voce contenuta nei prospetti di bilancio, e dal CAGR di tale voce su un congruo orizzonte di tempo (cfr. Tavola 1). Solo grazie a tale misure, infatti, è possibile apprezzare l’andamento delle singole variabili osservate (laddove l’informazione in common size si limita a evidenziarne la dinamica rispetto a un’altra variabile di confronto). Così, ad esempio, l’incidenza del costo del venduto sul fatturato può essersi ridotta nel tempo a causa di un processo di “efficientamento”, ma aver subito allo stesso tempo un forte incremento a fronte, però, di una crescita ancor più intensa del giro d’affari. Tavola 1 ‐ Conto Economico in common size 3. INTERPRETARE LE MISURE DELLA CRESCITA Trend e medie devono essere interpretati: www.analisidibilancio.it 27 Il sistema degli indicatori 2011
•
•
verificando l’omogeneità monetaria dei valori contabili; ricollegandoli alle condizioni dell’ambiente competitivo e alle strategie aziendali. 3.1. RIPRISTINARE L’OMOGENEITÀ MONETARIA Ai fini del calcolo dei tassi di variazione, occorre tener conto che i valori di una serie storica possono variare a causa dell’inflazione, la quale determina un diverso potere di acquisto della moneta nei vari anni della serie, piuttosto che come conseguenza di reali processi di crescita. I valori dei vari anni vanno, allora, riespressi a valori omogenei con quelli dell’ultimo anno della serie storica (ossia, in moneta corrente dell’ultimo anno della serie storica). Le grandezze contabili sulle quali intervenire sono tipicamente: ‐ il fatturato; ‐ le immobilizzazioni. In pratica, data una serie storica di N anni, per rendere il confronto omogeneo, occorre convertire i valori storici della serie in moneta corrente all’anno tn. Per le imprese italiane, la conversione può essere operata impiegando due diversi indici ISTAT di conversione: •
indice dei prezzi al consumo; •
indice dei prezzi industriali. Entrambi gli indici si trovano, aggiornati ogni anno, sul sito dell’ISTAT. Ai fini della loro applicazione, occorre impiegare la seguente formula: valore corrente all’anno tn di un valore espresso in moneta dell’anno tn‐1= valore anno tn‐1 x (indice dei prezzi anno tn/indice dei prezzi anno tn‐1) La Tabella 4 indica i valori di vendita registrati dal 2000 al 2006 riespressi al potere di acquisto della moneta al 2006. Per la conversione si è utilizzato l’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC), periodicamente pubblicato su www.istat.it. Come si può notare dai dati, sebbene il tasso medio di inflazione registrato nel periodo osservato sia stato piuttosto basso, circa il 4%, l’effetto cumulato dei cambiamenti nel potere di acquisto della moneta nel 2000 è pari al 27%. 3.2. CONTESTUALIZZARE I FENOMENI DI CRESCITA L’andamento delle variabili segnaletiche dei fenomeni di crescita deve essere interpretato alla luce dei più generali andamenti del settore nel quale l’impresa opera. In questo senso, è noto che ogni settore evolve nel tempo passando attraverso varie fasi che, nel loro trascorrere, disegnano www.analisidibilancio.it 28 Il sistema degli indicatori 2011
una sorta di ciclo di vita. 29 Tabella 4 – Omogeneizzazione monetaria dei valori del fatturato Anno 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Fatturato Settore 400,00 360,00 350,00 410,00 430,00 480,00 500,00 IPC medio annuo 108,57
110,62
115,18
120,25
126,12
132,97
137,60
Fatturato deflazionato 506,95 447,80 418,13 469,16 469,14 496,71 500,00 Il ciclo di vita del settore è trainato da quello dei prodotti lanciati dalle aziende che operano nel settore. Tuttavia, ogni impresa, di regola, non si basa su un singolo prodotto, ma su un portafoglio di prodotti che si trovano in fasi diverse del loro ciclo di vita. La fase del ciclo attraversata dall’impresa è quella nella quale si trova la maggioranza dei prodotti in portafoglio. Analogamente, la fase in cui si trova il settore deriva da quella nella quale si trova la maggior parte dei prodotti offerti dalle imprese che nel settore operano. In termini molto generali, le principali fasi che caratterizzano il ciclo di vita sono quattro: a) introduzione; b) sviluppo; c) maturità; d) declino. Le fasi elencate si caratterizzano per un diverso tasso di sviluppo delle vendite, il quale produce effetti sostanziali sugli equilibri reddituali e finanziari dell’azienda (cfr. tavola 2). Per ciascuna di esse, infatti, è possibile individuare delle relazioni tra la convenienza economica a vendere il prodotto/servizio (volume di vendita e conseguenti margini reddituali realizzabili) e la dinamica dei fabbisogni finanziari correlati agli investimenti necessari a sostenere le vendite. Così, esemplificando: a) la fase di introduzione è comunemente caratterizzata da margini reddituali bassi e da fabbisogni finanziari alti. Infatti, tenuto conto dell’esperienza di produzione, ancora scarsa, posseduta dall’azienda, i costi sono elevati e la produttività bassa. Sovente, poi, i prezzi sono contenuti e si accetta anche di vendere sotto costo pur di conquistare quote di mercato. Bisogna poi tenere conto dei fabbisogni finanziari generati dagli investimenti in capitale fisso e circolante necessari per lanciare il prodotto sul segmento di mercato obiettivo; b) nella fase di sviluppo si assiste ad una progressiva crescita dei margini, dovuta sia alla www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
riduzione dei costi legata alla crescita dei volumi di produzione e vendita (economia di scala), sia alla possibilità di aumentare i prezzi di vendita. I fabbisogni finanziari correlati agli investimenti necessari a sostenere le vendite in questa fase sono alti, dal momento che può rendersi necessario acquisire impianti per accrescere la capacità produttiva (investimenti fissi), dotarsi di maggiori scorte di magazzino e concedere credito ai clienti (capitale circolante); c) la fase di maturità è solitamente caratterizzata da margini stabili o decrescenti, in quanto si consolida il processo di riduzione dei costi e si massimizza l’effetto esperienza con riflessi positivi sulla produttività aziendale, anche se i prezzi di vendita possono cominciare a flettere per sostenere un mercato che si avvia alla saturazione e a rispondere a un contesto ormai divenuto fortemente competitivo. I fabbisogni finanziari sono stabili, in quanto sono legati soltanto a investimenti di mantenimento e conservazione della struttura produttiva e commerciale esistente; d) la fase di declino, infine, si caratterizza per la produzione di margini negativi legati a una costante diminuzione delle vendite sovente non controbilanciata dall’eventuale riduzione dei costi e dalla riduzione del fabbisogno finanziario legato al ridimensionamento degli investimenti, che prelude allo “sganciamento” dell’azienda dalla combinazione prodotto/mercato. Proprio questa influenza sulle variabili reddituali, patrimoniali e finanziarie, spiega perché l’analisi della crescita deve essere condotta prima di ogni altra, rappresentando di fatto una chiave interpretativa degli andamenti evidenziati attraverso l’analisi reddituale e di solvibilità. Tavola 2 ‐ Andamento tipico delle vendite nelle fasi del ciclo di vita L’andamento delle variabili nelle varie fasi del ciclo dipende, comunque, anche dalla “risposta” del settore ai cicli congiunturali del sistema economico generale. Per fluttuazione ciclica o congiunturale s’intende una sequenza, dove a periodi di prosperità o espansione si alternano periodi di ristagno o recessione del macro‐ambiente economico. L’affermarsi di tali periodi è www.analisidibilancio.it 30 Il sistema degli indicatori 2011
segnalato dall’andamento di alcuni indicatori macro‐economici (PIL, tassi di interesse, inflazione, disoccupazione). La congiuntura influenza, in particolare, l’andamento delle vendite nei settori, i quali, tuttavia, rispondo ai cicli congiunturali in maniera diversa, distinguendosi in: • settori ciclici, i quali si muovono nella stessa direzione del sistema, come nel caso dei settori del legno, costruzioni, trasporti e comunicazioni, locazioni; • settori aciclici, i quali risultano moderatamente influenzati dall’andamento del sistema (minerali e metalli, credito e assicurazioni); • settori anticiclici, i quali si muovono nella direzione opposta a quella del sistema, come ad esempio il settore degli dei prodotti alimentari di base. Oltre alle condizioni di contesto è necessario tener conto degli effetti delle strategie adottate dall’impresa per rispondere a tali condizioni. Muovendosi in questa prospettiva, occorre, anzitutto, individuare la presenza di processi di acquisizione di altre imprese o di rami di azienda, distinguendo fra crescita organica e crescita esterna, ossia derivante da acquisizioni di aziende o rami di azienda. Si ipotizzi, ad esempio, che l’azienda Alfa nell’anno X registri un incremento del proprio fatturato pari al 2%. Nello stesso X, Alfa acquisisce Beta, la quale presenta una crescita delle vendite dell’1%. A causa dell’acquisizione, i fatturati delle due unità produttive si cumulano dando l’idea di un tasso di crescita superiore al 2%. Ai fini di un’interpretazione prospettica dei risultati dell’analisi, occorre tenere distinti i due tassi di crescita. E’, infatti, plausibile che, se Beta continuerà a crescere meno di Alfa, anche la crescita del nuovo gruppo rallenterà, scendendo sotto la media del 2%. Con la stessa logica vanno interpretati gli effetti dei processi di ristrutturazione aziendale, tanto più se questi si accompagnano all’ingresso in nuovi mercati o settori. La forte discontinuità che tali eventi producono richiede una particolare attenzione interpretativa e rende sicuramente poco attendibili a fini previsionali i trend evidenziati dalla serie storica o dalla media. www.analisidibilancio.it 31 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Terzo L’ANALISI DELLA REDDITIVITÀ OPERATIVA 7. Valore fondamentale e redditività operativa 8. Il tasso di rendimento degli investimenti operativi (R.O.I.) 9. Le determinanti del R.O.I.: il modello di analisi DuPont 10. La produttività del capitale investito 4.1. La produttività del capitale fisso 4.2. La produttività del capitale circolante 11. La redditività delle vendite 5.1. L’incidenza dei costi operativi 5.2. Le condizioni di produttività 12. Interpretare le determinanti del tasso di rendimento degli investimenti operativi 6.1. Il settore di attività economica 6.2. Le strategie competitive 6.3. Le fasi del ciclo di vita 6.4. L’albero del R.O.I. 1. VALORE FONDAMENTALE E REDDITIVITÀ OPERATIVA Prendendo le mosse dalla formula base del valore fondamentale, l’analisi di bilancio attraverso indici ha come scopo quello di aiutare a misurare: • la capacità dell’impresa di generare reddito, visto quale principale driver dei flussi di cassa operativi o per gli azionisti; • i fattori dai quali tale capacità dipende; • le condizioni di rischio legate alla gestione operativa e alla struttura finanziaria che influenzano il costo del capitale. Nella prospettiva del valore fondamentale, il reddito operativo assume un’importanza cruciale in quanto principale driver dei flussi di cassa; nel lungo termine, infatti, reddito operativo e free cash flow from operations tendono a coincidere. Anche il costo del capitale è influenzato da fattori di rischio che sono legati a condizioni operative della gestione; in particolare, tali condizioni sono espresse dalla variabilità dei ricavi al variare delle condizioni del sistema economico e dalla correlata variazione indotta nei margini operativi (cfr. tavola 1). Da qui, il sotto‐sistema di indicatori dedicato all’analisi della redditività operativa. L’obiettivo è valutare, attraverso opportuni indici: • la capacità dell’impresa di generare reddito operativo attraverso gli investimenti; • i fattori dai quali questa capacità dipende; www.analisidibilancio.it 32 Il sistema degli indicatori 2011
•
le condizioni della gestione operativa che influenzano i livelli di rischio e il costo del capitale. Tavola 1 – Le determinanti del valore fondamentale 2. IL TASSO DI RENDIMENTO DEGLI INVESTIMENTI OPERATIVI (R.O.I.) L’indagine sull’economicità della gestione operativa prende le mosse dal rendimento del capitale investito in tale gestione. L’indicatore che misura sinteticamente tale condizione è espresso dal rapporto: margine operativo netto (MON) /capitale operativo investito netto (COIN) Il significato di questo rapporto è di agevole comprensione ricordando le relazioni che logicamente esistono fra gli stock di capitale rappresentati in Stato Patrimoniale e i flussi di reddito rilevati nel Conto Economico (cfr. tavola 2). Si tratta di un tasso che esprime in termini percentuali il rendimento di ogni Euro investito nella gestione operativa, sia nella componente strutturale che in quella corrente. L’indice viene comunemente denominato R.O.I., ossia return on investment. Gli stock di investimento non sono, tuttavia, identificabili solo con gli investimenti operativi; pertanto, di misure del tipo R.O.I. se ne possono costruire diverse: accanto a quella relativa alla gestione operativa, si propone quella concernente gli investimenti finanziari. A queste due, se ne aggiunge almeno una terza, costituita dal rapporto fra risultato ante oneri finanziari (RAOF, somma del margine operativo e del saldo proventi/oneri da investimenti finanziari) e totale degli investimenti (CIN, capitale investito netto). Onde evitare fraintendimenti, dunque, il R.O.I., inteso quale misura di sintesi delle redditività operativa, deve essere qualificato www.analisidibilancio.it 33 Il sistema degli indicatori 2011
come R.O.I. operativo. Con lo stesso significato si possono intendere altri acronimi sovente utilizzati nei mercati finanziari, quali: ROIC (return on invested capital); ROCE (return on capital emploied). Tavola 2 – I collegamenti fra flussi di reddito e stock di capitale Laddove lo stock di capitale vari nel corso dell’esercizio, come di fatto avviene, non fosse che a causa del processo di reinvestimento degli utili in corso di formazione, un corretto calcolo dell’indice richiede di impiegare a denominatore non il valore di fine esercizio del COIN, bensì quello medio, ottenuto come semisomma fra il valore di inizio e di fine esercizio. Da qui, l’acronimo ROACE (return on average capital emploied). Resta, in ogni caso, che il rendimento segnalato dall’indice è largamente influenzato dalle politiche di bilancio che incidono sulla determinazione dei costi discrezionali, quali ammortamenti e accantonamenti. Anche prescindendo dal grado di discrezionalità di tali costi, la misura del R.O.I. risente del processo di ammortamento. Questo, infatti, causa ogni anno una riduzione delle immobilizzazioni tecniche che formano il denominatore. Ipotizzando che il margine operativo netto si mantenga costante nel corso degli esercizi si assisterebbe, allora, a una crescita del R.O.I.; crescita dovuta a circostanze meramente contabili e non reali. Per ovviare, almeno in parte, a queste distorsioni, con ciò rendendo le misure di redditività operativa più confrontabili nel tempo e nello spazio, si ricorre al calcolo di un tasso lordo di redditività così determinato: margine operativo lordo (MOL) /capitale operativo investito netto + fondi ammortamento Gli affinamenti proposti, non rendono, comunque, meno problematica l’interpretazione del livello assunto dal R.O.I.. In generale, è ovvio che più alto è il tasso di rendimento degli investimenti operativi, meglio è, perché maggiore è la capacità potenziale dell’impresa di generare flussi di cassa operativi. La valutazione, inoltre, viene corroborata dal confronto con il tasso di www.analisidibilancio.it 34 Il sistema degli indicatori 2011
rendimento medio del settore in cui l’impresa opera. Come noto, infatti, un’impresa è in una posizione di vantaggio competitivo quando ha una redditività più elevata dei concorrenti. Per cogliere appieno il contributo del rendimento degli investimenti operativi alla crescita del valore fondamentale dell’impresa occorre, tuttavia, considerare come termine di confronto del R.O.I. il costo medio dei capitali raccolti, ossia il WACC. Il R.O.I., infatti, misura quanto quei capitali, una volta impiegati nella gestione operativa, hanno fruttato (cfr. tavola 3). Tavola 3 – Un termine di confronto per la redditività operativa E’, allora evidente che solo quando R.O.I. risulta maggiore di WACC, ossia il rendimento dei capitali è superiore alla loro remunerazione media attesa, le scelte di gestione hanno accresciuto il valore fondamentale del capitale investito, determinando la formazione di un extra‐profitto che determina un incremento del valore economico del capitale degli azionisti. Non a caso, il confronto fra ROI e WACC è alla base di uno dei più diffusi metodi di misurazione della capacità della impresa di accrescere il proprio valore fondamentale: l’economic value added o E.V.A. La formula sulla quale si basa il calcolo dell’E.V.A. è la seguente: (R.O.I. – WACC) x COIN Il calcolo dell’EVA richiede, comunque, di apportare alcune rettifiche ai valori contabili del numeratore e denominatore di ROI con lo scopo di giungere a determinare: • un valore del capitale che rappresenti l’entità delle risorse finanziarie realmente raccolte e impiegate nella gestione aziendale; • un valore del reddito operativo che approssimi l’ammontare della ricchezza netta disponibile per remunerare i diversi conferenti il capitale raccolto. A questo fine, ad www.analisidibilancio.it 35 Il sistema degli indicatori 2011
esempio, il margine operativo è espresso al netto delle tasse, calcolate senza tener conto dell’effetto di “scudo fiscale” esercitato dagli oneri finanziari conseguenti alle scelte di indebitamento. In relazione alle rettifiche operate sui valori contabili, si ottengono diverse configurazioni di EVA (cfr. tavola 4). Tavola 4 – Rettifiche ai valori contabili e configurazioni di E.V.A. Il richiamo all’E.V.A. sottolinea il ruolo della redditività operativa come driver del valore fondamentale. Ruolo che risulta definitivamente confermato se si considera che, a parità di assunzioni di partenza, il valore ottenuto aggiungendo al COIN a valori correnti gli E.V.A. futuri attualizzati (ossia la redditività operativa futura annua, eccedente il WACC, attualizzata sempre a un tasso pari al WACC) corrisponde al valore economico degli investimenti operativi che si ricava con il metodo DCF nella configurazione asset side. 3. LE DETERMINANTI DEL R.O.I.: IL MODELLO DI ANALISI DUPONT Definito il tasso di rendimento della gestione caratteristica, occorre individuare le principali cause che determinano tale rendimento. Ciò risponde all’esigenza di esplicitare i nessi causali fra le quantità reddituali, patrimoniali e finanziarie e il loro concorso alla formazione delle variabili del valore rendendo possibile: ‐ capire cosa è successo in passato e perché; ‐ prevedere cosa succederà in futuro se … Muovendosi in questa direzione, è indubbio che la redditività degli investimenti dipenda dal www.analisidibilancio.it 36 Il sistema degli indicatori 2011
combinarsi di due circostanze: a) capacità di generare vendite attraverso gli investimenti; b) capacità di estrarre margini dalle vendite realizzate. L’aspetto sub a) fa riferimento a livelli di produttività del capitale; quello sub b) di redditività delle vendite. La produttività del capitale investito (PC) La capacità di un dato stock di investimenti di alimentare un dato volume di vendite può essere espressa attraverso il seguente indice: vendite/COIN medio Il significato del rapporto è evidente: • il denominatore rappresenta le risorse mediamente investite nella gestione operativa, sia a titolo di capitale fisso che circolante; si tratta, dunque, di un dato di input; • il numeratore rappresenta il livello di attività operativa che dalle risorse investite l’impresa è stata in grado di ottenere; si tratta, dunque, di un dato di output. Il confronto fra input impiegati e out ottenuti è, appunto, alla base delle misure di produttività: la produttività, infatti, aumenta quando cresce l’output a parità di input o diminuisce l’input a parità di output. In questa stessa prospettiva si colloca il reciproco dell’indice di produttività del capitale il quale esprime un tasso di intensità dell’investimento, ossia quanto capitale viene mediamente impiegato per ogni unità di fatturato (es. per ogni 100 Euro di fatturato). L’indice di produttività del capitale investito viene, di frequente, interpretato in termini formalmente diversi: il quoziente fra ricavi e COIN indicherebbe, approssimativamente, quante volte, nel corso dell’anno, il capitale investito nella gestione operativa è ritornato in forma liquida grazie alla moneta recuperata con le vendite. Si parla, in proposito, di turnover del capitale o capital turnover. Al numeratore, infatti, si trova l’ammontare dei ricavi complessivamente conseguiti attraverso il disinvestimento delle produzioni realizzate; al denominatore, invece, si ha un valore che esprimere quanto capitale, in media, è di volta in volta complessivamente impiegato nei cicli di produzione in corso di svolgimento. Così, se nel corso dell’anno, l’ammontare del fatturato è stato di 1200 e il COIN medio di 600, l’indice segnalerebbe la realizzazione di due cicli capitalistici, ossia che il capitale investito è stato interamente recuperato due volte. E’, comunque, evidente che la produttività del capitale è funzione del ciclo del capitale: più www.analisidibilancio.it 37 Il sistema degli indicatori 2011
rapido è il ciclo di ritorno in forma monetaria del capitale, meno capitale si deve impiegare per la produzione, perché lo stesso ammontare di risorse può essere impiegato più volte per alimentare più processi di investimento e cicli produttivi; più efficiente, dunque, è lo sfruttamento delle risorse investite nella gestione. La redditività delle vendite (ROS) Che la redditività operativa dell’impresa sia largamente dipendente dal margine di guadagno operativo che l’imprenditore realizza su ogni unità di fatturato, è una circostanza così evidente da non meritare spiegazione. Da qui, l’indice di redditività delle vendite espresso dal seguente rapporto: MON/ vendite Tale quoziente, detto anche ROS (Return On Sales), esprime, in percentuale, il divario prezzi costo ‐ prezzi ricavo con cui opera l’azienda. Il numeratore, infatti, non è altro che la differenza fra ricavi netti e costi operativi. Anche per questa misura si presenta l’esigenza di eliminare l’effetto esercitato dai costi discrezionali sul risultato operativo. Coerentemente con la soluzione adottata nel calcolo del R.O.I., la redditività delle vendite viene espressa come rapporto fra redditività operativa lorda e vendite, ossia: MOL/vendite Il triangolo DUPONT Il legame fra i tre indici esaminati è evidente sia sotto il profilo logico che matematico. In termini matematici abbiamo infatti: ROI operativo = ROS X PC MON/COIN = (MON/vendite) X (vendite/COIN) Parafrasando, la redditività degli investimenti operativi di un’impresa dipende da: • lo scarto costo‐prezzo realizzato sulla produzione venduta; • il volume di vendita generato grazie alla moneta investita nella gestione operativa. I tre indici in parola costituiscono i vertici di un ideale triangolo che viene denominato triangolo DuPont. Fu, infatti, la famosa multinazionale statunitense che per prima, molti anni fa, impiantò su tali indici il proprio sistema di controllo della redditività operativa, vista quale driver del valore aziendale. www.analisidibilancio.it 38 Il sistema degli indicatori 2011
La relazione che lega le due fondamentali determinanti del R.O.I. può essere utilmente visualizzata attraverso la rappresentazione di isoquanti su un sistema di assi cartesiani. A questo fine, sull’asse delle ascisse vengono riportate le possibili misure di produttività del capitale (PC), mentre sull’asse delle ordinate quelle di redditività delle vendite (ROS). A ogni combinazione dei valori di ROS e PC corrisponde un punto che rappresenta il corrispondente valore di ROI. Sul piano cartesiano si possono, allora, tracciare tante curve, ognuna corrispondente a uno stesso valore di R.O.I. A ogni punto della curva, che rappresenta a un dato valore di R.O.I., corrisponde una data combinazione di ROS e PC. La rappresentazione mediante isoquanti facilità la comparazione nel tempo e nello spazio dell’andamento delle determinanti della redditività operativa. Guardando alla comparazione nel tempo, da un lato, è possibile verificare il passaggio dell’impresa su curve che esprimono livelli diversi di R.O.I.; dall’altro, il posizionamento lungo la curva evidenzia il diverso contributo offerto dalle due determinanti (cfr. tavola 5). Guardando alla comparazione nello spazio, è possibile distribuire le imprese concorrenti rispetto a diversi valori del R.O.I., fra cui quello mediano del settore, individuando quelle che si trovano in posizione di vantaggio competitivo. Tavola 5 – Gli isoquanti del R.O.I. L’influenza esercitata dalle determinanti può, comunque, essere misurata in modo puntuale ricorrendo a una sorta di analisi degli scostamenti. Obiettivo è quello di comprendere e quantificare quanto ognuna delle due determinanti chiave ha contribuito alla variazione del R.O.I. intervenuta in un dato esercizio. A questo scopo, la variazione del R.O.I. fra gli istanti t0 e t1 è fatta pari alla somma di due addendi: ∆ROI = (∆ ROS x PCt0) + (∆ PC x ROS t1) www.analisidibilancio.it 39 Il sistema degli indicatori 2011
• Il primo addendo segnala l’influenza di ROS. Si ottiene moltiplicando il ∆ del valore di ROS (fra t1 e t0) per il valore della produttività del capitale (PC) in t0; • Il secondo addendo segnala l’influenza di PC. Si ottiene moltiplicando il ∆ del valore di PC (fra t1 e t0) per il valore di ROS in t1. L’equivalenza può essere agevolmente dimostrata; infatti: ROI t1 ‐ ROI t0 = ROSt1 x PC t0 ‐ ROSto x PCt0 + PCt1 x ROSt1 ‐ PCt0 x ROSt1 ROI t1 ‐ ROI t0 = PCt1 x ROSt1 ‐ ROSto x PCt0 Un esempio aiuta a comprendere meglio il senso dell’analisi proposta. I valori di R.O.I e delle sue determinati negli istanti t0 e t1 siano quelli riportati nella tabella 1. Tabella 1 – Variazione del R.O.I. e delle sue determinanti R.O.I. R.O.S. PC t0
6%
5%
1,2%
t1
12%
6%
2%
∆
+6%
+1%
+0,8%
Il R.O.I. raddoppia nel corso dell’anno. Entrambe le determinanti registrano un incremento. A prima vista il ROS sembra dare il contributo maggiore. Tuttavia, sviluppando secondo quanto in precedenza indicato avremo: 6% = (1 x 1,2) + (0,8 x 6)= 1,2% + 4,8% Risulta, dunque, evidente che la crescita del R.O.I. è da attribuirsi prevalentemente al all’incremento della produttività del capitale, la quale genera 4,8 punti percentuali dei 6 che esprimono il complessivo aumento della redditività operativa. Il che, peraltro, è evidente considerando il rapporto incrementale di ogni determinante: mentre ROS cresce del 20%, PC aumenta del 66%. 4. LA PRODUTTIVITÀ DEL CAPITALE INVESTITO La produttività del capitale, misurata attraverso l’indice in precedenza presentato, è solo una macro‐determinante della redditività operativa. Da qui, la necessità di sottoporre questa macro‐
determinante a un più approfondito esame che conduca verso le cause ultime del valore aziendale. Le direttrici da seguire sono sostanzialmente due ed emergono chiaramente considerando le possibili chiavi di lettura della composizione del denominatore (COIN), ossia delle risorse impiegate per ottenere un dato livello di fatturato (Cfr. tavola 6): www.analisidibilancio.it 40 Il sistema degli indicatori 2011
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il COIN come differenza fra attività e passività operative; il COIN come somma di investimenti fissi netti e capitale circolante netto. Tavola 6 – Le direttrici di analisi della produttività del capitale La nostra attenzione si concentrerà sull’idea di COIN come somma di investimenti fissi netti e capitale circolante netto. 4.1. LA PRODUTTIVITÀ DEL CAPITALE CAPITALE FISSO Il COIN può essere visto, oltre che come differenza fra attività e passività operative, anche come somma di investimenti fissi e capitale circolante. L’analisi della produttività può, dunque, mirare a misurare separatamente il concorso delle due categorie di investimenti al risultato complessivo. La produttività delle immobilizzazioni Il contributo del capitale fisso alla produttività complessiva degli investimenti può essere misurato dal seguente rapporto: fatturato/attività operative fisse medie Per una più chiara interpretazione degli andamenti dell’indice, la produttività del capitale fisso può essere distinta considerando le due componenti principali dell’investimento durevole: • immobilizzazioni materiali; • immobilizzazioni immateriali. www.analisidibilancio.it 41 Il sistema degli indicatori 2011
Le prime, comunemente definite nel gergo dell’analisi finanziaria PP&E (property, plant and equipment), rappresentano le attività che concorrono a determinare la capacità produttiva utilizzabile dall’impresa. Il rilievo di questo fattore ai fini della produttività aziendale è di tutta evidenza, anche se diversa può essere la sua interpretazione: da un lato, solo lo sfruttamento pieno della capacità allestita consente di minimizzare i costi fissi di struttura che alla gestione di tale capacità di associano; dall’altro, la disponibilità di una capacità produttiva non sfruttata può, in determinate fasi del ciclo di vita del settore di conquistare posizioni di vantaggio competitivo. Nella prospettiva delineata, assume rilievo il calcolo del seguente indice: vendite/PP&E Il rapporto fra investimenti in PP&E e vendite può essere calcolato sia con riferimento al valore lordo dei PP&E, sia con riferimento al loro valore netto. I due rapporti che si utilizzano sono i seguenti: vendite/PP&E lordi = SGFA (Sales to Gross Fixed Assets) vendite/PP&E netti= SNFA (Sales to Net Fixed Assets) Il primo rapporto (SGFA) si presta meglio ad analizzare aziende caratterizzate da un’elevata incidenza di investimenti la cui capacità produttiva non si riduce nel tempo: ad esempio, aziende il cui attivo immobilizzato è composto prevalentemente da terreni e fabbricati. Se, invece, si presume che la capacità produttiva dell’azienda si riduca col tempo, ad esempio perché l’attivo immobilizzato dell’azienda è composto prevalentemente da impianti e macchinari che tendono a esaurire la propria utilità per effetto del loro utilizzo e/o dell’obsolescenza tecnologica, allora sembrerebbe più opportuno utilizzare il secondo rapporto (SNFA). In ogni caso, l’indice SGFA si presta meglio alla comparazione nel tempo e, soprattutto, nello spazio, dato che non risente della possibile adozione di diverse politiche di ammortamento da parte delle aziende comparabili. Sempre con riferimento agli indici basati sulle PP&E, un’altra scelta che può rendersi necessaria riguarda se utilizzare il valore medio delle PP&E o il valore di inizio esercizio. Il valore medio è indicato nei casi in cui l’impresa è in grado di utilizzare appieno da subito la capacità produttiva acquisita con i nuovi investimenti. Ad esempio, un’azienda di trasporti che acquista nuovi camion è in grado di utilizzarli immediatamente nel proprio processo produttivo, mentre è diverso il caso di un’azienda la cui struttura produttiva necessita di impianti e attrezzature più complesse, la cui messa a regime può richiedere mesi o addirittura anni (aziende estrattive, siderurgiche, petrolifere ecc.). In questi casi, gli investimenti realizzati in corso d’anno non contribuiscono immediatamente alla produzione e alla successiva vendita e, pertanto, è opportuno impiegare nel rapporto il valore degli investimenti esistenti all’inizio dell’esercizio. Nel calcolo del rapporto vendite/PP&E, infine, si deve tenere presente che, mentre le vendite sono espresse in moneta a potere di acquisto corrente, il valore delle immobilizzazioni risente www.analisidibilancio.it 42 Il sistema degli indicatori 2011
dell’inflazione se espresso al costo storico. Pertanto, la variazione di tale rapporto nel tempo potrebbe dipendere esclusivamente da circostanze “monetarie”. È opportuno, allora, esprimere, anno per anno, il valore delle immobilizzazioni in moneta con potere di acquisto pari a quello con cui sono espresse le vendite. Una volta stabilito il coefficiente di deflazionamento, che in questo caso è adeguatamente rappresentato dall’Indice dei Prezzi Industriali (IPI), si tratterà di applicarlo ai valori delle immobilizzazioni secondo la seguente formula: costo storico(t0) espresso a valori correnti(t1) = costo storico PP&E(t0) x (1+tasso di inflazione(t1)) Superate le questione metodologiche, restano quelle interpretative. La misurazione della capacità produttiva di una determinata azienda è strettamente collegata al tipo di attività che questa svolge ed è quindi difficilmente realizzabile con la sola analisi dei dati contabili. La capacità produttiva di un’azienda di trasporti, ad esempio, è misurata con criteri diversi rispetto a quella di un’azienda della grande distribuzione e non è possibile individuare un criterio di carattere generale. L’analisi dei dati contabili, invece, può fornire utili indicazioni con riferimento al grado di sfruttamento della capacità produttiva dell’azienda. Infatti, se si riprendono i dati dell’esempio precedente e si calcola la media dei valori che derivano dal rapporto tra vendite e immobilizzazioni lorde (SGFA) per l’azienda in esame e per quelle a essa comparabili, si può notare che l’azienda sfrutta la propria capacità produttiva circa il 20% meno rispetto alle aziende concorrenti. Si veda, in proposito, la Tabella 2. Tabella 2 – Grado di sfruttamento della capacità produttiva Anno 1 Anno 2
Anno 3
Anno 4
Anno 5 MEDIA
Impresa SGFA 1,33 1,42
1,44
1,32
1,26 1,35
Comparabili SGFA 1,53 1,72
1,67
1,59
1,74 1,70
Adesso confrontiamo l’impresa con i comparabili in base ai risultati ottenuti: [(1,70‐1,35)/1,35] = 26% Il dato comunica che i comparabili sfruttano in media la propria capacità produttiva il 26% in più rispetto all’impresa. Ipotizzando uniformità strutturali fra le imprese del settore, questa informazione può suggerire l’ipotesi che l’azienda sia in grado di aumentare del 26% le proprie vendite senza dover necessariamente accrescere la propria capacità produttiva. Un’ulteriore analisi che può essere condotta a supporto della preventivazione degli investimenti operativi è quella che confronta l’andamento storico del rapporto tra vendite e immobilizzazioni lorde (SGFA) dell’azienda con l’andamento del valore complessivo delle www.analisidibilancio.it 43 Il sistema degli indicatori 2011
immobilizzazioni lorde. Si considerino, ad esempio, i dati della Tabella 3, sintetizzati nel Grafico 1. Tabella 3 – Confronto SGFA e PP&E lorde SGFA PP&E lorde Anno 1 1,33 132 Anno 2
1,36
135
Anno 3
0,6
210
Anno 4 0,52 250 Anno 5
0,7 252 Grafico 1 ‐ Confronto SGFA e PP&E lorde 1,6
300
1,4
250
1,2
200
1
0,8
150
0,6
100
0,4
50
0,2
0
0
1
2
3
SGFA
4
5
PPE lorde
Dall’osservazione del grafico si desume che per i primi due anni l’azienda riesce a sfruttare pienamente la propria capacità produttiva, mentre dal terzo anno in poi la crescita degli investimenti realizzati è molto più rapida della crescita delle vendite, lasciando presumere che da quel momento l’azienda inizi a disporre di capacità produttiva inutilizzata. E’, allora, plausibile che l’azienda possa incrementare le proprie vendite senza necessariamente realizzare nuovi investimenti in struttura produttiva. Se, infatti, il valore medio di 1,35 è espressione del pieno sfruttamento della capacità produttiva nei primi due anni (ovvero date certe immobilizzazioni l’azienda ha generato vendite per un importo pari a 1,35 volte tale valore), e se il valore nell’ultimo anno di osservazione è pari a 0,70, la differenza tra i due valori è indicativa di quanto l’azienda possa aumentare le proprie vendite senza attuare ulteriori investimenti, cioè circa il 90%. In altre parole, dati gli ingenti investimenti realizzati negli ultimi tre anni di osservazione, l’azienda è potenzialmente in grado, in futuro, di aumentare le proprie vendite del 90% senza realizzare nuovi investimenti. Il processo di investimento e l’ammortamento Sempre guardando alla produttività del capitale, è chiaro che questa dipende dal contenuto di tecnologia incorporata nei processi operativi. Quest’ultimo, a sua volta, è conseguenza delle decisioni di investimento nella componente strutturale dell’impresa. Da qui tre importanti categorie di indici volte a misurare l’attenzione riservata dall’impresa ai processi di investimento in fattori strutturali. Si tratta degli indici di: www.analisidibilancio.it 44 Il sistema degli indicatori 2011
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45 sviluppo; intensità; ammortamento. Il tasso di sviluppo, altrimenti detto di accumulazione, viene calcolato attraverso il seguente rapporto: nuovi investimenti in PP&E nell’esercizio/PP&E lorde a inizio esercizio L’indice in oggetto esprime l’importanza relativa dei nuovi investimenti rispetto allo stock già disponibile e quindi sintetizza, sia pur con l’approssimazione propria del dato contabile, il tasso di innovazione tecnologica degli impianti. Il costante rinnovo e sviluppo degli impianti, comunque, dipende in larga misura dalla quota di ricchezza prodotta dall’azienda e reimpiegata in tali investimenti. Da qui il tasso di intensità dell’investimento, detto anche tasso di investimento, ossia: nuovi investimenti in PP&E nell’esercizio/fatturato Questo indice consente di apprezzare l’intensità di nuovi investimenti per unità di fatturato. L’indice viene calcolato anche impiegando il Valore Aggiunto; si misura, così, quanta della ricchezza creata dai processi aziendali è potenzialmente reinvestita in fattori strutturali. Indubbiamente, il rinnovamento delle immobilizzazioni è pesantemente condizionato dalle politiche di ammortamento seguite dall’impresa. In questa prospettiva si collocano gli indici di ammortamento. Due sono i fondamentali indici di ammortamento: a) tasso di ammortamento ammortamenti/PP&E lorde L’indice segnala quanta parte del valore delle immobilizzazioni viene recuperato ogni anno, trasformandolo in costi di esercizio. Il tasso di ammortamento, letto alla luce del metodo di ammortamento impiegato (es. quote costanti o decrescenti) rivela implicitamente le stime sulla durata della vita utile attribuita dal management alle PP&E. Ad esempio, un tasso di ammortamento del 10%, assunto in un contesto di ammortamenti a quote costanti, presuppone una vita utile dei cespiti di dieci anni. E’ questa un’informazione preziosa per giudicarela conguità delle stime rispetto alla tipologia e al livello di obsolescenza che caratterizza gli investimenti tecnologici, anche alla luce delle scelte dei concorrenti. b) grado di ammortamento fondo ammortamento/PP&E lorde www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
L’indice del grado di ammortamento segnala a che punto l’impresa è giunta nel processo di recupero del capitale investito nelle PP&E,. Esso, dunque, offre informazioni complementari a quelle espresse dal tasso di ammortamento; in particolare, segnala il grado di anzianità delle immobilizzazioni, ossia la vita utile già trascorsa. Una lettura integrata con il tasso di ammortamento permette di ricavare la durata della vita utile residua e, sulla base di questa, apprezzare il rischio connesso alle future possibilità di recupero dell’investimento pluriennale. In via generale possiamo dire che: • quando il grado di ammortamento resta sostanzialmente costante nel tempo, i rinnovi degli impianti tendono a pareggiare gli ammortamenti e le dismissioni; • quando il grado di ammortamento tende a diminuire, i rinnovi degli impianti tendono a superare gli ammortamenti e le dismissioni. Gli indici di ammortamento si rivelano di grande interesse anche sotto un altro profilo. Il tasso di ammortamento, infatti, offre informazioni preziose per cogliere la presenza di eventuali politiche di bilancio realizzate riducendo l’intensità delle quote di ammortamento. Spesso, è questa la strada seguita da quelle imprese che non vogliono evidenziare riduzioni della loro redditività operativa. La riduzione della quota di ammortamento, infatti, rende due redditi operativi, relativi a due esercizi successivi, uguali, celando una realtà economica ben diversa. Una tale riduzione non è assolutamente da giudicarsi positiva. Ridurre gli ammortamenti, infatti, significa allungare il tempo di recupero dell’investimento in immobilizzazioni e, quindi, accrescere il rischio di venirsi a trovare in circostanze che rendono obsoleto l’investimento in essere. Considerazioni in parte analoghe valgono per il grado di ammortamento. Poiché gli indici del tipo R.O.I. riportano a denominatore il valore delle immobilizzazioni nette, è evidente che, ferme tutte le altre condizioni, ossia a parità di MON (ma anche in ipotesi di riduzione di questo), man mano che il grado di ammortamento cresce, la riduzione del denominatore dell’indice di redditività segnala un’apparente crescita dell’economicità operativa. Si pensi, ad esempio, a due imprese con uguale efficienza operativa dove, però, una è dotata di impianti nuovi e l’altra di impianti vecchi presentino valori diversi di R.O.I.: quella con impianti vecchi presenta, paradossalmente, valori di R.O.I. più alti. Queste considerazioni portano a concludere che gli incrementi di redditività operativa sono tanto più significativi quanto più: • il tasso di ammortamento è alto e costante nel tempo (meglio crescente); • il grado di ammortamento è anch’esso costante nel tempo (meglio decrescente). 4.2. LA PRODUTTIVITÀ DEL CAPITALE CIRCOLANTE In una prospettiva di breve termine, ossia ferma la dimensione strutturale, appare evidente come la produttività del capitale dipenda dalla capacità dell’impresa di contenere l’investimento in capitale circolante. In prima approssimazione questa capacità può essere misurata attraverso il www.analisidibilancio.it 46 Il sistema degli indicatori 2011
seguente indice: CCNc/fatturato Il rapporto indica l’intensità di investimento corrente per unità di fatturato. Il suo reciproco si può interpretare come indice di rotazione del capitale circolante “commerciale”. Gli investimenti compresi nel circolante esprimono, infatti, cicli operativi di breve periodo e presentano dirette ed evidenti correlazioni con il volume delle vendite su cui si basa il calcolo del turnover, dal momento che le vendite traducono in moneta (leggi disinvestono) la produzione realizzata (che corrisponde a un graduale accumulo di capitale lungo il processo produttivo). Da qui, l’ulteriore approfondimento dell’indagine volto a individuare le cause che influiscono sulla velocità di rotazione del circolante. Tenuto conto della composizione di questo aggregato, l’attenzione si concentra sui seguenti indici: a) turnover del magazzino fatturato/scorte di magazzino
b) turnover dei crediti fatturato/crediti commerciali
a) Il turnover del magazzino esprime quante “volte” la giacenza di magazzino si è rinnovata nel corso dell’anno in conseguenza delle vendite. Un’interpretazione corretta dell’indice è spesso difficile a causa di molteplici fattori che possono inficiare la significatività delle grandezze poste al denominatore. Si pensi, in proposito, ai criteri di valutazione delle scorte utilizzati e/o a fluttuazioni temporali delle giacenze. Proprio ai fini di una determinazione più precisa del turnover di magazzino, può essere utile sostituire il valore dei ricavi, posto a numeratore del rapporto, con il valore del costo del venduto. Così facendo, si rendono più omogenei i termini del confronto: valori di costo con valori di costo. Inoltre, la rotazione del magazzino potrebbe essere scomposta tenendo conto della diversa natura delle scorte. In particolare, una distinzione rilevante è quella che individua separatamente la: • rotazione delle scorte di materie prime consumi di materie prime/scorte di materie prime
• rotazione delle scorte di prodotti finiti costo del venduto/scorte di prodotti finiti
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b) Il turnover dei crediti vuole esprimere quante volte, nel corso dell’anno, si sono rinnovati i crediti commerciali. Nel costruire l’indice, occorre tener presente che il denominatore deve comprendere il valore dei crediti verso clienti e delle cambiali attive, compresi gli effetti scontati, ma non ancora scaduti. Le informazioni derivanti dagli indici di rotazione risultano più immediate e significative trasformando gli indici di rotazione in indici di durata. Questi ultimi permettono, infatti, di tradurre in giorni il tempo impiegato dai principali investimenti correnti dell’impresa per ritornare in forma liquida. Il calcolo degli indici di durata è in larga parte simile a quello degli indici di rotazione. Essi si ottengono dividendo 360 per il valore dell’indice di rotazione. Così, se ad esempio l’indice di rotazione dei crediti commerciali è pari a 6, l’indice di durata corrispondente segnalerà che la dilazione dei pagamenti sulle vendite è di circa 60 giorni (360:6=60). Grazie agli indici di rotazione è possibile misurare la durata complessiva del ciclo attivo dal capitale circolante, pari alla somma della durata della giacenza delle scorte e del tempo di riscossione dei crediti. In una prospettiva di capitale circolante netto, al ciclo attivo si contrappone il ciclo passivo, espresso dal tempo medio di pagamento dei fornitori. Il calcolo di quest’ultimo si basa sulla determinazione del grado di rotazione dei fornitori attraverso il seguente indice: acquisti/debiti verso fornitori
Seguendo la logica in precedenza illustrata, è poi agevole passare alla stima della durata della dilazione di pagamento ottenuta/imposta ai fornitori. La somma algebrica della durata del ciclo attivo e di quello passivo indica il tempo medio di rotazione del capitale circolante, ossia quanto tempo in media impiega l’investimento corrente a ritornare in forma monetaria. L’interpretazione di tale durata è agevole: le riduzioni della velocità di rotazione sono da considerare un segnale negativo. Occorre, però evitare di sovra‐semplificare la realtà gestionale di un’impresa. Prendiamo, a titolo di esempio, l’indice di rotazione delle scorte. Supponiamo di rilevare una sua sensibile riduzione. Le cause potrebbero essere fondamentalmente due: • l’impresa non riesce a vendere e la sua produzione si accumula in magazzino; • l’impresa, in previsione di futuri aumenti nei prezzi delle materie o per fronteggiare una prevista forte espansione delle vendite sta “facendo magazzino”. Indubbiamente, solo la prima ipotesi è sicuramente negativa. Un attento esame delle condizioni competitive dell’impresa permette orientare correttamente il giudizio. In questo senso, utili indicazioni sono offerte dall’esame dei livelli di crescita dell’impresa. Un appesantimento del magazzino che si manifesti in un contesto di sviluppo del fatturato farebbe, infatti, propendere per politiche di accumulazione delle scorte, piuttosto che prefigurare produzioni invendute. Nello stesso senso, essenziale è correlare l’andamento degli indicatori di rotazione del circolante alle fasi www.analisidibilancio.it 48 Il sistema degli indicatori 2011
del ciclo di vita attraversate dall’impresa. Le due linee di analisi della produttività prospettate, quella che guarda al COIN come differenza fra attività e passività operative e quella che considera il COIN come somma di investimenti fissi netti e capitale circolante netto, sono strettamente correlate. L’analisi della produttività delle immobilizzazioni e della durata del ciclo attivo del circolante si pone come ideale approfondimento dell’analisi della produttività delle attività operative. Inoltre, la considerazione dei tempi di pagamento dei fornitori aiuta a valutare la sostenibilità dello sfruttamento della leva commerciale; tempi di pagamento patologicamente lunghi potrebbero, infatti, spingere i fornitori a ridurre il credito concesso all’impresa, facendo, così, venire meno la possibilità di sfruttare l’effetto di leva commerciale, con immediate ripercussioni sulla produttività degli investimenti e, da qui, sulla redditività di questi. 5. LA REDDITIVITÀ DELLE VENDITE La redditività delle vendite è solo una macro‐determinante della redditività operativa. Da qui, la necessità di sottoporre questa macro‐determinante a un più approfondito esame che conduca verso le cause ultime del valore aziendale. Le direttrici da seguire emergono chiaramente considerando la composizione del numeratore, ossia del margine estratto da ogni unità di fatturato: (fatturato – costi operativi))/vendite = 1 – (costi operativi/fatturato) I costi, dunque, rappresentano la principale determinante (contabile) della redditività delle vendite. 5.1. L’INCIDENZA DEI COSTI OPERATIVI L’approfondimento dell’analisi del R.O.S. passa per l’analisi dei costi operativi. Questi possono essere esaminati muovendosi in tre direzioni: ‐ natura; ‐ grado di variabilità; ‐ destinazione. La percorribilità delle direttrici indicate è legata alla possibilità di riclassificare opportunamente il Conto Economico (cfr. tavola 7). In particolare, la terza direttrice di analisi è possibile solo se il Conto Economico è già configurato in tal senso nel bilancio ufficiale. Essa risulta, dunque, raramente praticabile. Anche la seconda direttrice pone problemi rilevanti nel caso si www.analisidibilancio.it 49 Il sistema degli indicatori 2011
disponga solamente dei dati di bilancio. Concentriamo, dunque, la nostra analisi sulla prima direttrice indicata. Tavola 7 – Direttrici di analisi dei costi operativi e configurazione del Conto Economico L’analisi dei costi per natura L’analisi dei costi per natura si basa su un Conto Economico (CE) configurato a valore della produzione e valore aggiunto. Per rendere evidente il peso delle varie voci di costo, queste devono essere espresse in percentuale sui ricavi delle vendite o sul valore della produzione. Il CE in common size che così si ottiene facilita notevolmente i confronti nel tempo e nello spazio. Come già osservato parlando di processi di crescita, le variazioni di composizione dei costi espresse dal common size risultano più significative se accompagnate dalla variazione percentuale annua di ogni voce contenuta nei prospetti di bilancio, e dal CAGR di tale voce su un congruo orizzonte di tempo. Solo grazie a tali misure, infatti, è possibile apprezzare l’andamento delle singole variabili osservate (laddove l’informazione in common size si limita a evidenziarne la dinamica rispetto a un’altra variabile di confronto). Così, ad esempio, guardando alla tavola 8, l’incidenza del costo del venduto sul fatturato può essersi ridotta nel tempo in seguito a un processo di “efficientamento”, ma aver subito allo stesso tempo un forte incremento a fronte, però, di una crescita ancor più intensa del giro d’affari. La riesposizione del CE in percentuale consente, in particolare, di mettere in evidenza la consistenza e le variazioni percentuali subite da un saldo reddituale che assume un ruolo chiave ai fini dell’analisi della redditività operativa, ossia il Valore Aggiunto (VA), ossia: valore aggiunto/fatturato Il rilievo segnaletico di questo indicatore è notevole. Il VA è per così dire il punto di incontro delle condizioni di: www.analisidibilancio.it 50 Il sistema degli indicatori 2011
• efficienza, relative all’impiego delle risorse per realizzare la produzione; • efficacia, intesa come capacità dell’impresa di ottenere dal mercato il riconoscimento effettivo dell’accrescimento potenziale di valore derivante dai processi produttivi aziendali. Poco Valore Aggiunto significa, in sostanza, poca ricchezza lorda a disposizione per remunerare congruamente i diversi fattori della produzione, mantenendoli avvinti alla combinazione aziendale nei tempi e nelle quantità necessarie a realizzare l’equilibrio economico. Soprattutto, l’andamento del VA è spia della rispondenza dell’attività operativa alle strategie aziendali perseguite. Così, se ad esempio, l’impresa decide di puntare decisamente verso produzioni di fascia qualità‐prezzo alta, il successo nell’attuazione di questa strategia dovrà essere confermato da una netta crescita nel tempo del VA in percentuale. Tavola 8 – Il Conto Economico in common size 5.2. LE CONDIZIONI DI PRODUTTIVITÀ Il livello dei costi aziendali dipende da due fondamentali fattori: • i prezzi‐costo dei fattori produttivi negoziati dall’impresa sui mercati di acquisto; • la capacità dell’impresa di ottimizzare l’impiego di tali fattori nella produzione. Parlare di capacità dell’impresa di ottimizzare l’impiego dei fattori produttivi significa parlare di efficienza o produttività dell’impresa. Il termine produttività, infatti, vuole indicare: la capacità dell’impresa di combinare economicamente, ossia senza sprechi evitabili, le risorse della produzione. www.analisidibilancio.it 51 Il sistema degli indicatori 2011
L’analisi della produttività è un’analisi complessa. Ben difficilmente tale analisi può essere svolta utilizzando solo i dati contenuti nei bilanci ufficiali. Per questo, nelle procedure di analisi condotte dall’esterno, si affronta il tema della produttività limitandosi al calcolo solo di alcuni indicatori che offrono indicazioni di larga massima su questa dimensione dell’operare d’impresa. Un primo passaggio dell’analisi della produttività è nuovamente rappresentato dalla redazione di un CE a valori percentuali. Ora, però, i valori reddituali relativi alla gestione operativa non vengono percentualizzati rispetto ai ricavi di vendita ma rispetto al Valore della Produzione. Per comprendere il senso di questa scelta, si pensi al costo del lavoro. Si consideri, in particolare, l’ipotesi di un’impresa che, durante l’esercizio, ha prodotto per il magazzino e/o realizzato significative costruzioni interne di impianti o altre immobilizzazioni. Non c’è dubbio, in questo caso, che una parte significativa del tempo di lavoro, e quindi dei relativi costi, sia stata dedicata a una produzione che non ha generato ricavi di vendita. Muovendosi in una prospettiva input‐output (risorse consumate‐risultati ottenuti mediante il consumo di quelle risorse), il confronto fra il costo del lavoro e il valore complessivo della produzione ottenuta appare ben più coerente, e dunque significativo, del confronto fra costo del lavoro e valore della sola produzione venduta. Una volta apprezzata l’incidenza dei costi rispetto al valore della produzione, l’analisi si può ulteriormente sviluppare lungo due coordinate, corrispondenti ai due fondamentali fattori la cui dotazione qualitativa e quantitativa condiziona, in modo determinante, la complessiva produttività aziendale: •
lavoro; •
capitale. Per misurare la produttività del lavoro, gli indicatori più utilizzati sono i seguenti: fatturato/n° dipendenti; valore aggiunto/n° dipendenti; costo del lavoro/n° dipendenti; Si tratta, come è facile vedere, prevalentemente di valori pro‐capite centrati, in modo diretto o indiretto, sul fattore lavoro. In questo senso, particolarmente significativi appaiono gli indicatori del: • valore aggiunto pro‐capite; • costo del lavoro pro‐capite. Il valore aggiunto pro‐capite si rivela sicuramente più espressivo dei ricavi pro‐capite. Il valore aggiunto, infatti, nasce dalla differenza fra Valore della Produzione ottenuta e costi esterni. Esso, dunque, tiene conto di tutto lo sforzo produttivo realizzato nel periodo amministrativo dall’impresa impiegando il fattore lavoro. L’indice, inoltre, ben si attaglia a tutte quelle imprese www.analisidibilancio.it 52 Il sistema degli indicatori 2011
che producono su commessa. Per queste, infatti, la variazione delle scorte di lavori in corso su ordinazione, che non forma ricavi ma concorre al VA, rappresenta spesso la gran parte dell’attività lavorativa svolta nell’esercizio. L’analisi del valore aggiunto pro‐capite risulta arricchita dal confronto con il costo del lavoro pro‐capite. La lettura congiunta di tali indicatori è in grado di segnalare se l’evoluzione del costo del lavoro è in sintonia con l’evoluzione del valore aggiunto. Se, infatti, il costo del lavoro pro‐
capite crescesse a fronte di una riduzione del valore aggiunto pro‐capite è logico aspettarsi una riduzione della redditività operativa aziendale o, comunque, una minor capacità della “ricchezza in più” creata dall’impresa (il valore aggiunto appunto) di remunerare gli altri fattori della produzione. Il confronto proposto viene sintetizzato in uno specifico indice, definito costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP): costo del lavoro/valore aggiunto La logica alla base dell’indice è semplice: se un lavoratore costa più di un altro, ma produce proporzionalmente più prodotti (da cui più valore aggiunto), il suo costo del lavoro sarà più alto, ma il suo costo del lavoro per unità di prodotto sarà più basso. Da questo punto di vista, la conoscenza della dinamica del CLUP è utile per misurare l’andamento della produttività del lavoro e, quindi, la competitività delle imprese. E’, in ogni caso, evidente che la produttività del lavoro, segnatamente il rapporto valore aggiunto/n° dipendenti, è condizionata dai mezzi di produzione dei quali ogni addetto è dotato. In altre parole, la produttività del lavoro dipende dalla produttività del capitale e dal capitale di cui ogni lavoratore dispone. In questo senso, l’analisi dei margini e quella della produttività si incontrano, la seconda diventando determinante della prima. Per mantenere coerenza con le misure di produttività del lavoro basate sul valore aggiunto, anche quella del capitale può essere in tal senso espressa attraverso l’indice: valore aggiunto/immobilizzazioni lorde La produttività del capitale si riconnette a quella del lavoro attraverso l’indice che misura l’intensità di capitale per addetto, ossia: immobilizzazioni lorde/ n° dipendenti I legami richiamati sono evidenziati dalla seguente relazione: valore aggiunto/n° dipendenti = (valore aggiunto/immobilizzazioni lorde)x(immobilizzazioni lorde/ n° dipendenti) Seguendo la logica di ricercare le cause ultime dei fenomeni indagati, i livelli di produttività segnalati dai vari indici devono essere interpretati alla luce delle fasi del ciclo di vita dell’impresa. www.analisidibilancio.it 53 Il sistema degli indicatori 2011
Come già ricordato, infatti, nella fase introduttiva, di solito i costi di produzione sono alti e la produttività bassa, tenuto conto dell’“esperienza” di produzione ancora scarsa posseduta dall’impresa. Nella fase di sviluppo si assiste a una significativa riduzione dei costi dovuta all’effetto esperienza legato alla crescita dei volumi di produzione. Nella fase di maturità, infine, si consolida il processo di riduzione dei costi e si massimizza l’effetto esperienza con benefici riflessi sulla produttività aziendale; benefici destinati a esaurirsi man mano che l’impresa si inoltra nella fase di declino. 6. INTERPRETARE LE DETERMINANTI DELLA REDDITIVITÀ DEGLI INVESTIMENTI OPERATIVI ROS e produttività del capitale non possono essere valutati senza calarli nel contesto nel quale maturano. I due indici, infatti, assumono peso e importanza diversa in relazione: • alle caratteristiche del settore di attività economica nel quale l’impresa opera. • alle strategie competitive adottate dall’impresa; • alla fase del ciclo di vita che l’impresa sta attraversando. 6.1. IL SETTORE DI ATTIVITÀ ECONOMICA La possibilità di manovrare ROS e Turnover è largamente influenzata dai caratteri strutturali del settore nel quale l’impresa svolge la sua attività operativa. Significative, a questo proposito le parole di una nota ricerca degli anni 80 (Gombola‐Ketz 1983): “All the income measures expressed as a percentage of sales are much smaller for retail firms than manufacturing firms. All the turnover ratios show much higher values for retail firms than manufacturing firms” A seconda del settore, dunque, cambia il peso e il rilievo delle due determinanti del R.O.I. operativo. Si pensi, in particolare, alla produttività del capitale, specie se vista come intensità di capitale. E’ immediato comprendere che l’intensità di capitale necessaria per competere varia profondamente da settore a settore: un’impresa impegnata nella produzione di grandi commesse (es. cantieri navali), presenta un elevato grado di capitalizzazione dei processi produttivi che pone pesanti vincoli alla manovra del turnover; ben diversa è la situazione nel caso della distribuzione al dettaglio. In questo senso si distingue fra: • settori leggeri, quali: grande distribuzione, abbigliamento, alimentare; • settori pesanti, come: telecomunicazioni, chimica, estrattivo. www.analisidibilancio.it 54 Il sistema degli indicatori 2011
Le condizioni competitive dei due ambiti richiamati sono sicuramente diverse: settori leggeri condizioni competitive settori pesanti
intensità investimento alta bassa
barriere all’entrata alte basse
margini elevati
contenuti
vincoli competitivi capacità competitiva
prezzi di vendita Dal quadro delineato, sicuramente molto semplificante, emerge che la redditività dei settori pesanti dipende largamente dai margini; da cui, la centralità del ROS quale determinante chiave. I vincoli di capacità produttiva, infatti, pongono limiti forti alla produttività del capitale. Viceversa per i settori più leggeri, per i quali è cruciale mantenere alta la produttività del capitale. In questo caso, infatti, i vincoli di prezzo di vendita limitano la crescita della redditività delle vendite. Ricorrendo alla rappresentazione mediante isoquanti, la situazione è quella rappresentata nella tavola 9. Tavola 9 – Caratteri del settore e determinanti del R.O.I. 6.2. LE STRATEGIE COMPETITIVE All’interno del settore, per cercare comunque di superare, almeno in parte i limiti che le caratteristiche di questi pongono, le imprese adottano diverse strategie competitive che influenzano il rilievo assunto dalle determinanti del R.O.I. Come noto, due sono le fondamentali strategie competitive perseguibili da un’impresa: • leadership di costo; • differenziazione. www.analisidibilancio.it 55 Il sistema degli indicatori 2011
Nel primo caso, l’impresa punta prevalentemente sull’efficienza, con l’intento di ridurre il livello dei propri costi rispetto ai concorrenti e offrire il prodotto a un prezzo più basso rispetto alla concorrenza. Nel secondo caso, invece, l’impresa mira essenzialmente a essere unica nel proprio settore in rapporto ad alcune variabili ritenute critiche dalla domanda. La differenziazione può fondarsi sulla qualità del prodotto e/o dei servizi a esso legati. Essa comporta una crescita dei costi, ma permette, proprio grazie all’unicità dell’offerta, di spuntare prezzi di vendita anche elevati, cioè di conseguire un premium price. In quest’ottica, è evidente come, in via generale: • imprese che perseguono strategie di contenimento dei costi e prezzi bassi puntino più che sulla massimizzazione del ROS, sulla realizzazione di un elevato volume di affari a parità di capitale investito, ossia su un elevata produttività del capitale che spinga in alto la redditività operativa; • di contro, le imprese che tendono alla differenziazione vedono nell’ampliamento dello scarto costo‐prezzo, ossia del ROS, la via per accrescere la loro redditività operativa. 6.3. LE FASI DEL CICLO DI VITA Gli effetti delle strategie competitive sono legati anche alle fasi del ciclo di vita attraversato dall’impresa. Ogni impresa non si basa su un singolo prodotto ma su un portafoglio prodotti che si trovano in fasi diverse del loro ciclo di vita. La fase del ciclo attraversata dall’impresa è quella nella quale si trova la maggioranza dei prodotti nel suo portafoglio. Il passaggio attraverso le varie fasi del ciclo di vita si manifesta in termini di andamento delle vendite. Anche i margini e gli investimenti, sia correnti che strutturali, però, vengono in varia misura influenzati. Di conseguenza, durante le diverse fasi del ciclo, anche le fondamentali determinanti della redditività operativa subiscono un’evoluzione. Riportiamo di seguito, una lettura generale e semplificata degli andamenti dei principali indicatori in relazione all’evoluzione del CdV. Introduzione ROS basso Nella fase introduttiva, di solito i costi di produzione sono alti e la produttività bassa, tenuto conto dell’“esperienza” di produzione ancora scarsa posseduta dall’impresa. Sovente poi, per seminare il mercato, le imprese praticano prezzi di vendita bassi, accettando anche di vendere sotto costo pur di “farsi il mercato”. PC basso Il modesto volume di vendite, da un lato, e la necessità di investire per creare capacità produttiva, dall’atro, comprimono la produttività del capitale. Sviluppo ROS in deciso miglioramento www.analisidibilancio.it 56 Il sistema degli indicatori 2011
Nella fase di sviluppo si assiste a una significativa riduzione dei costi dovuta all’effetto esperienza legato alla crescita dei volumi di produzione. Gli stessi prezzi di vendita, poi, possono cominciare a salire. PC sempre basso Indubbiamente le vendite in forte crescita spingerebbero verso l’alto la produttività del capitale. Però, proprio per sostenere il processo di crescita del fatturato, l’impresa deve “buttare molto carbone in caldaia”, ossia deve investire pesantemente in strutture (acquisire impianti per accrescere la capacità produttiva) e circolante (fare scorte e concedere credito ai clienti). La crescita del numeratore del rapporto PC è, quindi, spesso più che controbilanciata dalla crescita del denominatore. Il che spiega la bassa velocità di circolazione del capitale. Maturità ROS buono Nella fase di maturità si consolida il processo di riduzione dei costi e si massimizza l’effetto esperienza con benefici riflessi sulla produttività aziendale. I prezzi di vendita, tuttavia, possono cominciare a flettere, proprio per sostenere le vendite in un mercato che si avvia alla saturazione e in un contesto ormai divenuto fortemente competitivo, tanto da causare bagarre fra i concorrenti. PC elevato La situazione, qui, è rovesciata rispetto alla fase di sviluppo. Le vendite non “tirano” più come prima, però non sono più necessari massicci investimenti. In particolare, le immobilizzazioni sono largamente ammortizzate e, quindi, alleggeriscono il peso del capitale investito. Pertanto, alla sia pur modesta crescita del numeratore del rapporto si accompagna una sostanziale riduzione della consistenza del denominatore. Si spiega, così, la buona produttività del capitale in questa fase del ciclo di vita. Declino ROS in costante diminuzione Nella fase di declino le vendite diminuiscono costantemente. L’eventuale riduzione dei costi non può riuscire a controbilanciare il progressivo inaridirsi dei ricavi. PC in graduale discesa La costante diminuzione delle vendite spinge in basso la produttività del capitale, suggerendo l’avvio di processi di disinvestimento. Mettendo insieme i prefigurati andamenti di ROS e PC, si può ricavare l’andamento del R.O.I. operativo nel corso del ciclo di vita. Questo è sinteticamente raffigurato nella tavola 10. L’osservazione dell’andamento del ROI in corrispondenza dei diversi momenti del CdV suggerisce alcune considerazioni: • l’analisi del R.O.I. non può avvenire prescindendo dalla conoscenza della fase del ciclo che l’impresa sta attraversando; www.analisidibilancio.it 57 Il sistema degli indicatori 2011
• è fisiologico, infatti, che, in alcuni momenti, il R.O.I. sia basso se non addirittura negativo. Nessun allarme se questo avviene in corrispondenza delle fasi “difficili” del ciclo, segnatamente la fase di introduzione e di primo sviluppo. Grave preoccupazione, però, se il R.O.I. stenta in corrispondenza di fasi favorevoli quali, tipicamente, la fase di maturità; questa circostanza segnalerebbe incongruenze e debolezze della formula imprenditoriale adottata per competere nel settore. Segnali di allarme, tuttavia, vengono lanciati anche quando i livelli di redditività sono molto alti nelle fasi iniziali del ciclo. Una redditività elevata in questi momenti, infatti, potrebbe essere spia di politiche gestionali miopi (ad esempio, politiche basate sul contenimento degli investimenti) destinate a sacrificare, per l’ottenimento di una redditività immediata, il percorso di crescita dell’impresa o a farla vivere in modo stentato; insomma, una manifestazione dell’annoso arbitraggio fra “l’uovo e la gallina”. Tavola 10 – Fasi del ciclo di vita dell’impresa e andamento del R.O.I. Il secondo punto richiamato, in particolare, evidenzia l’opportunità, al momento della determinazione del R.O.I., di verificare il grado di coerenza fra i valori assunti dall’indice e la corrispondente fase del ciclo di vita attraversata dall’impresa. A titolo puramente indicativo, si veda la tavola 11 che propone una sorta di matrice delle coerenze. www.analisidibilancio.it 58 Il sistema degli indicatori 2011
Tavola 11 – Matrice delle coerenze fra fasi del ciclo di vita dell’impresa e andamento del R.O.I. 6.4. L’ALBERO DEL R.O.I. L’analisi della redditività operativa si qui condotta si è basata su una misura di sintesi, il R.O.I., e una serie di indici che esprimono le determinanti, ossia le causali, di tale misura. Le relazioni che avvincono i vari indicatori evidenziano la logica sistemica che ha guidato lo sviluppo di tale analisi. Questa logica emerge con evidenza dalla tavola 12, la quale riassume il sistema di indici per l’analisi della redditività operativa sviluppato lungo le sue direttrici principali: la redditività delle vendite (sintetizzata dall’indice ROS); la produttività del capitale investito (PC). Tavola 12 – L’albero del R.O.I. www.analisidibilancio.it 59 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Quarto L’ANALISI DELLA SOLIDITÀ 60 6. La gestione finanziaria e le condizioni di solvibilità 7. La solidità patrimoniale 8. La composizione del patrimonio aziendale 9. L’analisi di correlazione 10. Rischio finanziario e costo del capitale 1. LA GESTIONE FINANZIARIA E LE CONDIZIONI DI SOLVIBILITA’ L’attività operativa deve essere finanziariamente alimentata. Dopo aver adeguatamente approfondito lo studio delle condizioni di economicità operativa, l’analisi di bilancio deve, dunque, spostarsi sul “versante finanziario” della gestione. L’esame del profilo finanziario riguarda la tipicamente gestione finanziaria passiva; si tratta dell’area di gestione nella quale si raccolgono tutte le diverse operazioni di provvista dei mezzi finanziari necessari per fronteggiare i vari fabbisogni aziendali. Ovviamente, poiché raccolta e impiego dei capitali sono due facce della stessa medaglia, l’analisi della gestione finanziaria considera anche il profilo finanziario delle operazioni d’impiego dei capitali. La finalità conoscitiva perseguita è quella di misurare il grado di solvibilità dell’impresa. Con il termine solvibilità possiamo intendere la capacità dell’impresa di far fronte ai propri impegni di pagamento. La solvibilità può essere apprezzata su due piani: • liquidità; • solidità patrimoniale. Il concetto di liquidità si ricollega alla capacità dell’impresa di far fronte istante per istante ai propri impegni di pagamento; si tratta, dunque, di una solvibilità di breve termine. Il termine solidità patrimoniale si intende, invece, come all’attitudine dell’impresa di far fronte agli impegni di pagamento complessivamente e definitivamente, in un futuro non a breve. L’analisi della solvibilità mira a determinare il grado di rischio che corre chi presta soldi all’impresa. Tale rischio è definibile come rischio finanziario, inteso nell’accezione specifica di rischio di credito. In questa accezione, il rischio finanziario esprime la probabilità che l’impresa non riesca a rimborsare i propri debiti nei tempi e/o negli importi stabiliti. Guardando al rischio finanziario nei termini indicati, esso si precisa lungo due dimensioni (cfr. tavola 1): • probabilità che l’impresa non riesca ad adempiere puntualmente, alla scadenza, agli impegni di pagamento. Si tratta, dunque, di un rischio relativo ai tempi e riconducibile al profilo della liquidità. E’ questo il I argine di rischio per il finanziatore; www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
•
probabilità che l’impresa non riesca a rimborsare i capitali complessivamente ricevuti, indipendentemente dalla puntualità del rimborso. Si tratta, dunque, di un rischio relativo agli importi e legato al profilo della solidità. E’ questo il II argine di rischio per il finanziatore. Il secondo argine “assorbe” il primo. Esso, infatti, configura la condizione di rischio estrema nella quale parte dei (o tutti i) capitali con vincolo di debito non possono “comunque” essere rimborsati causando, per il finanziatore esterno, una perdita secca del denaro prestato. Il rischio finanziario, così come presentato, assume significati diversi a seconda del soggetto che è chiamato a valutarlo. Condizioni giudicate da un finanziatore esterno come molto rischiose possono essere ritenute accettabili dall’imprenditore finanziato. “Dei miei debiti”, dicono molti imprenditori, “non me ne devo preoccupare io, piuttosto se ne devono preoccupare i miei creditori”. Tavola 1 – Le dimensioni della solvibilità e del rischio finanziario Indubbiamente, il problema della solvibilità investe in primo luogo il finanziatore esterno che conferisce capitali con vincolo di debito per l’impresa. Il perché è fin troppo evidente. La questione, però, tocca direttamente e pesantemente anche gli amministratori dell’impresa. Infatti, ogni impresa, per vivere, ha bisogno di capitali di terzi. Qualunque condizione di incaglio finanziario è destinata ad allontanare dall’impresa i finanziatori, pregiudicando così lo svolgimento della gestione. La solvibilità, in sostanza, non è un problema solo di chi presta i soldi ma anche di chi, quei soldi, chiede ai terzi. 2. LA SOLIDITÀ PATRIMONIALE Muovendosi nella prospettiva delineata, l’analisi della gestione finanziaria prende le mosse www.analisidibilancio.it 61 Il sistema degli indicatori 2011
dalla verifica delle condizioni di solidità patrimoniale. L’esame delle condizioni di solidità patrimoniale si fonda sull’analisi della: • struttura patrimoniale; • struttura finanziaria. La struttura patrimoniale è rappresentata dalla composizione quali‐quantitativa del complesso degli investimenti in essere in un determinato momento nell’impresa; la struttura finanziaria, invece, è costituita dalla composizione quali‐quantitativa del complesso dei finanziamenti. Struttura patrimoniale e finanziaria, pertanto, sono sinteticamente riflesse dallo Stato Patrimoniale del bilancio di esercizio dell’impresa. L’analisi delle condizioni di solidità patrimoniale si sostanzia, pertanto, nella verifica dell’esistenza di adeguati rapporti qualitativi e quantitativi fra: • le varie categorie di investimenti; • le varie categorie di finanziamenti; • specifiche tipologie di investimenti poste in relazione a specifiche tipologie di finanziamenti. I suddetti rapporti qualitativi e quantitativi evidenziano la presenza o meno di condizioni di equilibrio della struttura e quindi di solidità patrimoniale. In concreto, l’analisi viene condotta mediante il calcolo e l’interpretazione di due categorie di indici: • indici di composizione; • indici di copertura. I dati impiegati per la costruzione degli indici di solidità patrimoniale vengono tratti dallo Stato Patrimoniale riclassificato. 3. LA COMPOSIZIONE DEL PATRIMONIO AZIENDALE Gli indici di composizione vogliono evidenziare i rapporti qualitativi e quantitativi esistenti all’interno degli impieghi di capitale, da un lato, e delle fonti di capitale, dall’altro. Essi, dunque, si articolano in due gruppi: a) indici di composizione degli investimenti o impieghi; b) indici di composizione dei finanziamenti o fonti. La composizione degli investimenti www.analisidibilancio.it 62 Il sistema degli indicatori 2011
Gli indici di composizione degli investimenti si costruiscono rapportando al capitale investito netto (CIN) le diverse categorie di investimenti. Tre tipici quozienti di composizione degli impieghi sono: capitale circolante/capitale investito netto capitale fisso operativo/ capitale investito netto investimenti finanziari/capitale investito netto Attraverso questi indici si può giudicare il grado di elasticità (o, per converso, di rigidità) degli investimenti aziendali. Questo sarà tanto maggiore, quanto più elevata è l’incidenza degli investimenti correnti sul totale degli investimenti. Una struttura patrimonialmente elastica è una struttura che può essere più agevolmente riconvertita, adattandola al mutare delle condizioni di mercato. L’esame della composizione degli impieghi può essere approfondito esaminando in dettaglio la composizione dei principali aggregati di investimenti. Si costruiscono, allora, indici del tipo: scorte/capitale investito netto crediti commerciali/capitale investito netto PP&E/capitale investito netto La composizione può essere apprezzata, con maggior dettaglio, anche all’interno dei singoli aggregati, attraverso indici del tipo: scorte/capitale circolante netto crediti commerciali/capitale circolante netto PP&E/capitale fisso operativo Quello che emerge attraverso questi quozienti è uno spaccato degli investimenti correnti e durevoli presenti nell’impresa. La composizione dei finanziamenti Gli indici di composizione dei finanziamenti si costruiscono rapportando al totale dei finanziamenti, ossia al capitale raccolto (che corrisponde al capitale investito netto), le diverse fonti di provenienza del capitale. Tipici quozienti di composizione dei finanziamenti sono: debiti finanziari netti a breve/capitale raccolto www.analisidibilancio.it 63 Il sistema degli indicatori 2011
debiti finanziari a medio‐lungo termine/capitale raccolto equity/capitale raccolto
Seguendo la logica accennata, è possibile costruire altri indici di composizione delle fonti di una qualche utilità. Per farlo basta rapportare ognuna delle diverse voci che formano gli aggregati della struttura finanziaria al totale del capitale raccolto. Attraverso tali indici si può comprendere L’esame degli indici di composizione dei finanziamenti consente, inoltre, di comprendere a quali canali l’impresa ha fatto ricorso per soddisfare il proprio fabbisogno finanziario, mettendo in evidenza il grado di rigidità (o, per converso, di elasticità) delle fonti di provenienza dei capitali; questo sarà tanto maggiore quanto più elevato risulta il peso delle fonti durevoli sul totale dei mezzi finanziari utilizzati. Analizzare il mix delle fonti offre, inoltre, preziose informazioni per interpretare l’andamento del costo dell’indebitamento. Tale costo può essere misurato attraverso il seguente indice, comunenmente denominato Return On Debt (R.O.D.): oneri finanziari netti/debiti finanziari netti medi
Come noto, il costo medio dei capitali di debito dipende largamente dalle fonti di indebitamento alle quali si attinge; le diverse fonti, infatti, presentano livelli di onerosità diversi. Nella prospettiva dell’onerosità, la forma tecnica di negoziazione risulta importante in relazione al periodo di tempo per il quale i capitali restano vincolati all’impresa. Questo perché il costo dei capitali cambia, anche sensibilmente, a seconda che questi derivino da finanziamenti negoziati a breve o a medio‐lungo termine. Nel corso del tempo, e nei diversi Paesi, i tassi a breve possono essere ora più alti, ora più bassi di quelli a medio‐lungo termine. E’ allora evidente che, a parità di indebitamento totale, la presenza nel mix dei finanziamenti utilizzati dall’impresa di una determinata categoria di fonti piuttosto che un’altra ha immediate e, talvolta, pesanti ripercussioni sul costo del debito (ROD) utilizzato dall’impresa. In questo senso, dunque, gli indici di composizione dei finanziamenti, letti alla luce della struttura dei tassi (onerosità dei tassi a breve rispetto a quelli a medio‐lungo) e della loro dinamica attuale e prospettica, offrono importanti indicazioni per giudicare il rischio di tasso sotteso alle scelte finanziarie operate dall’impresa. Ad esempio, laddove i tassi a breve siano in continuo ribasso, l’impresa può trovare conveniente puntare su una struttura finanziaria “aggressiva”. Una struttura finanziaria è tanto più aggressiva quanto più presenta uno sbilanciamento verso debiti di breve termine. Un tale sbilanciamento, pur potendo creare tensioni di liquidità, consente all’impresa di cogliere le migliori opportunità di tasso di volta in volta offerte dal mercato. Infatti, in periodi di tassi calanti, una composizione dei finanziamenti marcatamente orientata al medio‐
lungo termine, se tali finanziamenti non sono indicizzati, è inevitabilmente destinata ad accrescere il peso degli oneri finanziari sul Conto Economico e, quindi, a penalizzare la redditività prospettica dell’impresa. Ovviamente, quando si parla di finanziamenti a breve e a medio‐lungo termine, si guarda www.analisidibilancio.it 64 Il sistema degli indicatori 2011
non alla durata residua delle partite di debito ma alla loro «durata originaria». In quest’ottica, una quota di mutuo in scadenza nell’esercizio successivo, pur avendo una durata residua a breve termine, resta nella sua sostanza sempre un debito negoziato secondo le condizioni tipiche dei debiti a medio‐lungo termine e come tale, quindi, deve essere considerata. Proprio a questo fine, una corretta analisi dei riflessi della struttura finanziaria sul costo del denaro deve essere fondata sulla riclassificazione dello Stato Patrimoniale ispirata alla logica di pertinenza gestionale, nella configurazione a “capitale investito e capitale raccolto”, laddove quest’ultimo deve essere ripartito fra: indebitamento finanziario a breve termine e indebitamento finanziario a medio ‐ lungo termine. Nel concludere l’esame degli indici di composizione, sia degli investimenti che dei finanziamenti, osserviamo che la loro costruzione porta dritti alla redazione di uno Stato Patrimoniale percentuale o in common size, uno Stato Patrimoniale, cioè, che non riporta valori assoluti ma valori espressi in percentuale rispetto al totale del patrimonio aziendale (cfr. tavola 2); con la stessa finalità, le componenti dello Stato Patrimoniale possono essere espresse anche in percentuale sul valore dei ricavi. Oltre a evidenziare il peso di ogni investimento e finanziamento nella struttura aziendale, lo Stato Patrimoniale in percentuale, liberandoci dai valori assoluti, permette più facili confronti con altre aziende dello stesso settore di quella in esame; determinate tipologie di aziende, infatti, presentano tipici rapporti di composizione quanto ad investimenti correnti e fissi (cfr. tavola 3). Il grado di indebitamento e l’indice di autonomia finanziaria Fra gli indici di composizione dei finanziamenti, attenzione specifica merita l’indice detto di autonomia finanziaria, ossia: capitale netto/capitale raccolto
Questo quoziente, esprimendo il peso percentuale del capitale di rischio nella struttura finanziaria, segnala il grado di indipendenza dell’impresa da terzi finanziatori. In generale, non esiste un rapporto di indebitamento ottimale definibile a priori. Piuttosto, questo rapporto dipende in larga parte dalle relazioni che intercorrono fra tassi di profitto e tassi di onerosità dell’indebitamento. In ogni caso, quali che siano queste relazioni, vi deve essere un “tetto” oltre il quale l’indebitamento non dovrebbe mai andare. L’indice di autonomia finanziaria è interessante proprio in quest’ottica. Gli analisti finanziari, infatti, propongono per esso alcuni valori parametrici alla luce dei quali giudicare la congruità dell’indebitamento aziendale e il conseguente grado di rischio insito nella struttura finanziaria. I parametri sono individuati secondo criteri logico‐deduttivi, cosicché si rientra nel campo degli “indici mentali”. www.analisidibilancio.it 65 Il sistema degli indicatori 2011
Tavola 2 ‐ Lo Stato Patrimoniale in common size Tavola 3 – Influenza del settore di attività sulla composizione dello Stato Patrimoniale
I valori parametrici proposti sono i seguenti: 0 ‐ 0,33
0,33 ‐ 0,50 0,50 ‐ 0,66 0,66 ‐ 1 zona di rischio
zona di sorveglianza
zona di normalità
zona di crescita (eccesso di autonomia che suggerisce una politica di ricorso all’indebitamento per sostenere la crescita aziendale) www.analisidibilancio.it 66 Il sistema degli indicatori 2011
Fra i valori della tabella, si evidenzia l’intervallo compreso fra 0 e 0,33. In sostanza, un’impresa il cui capitale netto sia inferiore a un terzo del complesso degli investimenti presenterebbe elevate condizioni di rischio finanziario, rischio, cioè, di non riuscire a rimborsare i debiti contratti. Per comprendere questa affermazione dobbiamo idealmente porci nella situazione di liquidazione dell’impresa indebitata; è allora, infatti, che il problema del pagamento di tutte le posizioni debitorie diventa inderogabile: tutti i debiti dell’impresa, in pratica, vengono a scadenza e devono essere rimborsati mediante la conversione in moneta degli investimenti. In ipotesi di liquidazione, è ragionevolmente supporre che una parte del valore delle attività non venga effettivamente realizzato, manifestandosi perdite di liquidazione. Il valore di bilancio di molti elementi dell’attivo patrimoniale, infatti, è legato a una logica di funzionamento: i beni valgono in quanto parte di un complesso organizzato e funzionante. Se venduti singolarmente, quei beni possono rivelare valori anche di molto inferiori a quelli contabili loro assegnati in bilancio. Alla luce dell’esperienza è prudenziale ritenere che un buon 25‐30% del valore dell’attivo di bilancio vada perduto al momento della liquidazione; pertanto, se il capitale netto non è in grado di assorbire questa perdita, saranno i creditori dell’impresa a restare “a bocca asciutta”. Si tratta, evidentemente, di una lettura dell’indice di autonomia finanziaria basata sulla capienza del capitale netto rispetto alle perdite di liquidazione. Ovviamente, non tutti gli investimenti presenti nell’attivo aziendale subiscono perdite di liquidazione in ugual misura. Per alcuni beni, gli immobili e i titoli del debito pubblico ad esempio, la situazione è diversa. Per i primi, addirittura, si possono manifestare, al momento dell’alienazione, consistenti plusvalenze. Una forte presenza di immobili, titoli e disponibilità liquide fra gli investimenti aziendali potrebbe, pertanto, indurre ad abbassare la soglia di rischio anche al di sotto del fatidico 0,33. In questa prospettiva, l’esame del grado di autonomia finanziaria dell’impresa, e del connesso grado di rischio finanziario, va quindi integrato con l’esame della composizione degli investimenti. L’indice di autonomia finanziaria è strettamente collegato al più noto indice Debt/Equity (D/E). Il D/E è così costruito: debiti finanziari netti/capitale netto
Muovendo dall’indice di autonomia finanziaria, è agevole definire un valore parametrico di riferimento anche per questa versione del rapporto di indebitamento. Assumendo il valore soglia di 0,33 per l’indice di autonomia finanziaria, il valore soglia del D/E diventa necessariamente 2. I debiti, cioè, non devono essere più del doppio del capitale netto (CN). Infatti, quando il CN copre 1/3 dell’Attivo, i restanti 2/3 sono coperti da debiti; quindi, il rapporto debiti/capitale netto è uguale a (2/3: 1/3), ossia 2. Seguendo la logica prospettata, che vede il capitale di rischio quale “cuscinetto” di assorbimento delle potenziali perdite di liquidazione del patrimonio aziendale, è opportuno procedere a rettificare il valore contabile del capitale netto da utilizzare nell’analisi. Se i principi contabili adottati per la redazione del bilancio non lo hanno già richiesto, il netto di www.analisidibilancio.it 67 Il sistema degli indicatori 2011
bilancio deve essere decurtato degli eventuali importi relativi a: • crediti verso soci per versamenti ancora dovuti; • azioni proprie. Il perché di queste rettifiche è di tutta evidenza. I due valori corrispondono a poste meramente contabili che “gonfiano” la consistenza del capitale di rischio dell’impresa e, quindi dell’effettiva garanzia patrimoniale da questa offerta ai terzi. Mentre sull’inconsistenza patrimoniale delle “azioni proprie” non vi sono dubbi (che valore possono mai avere al momento della liquidazione aziendale azioni della stessa azienda che si sta sciogliendo?), dubbi si possono avanzare per la posta “crediti vs. soci per versamenti ancora dovuti”. Durante la vita dell’impresa il richiamo dei decimi non versati segue le norme dell’art. 2344 del C.C.. In fase di liquidazione tale richiamo si svolge secondo le norme dell’art. 2280 comma 2 del C.C. e, in caso di fallimento, dell’art. 150 della Legge Fallimentare. Tali norme, specie le ultime menzionate, offrono strumenti utilmente impiegabili per il recupero di quanto dovuto dai soci a integrazione del capitale di rischio versato. Tuttavia, specie nelle aziende di più piccola dimensione e con base sociale a carattere familiare, può essere opportuno muoversi con la massima prudenza. Infatti, la sovrapposizione fra economia dell’impresa ed economia della famiglia, molto spesso presente in queste realtà produttive, è capace di alimentare “condotte opportunistiche” dei soci a scapito degli altri stakeholder, segnatamente i finanziatori. Cosicché, all’atto pratico, il credito verso soci si può rivelare tale solo “sulla carta”, o comunque di lunga e complessa esazione, poiché i conferenti capitale di rischio potrebbero cercare, in vario modo, di sottrarre la personale residua sostanza patrimoniale alle sorti avverse dell’impresa. Ciò giustifica una riclassificazione di bilancio fortemente prudenziale che evidenzi il capitale sociale versato in luogo di quello meramente sottoscritto. Le revisioni alle quali sottoporre i valori contabili sui quali si basa il calcolo dell’indice di autonomia finanziaria non riguardano solo il capitale netto, ma anche l’indebitamento netto. In questo caso, la revisione dovrebbe mirare a scovare eventuali passività potenziali gravanti sull’impresa, ma non contabilizzate in Stato Patrimoniale. Secondo la prassi contabile nazionale, con il termine “potenziale”, riferito alle Passività, si intendono “una situazione, una condizione o una fattispecie esistenti alla data del bilancio, caratterizzate da uno stato di incertezza, le quali, al verificarsi o meno di uno o più eventi futuri, potranno concretizzarsi per l’impresa in una perdita, confermando il sorgere di una passività o la perdita parziale o totale di un’attività”. Le passività potenziali devono essere tenute presenti al momento della redazione del bilancio considerando due aspetti: • il grado di realizzazione/avveramento dell’evento futuro; • la possibilità di stimare in modo ragionevole l’ammontare delle perdite. Solo quando l’evento sfavorevole sia da giudicarsi “probabile” e l’importo della perdita da esso derivante possa essere determinato oggettivamente, almeno nella sua misura minima, le passività potenziali danno luogo all’iscrizione in bilancio di Fondi Rischi e Oneri, ossia di riserve di provvisione. Tutto questo, però, non significa che il redattore del bilancio debba ignorare eventi meramente “possibili” o probabili ma dei quali non si riesca a stimare ragionevolmente l’importo. Gli eventi di questo tipo, caratterizzati da un maggior grado di incertezza, devono www.analisidibilancio.it 68 Il sistema degli indicatori 2011
essere opportunamente segnalati ricorrendo ai: • conti d’ordine; • documenti di informazione integrativa. Si veda in particolare il punto n. 9 dell’art. 2427 del C.C. relativo alla Nota integrativa ma anche la Relazione sulla gestione specie al punto n. 2 dell’art.2428 del C.C., comma 3. Non dissimile è la disciplina dettata dai principi contabili internazionali, ancorché questi non prevedano l’informazione attraverso conti d’ordine. Esempi di fenomeni che originano passività potenziali “non contabilizzabili” in bilancio come Fondi Rischi e Oneri sono da ricondurre tipicamente a garanzie concesse a terzi, specie quelle in favore di società del gruppo. Ma non è solo su questi eventi che l’analista deve appuntare la sua attenzione. Spesso, infatti, per non appesantire il bilancio, si fanno passare per “non contabilizzabili” passività potenziali a pieno titolo iscrivibili nei Fondi Rischi e Oneri.
Tipico è il caso di contenziosi giudiziari in corso con clienti, personale o con il Fisco; di questi fatti, amministratori disinvolti si possono limitare a fornire un fugace accenno in Nota Integrativa, facendo ottimisticamente leva sulla sola “possibilità” di esito negativo della causa.
Chiaramente, il realizzarsi degli eventi che sottendono passività potenziali può influire pesantemente sulla futura situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa oggetto di analisi. A parità di attività, infatti, il manifestarsi della passività potenziale non contabilizzata determina una riduzione del capitale netto. Pertanto, ai fini di una valutazione prudenziale della garanzia offerta dal patrimonio netto dell’impresa, può essere opportuno integrare il valore dell’indebitamento. Di fatto, è come se un valore, pari a quello delle passività potenziali fatte emergere, sottratto al netto aziendale. 4. L’ANALISI DI CORRELAZIONE L’analisi di correlazione ha lo scopo di evidenziare l’esistenza di rapporti di equilibrio fra determinate categorie di investimenti e determinate categorie di finanziamenti. In sostanza, si tratta di passare da un’analisi di tipo verticale, tipica degli indici di composizione, a una di tipo orizzontale, che taglia trasversalmente lo Stato Patrimoniale mettendo a confronto fra loro determinate categorie di investimenti e finanziamenti. A tal fine si ricorre alla costruzione di indici di correlazione o copertura i quali rapportano valori relativi a determinate categorie di investimenti con valori relativi a determinate categorie di finanziamenti (cfr. tavola 4). l quoziente di copertura più significativo è quello di copertura delle immobilizzazioni. Esso intende verificare la capacità del capitale netto di coprire gli investimenti durevoli. L’idea di fondo è che l’impresa è tanto più solida patrimonialmente quanto più gli investimenti durevoli sono finanziati con capitale di rischio, capitali, cioè, per i quali non si pongono problemi di rimborso a scadenza. In termini generali, l’indice si basa sul rapporto fra capitale netto e investimenti durevoli, ossia: capitale netto/investimenti durevoli www.analisidibilancio.it 69 Il sistema degli indicatori 2011
Tavola 4 ‐ Gli indici di copertura 70 L’indice esprime una condizione che può essere apprezzata anche mediante il calcolo di un margine ottenuto come differenza, appunto, fra capitale netto e investimenti durevoli. Il margine viene comunemente definito margine di struttura. I rapporti di correlazione e i correlati margini sono ancorati all’idea del capitale di rischio come presidio di garanzia dei creditori aziendali e, dunque, fanno implicitamente riferimento all’ipotesi di liquidazione aziendale come condizione estrema per il pagamento dei debiti. In concreto, il calcolo dei margini e degli indici si può articolare per gradi, in base alla natura degli investimenti durevoli messi a confronto con il capitale netto. Si ottengono, così, varie configurazioni del margine di struttura e di indici di copertura fra loro collegate. Il capitale di rischio netto Nella prospettiva delineata, un primo confronto significativo è quello fra capitale netto e partecipazioni. Le partecipazioni che vengono considerate sono tipicamente quelle aventi carattere “economico” e non dotate di largo mercato; non, dunque, le partecipazioni puramente speculative e di agevole smobilizzo, le quali presentano caratteri non dissimili dagli altri asset finanziari. La grandezza di capitale netto ottenuta sottraendo da questo le partecipazioni viene definita capitale di rischio netto. Essa esprime l’idea di capitale di rischio che “rimane nell’impresa”. Infatti, l’impresa riceve dai suoi azionisti un certo ammontare di capitale, ma l’impresa, a sua volta, tramite l’acquisto di partecipazioni riversa parte di questo capitale in altre imprese. Ai fini del contenimento del rischio patrimoniale è, dunque, necessario che la dotazione del capitale netto sia tanto maggiore quanto più elevata è la partecipazione in altre imprese; detto con parole diverse, il rischio per i finanziatori terzi è tanto maggiore quanto più l’investimento in partecipazioni è finanziato con indebitamento. La correlazione fra equity e partecipazioni rappresenta un espediente per tenere conto dei www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
possibili rischi per i finanziatori esterni conseguenti alla compartecipazione di fatto alla gestione operativa di un’altra impresa con una sua propria struttura finanziaria e patrimoniale. Sulla base del capitale di rischio netto, ad esempio, i finanziatori di una data impresa sono spinti a riflettere circa le possibili “perdite di liquidazione” presenti negli assets delle società da questa partecipate. A ben vedere, quindi, si tratta di una grandezza utile per compiere una sorta di analisi di vulnerabilità della solidità patrimoniale dell’impresa. Un semplice esempio può aiutare a chiarire questi concetti. L’impresa A partecipa al 100% l’impresa B. L’impresa A presenta la seguente struttura patrimoniale: Società A Partecipazioni 200 CN 100
Debiti 100
In termini di solidità, l’impresa A mostra un grado di indebitamento pari a 1, ossia un indebitamento universalmente ritenuto accettabile. Si consideri, ora, la struttura patrimoniale della società partecipata B. Tale struttura sia la seguente: Società B Attività varie 1000 CN 200
Debiti 800
La società B mostra, evidentemente, un grado di indebitamento assai pesante (pari a 4) e, quindi, rischioso sia per gli azionisti che per i finanziatori. Ma la circostanza più significativa è che i finanziatori esterni di A si ritrovano a essere di fatto soci della società partecipata B. Nel capitale netto di B, infatti, sono confluiti i mezzi finanziari dei soci di A e quelli dei creditori di A. Il calcolo del Capitale di Rischio Netto avrebbe messo in luce questa circostanza, segnalando che la società A non possiede un capitale di rischio netto di ‐100. In tali condizioni, i finanziatori esterni non godono di alcuna copertura, ma ripianano una sorta di “deficit” patrimoniale. Essi, dunque, corrono tutte le alee dei portatori di capitale di rischio, come risulta chiaramente allargando l’analisi alla società B. Indubbiamente, non è sempre detto che la società partecipata sia caratterizzata da un indebitamento così elevato come quello proposto nell’esempio. Tuttavia, l’atteggiamento che si adotta al momento dell’analisi, date le finalità che tale analisi persegue, è un atteggiamento volutamente di grande prudenza. Il margine capitale di rischio netto acquista rilevanza particolare nei casi d’intenso ricorso alla leva azionaria per il controllo a cascata di società con poco capitale di rischio iniziale e quando l’impresa sta trasformandosi da impresa prevalentemente “operativa” in impresa holding. www.analisidibilancio.it 71 Il sistema degli indicatori 2011
Il capitale netto tangibile 72 Le attività immateriali sono sempre più presenti nei bilanci delle imprese. Nell’ottica della solidità, si tratta di investimenti che in varia misura possono risultare di difficile trasformabilità in moneta, dando luogo a perdite che riducono la garanzia patrimoniale offerta dal capitale netto. Le accennate difficoltà dipendono dalla natura delle attività immateriali; risultano massime nel caso di attività materiali rappresentate dalla capitalizzazione dei cosiddetti oneri pluriennali, quali spese di pubblicità e di primo impianto i quali sono privi di autonoma rilevanza tecnica, economica e giuridica che consenta una loro enucleazione e separazione dal complesso degli altri beni che formano il patrimonio aziendale. Non è un caso che i principi contabili internazionali non consentono l’iscrizione nell’attivo patrimoniale di tali valori. Anche l’avviamento non si sottrae a questa logica. Si tratta, infatti, di un valore non autonomo rispetto all’impresa alla quale è riferibile e privo di consistenza patrimoniale laddove si immaginasse di ricorre alla liquidazione per pagare i debiti dell’impresa. L’idea della inconsistenza patrimoniale appare meno fondata se, invece, si considerano altre categorie di intangibili come brevetti, progetti di R&S, marchi. Si tratta, infatti, di investimenti che possono avere un valore anche molto rilevante se alienati. Nella pratica dell’analisi finanziaria, tuttavia, normalmente si ritiene prudente che le attività in parola sia integralmente “coperte” dal capitale di rischio. Ragionando in termini di margini, si calcola il cosiddetto capitale netto tangibile, quale differenza fra il capitale di rischio netto e il totale delle attività immateriali rilevate in bilancio. Le motivazioni alla base di questa scelta radicale sono diverse, fra loro complementari: • molti beni e diritti immateriali attengono al patrimonio tecnologico dell’impresa. L’ambiente tecnologico odierno è caratterizzato da un elevato grado di turbolenza. Ciò comporta elevati rischi di obsolescenza di tali beni e diritti, che in tempi anche molto brevi divengono superati da nuove conoscenze e perdono, quindi, rilievo economico; • i beni e diritti immateriali, più ancora degli investimenti materiali, presentano, di frequente, caratteri di marcata specificità. Al di fuori del loro contesto competitivo originario, tali beni non hanno capacità di produrre flussi reddituali positivi, o la hanno molto ridotta. Ciò ne rende difficile, se non impossibile, l’impiego in imprese operanti in altri ambiti competitivi. La specificità dell’investimento è talvolta così spinta che sovente l’analista esterno non è in grado di valutare in modo approfondito la congruità economica dei beni e diritti immateriali posseduti dall’impresa a causa della loro natura “esoterica”. Si pensi, ad esempio, a valori riconducibili a scorte di diritti di opzione su tratte aeree o stanze d’albergo o relativi a pacchetti software. La specificità e particolarità degli investimenti immateriali solleva, infine, questioni di asimmetria innovativa. Infatti, molti degli investimenti appartenenti a quest’area sono investimenti in conoscenza. Il loro sfruttamento economico risulta sempre più difficile e limitato da parte di chi quelle conoscenze non ha prodotto direttamente, ma le ha acquisite da terzi: una www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
fetta importante del sapere resta inevitabilmente nell’impresa nella quale le conoscenze furono prodotte. Le condizioni accennate suggeriscono di valutare la consistenza patrimoniale degli asset immateriali in una prospettiva di più ampio respiro, guardando alla congiuntura economico‐
finanziaria delle arene competitive nelle quali opera l’impresa oggetto di analisi. E’, infatti, evidente che le condizioni di asimmetria innovativa e di marcata specializzazione degli investimenti risultano meno penalizzanti nel caso in cui i beni immateriali possano essere ceduti a imprese che già operano nello stesso ambito competitivo. Pertanto, laddove tale ambito sia caratterizzato da generalizzati fenomeni recessivi, i rischi riconducibili al possesso di intangibili specifici saranno più elevati; ben difficilmente, infatti, le altre imprese concorrenti, in quanto afflitte da problemi economici e/o finanziari, potranno proporsi come acquirenti dei beni immateriali offerti, specie se a prezzi in linea con il loro effettivo valore d’uso. L’utilità di assumere nell’analisi una configurazione tangibile del capitale netto, si spiega anche considerando che le logiche di capitalizzazione di tali costi spesso differiscono da impresa a impresa e, nella stessa impresa, da tempo a tempo. Al fine di ottenere un valore omogeneo e confrontabile del capitale di rischio, è allora opportuno procedere a una loro eliminazione.2
La copertura delle immobilizzazioni tecniche La verifica della copertura offerta dal capitale netto rispetto alle immobilizzazioni si può estendere all’intero ammontare degli investimenti strutturali operativi, comprendendo anche le immobilizzazioni tecniche materiali (PP&E). In questo senso, molto diffuso è l’indice di copertura delle immobilizzazioni tecniche espresso dal seguente rapporto: capitale netto/ investimenti strutturali operativi Coerentemente con la logico sin qui seguita, l’interpretazione dell’indice è agevole: tanto più il margine tende verso valori positivi, tanto più l’impresa esprime moderati livelli di rischio finanziario (secondo argine di rischio). Il ragionamento alla base di questa interpretazione può essere riassunto nei seguenti termini. Se le immobilizzazioni tecniche non fossero finanziate con capitale netto, dovrebbero esserlo con finanziamenti di terzi. I finanziamenti di terzi ai quali fare ricorso sono di due ordini: •
•
finanziamenti a breve (es. anticipazione bancaria a scadenza fissa); finanziamenti a medio‐lungo termine (es. mutui passivi). Poniamoci, ora, nella posizione del finanziatore esterno e verifichiamo il rischio sotteso a 2) A questo proposito è significativo notare che le imprese con più alta redditività presentano il minor peso di costi per attività immateriali capitalizzati in bilancio. Esse, infatti, trovano conveniente “spesare” tali oneri a Conto Economico, utilizzandoli come scudo fiscale per ridurre il reddito imponibile e pagare, così, meno imposte. Di contro, le imprese in perdita o con risultati ritenuti non soddisfacenti trovano nella capitalizzazione di tali costi uno strumento per migliorare apparentemente il loro profilo economico e/o precostituire costi deducili in futuri esercizi più fortunati. www.analisidibilancio.it 73 Il sistema degli indicatori 2011
entrambe le soluzioni. Nel caso di impiego di debiti a breve termine, il rimborso a scadenza del debito è sostanzialmente subordinato a due possibilità: • sostituzione dell’attivo. Si tratta, cioè, di convertire in moneta le immobilizzazioni; • sostituzione del passivo. Si tratta di contrarre un nuovo debito almeno di pari importo a quello in scadenza. E’ evidente come la prima soluzione non sia praticabile. Gli effetti sulla produzione dell’impresa sarebbero devastanti, senza dire delle alee legate alla liquidazione di tali beni. Anche la seconda soluzione, comunque, è fortemente rischiosa, subordinata com’è alla possibilità di trovare, nei tempi, un ulteriore finanziamento di pari importo. Nel caso, dunque, di copertura del fabbisogno finanziario suscitato dalle immobilizzazioni ricorrendo a debiti a breve, la condizione di rischio è di assoluta evidenza. Passando alla seconda ipotesi di finanziamento, l’opportunità di correlare immobilizzazioni tecniche e debiti a medio‐lungo termine come i mutui nascerebbe dal fatto che il ciclo finanziario delle prime appare in sintonia con quello dei secondi. Come noto, le immobilizzazioni ritornano in forma monetaria gradualmente mediante il processo di ammortamento. La quota di ammortamento, infatti, rappresenta un costo non monetario che, come tale, determina la formazione di un flusso di cassa positivo. D’altro canto, il mutuo viene gradualmente rimborsato attraverso il pagamento di rate periodiche. Esisterebbe, allora, la possibilità di correlare opportunamente la rata di rimborso del mutuo con la quota di ammortamento delle immobilizzazioni. La condizione di equilibrio prospettata, tuttavia, è precaria e, di conseguenza, rischiosa per il mutuante. In primo luogo, infatti, è necessario che la durata del prestito sia sostanzialmente pari a quella di sfruttamento delle immobilizzazioni. Ora, però, sulla durata delle immobilizzazioni grava la spada di Damocle dell’obsolescenza. Quando questa si manifesta, le immobilizzazioni non sono più in grado di produrre flussi di ricavi che coprano i costi diretti della produzione e quindi gli ammortamenti. La questione accennata si pone in termini ancor più generali, a prescindere dall’obsolescenza. Qualora, infatti, l’impresa affidata incontri difficoltà economiche, e abbia una conseguente riduzione nel flusso dei ricavi, i primi costi a non trovare copertura sono gli ammortamenti, proprio in quanto costi non monetari; nessuno busserà alla porta dell’impresa chiedendone il pagamento! Ma non basta. Non è possibile dimenticare che il flusso di cassa legato agli ammortamenti è pur sempre un flusso di cassa potenziale e non reale. Molto dipende dalla dinamica del Capitale Circolante Netto Commerciale, ossia dal fabbisogno finanziario suscitato dal ciclo operativo, il quale incide direttamente sulla liquidità potenziale prodotta dalla gestione corrente, giungendo anche ad assorbirla completamente. Oltre a ciò, occorre considerare che, in un’impresa sana, il valore netto delle immobilizzazioni tecniche, specie materiali, tende a restare costante o preferibilmente tende a www.analisidibilancio.it 74 Il sistema degli indicatori 2011
crescere in quanto i rinnovi o pareggiano o superano gli ammortamenti e le dismissioni. Di contro, a causa dei rimborsi, l’importo del mutuo tende gradualmente a ridursi. Pertanto, se l’impresa intende finanziare le immobilizzazioni ricorrendo prevalentemente a mutui, è necessario che anche l’importo dell’indebitamento a lungo termine si mantenga costante o cresca parallelamente alle immobilizzazioni. Questo, però, è possibile solo se l’impresa riesce tempestivamente a contrarre nuovi prestiti per cifra uguale, o in proporzione costante, al costo delle immobilizzazioni e per durata coincidente con la loro utilizzazione. In conclusione, accettando di pareggiare tutti i costi di rinnovo e di ampliamento delle immobilizzazioni e subordinando il rimborso dei prestiti concessi al processo di ammortamento, il mutuante verrebbe di fatto a operare come un conferente di capitale proprio, soggetto a tutti i rischi della gestione, senza goderne gli utili. Un finanziatore razionale dovrebbe evidentemente rifiutare una tale situazione, negoziando mutui solo per valori e durate inferiori a quelli degli investimenti, così da scontare, almeno in parte, le condizioni di rischio insite nell’operazione. Vi è, infine, un’ultima circostanza che depone a favore di una piena copertura delle immobilizzazioni tecniche. Una tale copertura consente all’impresa di sfruttare l’effetto di autofinanziamento dovuto al processo di ammortamento. Con un margine di struttura positivo, cioè, la liquidità creata non viene drenata dal servizio del debito. Tale liquidità, quindi, se opportunamente gestita, rende più agevole e rapido il graduale rinnovo e sviluppo delle immobilizzazioni, svincolando l’impresa dalle congiunture, talvolta negative, attraversate dal mercato finanziario. Queste brevi osservazioni suggeriscono che, salvo oscillazioni temporanee nel valore delle immobilizzazioni nette, l’impresa può sopravvivere e svilupparsi in condizioni di equilibrio quanto più alta è la proporzione fra capitali propri e investimenti durevoli. Indubbiamente, nella realtà delle imprese italiane ben raramente si riscontra una tale situazione. Il valore soglia di uno, pertanto, va inteso come valore tendenziale: si giudicherà la struttura finanziaria tanto più rischiosa quanto maggiore è il peso dell’indebitamento utilizzato per finanziare le immobilizzazioni. Con questa logica, si calcola anche il quoziente: (capitale netto + debiti finanziari a medio‐lungo)/investimenti durevoli Il quoziente, definito tasso di copertura delle attività immobilizzate, vuole verificare in che misura il fabbisogno finanziario durevole, espresso dal totale delle immobilizzazioni, è coperto con fonti di finanziamento aventi analoga durata. Per questo quoziente si propongono valori parametrici senz’altro superiori a uno. Superiori a uno perché, come noto, una parte degli investimenti correnti, di fatto origina un fabbisogno finanziario durevole; si pensi, in proposito, alle scorte vincolate di magazzino. E’, quindi, necessario che le fonti durevoli di capitale non si limitino a coprire le sole immobilizzazioni ma, in una qualche misura, concorrano alla copertura anche della quota di immobilizzazioni “nascosta” nel capitale circolante. In che misura, dipende da diversi fattori; fra questi, il tasso di rotazione degli investimenti correnti: più lenta è la loro velocità di circolazione, più gli investimenti correnti si rivelano immobilizzazioni, e quindi più è necessario che www.analisidibilancio.it 75 Il sistema degli indicatori 2011
le fonti durevoli concorrano alla loro copertura. 5. RISCHIO FINANZIARIO E COSTO DEL CAPITALE L’analisi della solvibilità dell’impresa è volta a valutare il rischio finanziario, ossia la componente del grado di rischio legata alle condizioni finanziarie della gestione. Individuati gli indici di solvibilità che esprimono i livelli di rischio finanziario dell’impresa, si tratta, allora, di incorporare tali indici nel costo del capitale, una delle due variabili dalle quali dipende il valore fondamentale di ogni impresa. Nel caso di determinazione del valore fondamentale mediante attualizzazione dei flussi operativi, il costo del capitale è espresso dal WACC, ossia dal costo medio ponderato delle due fonti di capitale impiegate per realizzare gli investimenti operativi (COIN): l’equity e i debiti finanziari. Se l’attualizzazione riguarda il solo free cash flow to equity, allora, il costo del capitale è relativo al solo equity. E’, peraltro, chiaro che il WACC comprende anche il costo dell’equity. Come noto, la formula di determinazione del WACC è la seguente: WACC = Kd x (1‐T) x (D/D+E) + Ke x (E/D+E) con: Kd = costo del capitale di credito T = aliquota di imposta DB = capitale di crediti E = capitale di rischio (equity) Ke = costo del capitale di rischio Le due variabili chiave sono, evidentemente, Ke e Kd; i restanti valori inclusi nella formula esprimono, infatti, solo i pesi necessari per ponderare i due “costi” in ragione del rilievo che le fonti di finanziamento, alle quali questi si riferiscono, hanno nella struttura finanziaria dell’impresa. Senza entrare nello specifico di temi che pertengono alla finanza aziendale, e per i quali si rimanda a ogni buon manuale in materia, entrambe le voci di costo del capitale presentano due componenti: • un rendimento offerto da investimenti senza rischio (risk free); • un premio per il rischio, il quale dipende dal grado di variabilità dei rendimenti probabili dell’investimento rispetto a quello atteso (risk premium). Come già indicato, alla base del premio per il rischio, si ritrovano tre fattori (cfr. tavola 5): • la variabilità dei ricavi all’andamento dell’economia, da cui la componente del rischio denominata rischio di mercato; www.analisidibilancio.it 76 Il sistema degli indicatori 2011
• la variabilità dei margini operativi al variare dei ricavi, da cui la componente del rischio denominata rischio operativo che trova la sua determinante nella struttura dei costi; • la capacità dell’impresa di far fronte ai propri impegni di pagamento, da cui la componente del rischio denominata rischio finanziario o di insolvenza, che trova la sua determinante nella struttura finanziaria dell’impresa. Tavola 5 – Le componenti del rischio Mentre il costo del capitale di rischio (Ke) è influenzato prevalentemente dalle prime due componenti, quello del capitale di debito (Kd) dipende largamente dall’ultima. I tre fattori di rischio sono, tuttavia, interrelati. La solvibilità, infatti, non può prescindere dalla capacità dell’impresa di generare adeguati flussi monetari a livello operativo; e, questi ultimi, risentono delle condizioni di rischio operativo della gestione. Così pure, la solvibilità interessa anche i portatori del capitale di rischio, in quanto un indebitamento consistente accresce il peso degli oneri finanziari nel Conto Economico dell’impresa, rendendo il reddito netto più sensibile alle variazioni del risultato operativo. Solvibilità e costo del debito L’effetto delle prime due condizioni di rischio (di mercato e operativo) è stato considerato esaminando le determinanti della redditività operativa e la struttura dei costi dell’impresa. Si tratta, dunque, di iniettare nel costo del debito e dell’equity la rischiosità derivante dalle scelte finanziarie della gestione. A questo fine, si consideri, anzitutto, il costo del debito (Kd). Come ricordato, tale costo presente una componente risk free (Rf) e un premio per il rischio. La componente Rf può essere stimata considerando il rendimento corrente di finanziamenti a lungo termine senza rischio. www.analisidibilancio.it 77 Il sistema degli indicatori 2011
Poiché, di fatto, finanziamenti senza rischio non esistono, si considerano tali quelli rappresentati da titoli di debito pubblico emessi stati sovrani caratterizzati da condizioni economiche molto solide, che, dunque, non sollevano ragionevoli dubbi di solvibilità. Il premio per il rischio, in questo contesto definito rischio di credito, deve, invece, riflettere i rendimenti a scadenza di finanziamenti a lungo termine negoziati da imprese appartenenti alla medesima classe di rischio di quella oggetto di analisi. Si impiega, dunque, il concetto di Yeld to Maturity (YTM). Lo YTM è il tasso implicito di rendimento di un particolare titolo (bond) qualora non lo si liquidi prima della sua scadenza sul mercato secondario ma lo si mantenga sino alla sua scadenza (redemption date). Esso corrisponde al tasso interno di rendimento (IRR) del titolo, ovvero al tasso per cui il valore attuale dei flussi di cassa (NPV) del titolo è pari a 0. Il confronto fra il tasso YTM con il tasso risk free individua il premio per il rischio di solvibilità riferibile a quella classe di rischio. I rendimenti a scadenza (YTM) negoziati dalle imprese sono individuabili sul mercato. Sorge, tuttavia, la necessità di disporre di una preliminare graduazione delle imprese in classi, in base al loro livello di rischio di solvibilità. La graduazione è fornita dalle società di rating. Attraverso la procedura di rating l’impresa viene valutata in base al suo grado di solvibilità e classificata secondo una scala di merito graduata. Nel panorama internazionale, esistono diverse agenzie di rating e, di conseguenza, varie scale di graduazione (cfr. tavola 6). Le agenzie più note sono: • Standard & Poor’s • Moody’s • Fitch IBCA • AM Best Tavola 6 – Scale di rating www.analisidibilancio.it 78 Il sistema degli indicatori 2011
L’attribuzione del rating è un processo complesso che implica la considerazione di molteplici variabili quali: settore di attività, dimensioni dell’impresa, strategie adottate, risultati di bilancio. Ai fini del giudizio finale, i valori assunti dagli indici di bilancio rivestono notevole importanza, tant’è che è possibile, mediante la consultazione dei criteri impiegati dalle società di rating nell’attribuzione del loro giudizio, ricostruire le correlazioni fra livello di alcuni indici di bilancio e classi di rating. In questa prospettiva, gli indici di solvibilità giocano un ruolo chiave. La tavola 7, ad esempio, evidenzia la correlazione fra livelli dell’indice di indebitamento, tipico indice di solidità patrimoniale, e classi di rating impiegate da Standard & Poor’s. Emerge, così, che le imprese collocate nella classe AAA, quella caratterizzata dal minor livello di rischio di credito, presentano valori del D/E non superiori al 12%. Tavola 7 – Rating e grado di indebitamento All’atto pratico, dunque, il percorso che si prospetta è il seguente: • calcolo degli indici espressivi del rischio di solvibilità dell’impresa esaminata; • riconduzione del valore degli indici a una classe di rating; • individuazione di emissioni di titoli di debito di imprese appartenenti a quella classe di rating; • determinazione del YTM di tali emissioni; • misurazione del premio per il rischio come scarto fra lo YTM in precedenza determinato e il tasso risk free. Solvibilità e costo dell’equity Il rapporto di indebitamento interpretato come “effetto cuscinetto” rispetto alle perdite per insolvenza esprime una concezione di rischio finanziario che riguarda prevalentemente i creditori. Il grado di indebitamento influenza, però, il grado di variabilità dei redditi correnti, trasferendo www.analisidibilancio.it 79 Il sistema degli indicatori 2011
così il rischio finanziario anche agli azionisti. Gli oneri finanziari che derivano dall’indebitamento, infatti, gravano come costi fissi sul Conto Economico e rendono il reddito corrente più sensibile alle variazioni del reddito operativo. La reattività del reddito corrente alle variazioni del reddito operativo è espressa dall’indice del grado di leva finanziaria (GLF): margine operativo netto/reddito corrente Moltiplicando la variazione del risultato operativo (MON) per GLF si ottiene l’intensità della correlata variazione del reddito corrente ante imposte (RC), ossia: % variazione MON X GLF = % variazione RC Verifichiamo quanto detto con un semplice esempio. Si vedano i dati riportati in Tabella 1 e si ipotizzi una riduzione del MON del 10%. Tabella 1 – Effetto di leva finanziaria Azienda Alfa
MON Oneri finanziari
Reddito Corrente
Anno x
40
20
20
I dati della tabella evidenziano un grado di leva finanziaria dell’impresa pari a 2. Con un tale grado di leva, una variazione del MON del 10% produce una variazione del risultato ordinario del 20%. Infatti, restando gli oneri finanziari sostanzialmente invariati a fronte di un MON sceso a 36, si avrà un reddito corrente di 16, cioè il 20% in meno. L’esempio evidenzia che più alto è il grado di leva finanziaria più alta è la variabilità del reddito corrente rispetto a quello atteso. Se interpretiamo il concetto di rischio come ampiezza della distribuzione di probabilità dei possibili valori assunti da una data grandezza, allora, il GLF, così come prospettato, può essere assunto a indicatore del grado di rischio finanziario, o, più correttamente, di quanto il rischio d’impresa è riconducibile alla componente finanziaria della gestione (cfr. tavola 8). La leva finanziaria misura, dunque, l’influsso che una data combinazione di fonti di finanziamento (di terzi e di rischio) esercita sulla redditività complessiva dell’azienda: da qui il termine “finanziaria” assegnato a questa nozione di leva. È, inoltre, evidente che l’effetto di leva è tanto più intenso quanto più consistente è l’ammontare degli oneri finanziari nel Conto Economico. La consistenza di tale ammontare dipende, a sua volta, da due condizioni: • il livello di indebitamento; • il costo dell’indebitamento. www.analisidibilancio.it 80 Il sistema degli indicatori 2011
Verificato che il rischio finanziario interessa anche chi investe in equity, si tratta di incorporare il GLF, o meglio il livello di indebitamento dal quale questo dipende, nel costo del capitale di rischio Ke. Tavola 8 – Variabilità del reddito corrente e GLF Anche per il Ke, cruciale è la stima del premio per il rischio. Le strade da seguire per quantificare questa componente sono diverse. Quella più largamente diffusa trae questa informazione dal mercato. Si fa per solito riferimento al rendimento medio, in un dato arco di tempo, di un ampio portafoglio titoli azionari debitamente diversificati. Il confronto fra tasso risk‐
free e rendimento di mercato (Rm) dell’investimento azionario configura il cosiddetto rendimento eccedente, ossia il premio medio accordato dal mercato per il rischio imprenditoriale. Ogni azienda e, prima ancora, ogni settore sono, però, caratterizzati da proprie condizioni operative che possono accentuare o ridurre la rischiosità rispetto alla media del mercato. Il rendimento eccedente viene quindi corretto moltiplicandolo per un coefficiente, il coefficiente Beta. Vale, dunque, la seguente espressione: Ke = Beta x (Rm – Rf) Il Beta esprime la maggior o minor variabilità del rendimento del capitale investito nell’azienda, o nelle aziende di un dato settore, rispetto al rendimento medio offerto dal mercato. Insomma, il Beta ci dice se l’azienda, o il settore in cui essa opera, presenta un grado di rischio superiore o inferiore rispetto alla media di mercato azionario. In concreto, il Beta viene calcolato impiegando tecniche statistiche di regressione applicate a serie storiche di dati di rendimento dei titoli dell’azienda in esame o delle aziende di un dato settore e serie storiche di rendimento di un portafoglio diversificato di titoli. Esso risulta come: (covarianza fra rendimenti titolo e portafoglio di mercato)/varianza rendimenti portafoglio www.analisidibilancio.it 81 Il sistema degli indicatori 2011
Se Beta risulta uguale a uno, ciò significa che l’azienda oggetto di analisi presenta un grado di rischio analogo a quello di mercato; per valori di Beta superiori a uno, il rischio dell’impresa è più alto di quello di mercato; viceversa, nel caso di beta minore di uno. I valori di Beta e di rendimento eccedente sono calcolati da società di informazione finanziaria e resi disponibili agli operatori e agli analisti attraverso la consultazione dei loro siti, spesso a pagamento. Bloomberg, ad esempio, offre informazioni di questo genere. Solitamente, i Beta vengono calcolati per settore di attività e con riferimento a mercati finanziari di determinate aree geografiche; anche il rendimento eccedente fa riferimento a determinati mercati. Si possono, così, avere valori relativi al mercato nord‐americano, a quello italiano e così via. I beta di settore incorporano le condizioni di rischiosità di mercato e operativa proprie di quell’ambito di attività; condizioni da ritenere comuni a tutte le imprese che si muovono in tale ambito competitivo, atteso che tali imprese condivideranno alcuni aspetti di fondo che caratterizzano l’organizzazione e la tecnologia dei loro processi, oltre alla ciclicità rispetto agli andamenti congiunturali. I beta di settore, invece, sono unlevered, ossia non tengono conto delle condizioni di rischio finanziario, atteso che queste sono proprie e specifiche di ogni singola impresa, derivando dalle politiche di indebitamento da questa seguite. Per calcolare il Ke di una data impresa, dunque, occorre correggere il beta unlevered del settore al quale l’impresa opera, trasformandolo in beta levered, che considera i livelli di rischio finanziario della gestione. Tale correzione viene compiuta mediante la seguente formula: Beta unlevered = Beta unlevered x [ 1+ (1‐t) x D/E ] La formula mette in chiara evidenza il ruolo del grado di solidità patrimoniale dell’impresa nella determinazione del costo del capitale di rischio, ruolo espresso dall’indice D/E. In tal modo, dunque, si realizza l’obiettivo di incorporare i livelli di rischio segnalati dagli indici di solidità patrimoniale anche nella componente equity del costo del capitale. La miglior garanzia della solvibilità dell’impresa deriva, in ogni caso, dai flussi reddituali della gestione operativa e dai correlati flussi di cassa. Sono queste le risorse immediatamente disponibili per servire i debiti. Il costo del capitale è, dunque, influenzato anche dalle condizioni di liquidità alle quali è dedicata il prossimo capitolo. www.analisidibilancio.it 82 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Quinto L’ANALISI DELLA LIQUIDITÀ 83 9. Le condizioni di solvibilità e la liquidità 10. Lo Stato Patrimoniale finanziario 11. Il capitale circolante netto finanziario e la liquidità generale 12. Il margine di tesoreria e la liquidità immediata 13. La durata del ciclo monetario 14. Il fabbisogno finanziario del ciclo operativo e le modalità di suo finanziamento 15. l’analisi dinamica della liquidità e il rendiconto finanziario 16. l’analisi del flusso di cassa della gestione operativa corrente 8,1. l’analisi dell’autofinanziamento 8.2. L’analisi del capitale circolante 1. LE CONDIZIONI DI SOLVIBILITÀ E LA LIQUIDITÀ Con il termine solvibilità si intende la capacità dell’impresa di far fronte ai propri impegni di pagamento. La solvibilità può essere apprezzata su due piani: • liquidità; • solidità patrimoniale. Il concetto di liquidità si ricollega alla capacità dell’impresa di far fronte istante per istante ai propri impegni di pagamento; si tratta, dunque, di una solvibilità di breve termine. Il termine solidità patrimoniale si intende, invece, come all’attitudine dell’impresa di far fronte agli impegni di pagamento complessivamente e definitivamente, in un futuro non a breve. L’analisi della solvibilità mira a determinare il grado di rischio che corre chi presta soldi all’impresa. Tale rischio è definibile come rischio finanziario, inteso nell’accezione specifica di rischio di credito. In questa accezione, il rischio finanziario esprime la probabilità che l’impresa non riesca a rimborsare i propri debiti nei tempi e/o negli importi stabiliti. Guardando al rischio finanziario nei termini indicati, esso si precisa lungo due dimensioni: • probabilità che l’impresa non riesca ad adempiere puntualmente, alla scadenza, agli impegni di pagamento. Si tratta, dunque, di un rischio relativo ai tempi e riconducibile al profilo della liquidità. E’ questo il I argine di rischio per il finanziatore; • probabilità che l’impresa non riesca a rimborsare i capitali complessivamente ricevuti, indipendentemente dalla puntualità del rimborso. Si tratta, dunque, di un rischio relativo agli importi e legato al profilo della solidità. E’ questo il II argine di rischio per il finanziatore. Il secondo argine “assorbe” il primo. Esso, infatti, configura la condizione di rischio estrema nella quale parte dei (o tutti i) capitali con vincolo di debito non possono “comunque” essere rimborsati causando, per il finanziatore esterno, una perdita secca del denaro prestato. Ciò non www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
toglie che l’economico funzionamento dell’impresa presupponga la capacità di questa di far fronte con le proprie entrate alle uscite derivanti dagli impegni di pagamento. La mancanza di questa condizione qualifica sicuramente l’impresa come insolvente. La liquidità, infatti, è una “occorrenza tecnica” imprescindibile, un presupposto perché la gestione si possa svolgere; da qui, la necessità di ricercarla costantemente, anche mediante il ricorso al contributo dei finanziatori. Questi ultimi, in ogni caso, se da un lato guardano al grado di solidità patrimoniale dell’azienda, dall’altro sono sicuramente interessati alla capacità futura dell’impresa di generare i mezzi monetari necessari per assicurare il servizio dei capitali che essi hanno fornito all’impresa. L’analisi delle condizioni di liquidità dell’impresa può essere condotta seguendo due vie: • analisi statica; • analisi dinamica. L’analisi statica si basa sul confronto di stock patrimoniali opportunamente individuati; quella dinamica si traduce, invece, nell’esame dei flussi e deflussi di cassa nel corso del tempo. 2. LO STATO PATRIMONIALE FINANZIARIO L’analisi di liquidità condotta mediante l’esame delle relazioni fra stock patrimoniali presuppone di sottoporre lo Stato Patrimoniale a una riclassificazione finalizzata a tale scopo che si traduce in uno Stato Patrimoniale configurato in senso finanziario. A tal fine, le poste dello Stato Patrimoniale vengono rilette guardando alla “facilità” con la quale possono dare luogo a movimenti di moneta. In altre parole: • le poste di attivo, ossia, gli investimenti, vengono esaminati considerando la loro attitudine a procurare mezzi finanziari; • le poste del passivo, ossia i finanziamenti, vengono esaminati considerando la loro attitudine a richiedere mezzi finanziari. E’ evidente una sorta di inversione rispetto alla logica di costruzione dello Stato Patrimoniale del bilancio ordinario di esercizio; lì, infatti, gli investimenti sono visti come le determinanti del fabbisogno finanziario, mentre i finanziamenti rappresentano le fonti alle quali si è fatto ricorso per fronteggiare tale fabbisogno. Nello Stato Patrimoniale finanziario, al contrario, è l’esigenza di rimborso dei finanziamenti che genera fabbisogno finanziario, fabbisogno per coprire il quale si guarda alla possibilità di conversione in moneta degli investimenti. Le attività diventano, così, la potenziale fonte di copertura delle passività. In concreto, muovendosi in un’ottica di liquidità, “facilità” di trasformazione in moneta significa: • in tempi brevi; www.analisidibilancio.it 84 Il sistema degli indicatori 2011
• mantenendo l’impresa in funzionamento. Quanto ai tempi, l’equilibrio di liquidità dovrebbe essere verificato “istante per istante”. Indubbiamente, però, una misurazione istante per istante dei tempi di conversione monetaria delle poste patrimoniali non è realisticamente possibile utilizzando i dati di bilancio. Si ripiega, pertanto, su un intervallo di tempo convenzionalmente breve, il quale costituisce un’approssimazione dell’istantaneità. Il tempo breve è di solito fatto pari a 12 mesi. Secondo questo criterio, la separazione fra poste facilmente o difficilmente ritrasformabili in moneta avviene considerando “facilmente” trasformabili in moneta quelle poste il cui ciclo di ritorno in forma monetaria è inferiore o al più uguale all’anno. Si tratta di un periodo di riferimento del tutto convenzionale, così come spesso convenzionale è l’identificazione delle poste che vengono ritenute facilmente monetizzabili. Ad esempio, le scorte di magazzino sono generalmente considerate investimenti facilmente monetizzabili; questo perché si parte dal presupposto che normalmente le materie prime siano trasformate in prodotti e i prodotti finiti siano venduti, e quindi ricondotti in moneta, una o più volte nell’arco dei dodici mesi. La più o meno agevole trasformabilità in moneta, quale che sia il tempo breve assunto a riferimento, deve avvenire mantenendo l’impresa in funzionamento; la trasformazione, cioè, non deve pregiudicare la possibilità dell’impresa di continuare a funzionare in modo economico. E’ questa la logica detta del going concern. La questione sollevata è rilevante sul piano applicativo. Essa riguarda in particolar modo la riclassificazione delle poste di Attivo. Fra queste, infatti, vengono considerate “facilmente” ritrasformabili in moneta quelle che: • ritornano naturalmente in tale forma entro il periodo di riferimento prescelto. Naturalmente nel senso che il ciclo di ritorno in moneta della posta è di suo pari o inferiore all’intervallo temporale prescelto; • possono essere forzatamente trasformate in moneta entro lo stesso periodo. Forzatamente nel senso che si tratta di poste che hanno un ciclo naturale di ritorno in moneta superiore all’anno. Tale ciclo, tuttavia, attraverso uno specifico intervento diretto, può essere abbreviato. L’accorciamento forzato del tempo di ritorno in monetario non deve, tuttavia, pregiudicare la capacità dell’impresa di continuare a svolgere in futuro la sua funzione produttiva in modo economico. Così, ad esempio, se l’impresa ha impiegato parte delle sue disponibilità liquide in obbligazioni, queste sono, nel complesso, investimenti con un ciclo monetario naturalmente superiore all’anno. Tuttavia, se le obbligazioni sono state emesse da una società quotata e sono largamente negoziabili, il ciclo di ritorno dell’investimento può essere accorciato forzatamente mediante l’alienazione sul mercato mobiliare. Se invece di obbligazioni si trattasse di partecipazioni di controllo in altre aziende, aventi importanza strategica, le cose cambiamo profondamente. Anche se possono essere trasformate in moneta in tempi brevi (perché, ad esempio, tali partecipazioni sono molto redditizie e hanno un largo mercato), il problema critico è www.analisidibilancio.it 85 Il sistema degli indicatori 2011
quello dei gravi danni che la vendita di un tale componente patrimoniale presumibilmente recherebbe all’economia dell’impresa, pregiudicandone il futuro funzionamento. Seguendo la logica illustrata, i valori di Stato Patrimoniale vengono raccolti all’interno di alcune macro‐classi o zone. Ogni zona rappresenta una sorta di contenitore dentro il quale collocare valori con caratteristiche omogenee rispetto al criterio guida che ispira il modello, ossia valori che possono dar luogo, più o meno facilmente, a entrate o uscite monetarie. In questo senso, i valori di attivo patrimoniale sono ripartiti in due grandi zone che riflettono i diversi orizzonti temporali di trasformazione monetaria delle poste, in condizioni di funzionamento: • attività correnti (AC) o capitale circolante lordo. Sono formate da tutti quei valori di attivo patrimoniale che rappresentano investimenti “facilmente” convertibili in moneta; • attività immobilizzate (AI) o capitale fisso. Sono formate da tutti quei valori di attivo patrimoniale che rappresentano investimenti “difficilmente” convertibili in moneta. Per quanto concerne il passivo patrimoniale, in accordo con la logica seguita per i valori attivi, questo è, a sua volta, distinto in due zone: • passività correnti (PC). Sono formate da tutti quei valori di passivo che rappresentano finanziamenti, diretti o indiretti, destinati a essere rimborsati nel breve termine o aventi scadenza indeterminata, ma soggetti a “revoca”; • capitali permanenti (CP). Sono formati da tutti quei finanziamenti durevolmente vincolati all’impresa e che, come tali, non suscitano impegni di rimborso nel breve termine All’interno dei capitali permanenti, volendo, è possibile operare un’ulteriore distinzione fra: • passività differite (PD) o consolidate. Sono formate da valori di “passivo in senso stretto”, ossia valori patrimoniali i quali esprimono, sostanzialmente, debiti contratti dall’impresa. Le PD rappresentano, pertanto, impegni di pagamento che l’impresa è chiamata a fronteggiare nel medio‐lungo termine; • capitale netto (CN). Il capitale netto non è passivo in senso stretto. Esso rappresenta, invece, il concorso del soggetto economico al finanziamento dell’impresa. Pertanto, non esprime capitale acquisito con vincolo di debito bensì con vincolo di pieno rischio. Per tale finanziamento non è previsto, se non in casi del tutto particolari e limitati, il rimborso durante il funzionamento dell’impresa. Da qui, la sua collocazione a pieno titolo fra i capitali permanenti La tavola 1 riassume ed esemplifica il modello di Stato Patrimoniale sin qui sinteticamente descritto. Le zone possono essere disposte secondo un criterio di liquidità decrescente (current first) o di liquidità crescente (fixed first). www.analisidibilancio.it 86 Il sistema degli indicatori 2011
3. IL CAPITALE CIRCOLANTE NETTO FINANZIARIO E LA LIQUIDITÀ GENERALE L’esame dello Stato Patrimoniale finanziario rivela che le zone chiave di tutto il modello di ricalssificazione, nell’ottica della liquidità sin qui seguita, sono costituite dalle Attività Correnti (AC) e dalle Passività Correnti (PC). Infatti, all’interno di queste due zone sono contenuti i valori patrimoniali che, nell’impresa in funzionamento, daranno (o potranno dare) luogo in “tempo breve” a flussi di entrate e uscite monetarie; l’equilibrata dinamica di quei flussi è il presupposto della liquidità aziendale. Diventa naturale, allora, procedere al confronto fra queste zone. Laddove il volume delle AC fosse inferiore al volume delle PC l’impresa, non sarebbe capace di far fronte “nel tempo breve” (approssimazione convenzionale di “istante per istante”) ai propri impegni di pagamento; in altre parole, si paleserebbe un rischio di liquidità. Il confronto fra AC e PC si traduce nel calcolo di un margine finanziario molto noto: il capitale circolante netto finanziario (CCNf). Il CCNf rappresenta il baricentro dello Stato Patrimoniale finanziario letto in termini di liquidità; a sua corretta determinazione è l’obiettivo alla luce del quale considerare tutte le poste patrimoniali quando ci si muove in tale prospettiva. Tavola 1 – Lo Stato Patrimoniale finanziario L’importanza del CCNf ai fini del giudizio sulla liquidità aziendale nasce dal fatto che le grandezze da cui esso deriva rappresentano valori già liquidi o suscettibili di tradursi in entrate ed uscite in tempi brevi; attività e passività correnti, in sostanza, vengono considerate come le matrici delle disponibilità liquide e delle esigibilità che, nell’impresa in funzionamento, derivano dall’ordinario svolgersi della gestione. La presenza di condizioni di equilibrio è segnalata, pertanto, da un valore positivo del CCNf. E’ bene, tuttavia, ricordare i molti limiti del CCNf inteso come segnale delle condizioni di liquidità. Anzitutto, un valore elevato del CCNf può nascere dalla presenza di ingenti valori di Attività Correnti difficilmente liquidabili, quantomeno nel breve termine. Il problema si pone www.analisidibilancio.it 87 Il sistema degli indicatori 2011
soprattutto per le rimanenze di magazzino. La loro liquidabilità dipende, infatti, largamente dalle dinamiche di mercato. Pertanto, un’impresa il cui magazzino, ma anche i cui crediti, fossero di fatto immobilizzati presenterebbe un CCNf positivo evidenziando una liquidità che in concreto manca, proprio per essere i valori delle AC non prontamente convertibili in entrate monetarie. Inoltre, il CCNf non considera l’aspetto temporale della situazione di liquidità. Il confronto è fra masse di attività e di passività che potrebbero dare luogo a movimenti di moneta nel breve termine. Il breve termine però è, per convenzione, pari a un anno; se le AC si convertono in moneta al termine dell’anno, mentre le PC danno luogo a uscite monetarie nei primi periodi dell’anno la liquidità è solo apparente. Infine, i valori di attivo corrente e di passivo corrente esprimono solo una parte dei futuri flussi di entrate e uscite monetarie nel breve; mancano all’appello tutte le entrate e le uscite che deriveranno dalle operazioni di gestione futura e che, pertanto, non sono ancora riflesse nello Stato Patrimoniale. I limiti indicati, specie l’ultimo, a ben vedere sono intrinseci alla natura del documento sulla base del quale il CCNf viene costruito. Il bilancio, infatti, indica soltanto i mezzi finanziari disponibili, in un dato istante, per fronteggiare possibili esigibilità rilevate, anche queste, con riferimento sempre a un dato istante. La vicenda delle entrate e uscite monetarie della gestione è, invece, sicuramente più ampia e complessa. Una sua piena comprensione richiede la conoscenza della dinamica monetaria futura e dei tempi precisi nei quali effettivamente tutte le entrate e uscite avranno luogo. A causa dei limiti indicati, il CCNf può essere considerato solo un indicatore di massima dell’equilibrio di liquidità, che esprime solo una condizione di liquidità contabile. Di contro, però, se il CCNf è negativo suona un chiaro campanello di allarme; anche se i tempi fossero fasati, in ogni caso le entrate nel breve si prospettano di importo inferiore alle uscite nel breve. Pertanto: • AC>PC = CCNf >0, presenza di condizioni di liquidità contabile; • AC<PC = CCNf <0, condizioni di pericolo per rischio di liquidità. Insomma, un CCNf positivo è condizione necessaria ma non sufficiente per un’equilibrata situazione di liquidità. Indicazioni analoghe al CCNf sono fornite dal quoziente di liquidità generale (altrimenti detto di liquidità corrente o di disponibilità) così costruito:
attività correnti/passività correnti I limiti segnaletici del quoziente di liquidità corrente sono indubbiamente gli stessi del margine al quale può essere ricondotto. Proprio per questo, la situazione di liquidità dell’impresa viene giudicata positivamente quando il quoziente di disponibilità è maggiore di due; come dire che se le AC sono il doppio delle PC i limiti insiti nel confronto fra queste grandezze vengono smorzati. Infatti, se il margine fra i potenziali volumi di incassi e volumi di pagamenti è alto, l’impresa può godere di una certa tranquillità sul piano monetario. www.analisidibilancio.it 88 Il sistema degli indicatori 2011
4. IL MARGINE DI TESORERIA E LA LIQUIDITÀ IMMEDIATA L’interpretazione del CCNf e dell’indice di liquidità generale si basa sul presupposto che i valori delle AC e delle PC siano tutti potenzialmente capaci di produrre movimenti monetari nel tempo breve convenzionalmente preso a riferimento. L’esame delle diverse componenti del CCNF rivela, però, che i valori raccolti fra le AC e le PC presentano, pur nell’ambito del convenzionale breve termine, durate dei cicli di realizzo fra loro diverse. Sul versante delle AC si pensi, ad esempio, alle scorte di magazzino. Queste, infatti, costituiscono un investimento non sempre destinato a convertirsi in moneta in tempi brevi. Anzitutto, le scorte comprendono, in molti casi, una componente vincolata. Inoltre, anche la parte non vincolata presenta vario grado di liquidabilità nel breve. Le materie prime, infatti, devono passare attraverso stadi successivi di trasformazione tecnica ed economica prima di poter diventare moneta: lo stadio della lavorazione, con la trasformazione in prodotti finiti; lo stadio della commercializzazione, legato alla vendita effettiva ed alla formazione del credito di regolamento; lo stadio delle vera e propria liquidazione, ossia dell’incasso del credito sorto nella fase di commercializzazione. Seguendo questa logica, anche le scorte di prodotti finiti presentano un profilo di liquidità diverso rispetto ad altri investimenti operativi quali le materie prime, da un lato, e i crediti commerciali dall’altro: dai crediti commerciali li separa lo stadio della commercializzazione; dalle materie prime, lo stadio della lavorazione. Da qui, l’opportunità di evidenziare i valori del magazzino distinguendoli, a loro volta, fra disponibilità tecniche (materie prime e semi‐lavorati) e disponibilità commerciali (prodotti finiti). Passando alle PC, si considerino i debiti verso le banche per operazioni a breve, tipicamente gli scoperti di c/c. Come noto, si tratta di finanziamenti a breve di nome ma non di fatto; salvo “revoca”, essi non impegnano monetariamente l’impresa. Guardando, allora, all’effettiva liquidabilità/esigibilità nel breve termine delle diverse poste correnti, possiamo individuare, all’interno del CCNf, alcune aree di valori con diversa “urgenza in termini di liquidità”. Assumendo questa prospettiva, i valori delle AC possono essere utilmente distinti in tre categorie, caratterizzate da tempi diversi di passaggio alla condizione liquida. Le categorie sono le seguenti (cfr. tavola 2): • disponibilità: ‐ disponibilità tecniche (es. scorte di materie prime e semilavorati) ‐ disponibilità commerciali (es. scorte di prodotti finiti) • liquidità differite: ‐ commerciali (es. crediti verso clienti) ‐ finanziarie (es. crediti finanziari; titoli non “immediatamente” liquidabili); • liquidità immediate (es. disponibilità di cassa e banca; titoli immediatamente vendibili). Una distinzione concettualmente analoga si può proporre anche per le PC: www.analisidibilancio.it 89 Il sistema degli indicatori 2011
• passività a breve, ma di fatto a scadenza indeterminata (es. aperture di credito in c/c); • passività che si rinnovano per rotazione (es. debiti verso fornitori); • passività a breve in senso stretto (es. rate di mutui in scadenza nel breve, versamenti tributari; dividendi). Dall’esame di questa ripartizione, appare chiaro come, avvicinandosi alle ultime porzioni di AC e PC, si incontrano i valori con il massimo impatto monetario sulla gestione. Tali valori pongono, in sostanza, un problema di solvibilità immediata, riverberandosi profondamente sulle complessive condizioni di liquidità dell’impresa. Ciò suggerisce di concentrare l’analisi sui valori che presentano la maggiore urgenza monetaria. Tavola 2 – Il grado di urgenza monetaria delle componenti del CCN finanziario Muovendosi in questa direzione, e sempre ragionando in termini di margini finanziari, si procede al calcolo del margine di tesoreria, il quale risulta dalla differenza fra valori di liquidità immediate e differite (= cassa, banche, titoli e crediti) e indebitamento a breve termine. Un’impresa in condizioni di equilibrio di liquidità dovrebbe presentare un margine di tesoreria positivo. Questo perché l’indebitamento a breve potrebbe, in ipotesi teorica, anche non essere rinnovato. L’impresa dovrebbe, allora essere in grado di passare da una posizione di scambi a termine a una posizione di scambi per contanti, pur mantenendo la sua dotazione di scorte. L’equilibrio indicato è proposto, inoltre, come presupposto per un ideale pareggio fra oneri e frutti di interesse impliciti ed espliciti che si ricollegano al passivo e all’attivo a breve. Il divario di tesoreria potrebbe essere negativo, dunque, solo in ipotesi di temporanea eccedenza delle scorte rispetto alla misura normale. Di diretta derivazione dal margine di tesoreria è il quoziente di liquidità secca o immediata (quick ratio) così costruito: www.analisidibilancio.it 90 Il sistema degli indicatori 2011
(attività correnti – scorte di magazzino)/passività correnti Anche per questo indice vengono suggeriti valori parametrici. Si ritiene, infatti, che il suo valore non dovrebbe essere inferiore a uno. Parte delle critiche mosse all’indice di disponibilità, comunque, si può avanzare anche all’indice di liquidità secca. E’ vero, infatti, che abbiamo eliminato le scorte, ma è anche vero che restano i crediti commerciali; tali crediti, prima di diventare moneta, devono passare attraverso lo stadio della riscossione. Si pone, pertanto un problema di tempi effettivi di incasso, senza dire delle possibili insolvenze dei clienti. D’altro canto, è vero anche che talune importanti voci di PC comprese nel margine di tesoreria non impegnano monetariamente l’impresa nel breve termine. Si pensi agli scoperti di C/C bancario. Questi esprimono debiti che si rinnovano a scadenza e si caratterizzano, normalmente, per una rilevante stabilità. Interpretando, nella loro sostanza più autentica, le motivazioni che spingono a calcolare il margine di tesoreria, appare, allora, utile il calcolo di un margine opportunamente rettificato, che potremmo chiamare II margine di tesoreria. In sostanza, tale margine nasce dalla differenza fra liquidità immediate e passività a breve in senso stretto. Vengono, pertanto, escluse, dal calcolo del margine, da un lato tutte le AC che si rinnovano per rotazione e quindi stabili (es. crediti commerciali) e, dall’altro, tutte le PC che si rinnovano a scadenza, come gli scoperti di c/c bancario, in quanto debiti anch’essi sostanzialmente stabili che non creano urgenze monetarie nell’impresa; il confronto, dunque, è solo fra cassa e cash equivalent e passività a breve in senso stretto.3 Sulla scorta di questa lettura ristretta del margine di tesoreria, viene costruito un ulteriore indicatore di liquidità detto indice della prova acida o indice di cassa (cash ratio). L’indice è così composto: liquidità immediate/passività correnti a breve in senso stretto Il significato dell’indice è tale da non richiedere particolari commenti. 5. LA DURATA DEL CICLO MONETARIO Il calcolo dell’indice di liquidità secca cerca di eliminare alcune distorsioni proprie dell’indice di liquidità generale. Tuttavia, resta ancora aperta una questione di fondamentale importanza: liquidità generale e liquidità secca si basano sempre sul confronto fra masse di valori monetari o potenzialmente monetari; così facendo, però, si trascura la dimensione temporale della situazione di liquidità, ossia i tempi effettivi di incasso delle AC e pagamento delle PC. Da qui, la necessità di integrare l’analisi di liquidità con l’esame degli indici di durata. Gli indici di durata cercano di determinare il tempo medio di ritorno in forma monetaria delle poste di bilancio. L’attenzione si concentra sulle poste critiche per la liquidità aziendale, quelle direttamente legate alla quotidiana attività di acquisto‐trasformazione‐vendita dei prodotti 3
Le passività in senso stretto possono contenere, per prudenza, i debiti verso i fornitori in quanto tali debiti, pur rinnovandosi per rotazione, alla scadenza devono essere estinti con esborsi monetari. www.analisidibilancio.it 91 Il sistema degli indicatori 2011
(beni o servizi) che costituiscono l’oggetto tipico della gestione dell’impresa. Si tratta, quindi, delle poste relative al ciclo operativo: scorte di magazzino; crediti commerciali; debiti commerciali. Da esse, infatti, deriva la gran parte degli incassi e dei pagamenti della gestione. In pratica, si cerca di determinare: • da un lato, la durata del ciclo attivo, ossia il tempo medio che intercorre dal momento dell’acquisto dei fattori produttivi impiegati nel ciclo al momento dell’incasso monetario delle vendite dei prodotti ottenuti; • dall’altro, la durata del ciclo passivo, ossia il tempo medio che intercorre dal momento dell’acquisto dei fattori produttivi 4 (momento che segna in ogni caso l’avvio del ciclo) impiegati nel ciclo al momento del pagamento monetario di tali fattori. Ricostruendo le durate del ciclo attivo e passivo si cerca, in sostanza, di ricostruire il ciclo monetario sotteso al ciclo operativo, ossia l’intervallo di tempo che separa, in media, i tempi di incasso da quelli di pagamento (cfr. tavola 3). E’, infatti, evidente che quanto più il tempo medio di monetizzazione della produzione è posteriore al tempo medio di pagamento dei fattori acquistati per realizzare tale produzione, tanto più si viene a creare un “buco monetario” e, quindi, tanto più forti saranno le tensioni di liquidità avvertite dall’impresa. Tavola 3 – La ricostruzione del ciclo monetario Sul piano operativo, la determinazione del ciclo monetario si basa sul calcolo degli indici di durata delle componenti del capitale circolante operativo; infatti: 4
Ciclo attivo e ciclo passivo hanno entrambi lo stesso momento di inizio rappresentato dall’acquisto dei fattori di consumo, momento che segna l’avvio dell’intero ciclo operativo. www.analisidibilancio.it 92 Il sistema degli indicatori 2011
• gli indici di durata della giacenza di magazzino segnalano il tempo che intercorre fra il momento dell’acquisto di materie e servizi da immettere nella produzione e il momento in cui la produzione ottenuta viene venduta ai clienti; • gli indici di durata dei crediti verso clienti segnala il tempo che intercorre fra il momento in cui la produzione ottenuta viene venduta ai clienti e il momento in cui i clienti pagano il loro acquisto; • gli indici di durata dei fornitori segnalano quanto tempo intercorre fra il momento dell’acquisto delle materie prime e dei servizi impiegati nel processo produttivo e il momento del loro effettivo pagamento. Sommando le durate così ottenute si ottiene quella del ciclo monetario sotteso alla rotazione del capitale circolante operativo, ossia: giorni giacenza scorte + giorni dilazioni clienti ‐ giorni dilazioni fornitori = giorni ciclo CCNc La durata in giorni del capitale circolante netto commerciale esprime la durata del ciclo monetario della gestione operativa corrente dell’impresa intesa come il periodo di tempo mediamente intercorrente fra le uscite monetarie derivanti dall’acquisto dei fattori produttivi di esercizio e l’entrata monetaria derivante dalla vendita dei beni e servizi prodotti. Nella misura in cui la durata fornitori non riesce a coprire la durata di magazzino e crediti, il buco temporale che si manifesta deve essere coperto negoziando opportuni finanziamenti. Attraverso gli indici di durata, l’analisi di liquidità viene a saldarsi con quella della redditività. Il collegamento è fin troppo evidente; tanto più numerosi e rapidi sono i cicli investimento‐
disinvestimento che si realizzano nell’ambito della gestione operativa e tanto più: • da un lato, si moltiplica il margine lucrato su ogni ciclo; • dall’altro, si recupera rapidamente moneta che può così essere nuovamente utilizzata per far fronte agli impegni di pagamento che ogni ciclo gestionale determina. 6. IL FABBISOGNO FINANZIARIO DEL CICLO OPERATIVO E LE MODALITA’ DI SUO FINANZIAMENTO La ricostruzione del ciclo monetario ha naturalmente condotto a concentrare l’attenzione sul ciclo operativo. E’ da tale ciclo, infatti, che derivano i principali flussi di incasso e pagamento che scandiscono la gestione aziendale. Questa relazione fra dinamiche di incasso e pagamento riconducili al ciclo operativo trova la sua espressione di sintesi nel CCNc: cicli attivi sfasati rispetto a quelli passivi determinano la formazione del CCNc. www.analisidibilancio.it 93 Il sistema degli indicatori 2011
In questa prospettiva, l’analisi di liquidità, condotta mediante margini e indici, può essere utilmente integrata mediante un set di indicatori che consentano di tenere sotto controllo l’andamento del CCNc che del CCNf è la componente principale, salvo durate particolarmente lunghe delle dilazioni a clienti e fornitori (cfr. tavola 4). L’attenzione dovrebbe essere in primo luogo concentrata sulle relazioni che legano variazioni del fatturato e consistenza del CCNc, date certe politiche commerciali adottate dall’impresa. Tale relazione è sintetizzata dal rapporto: CCNc/fatturato Questo indice, denominato tasso di intensità del CCNc o anche aliquota di circolante, rappresenta il reciproco del turnover del CCNc e, di fatto, misura il fabbisogno finanziario corrispondente a un dato volume di fatturato. Ogni aumento dell’indice va considerato con cautela, essendo tendenzialmente espressione di inefficienza nel governo monetario del ciclo operativo. Tavola 4 – Capitale circolante netto finanziario e commerciale A questo proposito, tuttavia, è opportuno integrare l’analisi del tasso di intensità del CCNc con i valori assunti dagli indici di durata. Come in precedenza accennato, un confronto nel tempo e, più ancora, nello spazio, con imprese comparabili, aiuta ad apprezzare la sostenibilità delle politiche commerciali imposte/subite dall’impresa. In questo senso, il desiderio di comprimere il fabbisogno finanziario generato dai cicli operativi potrebbe spingere l’impresa ad adottare politiche di dilazione ai clienti troppo restrittive, tali da spingerla “fuori mercato”, con gravi ripercussioni sulla redditività e, da qui, sulla liquidità futura. Nella stessa prospettiva di sostenibilità delle condizioni sottese al CCNc si colloca l’analisi del quoziente di durata dei fornitori. Un CCNc contenuto, ma caratterizzato da una dilazione fornitori inusualmente (o patologicamente) lunga, specie nell’ambito di imprese di piccola dimensione e perciò con scarso potere negoziale in fase di acquisto, può essere spia di difficoltà di pagamento e, www.analisidibilancio.it 94 Il sistema degli indicatori 2011
quindi, di prossime interruzioni nel flusso delle forniture con regolamento dilazionato; da cui, evidenti gravi ripercussioni sul fabbisogno finanziario corrente e sulle correlate condizioni future di liquidità dell’impresa. Oltre a controllare la consistenza del fabbisogno finanziario suscitato dal ciclo operativo, l’analista deve prestare attenzione alle modalità seguite per finanziare tale fabbisogno. Il finanziamento mediante ricorso all’indebitamento bancario a breve termine è la via più frequentemente utilizzata dalle imprese italiane, ma è anche la soluzione più onerosa e quella potenzialmente in grado di causare i maggiori appesantimenti nelle condizioni di solvibilità. L’indice idoneo a segnalare il livello di finanziamento bancario del CCNc è dato dal rapporto: banche c/c passivo/CCNc Valori superiori a uno di questo indicatore devono richiamare l’attenzione dell’analista. Infatti, finché l’indebitamento bancario a breve, vuoi nella forma del largo di cassa, vuoi del salvo buon fine, si limita a coprire il CCNc, ossia il fabbisogno corrente, esso svolge la sua funzione tecnica precipua. In corrispondenza della rotazione del CCNc, l’indebitamento si estinguerà e si riformerà ciclicamente, assumendo così un carattere tendenzialmente autoliquidante. Laddove, invece, l’indebitamento bancario superi l’ammontare del circolante, il collegamento con l’andamento ciclico del fabbisogno corrente in parte si viene a perdere, determinando un potenziale irrigidimento dell’indebitamento a breve e una conseguente riduzione del grado effettivo di liquidità. I due indicatori focalizzati sul CCNc, ossia il tasso di intensità del CCNc e il grado di finanziamento bancario a breve del CCNc, sono chiaramente correlati fra loro. Vale, infatti, la relazione: (CCNc/fatturato) x (banche c/c passivo/CCNc) = banche c/c passivo/fatturato La relazione indica che maggiore è il fabbisogno corrente per unità di fatturato, ossia più lenta è la rotazione del CCNc, e quanto più tale fabbisogno viene coperto mediante indebitamento bancario a breve, tanto più alto sarà il tasso di intensità di tale forma di finanziamento. L’aumento dell’incidenza del finanziamento bancario a breve sul fatturato, espresso dal rapporto banche c/c passivo/fatturato, è destinato a generare una crescita del peso degli oneri finanziari sul fatturato, peso misurato dall’indice: oneri finanziari/fatturato Il significato di tale indice, e quindi la sua importanza, è chiaro: esso misura quanta parte della ricchezza lorda (i ricavi) creata dall’impresa viene “mangiata” dal costo dell’indebitamento. In poche parole, più alto è il valore assunto dall’indice, minore è la capacità dell’impresa di sopportare il peso degli oneri finanziari mantenendo la gestione in condizioni di equilibrio www.analisidibilancio.it 95 Il sistema degli indicatori 2011
economico. Quella stessa pratica che a questo indice fa largo ricorso propone anche valori parametrici rispetto ai quali formulare un giudizio: la soglia di pericolo è fissata al 5%. Al di là della significatività che realisticamente può avere ogni valore parametrico, il problema che si pone all’analista è piuttosto quello di individuare i fattori causali responsabili della maggiore o minore incidenza degli oneri finanziari sul Conto Economico dell’impresa. Muovendosi in questa direzione, il rapporto fra oneri finanziari e fatturato è il risultato della seguente relazione: oneri finanziari/fatturato = oneri finanziari/debiti finanziari x debiti finanziari/fatturato Dalla relazione prospettata è immediato desumere che l’incidenza degli oneri finanziari sul fatturato, e quindi sulla redditività, è funzione del: • costo medio dell’indebitamento finanziario. Espresso dal primo membro del prodotto, l’indice viene comunemente denominato Return On Debt (R.O.D.); • rapporto fra indebitamento finanziario e fatturato. Quest’ultimo indicatore, denominato tasso di intensità dell’indebitamento riveste grande importanza per una compiuta analisi delle condizioni di rischio finanziario dell’impresa. E’ infatti evidente che esso svolge un’azione frenante sul costo dell’indebitamento fin quando presenta valori inferiori all’unità, cioè fin quando i debiti sono inferiori al fatturato. Per valori superiori all’unità, invece, ossia con debiti maggiori del fatturato, si viene a creare una situazione viziosa, nella quale il peso degli oneri finanziari sul fatturato è maggiore del costo medio dell’indebitamento. Un tasso di intensità dell’indebitamento crescente segnala, dunque, una progressiva difficoltà dell’impresa ad onorare, con i flussi derivanti dalla vendite dell’esercizio, gli impegni connessi al rimborso dei debiti. E’ in questo senso che l’indice in parola viene spesso definito con l’infausta locuzione di punto di non ritorno. Ciò risulta più chiaro se si tiene presente che il tasso di intensità dell’indebitamento può essere letto anche come il reciproco di un tasso di rotazione. In quest’ottica, esso esprime “quante volte” l’azienda sarebbe in grado di rimborsare i debiti attraverso le entrate derivanti dalla vendite. Ragionando in questi termini, si comprende agevolmente che, in presenza di valori elevati del rapporto in parola, ogni riduzione del volume di fatturato, dovuta a condizioni interne di azienda o esterne di mercato, rende di fatto l’indebitamento più rigido e, quindi, esercita sulle passività finanziarie un pericoloso effetto di consolidamento. Per l’impresa diviene, pertanto, sempre più difficile “reggere” il peso dei debiti contratti. Le tensioni di liquidità si vengono così a riverberare sul grado di solidità patrimoniale, innescando un circolo vizioso, a conferma delle ineliminabili relazioni sistemiche che avvincono le diverse dimensioni dell’operare aziendale. Questa chiave di lettura suggerisce di integrare l’analisi del tasso di intensità dell’indebitamento con il calcolo di un indice più specifico e circoscritto, il tasso di intensità www.analisidibilancio.it 96 Il sistema degli indicatori 2011
dell’indebitamento a breve termine, dal quale, appunto, abbiamo preso le mosse. L’analisi congiunta dei due indicatori, condotta alla luce degli altri indici finanziari esaminati, offre preziose informazioni per valutare: • la composizione per scadenze dell’indebitamento finanziario e la sua trasformazione in relazione alle diverse dinamiche gestionali; • la capacità dell’impresa di sostituire i propri finanziatori, condizione prima dell’effettiva liquidabilità di ogni rapporto di finanziamento; • l’attitudine dell’impresa a ottimizzare la propria struttura finanziaria, tenuto conto del peso dei relativi oneri finanziari; • le relazioni esistenti fra costo dell’indebitamento, struttura finanziaria e redditività aziendale. 7. L’ANALISI DINAMICA DELLA LIQUIDITÀ E IL RENDICONTO FINANZIARIO L’analisi dinamica delle condizioni di liquidità si traduce nell’esame dei flussi e deflussi di cassa nel corso del tempo. I flussi monetari vengono ricavati dal rendiconto finanziario. L’analisi ha come obiettivo generale quello di formulare un giudizio sulle condizioni finanziarie della gestione. Tale obiettivo generale è articolato in una serie di sotto‐obiettivi specifici quali: • valutare il contributo delle diverse operazioni di gestione alla variazione della risorsa finanziaria oggetto di osservazione, individuando quali operazioni hanno maggiormente assorbito la risorsa e quali l’hanno prevalentemente prodotta; • misurare la capacità dell’impresa di autoprodurre risorse finanziarie; • approfondire l’analisi degli impieghi, mettendone in luce il grado di manovrabilità; • ricostruire le fonti alle quali si è attinto, evidenziando la loro composizione qualitativa e ed i rapporti quantitativi; • ricomporre il quadro generale delle fonti e degli impieghi della risorsa finanziaria, verificando correlazioni ed equilibri fra specifiche categorie di fonti e di impieghi; • apprezzare le politiche finanziarie adottate dall’impresa. Sul piano procedurale, l’analisi deve prendere le mosse dall’esame del segno e dell’intensità della variazione subita dalla risorsa finanziaria di riferimento. Tale esame deve essere condotto alla luce delle più generali condizioni di equilibrio economico, patrimoniale e finanziario che connotano la gestione. Così, ad esempio, una forte riduzione di liquidità verificatasi in un’impresa caratterizzata da un margine di tesoreria negativo è da giudicarsi ben più severamente di un’analoga variazione maturata in seno a un’impresa dove le disponibilità di cassa siano esuberanti. Questa considerazione mette in evidenza un tratto metodologico dell’analisi del www.analisidibilancio.it 97 Il sistema degli indicatori 2011
rendiconto finanziario: l’analisi dei flussi finanziari è intimamente legata a quella dei dati di bilancio mediante indici e margini, condotta lungo le coordinate dello crescita, della redditività operativa, solidità patrimoniale e liquidità. Il riferimento a un’interpretazione del rendiconto finanziario sistemicamente correlata alle generali condizioni della gestione postula, inoltre, che l’analisi tenga in debito conto il profilo strategico dell’impresa. Questo rappresenta, per così dire, lo sfondo sul quale proiettare i risultati dell’analisi per poterli giudicare criticamente; ad esempio, insufficiente autoproduzione di risorse monetarie e forte ricorso a mezzi esterni sono condizioni da valutare negativamente al momento di interpretare il rendiconto. Tuttavia, tali condizioni devono essere considerate ben diversamente a seconda che si manifestino in un’impresa in piena fase di consolidamento della sua posizione di mercato, oppure in un’impresa impegnata nella realizzazione di un piano di sviluppo caratterizzato da un’intensa crescita delle immobilizzazioni, materiali e immateriali. Esaminati segno e intensità della variazione subita dalla risorsa finanziaria, l’analisi deve andare avanti restando fedele alla logica generale adottata per la costruzione del rendiconto. Tale logica è basata, anzitutto, sull’articolazione della gestione in aree funzionali. Oltre a ciò, la costruzione del rendiconto ha messo in evidenza il ruolo monetario della gestione operativa quale fondamentale momento di produzione di risorse monetarie nette. Un flusso di cassa operativo corrente negativo, infatti, è sintomo di serio squilibrio della gestione. Analogamente, un free cash flow from operations negativo denuncia una incapacità dell’impresa di sostenere autonomamente gli investimenti nella propria struttura produttiva. Questi segnali, tuttavia, possono essere approfonditi, rendendoli più chiari e di univoca interpretazione grazie a ulteriori elaborazioni. Assai utile, a questo fine, si rivelano specifici indici costruiti utilizzando dati di flusso. Si parla, in proposito, di indici di cash flow. Sul piano metodologico, il riscorso agli indici consente di superare i limiti insiti nei valori assoluti, permettendo una più compiuta misura dei fenomeni indagati e rendendo possibili comparazioni nello spazio e nel tempo. Ad esempio, sapere che il flusso di cassa operativo corrente è di 100 aiuta relativamente ai fini di un giudizio sulle capacità di autoproduzione monetaria dell’impresa; sapere, invece, che quel flusso di cassa operativo corrente è il 45% del fatturato consente: ƒ di operare confronti, da un lato, con i risultati conseguiti dall’impresa in altri esercizi, dall’altro, con quelli ottenuti dalle imprese concorrenti; ƒ di raccordare l’analisi del rendiconto con altri indicatori impiegati nell’analisi di bilancio; considerando l’esempio in oggetto, il tasso di sviluppo del fatturato, la redditività delle vendite e la rotazione del capitale circolante divengono chiavi interpretative della «qualità» del flusso di cassa operativo corrente. E’ di tutta evidenza come gli indici di cash flow accrescano enormemente la possibilità di formulare giudizi sulle condizioni monetarie dell’impresa, rispettando i nessi sistemici che legano le operazioni di gestione. Inoltre emerge, con altrettanta chiarezza, come la stessa analisi per indici www.analisidibilancio.it 98 Il sistema degli indicatori 2011
e margini basata sulle grandezze patrimoniali e reddituali ne esca straordinariamente arricchita. Gli indici di cash flow possono essere costruiti confrontando per quoziente vuoi le quantità elementari (es. il capex), vuoi i margini (es. il free cash flow) contenuti nel rendiconto. L’esempio precedente, comunque, aiuta a comprendere che la forza informativa di tali indici si accresce ‐ e dunque l’interpretazione risulta più pregnante – se i confronti si allargano a comprendere, accanto ai flussi, anche grandezze contenute negli altri prospetti di bilancio, opportunamente riclassificati, come: quantità e margini reddituali (es. flusso operativo corrente/fatturato; flusso operativo corrente/EBIT); stock di capitale investito (es. free cash flow/COIN); specifiche categorie di debiti (free cash flow/debiti finanziari). Al fine di conferire all’analisi del rendiconto, condotta avvalendosi di indici di cash flow, la necessaria sistematicità occorre procedere seguendo un preciso ordine. Tale ordine è dettato dalla logica stessa di costruzione del rendiconto e dai caratteri intrinseci della dinamica finanziaria. In questo senso, l’analisi prende le mosse dalla gestione operativa corrente. 8. L’ANALISI DEL FLUSSO DI CASSA DELLA GESTIONE OPEORATIVA CORRENTE La costruzione del rendiconto inizia con la misurazione del flusso di cassa generato dallo svolgimento del ciclo operativo. La centralità del ciclo operativo nell’economia dell’impresa è di assoluta evidenza. Altrettanto evidente è che la possibilità dell’impresa di sopravvivere e sviluppare si lega alla capacità di autoprodurre, attraverso il ciclo, un volume di risorse finanziarie adeguato alle molteplici esigenze della gestione. L’interpretazione del rendiconto, pertanto, si deve anzitutto concentrare sulla gestione operativa corrente, l’area che, per definizione, compendia la zona della produzione di moneta. L’analisi del flusso operativo corrente va condotta su più piani, utilizzando strumenti diversi. In primo luogo, si tratta di verificare il grado di efficienza mostrato dalla gestione nella generazione di tale flusso. In sostanza, occorre rispondere a domande del tipo: quanto flusso di cassa operativo corrente l’impresa è stata capace di tirar fuori da…?. Seguendo questa strada, si afferma, per il suo rilevante valore segnaletico, l’indice: flusso di cassa operativo corrente/fatturato L’indice esprime la capacità dell’impresa di estrarre risorse monetarie da ogni Euro di fatturato. Siamo dunque di fronte a un tasso percentuale che sostanzialmente ricalca il tasso di redditività delle vendite, comunemente detto ROS; non a caso, frequentemente si parla di cash flow return on sales. L’interpretazione dell’indice è agevole: più alto è, maggiore è la capacità dell’impresa di trasformare valori economici in quantità monetarie; il reddito, in sostanza, è monetariamente disponibile in misura rilevante e, quindi, presenta una qualità elevata. Non potendosi costruire, sul piano logico, valori parametrici di riferimento, per affinare il giudizio critico si rivela essenziale fare ricorso a comparazioni nel tempo e nello spazio. www.analisidibilancio.it 99 Il sistema degli indicatori 2011
L’evidente importanza dell’indice spinge ad approfondire i fattori causali che ne influenzano il livello. La direzione nella quale muoversi è dettata dalla sequenza di calcolo seguita per determinare il flusso operativo corrente. Come sappiamo, il flusso in parola risulta dalla combinazione di più elementi; tra questi, due si propongono come fondamentali driver di cassa: • l’autofinanziamento operativo; • il capitale circolante netto commerciale (CCNc). E’ lungo queste due coordinate che va sviluppata l’analisi della zona di produzione delle risorse monetarie. 8.1. L’ANALISI DELL’AUTOFINANZIAMENTO L’analisi e l’interpretazione del ritorno monetario sulle vendite trova un suo primo approfondimento nel calcolo del seguente indicatore: 5 autofinanziamento operativo lordo/fatturato Molto spesso, tale indice è approssimato dal seguente rapporto, denominato ebitda margin: EBITDA (MOL)/fatturato Entrambi i rapporti esprimono, in termini percentuali, la capacità potenziale dell’impresa di generare risorse monetarie attraverso le vendite del ciclo operativo. Livelli elevati degli indici segnalano un rilevante grado di efficienza monetaria della gestione e, dunque, un’alta qualità dei risultati aziendali. Volendo scavare nel margine di autofinanziamento, questo dipende dal differenziale fra ricavi di vendita e costi operativi di derivazione monetaria. Guardando a tali fattori emergono, quindi, due fondamentali direttrici di analisi dell’autofinanziamento: • i ricavi delle vendite, ossia il fatturato; • i costi operativi monetari, comunemente definiti opex. L’analisi del fatturato chiama in causa, a sua volta, ulteriori determinanti, quali: i prezzi‐
ricavo negoziati sui mercati di vendita; i volumi di attività realizzati; la composizione (mix) del fatturato. Quanto agli opex, questi sono prevalentemente influenzati dalle modalità di impiego dei 5
Al numeratore dell’indice si riporta l’autofinanziamento, lordo. Non si considera, dunque, l’effetto delle imposte poiché questo è in larga parte influenzato da condizioni estranee alla gestione operativa corrente. Si pensi, ad esempio, all’effetto di «scudo fiscale» esercitato dagli oneri finanziari. Comunque, gli indici di autofinanziamento possono essere calcolati, anche al netto delle imposte. www.analisidibilancio.it 100 Il sistema degli indicatori 2011
fattori produttivi: materie prime e servizi; lavoro. Pensando a tali fattori, si rafforza il significato di indicatore di efficienza attribuito al tasso di autofinanziamento; infatti, la capacità dell’impresa di contenere gli opex, si lega a: • incrementi di efficienza interna, ossia di produttività nell’impiego dei fattori della produzione; • recuperi di efficienza esterna, ossia a riduzioni dei prezzi‐costo negoziati sui mercati di acquisto. Il richiamo alla gestione dei ricavi di vendita e a quella degli opex consente di ricostruire il complesso reticolo dei fattori causali che determinano il tasso di autofinanziamento. Esplicitando tale reticolo è possibile evidenziare in che modo la dinamica monetaria si integra sistemicamente con le variabili economiche e fisico‐tecniche della gestione (cfr. tavola 5). Si ottengono, così, elementi di giudizio preziosi non solo per una valutazione ex‐post, ma anche per programmare i futuri flussi di cassa operativi correnti. Tavola 5 – Le determinanti dell’autofinanziamento Sul piano interpretativo, fra i diversi fattori causali, un rilievo particolare meritano gli ammortamenti che, insieme al risultato operativo, costituiscono l’asse portante dell’autofinanziamento. Questi, come noto, rappresentano, sia pur indirettamente, un trattenimento di ricchezza da destinare alla ricostruzione delle immobilizzazioni tecniche; quindi, i flussi di cassa originati dall’ammortamento sono, per così dire, vincolati al rinnovo della struttura www.analisidibilancio.it 101 Il sistema degli indicatori 2011
produttiva. Di conseguenza, maggiore è l’incidenza degli ammortamenti sul flusso di cassa potenziale espresso dall’autofinanziamento, minore è la qualità di quel flusso perché minore è la parte di esso del tutto libera per fronteggiare altre occorrenze monetarie senza compromettere il mantenimento della struttura operativa. Seguendo questa logica, è opportuno integrare l’analisi dell’autofinanziamento con il calcolo del rapporto: ammortamenti/autofinanziamento operativo lordo L’indice esprime la composizione dell’autofinanziamento; attraverso esso è possibile apprezzare in che percentuale l’ammortamento concorre a formare la consistenza del flusso di cassa operativo potenziale dell’impresa. L’interpretazione del rapporto, tuttavia, può risultare fuorviata dalle politiche di ammortamento perseguite dai redattori del bilancio. Un alleggerimento pilotato delle quote di ammortamento stanziate a Conto Economico, infatti, migliorerebbe apparentemente l’indice. A questo fine, l’interpretazione della qualità dell’autofinanziamento deve essere integrata con il tasso di ammortamento, ossia: ammortamenti/immobilizzazioni operative lorde Il tasso di ammortamento, in quanto calcolato sul valore lordo delle immobilizzazioni tecniche, esprime l’aliquota di ammortamento effettivamente utilizzata in bilancio. Comparandolo nel tempo esso, pertanto, segnala immediatamente se e in che misura tale aliquota è stata variata rispetto agli esercizi precedenti. 8.2. L’ANALISI DEL CAPITALE CIRCOLANTE L’analisi dell’autofinanziamento deve essere condotta in parallelo a quella del CCNc. A questo fine, di grande interesse è il calcolo e l’interpretazione del tasso di intensità del circolante, ossia: CCNc/fatturato Come noto, l’indice esprime il fabbisogno finanziario per unità di fatturato. Esso dipende dalle politiche commerciali adottate o subite dall’impresa sul fabbisogno finanziario corrente. Si tratta, cioè, delle politiche di: dilazione concesse ai clienti; costituzione delle scorte di magazzino; dilazioni ottenute dai fornitori. Ciascuna di queste politiche, a sua volta, compendia diverse condizioni di gestione quali, ad esempio: le strategie competitive e i comportamenti della concorrenza; i fabbisogni del processo produttivo e i tempi di approvvigionamento. Tenuto conto dell’effetto di assorbimento/rilascio di risorse monetarie esercitato dal CCNc, l’analisi si deve concentrare: • da un lato, sull’entità del rapporto. Più alto è il livello dell’indice, più severo è il giudizio www.analisidibilancio.it 102 Il sistema degli indicatori 2011
sulle condizioni dell’impresa in quanto maggiore è il fabbisogno finanziario per unità di fatturato che essa deve soddisfare per sostenere quest’ultimo; • dall’altro, sulle variazioni subite dall’indice nel corso degli esercizi. A parità di tutti gli altri fattori, infatti, il CCNc dovrebbe rimanere proporzionato alle vendite; per cui un 10% in più di vendite dovrebbe, più o meno, determinare un’analoga crescita del CCNc, mantenendo invariato il rapporto. Un aumento dell’indice, dunque, segnala il manifestarsi di effetti di assorbimento che, se particolarmente intensi, sono spia di condizioni di overtrading. In via generale, gli effetti esercitati dalla dinamica del CCNc sul flusso di cassa operativo corrente possono essere sinteticamente apprezzati attraverso il calcolo del seguente indicatore: flusso di cassa operativo corrente/autofinanziamento operativo lordo L’interpretazione dell’indice è immediata: ogni volta che esso è inferiore all’unità si segnala (e si misura) l’azione di assorbimento di risorse esercitata dal CCNc; laddove, invece, sia superiore all’unità, emerge il contributo monetario derivante dalla compressione del circolante. Anche quest’ultima circostanza, tuttavia, merita la massima attenzione. Infatti, se il sovrassorbimento di risorse monetarie dovuto all’espansione del CCNc è senz’altro pernicioso, non meno insidioso può risultare il fenomeno opposto. La spremitura del circolante può, infatti, mascherare problemi a livello di produzione potenziale di moneta; essa, inoltre, è in grado di esercitare un effetto solo temporaneo sulla liquidità aziendale, scontrandosi con precisi limiti economico‐tecnici rappresentati da: • le condizioni competitive dell’area di affari in cui l’impresa opera. Si pensi, ad esempio, alla gestione del credito commerciale: trenta giorni in meno di dilazione concessa ai clienti possono sì significare meno CCNc, e quindi meno fabbisogno finanziario da coprire, ma anche la perdita di importanti quote di mercato; • i vincoli tecnici del processo produttivo attuato. Valga, qui, l’esempio della scorta di magazzino. Tempi lunghi di consegna da parte dei fornitori impongono all’impresa di costituire consistenti volumi di scorte di materie prime. In questo caso, ridurre eccessivamente tali scorte può significare «lasciare a secco» il processo trasformativo, con gravi conseguenze per la gestione. In sostanza, in ogni impresa esiste un livello oltre il quale il CCNc non può essere ulteriormente compresso (ridotto) senza danneggiare il cuore dell’operatività aziendale. Volendo spingere più a fondo l’analisi del CCNc, è indispensabile approfondire, anzitutto, la velocità di rotazione delle principali poste che compongono l’aggregato. A questo fine, si possono utilmente impiegare i noti indici di rotazione espressi in giorni.6 La comparazione dei tempi di rotazione nel corso degli esercizi offre primi, importanti, elementi di giudizio. Affinché, però, il giudizio sia ragionevolmente fondato, la dinamica degli indici deve essere interpretata tenendo 6
Si veda il capitolo terzo. www.analisidibilancio.it 103 Il sistema degli indicatori 2011
adeguatamente conto: • della struttura del settore nel quale l’impresa compete; • del comportamento dei concorrenti; • degli effetti che si sono prodotti nelle altre variabili economiche e finanziarie della gestione; • dei processi interni di gestione del CCNc. Quanto al primo punto, è evidente la necessità di un adeguato inquadramento strategico del CCNc, condotto valutando, in particolare, la forza dei clienti e dei fornitori che caratterizzano la catena del valore dell’impresa. Clienti forti, ovviamente, riducono la capacità dell’impresa di accelerare la rotazione dei crediti; di contro, uno scarso potere negoziale nei confronti dei fornitori impedisce di sfruttare adeguatamente questa fonte di finanziamento indiretto per contenere la consistenza del CCNc. L’analisi di settore deve essere integrata da confronti condotti sui bilanci dei concorrenti. Questi aiuteranno a capire se e in che misura l’impresa sta manovrando le politiche commerciali per ottenere una posizione di vantaggio competitivo; ad esempio, in un contesto di “clienti deboli”, un allungamento nel tempo di riscossione dei crediti sensibilmente superiore alla concorrenza rende plausibile l’ipotesi che si sia di fronte a una politica commerciale aggressiva adottata dall’impresa. Si conferma, in sostanza, la necessità di un inquadramento strategico di tutta l’analisi dei dati di bilancio, in generale, e di quella dei flussi di cassa, in particolare. In ogni caso, le ipotesi suggerite dall’analisi esterna devono essere corroborate dall’interpretazione sistemica dei segnali interni forniti dal complesso degli indicatori economici e finanziari dell’impresa. Così, ad esempio, un allungamento dei tempi di pagamento dei clienti superiore alla concorrenza, se accompagnato da una contrazione del fatturato e della redditività delle vendite (ROS) è plausibilmente segno di debolezza negoziale dell’impresa e di scarsa solvibilità della clientela, piuttosto che di una politica commerciale aggressiva mirante a conquistare quote di mercato. Ancora, una contrazione nella rotazione del magazzino che si verifica in presenza di una significativa crescita delle vendite e di un irrobustimento della struttura finanziaria attraverso l’aumento di finanziamenti durevoli non è sinonimo di difficoltà di vendita ma di adozione di politiche volte ad accrescere stabilmente la giacenza di magazzino, adeguandola a più elevati livelli di attività. Nell’interpretare la dinamica delle poste del CCNc è necessario, infine, tener presente che, al di là del comportamento di clienti e fornitori, un ruolo rilevante è esercitato dai processi interni aziendali attraverso i quali vengono gestite le variabili che formano il CCNc. Il riferimento è essenzialmente ai processi di: • gestione degli acquisti (ciclo passivo); • gestione della logistica e della produzione; • gestione del credito commerciale (ciclo attivo). www.analisidibilancio.it 104 Il sistema degli indicatori 2011
Si pensi, ad esempio, al tempo di riscossione dei crediti; questo non solo è influenzato dalla forza dei clienti, ma dipende anche, e spesso largamente, dall’efficienza con la quale sono condotti i processi di fatturazione e controllati quelli di riscossione. Qui, indubbiamente, l’analisi, se condotta da un soggetto esterno all’impresa, trova dei limiti sostanzialmente invalicabili. Non per questo l’operosità del fattore “processi di gestione” deve essere ignorata ai fini della valutazione, anche se le ipotesi interpretative possono essere formulate solo in via residuale; ad esempio, lunghi tempi di riscossione dai clienti, che si manifestano in un contesto di debolezza di questi ultimi, e senza apprezzabili ricadute sull’economia dell’impresa, autorizzano a immaginare la presenza di procedure di gestione del ciclo attivo non efficienti. Anche per il circolante dunque, come per l’autofinanziamento, si viene a configurare un reticolo di fattori causali che influenzano la consistenza e le variazioni di questa grandezza (cfr. tavola 6). Evidenziando in che modo la dinamica monetaria si integra sistemicamente con le variabili economiche e fisico‐tecniche della gestione, si ottengono ulteriori elementi di giudizio non solo per una compiuta valutazione a consuntivo, ma anche per programmare i futuri flussi di cassa operativi correnti. Tavola 6 – Le determinanti del capitale circolante netto www.analisidibilancio.it 105 Il sistema degli indicatori 2011
Capitolo Sesto L’ANALISI DELLA REDDITIVITÀ NETTA 106 6. Il valore fondamentale e la redditività netta 7. Una misura di sintesi della redditività netta 8. Le determinanti della redditività netta 3.1. La logica additivo‐moltiplicativa 3.2. La logica moltiplicativa 9. Redditività netta e livelli di rischio 4.1. Il trading on equity 4.2. Redditività degli investimenti e rischio operativo 4.3. Il grado di indebitamento e le condizioni di rischio finanziario: gli effetti sul costo del capitale e sul valore fondamentale 10. La ricomposizione dei sotto‐sistemi di indicatori 1. VALORE FONDAMENTALE E REDDITIVITÀ NETTA I flussi di cassa sono alla base della determinazione del valore fondamentale dell’impresa secondo le logiche discounted cash flow (DCF). In via generale, il valore fondamentale misurato con le logiche in parola risulta dalla somma di due quantità: • valore attuale del flusso di cassa durante il periodo (t1‐tn) di previsione analitica; • valore attuale del flusso di cassa dopo il periodo di previsione analitica (terminal value). La scelta dei flussi di cassa (CF) oggetto di attualizzazione configura due versioni della logica DCF: • asset side; • equity side. Le determinazioni asset side pervengono indirettamente alla misura del valore fondamentale del capitale di rischio. Esse, infatti, quantificano il valore fondamentale del complesso degli investimenti operativi netti (COIN) attraverso l’attualizzazione a un congruo tasso del free cash flow from operations (FCF). Per ottenere il valore fondamentale del capitale di rischio e, da qui, delle singole azioni che lo formano, occorre, poi, sottrarre dal valore economico del COIN il valore dell’indebitamento netto. Le determinazioni equity side, invece, misurano direttamente il valore fondamentale del capitale di rischio e, da qui, delle singole azioni che lo formano. Per farlo, si procede www.analisidibilancio.it Il sistema degli indicatori 2011
all’attualizzazione, a un congruo tasso, del free cash flow to equity (FCFE), ossia del flusso monetario disponibile per gli azionisti. In condizioni di assenza di crescita (steady state) e comunque nel lungo termine, reddito operativo (EBIT) e free cash flow operativo tendono a coincidere (cfr. tavola 1). Infatti, il CCNc si stabilizza e, quindi, la sua variazione è uguale a zero; inoltre, il capex è espresso da investimenti di mero rinnovo che eguagliano gli ammortamenti. Lo stesso vale per reddito netto (RN o corrente) e free cash flow to equity. Nelle condizioni ipotizzate, infatti, la struttura finanziaria resta costante e, quindi, l’indebitamento non varia; gli unici flussi da esso prodotti corrispondono agli interessi sul debito. L’indicata convergenza fra flussi monetari e redditi si manifesta sicuramente nel periodo di previsione sintetica assunto a base della stima del terminal value. Pertanto, in determinate condizioni e comunque nel lungo termine, il valore fondamentale può essere ottenuto non solo attualizzando flussi finanziari, ma anche risultati reddituali. In sostanza, i flussi di reddito rappresentano la principale determinante dei flussi finanziari dai quali dipende il valore fondamentale dell’impresa (cfr. tavola 2). Tavola 1 – Convergenza fra flussi finanziari e reddituali Nella prospettiva delineata, l’attenzione dell’analista deve rivolgersi anche verso la redditività netta vista, da un lato, quale determinante del valore fondamentale nella logica equity side, dall’altro, quale espressione di sintesi delle condizioni di equilibrio economico dell’impresa, influenzata sia dagli andamenti della gestione operativa che dalle scelte della gestione finanziaria. Guardare alla redditività netta significa, indubbiamente, assumere il punto di vista dell’azionista. A ben vedere però, in un orizzonte di lungo termine, il soddisfacimento delle attese dei portatori del capitale di rischio deve tendere a coincidere con quello degli altri stakeholder che direttamente e indirettamente concorrono alla vita dell’impresa; diversamente, la ricerca della massimizzazione del guadagno a scapito degli altri attori aziendali (clienti, creditori, dipendenti, www.analisidibilancio.it 107 Il sistema degli indicatori 2011
ecc.) porterebbe, nel medio‐lungo andare, alla perdita del contributo che i più qualificati di tali attori sono disposti a offrire, con la conseguenza di una riduzione delle prestazioni aziendali e la perdita del valore che complessivamente l’impresa potrebbe generare. Tavola 2 – Valore fondamentale e flussi di reddito In conclusione, la capacità di remunerare gli azionisti senza sacrificare la remunerazione degli altri fattori della produzione è il presupposto perché l’impresa possa durare nel tempo svolgendo la sua funzione di produzione di ricchezza. 2. UNA MISURA DI SINTESI DELLA REDDITIVITÀ NETTA Impiegando i dati di bilancio, la redditività netta trova una misura di sintesi nel calcolo del tasso di remunerazione del capitale netto, comunemente Return On Equity e identificato con l’acronimo R.O.E., ossia: reddito netto /capitale netto Il significato di questo rapporto è di agevole comprensione ricordando le relazioni che logicamente esistono fra gli stock di capitale rappresentati in Stato Patrimoniale e i flussi di reddito rilevati nel Conto Economico (cfr. tavola 3). Si tratta di un tasso che esprime in termini percentuali il rendimento di ogni Euro di capitale di rischio investito nella gestione dell’impresa; esso è, dunque, una misura legata al processo di distribuzione del reddito. Guardando alle componenti del rapporto, in seguito al processo di normalizzazione del reddito condotto durante la fase di riclassificazione, il numeratore dell’indice può essere più propriamente espresso dal reddito corrente, al lordo o al netto delle imposte debitamente ricalcolate. In questo senso, il ROE viene talvolta indicato nella prassi dell’analisi finanziaria nazionale con l’acronimo ROEAST, ossia ROE ante componenti di reddito straordinari e imposte, www.analisidibilancio.it 108 Il sistema degli indicatori 2011
intendendo per componenti straordinari tutti i valori a suo tempo definiti non ripetibili. Ovviamente, la misura della redditività netta può essere ottenuta anche considerando il reddito netto di bilancio; laddove siano presenti componenti non ripetibili, si ottiene, però, una misura che non esprime la stabilizzata attitudine dell’impresa a generare reddito negli esercizi futuri. Tavola 3 – I collegamenti fra flussi di reddito e stock di capitale Il valore del capitale netto a denominatore è quello derivante dalla media fra i valore all’inizio e alla fine del periodo amministrativo osservato. Sempre con riferimento al denominatore, si pone la questione se il capitale netto di fine anno deve comprendere o meno il reddito prodotto nell’esercizio. Volendo giungere a determinare un tasso reale e non puramente finanziario di redditività è necessario tener presente che l’utile si viene gradualmente formando durante l’anno e che esso è automaticamente reinvestito nell’attività di gestione; dunque, ogni unità di reddito che si forma concorre alla produzione delle unità successive. Per queste ragioni, il netto di fine anno dovrebbe comprendere anche il risultato dell’esercizio. L’interpretazione del livello assunto dal ROE è apparentemente agevole: in generale, più alto è il tasso di remunerazione del capitale di rischio, meglio è, perché maggiore è la capacità potenziale dell’impresa di generare free cash flow to equity. La valutazione può essere, inoltre, corroborata dal confronto con il tasso di remunerazione medio del settore in cui l’impresa opera. Per cogliere appieno il contributo del rendimento del capitale di rischio alla crescita del valore fondamentale dell’impresa occorre, tuttavia, considerare come termine di confronto del ROE il costo del capitale di rischio Ke.7 Il ROE, infatti, misura quanto quel capitale, una volta impiegato nella gestione, ha fruttato. E’, allora evidente che solo quando ROE risulta maggiore di Ke, ossia il rendimento dei capitali è superiore alla loro remunerazione media attesa, le scelte di gestione hanno accresciuto il valore fondamentale dell’impresa, determinando la formazione di un extra‐
7
Per approfondimenti, si rimanda a ogni buon manuale di finanza aziendale. www.analisidibilancio.it 109 Il sistema degli indicatori 2011
profitto che determina un incremento del valore economico del capitale degli azionisti. 3. LE DETERMINANTI DELLA REDDITIVITÀ NETTA Pur essendo un potente indicatore di sintesi dell’economicità aziendale, il ROE non “spiega” a quali specifiche cause è dovuta tale redditività. Non individuando tali condizioni: • non si mettono in luce le leve gestionali sulle quali agire per raggiungere e accrescere il livello di equilibrio economico; • non si può comprendere la capacità dell’impresa di replicare o migliorare i risultati economici raggiunti. Guardando ai circuiti di produzione e distribuzione del reddito e alle loro relazioni con gli stock di investimento e finanziamento (cfr. tavola 4) è agevole identificare le principali determinanti della redditività netta. Queste sono rappresentate da: • la redditività degli investimenti; • l’ammontare del debito contratto; • il costo di tale debito. Tavola 4 ‐ I collegamenti fra flussi di reddito e stock di capitale La misurazione di queste determinanti e la correlazione con il ROE può seguire due logiche: • la logica additivo‐moltiplicativa (detta anche formula Modigliani‐Miller); • la logica moltiplicativa (detta anche formula Du Pont). www.analisidibilancio.it 110 Il sistema degli indicatori 2011
3.1. LA LOGICA ADDITIVO‐MOLTIPLICATIVA 111 8
Esaminiamo, anzitutto, la prima logica. Questa si traduce nella seguente uguaglianza: ROE = ROI + (ROI‐ROD) x D/E dove: ROI = risultato ante oneri finanziari (RAOF)/capitale investito netto (CIN) ROD = oneri finanziari (OF)/debiti finanziari D/E = debiti finanziari (D)/capitale netto (E). Gli indici presenti nella formula sono tutti noti e appartengono ai sotto‐sistemi di analisi sin qui esaminati; ciò a conferma che la redditività netta è espressione di sintesi delle diversi condizioni, reddituali e finanziarie, della gestione. Infatti: • ROI esprime il rendimento dei capitali investiti nell’impresa al lordo del costo sostenuto per acquisire quei capitali; • ROD (Return On Debt) quantifica il costo sostenuto per raccogliere quei capitali dalle diverse fonti finanziarie utilizzate (Banche, Obbligazioni e simili); • D/E rappresenta il grado di indebitamento dell’impresa, ossia in che misura i finanziamenti dell’impresa provengono dai terzi, e determinano quindi debiti, oppure provengono direttamente o indirettamente dai soci, e quindi esprimono capitale di rischio. La relazione che lega fra loro gli indici esprime circostanze di tutta evidenza. E’, infatti, ovvio che il rendimento dei capitali dei soci investiti nell’impresa dipenda, in primo luogo, da quanto l’impresa è in grado di far fruttare quei capitali, indipendentemente da dove essi provengono. Da qui il primo elemento della formula, il ROI. L’impresa, però, per finanziare la sua attività può ricorrere anche a capitali di terzi, ossia a debiti. In tal caso, questi ultimi rendono all’impresa tanto quanto rendono i capitali dei soci, cioè ROI; i soldi provenienti dai debiti, infatti, sono investiti nella gestione operativa e finanziaria, non dissimilmente dai soldi provenienti dal capitale di rischio. I debiti, tuttavia, hanno un costo che è misurato dall’indice ROD. Ai fini della remunerazione del netto, quello che conta è la differenza fra ROI e ROD; questa, infatti, ricade sui portatori di capitale di rischio. In particolare, ogni volta che ROI>ROD si forma un margine positivo che fa 8
La dimostrazione dell’equazione è la seguente: ROE = RN/CN = RAOF/CIN + (RAOF/ CIN ‐ OF/D) x D/E = RAOF/CIN + RAOF x D/CIN x E ‐ OF/E = = (RAOF x E + RAOF x D ‐ OF x CIN) / (CIN x E ) =
RAOF (E + D) - OF x CIN
CIN x E
= RAOF x CIN - OF x CIN = RAOF - OF = RN CIN x E
E
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www.analisidibilancio.it = Il sistema degli indicatori 2011
guadagnare i soci dell’impresa, i quali si appropriano non solo del rendimento sul loro capitale, ma anche di quello sul capitale preso in prestito da altri, al netto del relativo costo. In questo senso, il guadagno dei soci sarà tanto maggiore quanto più capitale è stato preso a prestito. Infatti, dato un margine ROI‐ROD del 2%, se i debiti ammontano a 1000 il margine che finirà nelle tasche dei soci sarà pari a 20; se, invece, ammontano a 10.000, i soci si approprieranno di 200. Da qui, il ruolo del rapporto di indebitamento (D/E) il quale moltiplica la differenza ROI‐ROD. Se l’analisi vuole tener conto anche dell’effetto delle imposte, avendo assunto a denominatore del ROE il reddito corrente al netto delle imposte, l’intera espressione a destra dell’uguale deve essere moltiplicata per il coefficiente T, ossia per il tax rate dato dal rapporto: reddito corrente lordo/reddito corrente netto. L’influenza esercitata dalle determinanti può essere misurata in modo puntuale ricorrendo a una sorta di analisi degli scostamenti. Obiettivo è quello di comprendere e quantificare quanto ognuna delle determinanti ha contribuito alla variazione del ROE intervenuta in un dato esercizio. Data una variazione del ROE intervenuta fra gli istanti t0 e t1 : • l’uguaglianza del ROE viene calcolata attribuendo, a una data variabile, il valore in t1 e alle altre il valore in t0 • fermo il valore in t1 della prima variabile considerata, il calcolo prosegue per una successiva determinante del ROE, attribuendo a essa il valore assunto in t1 mentre il valore delle altre variabili non ancora considerate resta quello in t0 • la somma degli scostamenti fra il valore assunto volta per volta dal ROE rispetto alla determinazione precedente darà l’ammontare complessivo della variazione del ROE fra t0 e t1 • lo scostamento più alto segnala la variabile che ha contribuito maggiormente a modificare il ROE. Un esempio aiuterà a chiarire il criterio di analisi. Si consideri la seguente situazione al momento t0: 4,8% = [6% (ROI) + (6% (ROI) ‐ 5% (ROD)) x 2 (D/E)] x 0,6 (T) La situazione al momento T1 sia invece: 8,8% = [10% (ROI) + (10% (ROI) ‐ 8% (ROD)) x 3 (D/E)] x 0,55 (T) La variazione fra i due esercizi è di quattro punti percentuali. Si tratta di indentificare in che misura ciascuna variabile ha concorso a causare tale variazione. Si imposti, allora, la seguente analisi degli scostanti seguendo il criterio in precedenza indicato. Avremo dunque: • effetto sulla variazione del ROE dovuto alla variazione del ROI pari a 7,2% (12%‐4,8%): www.analisidibilancio.it 112 Il sistema degli indicatori 2011
12% = [10% (ROI) + (10% (ROI) ‐ 5% (ROD)) x 2 (D/E)] x 0,6 (T) • effetto sulla variazione del ROE dovuto alla variazione del ROD pari a ‐3,6% (12%‐8,4%): 8,4% = [10% (ROI) + (10% (ROI) ‐ 8% (ROD)) x 2 (D/E)] x 0,6 (T) • effetto sulla variazione del ROE dovuto alla variazione del D/E pari a 1,2% (9,6%‐8,4%): 9,6% = [10% (ROI) + (10% (ROI) ‐ 8% (ROD)) x 3 (D/E)] x 0,6 (T) • effetto sulla variazione del ROE dovuto alla variazione di T pari a 0,8% (8,8%‐9,6%): 8,8% = [10% (ROI) + (10% (ROI) ‐ 8% (ROD)) x 3 (D/E)] x 0,55 (T) A riprova della correttezza dell’analisi, la sommatoria degli scostamenti del ROE è uguale a pari a quattro. 3.2. LA LOGICA MOLTIPLICATIVA La scomposizione del ROE può essere operata anche seguendo una strada diversa da quella sin qui esaminata. Muovendosi nella prospettiva del reddito corrente quale proxy del reddito netto, il ROE può essere così scomposto: ROE = ROI x leverage x IGE dove: ROI = RAOF/CIN; LEVERAGE = CIN/ E; IGE (Incidenza gestione extra‐operativa) = reddito corrente netto/RAOF I fattori causali individuati sono sostanzialmente gli stessi messi in campo nella formula additivo‐moltiplicativa; infatti:
• ROI è lo stesso indice della formula “additiva”; • LEVERAGE rappresenta il grado di indebitamento dell’impresa. A differenza dell’indice D/E, qui l’indebitamento è espresso in maniera indiretta. Si confronta, infatti, il totale degli investimenti CIN (che ovviamente corrisponde al totale delle fonti di finanziamento, ossia D + E) con i finanziamenti dell’impresa che provengono direttamente o indirettamente dai soci, e che quindi esprimono capitale di rischio o capitale netto (E). Livelli crescenti di questo indice segnalano l’aumento delle fonti di terzi nella struttura finanziaria dell’impresa; • IGE rappresenta l’incidenza di “tutti” i componenti di reddito “al di sotto” del “reddito ordinario ante oneri finanziari” (RAOF). Si tratta, quindi, di oneri e/o www.analisidibilancio.it 113 Il sistema degli indicatori 2011
proventi derivanti dalla: gestione finanziaria passiva; gestione straordinaria; gestione tributaria. In sostanza, l’IGE è una sorta di indice di sintesi in cui confluiscono idealmente il ROD e il tax rate. Questa forma di scomposizione del ROE presenta alcuni limiti: a) esiste uno stretto legame di reciprocità fra il secondo (leverage) e il terzo indicatore (IGE). E’, infatti, evidente che al crescere del rapporto di indebitamento l’ammontare degli oneri finanziari rilevati nel Conto Economico aumenta, causando modificazioni nel rapporto reddito corrente netto/RAOF. Questo impedisce di compiere analisi univariate;9 b) attraverso l’indice IGE si determina il contributo alla redditività corrente netta delle aree di gestione finanziaria passiva e tributaria (ed eventualmente dei componenti non ripetibili di reddito se l’analisi è condotta sulla base del reddito netto invece che di quello corrente). Tale contributo risulta, però, confuso; tutto confluisce nel calderone dell’IGE; c) causa il limite di cui al punto precedente, lo spread fra ROI e ROD non emerge come pure l’azione moltiplicativa esercitata dall’indebitamento. Tale azione emerge solo indirettamente. In particolare, se ROE=ROI (1‐t) 10 il leverage esercita un effetto nullo, se ROE>ROI (1‐t), l’effetto è positivo e viceversa. In conclusione, seguendo questa strada le informazioni disponibili per l’analista risultano ridotte. Di conseguenza, viene limitata la possibilità di compiere un primo chiaro, sia pur ancora generale, inquadramento dell’assetto economico e finanziario dell’impresa. 4. REDDITIVITÀ NETTA E LIVELLI DI RISCHIO L’analisi della redditività netta, specie se condotta secondo la formula additivo‐
moltiplicativa, offre alcuni significativi spunti per comprendere: • comprendere le relazioni fra profilo reddituale e profilo finanziario della gestione; • interpretare le variazioni del ROE alla luce delle diverse condizioni di rischio della gestione e del correlato costo del capitale (Ke). 4.1. IL TRADING ON EQUITY Il “nocciolo” della formula è costituito dal confronto fra gli indici ROI e ROD. Da esso si desume che, ogni volta che ROI>ROD, al crescere del rapporto di indebitamento cresce la 9
Per analisi univariate si intende una particolare metodologia di indagine che, assumendo come costanti i fattori in gioco, fa variare un singolo elemento oggetto di osservazione e ne esamina gli effetti. 10
Dove t è l’aliquota d’imposta gravante sulle società di capitali. www.analisidibilancio.it 114 Il sistema degli indicatori 2011
remunerazione del capitale netto (ROE). In sostanza, ogni volta che un Euro investito nell’impresa frutta più di quanto costa prendere quell’Euro a prestito, vi sarà convenienza a finanziare le attività aziendali con la più alta percentuale possibile di capitale di terzi e la più bassa percentuale di capitale di rischio. La circostanza richiamata va sotto il nome di effetto di leva finanziaria o, più propriamente, di trading on equity. In tali condizioni, infatti, i risultati della gestione copriranno il costo dei debiti e, per la differenza, si distribuiranno su un “piccolo” ammontare di capitale di rischio, dando origine a un alto saggio di redditività del medesimo. L’effetto di trading chiarisce che, poste determinate condizioni, i capitali di terzi non fanno male all’impresa ma, al contrario, consentono di coprire i fabbisogni finanziari della gestione e accrescere il rendimento del capitale di rischio in essa investito. Nel valutare tale effetto, occorre, però, fare attenzione alle condizioni di rischio della gestione 4.2. REDDITIVITÀ DEGLI INVESTIMENTI E RISCHIO OPERATIVO La scomposizione del ROE mette in chiara evidenza la centralità della relazione ROI – ROD. Tale relazione fa capire: da un lato, quanto rendono i capitali investiti nell’impresa; dall’altro, quanto costano quei capitali. In questa relazione, quindi, si ritrova il senso economico dell’affare d’impresa e la possibilità di un suo sviluppo durevole nel tempo. Fra i due indicatori, indubbiamente, ROI è quello “più importante”. Esso, infatti, sintetizza la capacità della formula imprenditoriale di far fruttare i capitali raccolti e variamente investiti. Di contro, ROD, specie nelle imprese di più piccola dimensione, sintetizza “condizioni vincolo”, imposte all’impresa dagli intermediari finanziari. Ora, è evidente che la redditività lorda degli investimenti espressa dal ROI è frutto, prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, della redditività della gestione operativa. La maggior parte degli investimenti che formano il CIN, infatti, sono legati alla particolare produzione economica (o alle particolari produzioni, nel caso di imprese operanti in diverse Aree Strategiche di Affari) che caratterizza(no) la gestione dell’impresa. In sostanza, ROI dipende largamente dalla gestione operativa e quindi incorpora le condizioni di rischio operativo. Di conseguenza, solo se la gestione operativa è florida e legata a circostanze non effimere, anche il ROI potrà essere robusto e in grado di coprire congruamente il ROD. Di contro, se la gestione operativa è debole, anche il ROI sarà debole; sarà quindi facile che la sua relazione con il ROD si inverta, concorrendo non più ad accrescere la redditività del capitale degli azionisti, ma moltiplicando le perdite. Il che significa, in altre parole, che le imprese che si possono permettere di sfruttare maggiormente il debito sono quelle il cui divario ROI ‐ ROD è fondato sulle più efficienti ed efficaci condizioni di gestione operativa, ossia, quelle che presentano un più basso livello di rischio operativo. www.analisidibilancio.it 115 Il sistema degli indicatori 2011
4.3. IL GRADO DI INDEBITAMENTO E LE CONDIZIONI DI RISCHIO FINANZIARIO: GLI EFFETTI SUL COSTO DEL CAPITALE E SUL VALORE FONDAMENTALE L’effetto di trading on equity indica che l’indebitamento rappresenta una leva agendo sulla quale è possibile, a parità di redditività operativa, aumentare la remunerazione offerta ai conferenti il capitale di rischio. L’incremento del debito causa, tuttavia, una crescita del peso degli oneri finanziari sul fatturato; in quanto costi sostanzialmente fissi, tali oneri esercitano un effetto di leva che determina una più accentuata variabilità del reddito corrente rispetto alle variazioni del reddito operativo. La crescita dell’indebitamento, dunque, ha l’effetto di amplificare i livelli di rischio riconducibili alle caratteristiche operative della gestione. Dal quadro brevemente tracciato emerge che l’uso il ricorso all’indebitamento: • da un lato, accresce la redditività del capitale netto; • dall’altro, determina un aumento del costo del capitale di rischio, Ke (e quindi anche del costo medio del capitale raccolto, WACC) In questo quadro, gli incrementi di ROE conseguenti al maggior ricorso al debito altro non sono che mere compensazioni del maggior rischio che gli investitori sopportano e, dunque, non sottintendono una crescita del valore fondamentale. L’effetto leva sarebbe, dunque, irrilevante sulla ricchezza degli azionisti, ossia non si creerebbe né si distruggerebbe valore tramite le manovre sulla struttura finanziaria. A ben vedere, però, l’aumento del rapporto di indebitamento (D/E) accresce il rischio di fallimento dell’impresa. In caso di fallimento, come già chiarito affrontando il tema della solidità patrimoniale, 11 le attività dell’impresa vengono vendute a prezzi di liquidazione, in molti casi ben al di sotto del loro valore economico; l’impresa è, inoltre, chiamata a sostenere costi di vendita e altri oneri legali, senza dire dei ritardi e delle inefficienze della procedura fallimentare. Tutto questo determina una possibile perdita secca del capitale dei creditori. Questi, di conseguenza, percependo un maggior rischio richiedono una più alta remunerazione del loro investimento. Considerazioni analoghe valgono per gli azionisti. Il timore del fallimento, legato alla crescita dell’indebitamento aziendale, compromette gradualmente le relazioni fra l’impresa e suoi stakeholder: i fornitori tendono ad allontanarsi, preoccupati dei possibili mancati pagamenti; i dipendenti migliori abbandonano l’impresa in cerca di più sicure opportunità di lavoro; i clienti riducono gli acquisti, preoccupati per la futura disponibilità dei prodotti dell’impresa. Tutto ciò causa una decisa perdita di efficienza dei processi aziendali che si riverbera sulla redditività aziendale a scapito degli azionisti. Questi ultimi, inoltre, vedono nella copertura delle perdite di liquidazione e dei costi delle procedure fallimentari, attraverso il capitale netto investito nell’impresa, un drenaggio delle loro risorse a favore dei creditori. Di conseguenza, anch’essi tendono a scontare questa possibile perdita secca pretendendo una maggiore remunerazione del 11
Si veda il capitolo quarto. www.analisidibilancio.it 116 Il sistema degli indicatori 2011
loro capitale che determina una riduzione del prezzo delle azioni. Quanto detto è confermato dalle evidenze empiriche e sta a significare che, spingendo D/E oltre un certo livello, cresce più che proporzionalmente: • da un lato, il costo Kd del debito, con conseguente riduzione dello spread (ROI‐ROD) • dall’altro, il costo Ke dell’equity. Esiste, dunque, un rapporto di indebitamento ottimale che massimizza il valore fondamentale dell’impresa. Il livello ottimale di indebitamento dipende, oltre che dalla composizione delle attività, dal rischio operativo della gestione: maggiore il rischio operativo, più contenuto deve essere il livello di indebitamento della struttura finanziaria. Oltre tale soglia critica, Ke e Kd aumentano più che linearmente rispetto a D/E e alla conseguente crescita indotta nel valore di ROE. La crescita di ROE, pertanto, se realizzata agendo sul debito, non necessariamente sottintende un aumento del valore fondamentale dell’impresa, il quale anzi, può addirittura ridursi se l’incremento di redditività non compensa il maggior rischio che si viene a determinare e che viene percepito dagli investitori. 5. LA RICOMPOSIZIONE DEI SOTTO‐SISTEMI DI INDICATORI La redditività netta è il punto di arrivo dell’analisi che consente di ricondurre a unità i diversi sotto‐sistemi di indici di bilancio. Guardando alle determinanti del ROE, infatti, è evidente che queste sono di due ordini: reddituali e finanziarie. Il ROI si ricollega agevolmente alla redditività degli investimenti operativi (ROI operativo) e agli indici che di tale redditività rappresentano le causali. Il D/E e il correlato ROD introducono nell’analisi le condizioni finanziarie della gestione, sia in termini di solidità patrimoniale, che di liquidità. Quest’ultima, a sua volta, è legata alla redditività operativa, per quanto riguarda vuoi i margini sulle vendite, vuoi la rotazione del capitale circolante netto che determina l’assorbimento della liquidità di tali margini. Sovraordinati a queste condizioni di gestione si pongono, poi, i livelli di crescita dell’impresa, sia come crescita dell’attività corrente che della dimensione strutturale. Un quadro d’assieme, sia pur sintetico e semplificato, delle accennate relazioni è rappresentato nella tavola 5. www.analisidibilancio.it 117 Il sistema degli indicatori 2011
Tavola 5 – Il sistema degli indici di bilancio con: CCNf = capitale circolante netto finanziario P.N.R. = debiti/fatturato (punto di non ritorno) www.analisidibilancio.it 118