Attualità Recenti Prog Med 010; 101: -6 Ruolo del virus dell’epatite delta nella patogenesi della cirrosi epatica e del carcinoma epatocellulare: attuali acquisizioni Raffaella Romeo Riassunto. Il virus dell’epatite Delta è un virus difettivo a RNA che necessita della presenza del virus B per propagare l’infezione. Condivide le vie di trasmissione del virus B e quindi viene prevalentemente trasmesso per contatto con sangue o liquidi biologici infetti. L’infezione Delta può avvenire simultaneamente all’infezione B (coinfezione) o in un tempo successivo rispetto all’HBV in un paziente che sia già HBV positivo (sovra infezione). Per un certo numero di anni si è osservato un declino nella prevalenza dell’infezione delta sia acuta che cronica. Ultimamente, in Europa si assiste ad una stabilizzazione della prevalenza di infezione HDV, perlopiù sostenuta dai recenti flussi migratori. La persistente replicazione HDV si è dimostrata correlata allo sviluppo di cirrosi epatica e carcinoma epatocellulare, oltre ad essere predittiva di mortalità da danno epatico. Il trattamento precoce e per tempi prolungati può eradicare l’infezione migliorando la prognosi a lungo tempo. Summary. Role of the hepatitis Delta virus on the pathogenesis of hepatic cirrhosis and hepatocellular carcinoma. Recent advances. Parole chiave. Carcinoma epatocellulare, cirrosi epatica, epatite B, interferone, virus dell’epatite Delta. Key words. Hepatic cirrhosis, hepatitis B virus, hepatitis Delta virus, hepatocellular carcinoma, inteferon. Introduzione presentati in estremo Oriente ed in alcune regioni dell’ex Unione Sovietica e sono generalmente associati a gradi di malattia meno severa rispetto al tipo I4. Tuttavia, alcune varianti del tipo IV sono state associate a forme di malattia più rapidamente progressiva5. Il genotipo III è associato a forme di malattia severa e in particolare a focolai di epatite fulminante in alcuni paesi del sud America, quali Venezuela, Colombia, Perù ed Ecuador6. Infine, i genotipi V, VI e VII sono di più recente isolamento e al momento sembrano confinati ai paesi dell’Africa7. Il virus Delta (HDV), agente etiologico responsabile dell’epatite Delta, è un virus difettivo a RNA che necessita della presenza del virus dell’epatite B (HBV) per l’assemblaggio del virione e la propagazione dell’infezione1. Scoperto casualmente negli anni ’70, era stato, all’inizio, considerato come un marcatore del virus B. Solo successivamente, studi condotti nello scimpanzé dimostrarono che l’antigene Delta non era un componente del HBV, bensì un vero e proprio virus difettivo che necessita della presenza del HBV per infettare le cellule e quindi propagare l’infezione, ma non per i propri meccanismi di replicazione2. L’analisi delle sequenze ottenute da isolati provenienti da diverse aree geografiche nel mondo, ha dimostrato l’esistenza di 7 genotipi del virus. Il genotipo I, maggiormente prevalente, è distribuito in tutto il mondo3. Rappresenta il genotipo più diffuso nei paesi del bacino del Mediterraneo, Africa, Europa e Nord America. I genotipi II e IV (quest’ultimo originariamente noto come tipo IIb), sono perlopiù rap- Hepatitis Delta virus is a defective RNA virus that requires HBV as helper virus. The two viruses share the same route of transmission, being prevalently transmitted by contaminated blood and body fluids. HDV can infect simultaneously with HBV (coinfection) or in a patient with already established HBV infection (superinfection). A progressive decline in HDV prevalence both as acute or chronic infection has been observed for several years. More recently, several European countries have observed stable HDV prevalence mainly due to migrants from non European countries. Persistent HDV replication has been demonstrated as correlated to cirrhosis development and hepatocellular carcinoma occurrence. Moreover, persistent HDV replication predicts liver related mortality. Early and prolonged treatment may lead to virus eradication, improving long-term prognosis. Epidemiologia dell’infezione da HDV Il virus è endemico in tutto il mondo, ma la prevalenza dell’infezione varia nelle diverse aree geografiche. Si stima che approssimativamente il 5% della popolazione totale di portatori di HBV sia infettato dal virus Delta, indicando pertanto che attualmente nel mondo ci sono circa 10-15 milioni di portatori di virus Delta8. I Divisione di Gastroenterologia, IRCCS Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena, Università degli Studi di Milano Pervenuto il 7 ottobre 2009. R. Romeo: Ruolo del virus dell’epatite delta nella patogenesi della cirrosi epatica e del carcinoma epatocellulare Negli anni ’80-’90, l’infezione era altamente endemica nel bacino Amazzonico, in Europa Occidentale e in diverse regioni dell’ Africa e del medio Oriente9. Bassi livelli di endemia erano invece riscontrati nel nord Europa, dove la prevalenza più elevata si osservava nei soggetti dediti all’uso di sostanze tossiche per via endovenosa. Infine, medi livelli di endemia erano rilevati nell’Europa meridionale, dove la più importante via di trasmissione del virus era intrafamiliare10. Importanti informazioni sull’epidemiologia dell’infezione da HDV derivano da uno studio longitudinale condotto in Italia nei 20 anni successivi alla scoperta del virus11. I dati di questo studio suggerivano che il virus fosse stato isolato nel corso di una fase epidemica dell’infezione, con percentuali di infezione considerevolmente diminuite nel corso dei 20 anni successivi. Studi ulteriori avevano, infatti, indicato un calo delle percentuali di antiHD positività in soggetti epatopatici, dal 14% rilevato nel 1992 all’8,3% del 199712,13. Tale calo nelle percentuali di infezione cronica si associava al declino anche dei casi di infezione acuta Delta, che passavano da 3,1 casi per milione di abitanti nel 1987 a 0,5 casi nel 200414. Senza dubbio, il declino dell’infezione HDV nei paesi industrializzati è stato in larga misura legato alla notevole riduzione nella circolazione del virus B, perlopiù grazie ad un notevole miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, all’utilizzo di materiale monouso, alle pratiche vaccinali contro l’HBV e alle misure di contenimento dell’infezione HIV che si trasmette attraverso le stesse vie dei virus B e Delta. L’importante riduzione dell’infezione Delta osservata negli anni ’90 aveva confortato l’ipotesi che essa stesse per esaurirsi definitivamente. In realtà, studi più recenti condotti in Europa, hanno dimostrato che il declino dell’infezione Delta si è arrestato. La prevalenza di infezione Delta osservata a Londra si è mantenuta stabilmente attorno all’8,5% nel periodo di osservazione compreso tra l’anno 2000 e l’anno 2006, indicando inoltre che la maggior parte dei pazienti infetti proveniva dall’Europa meridionale ed occidentale, dall’Africa e dal Medio Oriente15; in Germania, la prevalenza di anti-HDV che era calata dal 18,6% osservato nel 1992 al 6,8% registrato nel 1997, non aveva successivamente mostrato variazioni16, indicando inoltre che la maggior parte dei pazienti Delta positivi studiati proveniva dalla Turchia e dai paesi dell’ex Unione Sovietica16. Infine in Francia, dove esiste una popolazione di portatori cronici di HDV perlopiù proveniente dall’ Africa, le evidenze indicano un progressivo incremento dei nuovi casi17. Diagnosi di epatite Delta La diagnosi iniziale viene fatta mediante la ricerca di anticorpi di classe IgM diretti contro il virus (IgM anti-HDV). Le IgM anti-HDV sono il primo marcatore di infezione a comparire e il loro titolo aumenta nel corso dell’infezione primaria. Questi anticorpi persistono durante la progressione a cronicità, e generalmente sono presenti ad alto titolo nei pazienti con infezione cronica. La diminuzione del titolo di IgM anti-HDV così come la sua scomparsa sono considerate predittori di risoluzione della malattia, sia spontaneamente che come conseguenza di una terapia antivirale. Gli anticorpi di classe IgG compaiono alcune settimane dopo l’infezione primaria. Aumentano con il progredire dell’infezione fino a raggiungere titoli elevati nei soggetti immunocompetenti con epatite cronica. Le IgG anti-HDV non conferiscono protezione e possono essere considerate come una sorta di memoria immunologica, esito della risolta doppia infezione HBV-HDV. Nei soggetti con infezione di vecchia data, il titolo degli anticorpi di classe IgG tende ad essere basso. La modalità più accurata per porre diagnosi di infezione Delta è mediante la ricerca di HDV RNA sierico o dell’antigene Delta (HDAg) tessutale18. Tuttavia, poiché la percentuale di cellule che esprimono l’antigene diminuisce man mano che la malattia cronica progredisce, la ricerca dell’infezione con tecniche di immunoistochimica, in presenza di quadri di malattia cronica avanzata, potrebbe dare falsi risultati negativi. La ricerca di HDV RNA mediante reazione a catena delle polimerasi (RT-RCP) rappresenta al momento la tecnica più sensibile per porre diagnosi di infezione. Risulta di grande utilità nella diagnosi precoce dell’infezione così come nel monitoraggio dei pazienti in terapia antivirale. L’impiego di questo test è tuttavia limitato poiché viene eseguito solamente in pochi laboratori specializzati. Patogenesi e storia naturale dell’ infezione L’esperienza clinica acquisita in Europa e in molti paesi nel mondo ha dimostrato negli anni una associazione tra infezione da HDV e danno epatico importante19, essendo spesso associata a rapido sviluppo di cirrosi epatica e ad elevato rischio di sviluppo di carcinoma epatocellulare20. I meccanismi di danno epatico indotti dal virus Delta sono ancora poco chiari e controversi. Alcuni studi hanno mostrato che la lisi cellulare mediata dai linfociti non abbia un ruolo determinante nel generare la malattia indicando inoltre che il virus non è in grado di indurre una risposta autoimmune21. D’altra parte, poiché il fegato di pazienti con infezione cronica Delta contiene linfociti T CD4+ specifici per l’antigene Delta, si postula che cloni T-linfocitari specifici per l’antigene possano essere coinvolti nella risposta B e T cellulare che conduce alla attivazione immunitaria contro l’HDV22. Alcune evidenze sono a favore di un effetto citotossico dell’HDV messo in atto attraverso l’espressione dell’antigene Delta o una sovra-espressione di HDV RNA23. Recenti Progressi in Medicina, 101 (), febbraio 010 Il ruolo di fattori genetici nell’infezione rimane poco chiaro. Infatti, sebbene l’infezione da parte del genotipo III dell’HDV si sia dimostrata associata a forme severe di malattia osservate in Amazzonia6,24 e il genotipo II appaia associato a forme di malattia meno severe25, un’ampia varietà di condizioni cliniche si è osservata in associazione al genotipo I, tipo prevalente nel nostro paese26. L’infezione Delta può essere acquisita sia come coinfezione con l’HBV sia come superinfezione di un portatore di virus B. Nel soggetto normale, la coinfezione da parte dei due virus comporta che l’attivazione dell’ HDV dipenda dall’attivazione dell’HBV. Questa condizione fa sì che l’espressione dell’HDV possa variare da una forma di infezione abortiva fino a manifestazioni estremamente virulente6. Nella maggior parte dei casi di coinfezione, l’infezione HBV è auto-limitante e l’infezione HDV si risolve. Solamente il 2% circa dei casi evolve a cronicità27. I portatori di HBV che si sovrainfettano con il virus Delta sono ad elevato rischio di evolvere a cronicità. Si stima, infatti, che la progressione ad HDV cronica avvenga circa nel 90% dei casi28. Nei rimanenti casi, la sovrainfezione guarisce. Gli studi originari condotti nella popolazione generale, avevano dimostrato che la malattia ha un decorso benigno, non progressivo in una minoranza di pazienti valutata attorno al 15% dei casi, mentre nella maggioranza la malattia conduce rapidamente allo sviluppo di cirrosi entro pochi anni19. Un importante studio successivo, condotto da Fattovich et al., dimostrava che nei pazienti con cirrosi epatica HDV positiva seguiti per un intervallo mediano di 6,6 anni, il rischio di morte raddoppiava nei pazienti HDV positivi rispetto a quelli HDV negativi, mentre il rischio di sviluppare carcinoma epatocellulare era triplicato nei Delta positivi rispetto ai cirrotici solo portatori di HBV20. Un nostro studio di recente pubblicazione, eseguito su 299 pazienti con infezione cronica Delta seguiti per un intervallo medio di 28 anni, ha dimostrato che il 30% dei pazienti sviluppava cirrosi e meno del 15% di tutti i pazienti moriva per complicanze legate alla malattia di fegato29. Questi dati, in controtendenza rispetto ai risultati di Fattovich et al, ma anticipati anche da altri studi pubblicati in seguito, potrebbero indicare una variazione nell’epidemiologia dell’infezione Delta, suggerendo inoltre che la maggior parte dei pazienti del nostro studio ha sviluppato cirrosi come conseguenza di una infezione asintomatica di lunga durata, e non di una infezione recente a rapida evoluzione. Tale concetto era già stato evocato da altri autori11, che indicavano un decorso bifasico della malattia indotta dal virus Delta: caratterizzata da una fase iniziale di infezione florida cui consegue una malattia rapidamente progressiva verso l’insufficienza epatica, con incremento dei tassi di mortalità. Nei pazienti che sopravvivono alla fase iniziale, la malattia rallenta portando allo scompenso molto più lentamente11. I risultati del nostro lavoro hanno inoltre dimostrato che lo stato di replicazione persistente del virus Delta era associato allo sviluppo di cirrosi e carcinoma epatocellulare in percentuali annue del 4% e 2,8% rispettivamente, oltre ad essere il solo fattore predittivo di mortalità correlata al danno epatico29. Questi dati sottolineano ulteriormente l’importanza di porre diagnosi di epatite Delta quanto più precocemente possibile, onde avviare i pazienti con caratteristiche appropriate alla terapia adeguata. Terapia La terapia con interferone rimane a tutt’oggi l’unico trattamento riconosciuto per l’epatite cronica Delta. Tuttavia, i risultati ottenuti e pubblicati negli anni dimostrano come tale approccio terapeutico non sia ottimale30. La risposta alla terapia è ampiamente variabile e può verificarsi anche alla sospensione del trattamento, analogamente a quanto già osservato per l’epatite B. La risposta alla terapia di solito è proporzionale al dosaggio di farmaco somministrato. Uno studio ha infatti dimostrato la maggiore efficacia di 9 MU di interferone somministrato tre volte a settimana, rispetto a 3MU tre volte a settimana, con percentuali di negativizzazione di HDV RNA e normalizzazione delle ALT alla fine del trattamento nel 71% e 71% rispettivamente nel gruppo trattato con alte dosi, rispetto al 36% e 29% rispettivamente, nel gruppo a basso dosaggio31. Più di recente, un altro studio ha dimostrato che alti dosaggi di interferone migliorano significativamente il decorso clinico a lungo termine e la sopravvivenza dei pazienti con epatite cronica Delta32. La introduzione degli interferoni pegilati (PEGIFN) con migliorata farmacocinetica rispetto agli interferoni convenzionali somministrati 3 volte a settimana, sembra più efficace nel trattamento dell’epatite cronica Delta, anche se allo stato attuale sono disponibili solo pochi dati relativi alla terapia con questa molecola. Tuttavia, due studi hanno dimostrato la persistente scomparsa di HDV RNA sierico dopo 6 e 12 mesi di trattamento con PEG-IFN in pazienti precedentemente non responsivi all’interferone convenzionale33,34. Numerosi studi hanno enfatizzato l’importanza del dosaggio del HDV RNA a 6 mesi di trattamento come predittivo di risposta a 1 anno, permettendo l’identificazione dei pazienti che dovrebbero proseguire la terapia per tempi più prolungati3436. L’analisi dei fattori potenzialmente predittivi di risposta al trattamento ha mostrato che pazienti mai trattati, con bassi livelli pretrattamento di gamma-GT (GGT), sembravano avere migliore risposta rispetto a pazienti già trattati con IFN e con elevati livelli pretrattamento di GGT36. In generale, una malattia di breve durata era già stata indicata come predittiva di risposta alla terapia con interferone37. R. Romeo: Ruolo del virus dell’epatite delta nella patogenesi della cirrosi epatica e del carcinoma epatocellulare Diversi studi hanno verificato che la terapia combinata con interferone convenzionale o pegilato e analoghi nucleosidici (lamivudina, ribavirina, adefovir) non ha risultati terapeutici superiori alla monoterapia con interferone35,36. Una possibile spiegazione è che non essendo tali terapie in grado di inibire la produzione di antigene di superficie dell’HBV (HBsAg) – che costituisce la sola componente dell’HBV indispensabile alla sopravvivenza del virus Delta – la sola soppressione della replicazione B non è sufficiente ad eradicare la replicazione Delta. Un nuovo approccio terapeutico nel trattamento dell’infezione cronica Delta è rappresentato dalla clevudina, analogo nucleosidico che nel modello della marmotta americana sembra essere in grado di inibire la produzione di antigene di superficie. Uno studio preliminare ha infatti dimostrato significativa diminuzione dei livelli di HDV RNA in marmotte americane trattate con clevudina38. Altro promettente sviluppo terapeutico è rappresentato dall’impiego degli inibitori di prenilazione. Studi in vitro hanno dimostrato la capacità degli inibitori di prenilazione di abolire la produzione di particelle simil-HDV39. Più recentemente, l’efficacia antivirale degli inibitori di prenilazione è stata confermata anche in vivo40, suggerendo la possibilità di un loro impiego nell’uomo, dato che non sono stati rilevati effetti collaterali maggiori41. Conclusioni Il virus dell’epatite Delta rimane un potenziale fattore di danno epatico e di malattia epatica cronica anche grave in tutti i portatori di HBV, così come nei soggetti suscettibili di infezione HBV, i quali dovrebbero pertanto essere vaccinati. La ricerca degli anticorpi anti-HDV di classe IgM ed eventualmente la ricerca di HDV RNA dovrebbero essere effettuate in tutti i pazienti con infezione HBV di nuovo riscontro, così come nei pazienti sottoposti a terapia antivirale contro il virus B, pazienti che pur non mostrando segni di replicazione B, mantengono elevati livelli di transaminasi. La terapia precoce dell’infezione cronica HDV con elevati dosaggi di interferone, protratta a lungo nel tempo, offre maggiori possibilità di eradicazione del virus Delta, migliorando di conseguenza la prognosi a lungo tempo e rallentando la comparsa di eventi maggiori, quali lo scompenso epatico e lo sviluppo di carcinoma epatocellulare. Bibliografia 1. Sureau C, Guerra B, Lanford R. Role of the large hepatitis B virus envelope protein in infectivity of the hepatitis Delta virion. J Virol 1993; 67: 366-72. 2. Rizzetto M, Hoyer B, Canese MG, et al. 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