LA SPAGNA DI FILIPPO II Filippo II fu Re di Spagna dal 1556, anno in cui abdicò il padre Carlo V, al 1598, anno in cui muore. Egli governava su Spagna, Indie Occidentali, Paesi Bassi, Franca Contea, Italia (Napoli, Sicilia, Sardegna e Milano). Fu un re particolare: autoritario, preciso, rigoroso burocrate (il “rey papelero”). Si considera il centro dell’impero e di conseguenza nel 1580 si fa costruire il palazzo dell’Escorial, a 40 km da Madrid, fortezza in cui rimane durante tutto il suo regno, simbolo anche della sua solitudine. Era perciò lontano anche dalle vie di comunicazione. POLITICA INTERNA Filippo II è un sovrano che anticipa lo Stato moderno. Il governo è formato un sistema di Consigli di Stato, che sono una sorta degli attuali ministeri, ce n’era uno per ogni questione, quello degli Affari Esteri, delle Finanze, delle Questioni Religiose, Militari, ecc. in più vi erano anche i Consigli Territoriali, uno per i Paesi Bassi, uno per l’Italia, ecc. I Consigli erano formati da giuridici ed ecclesiastici appartenenti alla borghesia e le cariche erano messe in vendita (VENALITÀ DEGLI UFFIZI = vendita delle cariche pubbliche): svantaggio non viene rispettato il criterio della meritocrazia; vantaggio lo stato riceveva denaro. La Spagna aveva infatti un immenso bisogno di denaro: a causa delle guerre, dei pirati, del fatto che veniva speso soprattutto per il lusso, e quindi anche il commercio era in decadenza. Filippo II dichiarò la bancarotta per ben 3 volte: nel 1557, nel 1575 e nel 1596. Oltre ai Consigli di Stato vi erano anche delle magistrature a livello locale: i viceré e i governatori più i rappresentati locali. Le Cortes ora sono assemblee rappresentative a livello solo locale. Gli unici ad avere un minimo di autonomia erano la Catalogna, l’Aragona e la Castiglia. Si tratta quindi una politica di estremo controllo. POLITICA RELIGIOSA Filippo II era sì cattolico e fedele, ma anche indipendente ed estremamente intollerante. Egli non voleva sottostare al pontefice, volle controllare il Tribunale dell’Inquisizione in persona ed era intollerante proprio per motivi razziali. Era intollerante verso: - - gli infedeli (ebrei e moriscos; gli ebrei vennero cacciati nel 1492 e si accanì contro quelli che erano rimasti; i moriscos, ovvero gli arabi, vennero definitivamente espulsi nel 1609 per mano di Filippo III); gli eretici (Tribunale dell’Inquisizione Spagnola controllata da Filippo II +controllo sulla stampa interna ma anche quella che proveniva dall’estero); gli oppositori politici. POLITICA ESTERA 1580 il Portogallo si trova nella condizione di diventare parte della Spagna: muore il sovrano portoghese durante una crociata in Africa contro i Turchi e i portoghesi impauriti accettano di essere annessi alla Spagna, grazie anche all’appoggio da parte dei nobili portoghesi a Filippo II. Spagna e Portogallo rimarranno uniti fino al 1640, anno in cui il secondo otterrà di nuovo l’indipendenza quando la Spagna si troverà in difficoltà. 1553 – 1558 Filippo II sposa Maria Tudor, regina di Inghilterra (in questo periodo l’Inghilterra diventa cattolica); successivamente sposerà Elisabetta, regina di Portogallo. 7 Ottobre 1571 Battaglia di Lepanto, vicino al Golfo di Corinto (Grecia). Filippo II, alleato con Venezia e con Papa Pio V, si trova a combattere con i pirati musulmani dell’impero ottomano. La goccia che fece traboccare il vaso fu la conquista di Cipro (che era veneziana) da parte dei Turchi. Vincono gli europei, riuscendo a distruggere 150 navi nemiche, catturano 20000 uomini e liberando 15000 schiavi cristiani. 1578 tregua tra Filippo II e i Turchi. Venezia fa un accordo separato, e si divide Cipro con i Turchi (era interessata ai magazzini ed ai commerci). LE GUERRE DI RELIGIONE IN FRANCIA In Francia dopo la morte del sovrano Enrico II (1559) e dell'erede Francesco II (1560) il potere passò nelle mani della moglie Caterina de' Medici, reggente per il secondo figlio Carlo IX. Durante la reggenza si formarono due partiti nobiliari antagonisti fra loro, quello dei cattolici capeggiato dalla famiglia dei Guisa e quello ugonotto, che aveva tra i maggiori rappresentanti il principe di Condé e de Coligny. Il Parlamento di Parigi, contrastando Caterina che aveva tentato una politica di conciliazione con gli ugonotti, dichiarò questi ultimi fuori legge provocando lo scoppio della guerra civile. L'Editto di Amboise (1563) concesse la libertà di coscienza a tutti i protestanti, ma di culto ai soli nobili. Il conflitto proseguì fino all'Editto di St. Germain(1570) che assegnava agli ugonotti alcune piazzeforti non controllate dal re. Con l'assenso della sovrana i duchi di Guisa organizzarono il massacro dei calvinisti nella Notte di San Bartolomeo (24 ago. 1572) quando nella sola Parigi circa 2-3.000 ugonotti furono passati a fil di spada. Morto Carlo IX (1574) l'influenza politica di Caterina non diminuì sotto il regno del terzo figlio, Enrico III. La lotta per il potere scatenò la “guerra dei tre Enrichi” (così detta perché tutti i contendenti: il re, il duca di Borbone, capo degli ugonotti, e quello di Guisa, esponente dei cattolici, si chiamavano Enrico) che vide l'assassinio di Enrico di Guisa (1588) ordinato dal re. Alla morte di Enrico III (1589), Enrico di Borbone (marito di Margherita di Valois, sorella del re), già re di Navarra, non fu riconosciuto come erede legittimo dai cattolici e ottenne il trono con la forza delle armi e la conversione al Cattolicesimo (1594). L'Editto di Nantes, promulgato da Enrico IV nel 1598, riconosceva a tutti i sudditi la libertà di coscienza e di culto, ponendo fine alle guerre di religione. L'INGHILTERRA DI ELISABETTA I Elisabetta I, regina d'Inghilterra Un simbolo della potenza inglese Durante il lungo regno di Elisabetta I, nella seconda metà del Cinquecento, l'Inghilterra divenne una grande potenza politica e commerciale e gettò le basi del suo vasto impero coloniale. Elisabetta fu l'artefice di questa trasformazione, diventando presto il simbolo della potenza inglese Una vita difficile Figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, Elisabetta aveva appena tre anni quando sua madre fu condannata a morte sul patibolo per permettere a Enrico VIII di prendere una nuova moglie. Dopo la morte del padre (1547), durante i brevi regni di Edoardo VI e soprattutto di Maria la Cattolica, entrambi figli di Enrico VIII con mogli diverse, Elisabetta subì pressioni e minacce. Il 17 novembre 1558, a venticinque anni, salì al trono, e fino al marzo 1603, per quasi cinquant'anni, governò il paese con saggezza e grande abilità diplomatica, all'interno e all'esterno. Nonostante le pressioni del Parlamento e di alcuni membri della corte, rifiutò di sposarsi. Regnò da sola e non si legò a dinastie straniere o a fazioni nobiliari in lotta tra loro: con grande abilità fece finta di accettare ora uno ora l'altro candidato al matrimonio, sfruttando sempre la situazione a suo vantaggio. Economia, cultura e società L'economia inglese dell'epoca elisabettiana, dominata da agricoltura e allevamento, era in fase di espansione. Il sostegno dato da Elisabetta alla produzione tessile (la ricchezza tradizionale del paese era la lana) determinò l'aumento delle esportazioni e un miglioramento delle condizioni di vita. Di conseguenza la popolazione crebbe e Londra si avviò a diventare una grande capitale europea dove il teatro dominava la vita culturale. Elisabetta, come la sua corte, amava molto il teatro e chi scriveva per esso (fra tutti William Shakespeare), e si impegnò a difenderli, dagli attacchi dei protestanti più intransigenti ‒ i puritani ‒ che lo consideravano immorale. Negli anni del suo regno Elisabetta indirizzò il paese verso la fede protestante, ma cercò di bandire ogni fanatismo religioso, da qualsiasi parte venisse. La politica di espansione marittima e commerciale fortemente voluta da Elisabetta determinò le più significative trasformazioni dell'epoca : una flotta potente in preparazione e un impero commerciale da costruire in America e in Asia. Nel 1584, in onore della regina, fu fondata in America Settentrionale la colonia della Virginia. Anche la società inglese si preparava a grandi cambiamenti: l'aristocrazia, attratta a corte da Elisabetta, perse il contatto con la base del suo potere nelle campagne e cominciò a subire la concorrenza di un nuovo gruppo sociale, la gentry, piccola nobiltà di campagna formata da ricchi proprietari terrieri e funzionari della corona. La guerra con la Spagna: pirati e soldati Tra Spagna e Inghilterra vigeva da tempo uno stato di guerra non dichiarato. Elisabetta, infatti, in quanto figlia di genitori scomunicati, era stata anche lei scomunicata dal papa. Così, nel tentativo di riportare l'Inghilterra alla fede cattolica, la corona spagnola e il papato inviavano segretamente sull'isola missionari gesuiti. Non mancarono tentativi di uccidere la regina. Da parte sua Elisabetta guardava con favore le azioni di pirateria dei celebri corsari inglesi che battevano gli oceani assalendo le navi spagnole cariche d'oro. Alla corte di Elisabetta il pirata Francis Drake veniva accolto con tutti gli onori. A far precipitare la situazione fu la condanna a morte di Maria Stuart, la cattolica regina di Scozia che si era rifugiata a Londra minacciata da una rivolta protestante nel suo paese. Elisabetta esitò a lungo prima di condannarla, ma dopo l'ennesima congiura la mandò al patibolo (1587). Filippo II, re di Spagna, organizzò allora la spedizione dell'Invincibile Armata per attaccare le coste inglesi e invadere il paese. Nel canale della Manica la sua flotta di galeoni un po' antiquati e troppo pesanti da manovrare non riuscì ad agganciare le navi inglesi, molto più agili e veloci, che dalla distanza, grazie a un'artiglieria a lunga gittata, ebbero la meglio sul nemico. La vittoria sull'Invincibile Armata (1588) consacrò il prestigio di Elisabetta e la sua posizione di guida dello schieramento protestante contro la Spagna, paese simbolo della Controriforma. L'ASSOLUTISMO DI LUIGI XIV Luigi XIV re di Francia Il simbolo dell’assolutismo monarchico Tra 17° e 18° secolo la Francia di Luigi XIV, detto il Grande o il Re Sole, divenne la maggiore potenza europea. Grandi ambizioni di Luigi XIV furono di fare della Francia un paese fortemente unito sotto il controllo della corona e di ridurre l’Europa sotto la sua egemonia. Riuscì parzialmente nel primo scopo e fallì nel secondo. Fu chiamato Re Sole per il suo splendore regale e per aver incarnato in forma estrema l’assolutismo monarchico L’accentramento del potere Luigi XIV, figlio di Luigi XIII e di Anna d’Austria, nacque a Saint-Germain-en Laye nel 1638. Elevato al trono a soli cinque anni nel 1643, rimase fino alla maggiore età sotto la tutela della madre e del cardinale Mazzarino, e nel 1654 venne formalmente incoronato a Reims. Il cardinale, che aveva retto le sorti della Francia (v. anche Francia, storia della) in un periodo in cui i grandi aristocratici avevano cercato di indebolire fortemente la corona a proprio vantaggio, fu il suo più fidato e ascoltato consigliere ed esortò il giovane sovrano a stroncare inflessibilmente la nobiltà riottosa e ad affermare il proprio potere assoluto. Luigi imparò la lezione, e alla morte di Mazzarino nel 1661 rinunciò a nominare un primo ministro, costituì dei consigli con compiti specifici sottoposti alle sue direttive e si avvalse della collaborazione di due grandi ministri: Jean-Baptiste Colbert per le materie economiche e finanziarie e Michel Le Tellier per quelle militari. In tal modo il re pose le basi del proprio potere assoluto. Al fine di contenere l’influenza politica della grande nobiltà, Luigi favorì l’impiego al proprio servizio di elementi tratti dalla borghesia. Un aspetto essenziale dell’opera di accentramento fu il costante rafforzamento del ceto politico-burocratico costituito dagli intendenti di giustizia, polizia e finanze, funzionari aventi come compito di stabilire nelle province una rete di controllori sulle autorità locali, tenuti a rispondere unicamente alla corona (assolutismo). La volontà di sottomettere la società al potere regio Colbert pose su basi più solide ed efficaci l’amministrazione, le finanze e il sistema produttivo della Francia. Gli affari civili, criminali, commerciali, agrari, marittim i e coloniali vennero regolati tra il 1667 e il 1681 da sei codici. La polizia fu riorganizzata; le finanze vennero rese più efficienti, col risultato di portare al pareggio del bilancio; le manifatture nazionali ricevettero un vigoroso impulso e adeguata protezione dalla concorrenza estera; la creazione di varie compagnie commerciali valse a incrementare i traffici. La corona pose una cura particolare nella creazione di un grande e potente esercito, che arrivò a oltre 400.000 uomini, divenendo il primo d’Europa. Imponenti furono le opere di fortificazione. La flotta militare ebbe anch’essa un forte incremento, sino a comprendere circa 250 navi da guerra. Luigi XIV era anche ben consapevole dell’importanza della cultura, e ne favorì lo sviluppo: l’Accademia delle scienze, creata nel 1666, e altre accademie godettero della costante protezione dello Stato e furono da esso finanziate. Scopo essenziale della monarchia era però di stabilire sulle istituzioni culturali il proprio controllo, facendone uno strumento di glorificazione del potere: la censura provvide a soffocare le idee sgradite e giudicate pericolose, e l’architettura divenne oggetto di una particolare attenzione, in quanto essa dava la massima visibilità alla potenza della corona. Il re fece costruire una magnifica reggia a Versailles, dove si trasferì nel 1682 con la corte, facendone il centro mondano della grande nobiltà, che così venne distratta dagli affari politici. La politica religiosa Luigi XIV era intenzionato ad assumere inoltre il pieno controllo della vita religiosa, stroncando il protestantesimo e sottoponendo la Chiesa cattolica francese alle direttive delle Stato. Da un lato, perciò, nel 1685 abolì l’editto di Nantes, privando così della libertà di culto gli ugonotti (i calvinisti francesi), dei quali circa 300.000 emigrarono con grave danno per il paese; dall’altro si adoperò con fermezza per dare al cattolicesimo di Francia, sottraendolo all’autorità del papa in campo civile e politico, un caratteregallicano, ossia tipicamente francese, e affermare, così, la piena autonomia del potere civile da quello ecclesiastico. Inoltre, con il deciso appoggio dei gesuiti e l’approvazione di Roma, la corona prese a perseguitare il giansenismo (una corrente rigorista cattolica, influenzata per certi aspetti dal protestantesimo, che prendeva nome dal vescovo olandese Cornelio Giansenio) in quanto inaccettabile manifestazione di dissenso. Nel 1710 il re ordinò che il convento di Port-Royal, centro del giansenismo, venisse raso al suolo. Nei primi anni del Settecento riesplose la questione protestante, quando i contadini ugonotti del Vernais e della Linguadoca, spinti dalla miseria ed esasperati dalla persecuzione religiosa, si rivoltarono. Luigi XIV ordinò la conversione forzata al cattolicesimo degli ugonotti, ma la repressione non impedì ai giansenisti e agli ugonotti, entrati in clandestinità, di continuare a praticare il loro culto. Le guerre per il dominio Inorgoglito dalla potenza della Francia, nell’ultimo quarantennio della sua vita Luigi XIV condusse una serie di guerre che alla fine stremarono il paese e videro fallire il progetto di sottomettere il continente all’egemonia francese. La prima guerra (1666-67), condotta contro la Spagna, si concluse con l’acquisizione di una parte dei Paesi Bassi spagnoli. La seconda guerra (1672-78) fu diretta contro l’Olanda (le Province Unite), dei cui successi commerciali la Francia era gelosa. L’Olanda resistette con estrema determinazione e riuscì a mantenere intatto il suo territorio. Il trattato di Nimega assegnò alla Francia la Franca Contea e ulteriori allargamenti nei Paesi Bassi spagnoli. Nel 1680-81 Luigi XIV procedette con arroganza ad annettere Strasburgo e altri territori dell’Alsazia. La terza guerra (1688-97), provocata dall’indignazione dei paesi protestanti per la revoca dell’Editto di Nantes e dalle spinte espansionistiche francesi, fu quella detta della Lega d’Augusta (che unì l’Inghilterra, l’Impero, l’Olanda e la Spagna) e si concluse con la pace di Rijswijk senza mutamenti territoriali sostanziali. Il fallimento del progetto di egemonia francese in Europa La quarta guerra (1701-14) – detta guerra di Successione spagnola – oppose alla Francia, nella coalizione dell’Aia, Inghilterra, Olanda, Impero, Prussia e in un secondo tempo anche il ducato di Savoia. Essa fu causata dalla pretesa di Luigi XIV di veder salire sul trono di Spagna, dopo la morte di Carlo II, il proprio nipote Filippo d’Angiò, al fine di vedere unite la potenza spagnola e quella francese. Gli eserciti francesi si batterono con grande vigore, ma la guerra stremò infine economicamente il loro paese. Dopo che già nel 1693-94 una terribile carestia aveva colpito la Francia, una nuova tremenda carestia, accompagnata da epidemie, infuriò nel 1709-10, e seminò la morte così da ridurre di un quarto circa la popolazione. Le spese di guerra salirono a cifre astronomiche. Le paci di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) lasciarono sul trono spagnolo Filippo, ma al prezzo del passaggio all’Impero asburgico dei possedimenti spagnoli in Italia e nei Paesi Bassi spagnoli e di rilevanti ingrandimenti coloniali e vantaggi commerciali a beneficio dell’Inghilterra. Nel 1715 Luigi XIV morì, lasciando una Francia esausta e avendo visto crollare la sua ambizione di sottoporre l’Europa al primato francese. Un segno del deterioramento creatosi nell’ultimo periodo tra il sovrano e il suo popolo fu che le spoglie del Re Sole, che aveva detto di sé «lo Stato sono io», vennero depositate nella basilica di Saint-Denis senza grande pompa e solennità. Il risveglio del Sole Nella reggia di Versailles Luigi XIV viveva circondato dalla sua corte. La sua vita era scandita da cerimonie e rituali precisi. Alle 8 del mattino il re veniva svegliato dal suo cameriere particolare che dormiva ai piedi del letto regale: una volta spalancate le porte della stanza potevano entrare, rispettando un ordine preciso, prima i familiari più stretti, poi i nobili cui il re concedeva tale privilegio. Il re li riceveva ancora a letto. Poi, aiutato dai suoi servitori, iniziava a vestirsi: un cameriere gli sfilava la manica destra della camicia da notte, un altro quella sinistra. E così, tutte le mattine, iniziava la giornata del re di Francia Luigi XIV. LA RIVOLUZIONE AMERICANA Dopo la guerra dei Sette anni (1756-63), durante la quale i coloni avevano sostenuto attivamente la Gran Bretagna contro la Francia, si era rafforzata in questi ultimi l'aspirazione alla parità con i cittadini britannici e ad avere una propria rappresentanza nel Parlamento di Londra. Il governo britannico, invece, per rafforzare le nuove conquiste e ristabilire le finanze statali, ribadì il vincolo coloniale e inasprì (1763-65) la politica fiscale (tasse sugli zuccheri e imposta di bollo) generando un crescente malcontento. l'indipendenza La nuova legge sul tè (Tea act) del 1773 e l'introduzione delle cd. leggi intollerabili (Coercitive acts), che abolivano le libertà locali accentrando il potere nelle mani delle autorità politiche e militari britanniche, provocarono la reazione dei coloni, che convocarono (1774) a Filadelfia il primo Congresso continentale. L'assemblea proclamò nulle le nuove leggi, impose il boicottaggio contro le merci britanniche e stilò una Dichiarazione dei diritti dei coloni. I successivi scontri (1775) tra truppe britanniche e gruppi ribelli diedero il via alla ribellione armata, che assunse i tratti di una guerra di liberazione nazionale. La rescissione formale dei rapporti con la Gran Bretagna avvenne (4 luglio 1776) con la Dichiarazione di indipendenza redatta da T. Jefferson, in cui si sanciva la forma repubblicana del nuovo paese, si affermavano i diritti naturali e inalienabili dell'uomo (vita, libertà e felicità), il principio della sovranità popolare e il diritto dei popoli alla rivoluzione e all'indipendenza. L'esercito americano, guidato da G. Washington, ottenne un'importante vittoria a Saratoga Springs (1777), ma per le sorti del conflitto fu decisivo l'intervento di Francia (1778), Spagna (1779) e Olanda (1780) a fianco dei ribelli, che sbaragliarono il nemico a Yorktown (1781). Con la Pace di Parigi (1783), la Gran Bretagna riconobbe l'indipendenza delle ex colonie costituitesi in Stati Uniti d'America. LA RIVOLUZIONE FRANCESE LA FRANCIA DEL SETTECENTO Nella seconda metà del 18° sec., durante il regno di Luigi XVI e di Maria Antonietta, la Francia viveva un periodo di crisi, dovuta al crescente indebitamento statale e alla perdita di prestigio della monarchia. Le resistenze dei ceti nobiliari ad accettare una riduzione dei loro privilegi alimentavano un diffuso malcontento dell'opinione pubblica, che cominciava a mettere in discussione il sistema sociale dell'ancien régime, avanzando richieste di rappresentanza politica, sull'esempio della Rivoluzione americana. L'INIZIO DELLA RIVOLUZIONE Spinto da diversi settori della società, Luigi XVI si decise a convocare gli Stati generali, un organismo di consultazione della nazione eletto sulla base delle tre classi (chiamate 'stati' oppure 'ordini') in cui era divisa la società francese: clero, nobiltà, terzo stato. A questa ultima categoria apparteneva la stragrande maggioranza della popolazione. Sin dal giorno della convocazione, il 5 maggio 1789, i delegati del terzo stato si riunirono separatamente, per definire le richieste da sottoporre al sovrano. Poco dopo si autoproclamarono Assemblea nazionale (17 giugno 1789), dichiarando di essere gli unici rappresentanti della nazione. A essi si unirono molti deputati del clero e della nobiltà e gli Stati generali cambiarono il nome assumendo quello di Assemblea nazionale costituente (9 luglio 1789). Fu l'atto d'inizio della rivoluzione politica: i deputati dei tre ordini si attribuirono il compito di dare al paese una Costituzione. Il re tentò di bloccare l'azione dell'Assemblea, ma in seguito alla ribellione di Parigi del 14 luglio 1789 (assalto alla Bastiglia, prigione e fortezza, simbolo del dispotismo regio) fu costretto a scendere a patti: ritirò le truppe e concesse una Guardia nazionale, ossia un corpo armato che rispondeva agli ordini della municipalità di Parigi. Intanto nelle campagne francesi divampò una rivolta di carattere antifeudale, dettata dalla fame e dalla paura. I nobili presenti nell'Assemblea accettarono le rivendicazioni dei contadini pur di riportare l'ordine. Il 4 ag. 1789 l'Assemblea adottò provvedimenti che sopprimevano i privilegi fiscali della nobiltà e consentivano ai contadini di liberarsi dai vincoli feudali. Pochi giorni più tardi (il 26 ag.), l'Assemblea emanò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che fissava i diritti di libertà politica, religiosa, di pensiero, di proprietà e la parità delle garanzie giuridiche per tutti i cittadini e che, ispirandosi ai concetti di libertà, uguaglianza e sovranità popolare, aboliva la monarchia assoluta. LA COSTITUZIONE L'Assemblea riformò l'amministrazione dello Stato, dividendone il territorio in 83 dipartimenti, suddivisi in distretti, cantoni e comuni. La giustizia divenne gratuita ed eguale per tutti e fu introdotto un sistema di tassazione proporzionale ai redditi. Per far fronte al debito pubblico, le proprietà della Chiesa vennero messe a disposizione del paese, quindi fu approvata la cd. costituzione civile del clero, in base alla quale parroci e vescovi erano eletti dai fedeli e stipendiati dallo Stato e dovevano giurare fedeltà alla Costituzione. Nel 1791 fu infine approvata la Costituzione, che sancì la nascita della prima monarchia costituzionale francese, fondata sulla separazione dei poteri. Il potere di fare le leggi e di dirigere la politica generale del paese passò all'Assemblea legislativa, composta di 745 deputati eletti ogni due anni. Al re spettava la nomina dei ministri e il diritto di sospendere una legge approvata dall'Assemblea, ma per non più di quattro anni. Il sovrano non poteva sciogliere l'Assemblea, né dichiarare guerra, né firmare trattati di pace. Il potere giudiziario fu affidato alla magistratura, indipendente in quanto eletta. Il diritto di voto fu riservato solo agli uomini al di sopra dei 25 anni che pagassero tasse elevate, una soluzione che accontentava la borghesia mentre lasciava insoddisfatti i ceti popolari. LO SCOPPIO DELLA GUERRA E LA CONDANNA DEL RE Intanto, mentre a Parigi infuriava la protesta dei sanculotti contro il carovita e il re tentava senza successo la fuga, Austria, Prussia e Russia si erano alleate contro la Francia rivoluzionaria, che reagì alla sfida dichiarando la guerra (1792). Fu in questo contesto che il 10 ag. 1792 i sanculotti s'impadronirono del Palazzo Reale, mentre l'Assemblea ordinava di imprigionare il re con l'accusa di tradimento della patria. Dopo la vittoria francese di Valmy (20 sett. 1792) contro l'esercito prussiano, fu proclamata la Repubblica. Il re, processato per alto tradimento e condannato a morte, fu decapitato il 21 genn. 1793; in ottobre la stessa sorte toccò alla regina. GLI SCHIERAMENTI Mentre violenti scontri politici si verificavano in tutta la Francia (anche a seguito di un'insurrezione propagatasi in Vandea e suscitata dall'odio per la Rivoluzione nutrito dai nobili di sentimenti cattolici e monarchici e dai contadini da essi influenzati), alla Convenzione, la nuova assemblea di deputati eletti a suffragio universale maschile, insorgevano profondi contrasti tra i vari gruppi. I montagnardi, di orientamento egualitario e antimonarchico, maggioritari nei club rivoluzionari di giacobini e cordiglieri, guidati da Robespierre, Danton, Desmoulins e Marat, si contrapponevano ai girondini, moderati, rappresentanti della borghesia degli affari, mentre i deputati di centro ('palude') appoggiavano ora l'uno ora l'altro gruppo. DAL TERRORE AL TERMIDORO Per fronteggiare l'emergenza causata dalla crisi economica, dall'insurrezione controrivoluzionaria in Vandea e dalla minaccia dagli eserciti stranieri alleati, i poteri furono affidati a un Comitato di salute pubblica (1793) guidato da Robespierre, che pose il calmiere sul prezzo di grano e generi alimentari, arruolò un nuovo esercito e inviò soldati in Vandea. I metodi autoritari adottati dal Comitato portarono alla repressione degli avversari politici e di diversi esponenti giacobini contrari ai metodi di Robespierre. Alcune migliaia di oppositori vennero ghigliottinati dopo processi sommari. Per questo motivo il periodo dall'autunno 1793 all'estate 1794 fu definito il Terrore. L'esercito rivoluzionario riuscì a sconfiggere a Fleurus i nemici (giugno 1794), a riconquistare le città ribelli al governo di Parigi e a controllare la Vandea. A quel punto la politica del Terrore non poteva più essere giustificata con lo stato d'emergenza e molti deputati si accordarono per destituire il Comitato. Il 27 luglio 1794 Robespierre e i suoi collaboratori vennero arrestati e il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Nel nuovo ciclo che si aprì, chiamato Termidoro, prevalse una linea politica moderata, anche se sanguinose vendette furono compiute ai danni dei giacobini. La svolta fu sancita da una nuova Costituzione (1795), che affidava il governo a un Direttorio, composto di cinque membri, e il potere legislativo a un'Assemblea divisa in due Camere. LA FINE DELLA RIVOLUZIONE Negli anni successivi il governo di Parigi decise di sferrare un'offensiva volta ad ampliare i confini della Francia e ad abbattere le monarchie assolute in Europa, in cui si erano diffuse le idee rivoluzionarie. Il comando della campagna d'Italia fu affidato al generale Napoleone Bonaparte, che invase la penisola, dove furono instaurati (1797-99) vari governi repubblicani sul modello della Repubblica francese. Napoleone, rientrato in Francia, con un colpo di Stato militare (18-19 brumaio 1799) abolì il governo e trasferì il potere a un Consolato (in cui sedeva con due collaboratori). L'emanazione della Costituzione dell'anno VIII (1799), con la quale gli furono attribuiti pieni poteri, sancì la fine della vicenda rivoluzionaria, ma contemporaneamente aprì il periodo della diffusione in tutta Europa delle idee rivoluzionarie. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Gli inizi della r.i. sono collocabili in Inghilterra tra gli ultimi decenni del 18° e la prima metà del 19° secolo. Il suo sviluppo fu reso possibile dalla combinazione di una serie di precondizioni: istituzioni che favorivano l'iniziativa individuale, una ricerca scientifica avanzata che stimolava le scoperte tecnologiche, un vasto settore di agricoltura capitalistica nelle mani di grandi e medi proprietari aperti all'innovazione e dotati di elevate capacità di investimento, un'industria manifatturiera ed estrattiva dinamica e in grado di liberare capitali, un'eccellente rete di trasporti, un tasso di urbanizzazione che non aveva riscontro in alcun altro paese, un prospero commercio interno e internazionale all'interno di un impero coloniale, come quello britannico, ricco di risorse. Tutti fattori che nel loro insieme davano vita a un mercato pronto ad assorbire sempre nuovi prodotti. LE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE La r.i. ebbe propriamente inizio allorché agli elementi sopra riportati si unì una serie di invenzioni che nel giro di un ventennio, tra il 1760 e il 1780, rinnovarono la tecnologia delle industrie imprimendole uno straordinario salto di qualità. Nel 1764 il tessitore J. Hargreaves (1720-1779) costruì una filatrice multipla capace di consentire a un solo operaio di azionare 8 fusi per volta; nel 1768 R. Arkwright (1732-1792) mise a punto un telaio meccanico idraulico. Ma la scoperta più importante di tutte avvenne a opera di J. Watt, che tra il 1765 e il 1781 inventò e perfezionò la macchina a vapore. Questa ebbe l'effetto di aumentare enormemente la disponibilità di energia, grazie anzitutto a un imponente incremento dell'estrazione di carbone, e la sua utilizzazione nell'industria, nell'agricoltura, nei trasporti rese possibile la produzione e lo scambio di beni su una scala in precedenza impensabile. NAPOLEONE BONAPARTE Nella storia del mondo occidentale la figura di Napoleone Bonaparte, imperatore dei Francesi e re d’Italia, è paragonabile solo a quella di Giulio Cesare. Come questi, Napoleone fu un genio militare senza pari e un grande legislatore in un momento di trapasso da un’epoca storica a un’altra profondamente segnata dagli sconvolgimenti della Rivoluzione francese. Ma Napoleone fu anche l’artefice, nell’Europa continentale, tra Settecento e Ottocento, della definitiva trasformazione della società di antico regime in società borghese Un giovane ufficiale in un mondo che cambia Napoleone nacque nel 1769 ad Ajaccio, in Corsica, da una famiglia della piccola nobiltà. Dedicatosi fin da ragazzo alla carriera delle armi, terminò la sua formazione nella scuola militare di Parigi. Nel 1785 fu nominato sottotenente di artiglieria. Abbandonate le iniziali simpatie per Pasquale Paoli, che vagheggiava l’indipendenza della Corsica dalla Francia, nel 1793 in piena Rivoluzione francese il capitano Bonaparte, schieratosi decisamente a favore del governo giacobino (giacobinismo), ebbe un ruolo decisivo nella riconquista di Tolone, occupata dagli Inglesi. Fu premiato con la nomina a generale di brigata. Dopo la fine del governo di Robespierre (1794), cadde in disgrazia, ma si risollevò quando Paul Barras gli affidò nel 1795 l’incarico di reprimere i gruppi realisti che miravano alla restaurazione della monarchia. Ottenne i gradi di generale di divisione e comandante d’armata. Nel 1796, dopo che il governo francese del Direttorio lo aveva scelto, a poco più di ventisei anni, come comandante dell’armata d’Italia, Napoleone sposò un’amica di Barras, la bella e intrigante Giuseppina Beauharnais, in grado di favorire la sua carriera. Era l’inizio di un folgorante destino. La conquista dell’Italia Nel 1796, mandato a operare su un fronte ritenuto secondario, quale quello italiano, con un esercito di 38.000 uomini quanto mai male in arnese, contro tutte le aspettative mise rapidamente in rotta gli eserciti austro-piemontesi, inducendo Vittorio Amedeo III a firmare in aprile l’armistizio di Cherasco. Il 15 maggio entrò in Milano, abbandonata dagli Austriaci. Occupò quindi le legazioni pontificie e sottomise i ducati di Modena e Parma. Nel 1797, dopo aver sconfitto nuovamente gli Austriaci, imposto al papa Pio VI la pace di Tolentino, indotto l’arciduca d’Austria Carlo a firmare i preliminari di pace di Loeben e piegato la Repubblica di Venezia, Napoleone si trovò a essere il padrone assoluto dell’Italia settentrionale e centrale. Mentre da un lato fece saccheggiare senza scrupolo alcuno i territori conquistati a vantaggio della Francia, dall’altro li riorganizzò, sostenendo gli elementi moderati contro la sinistra, costituita dai giacobini italiani, con la creazione della Repubblica Cisalpina e la Repubblica Ligure. Il nuovo ordine venne sancito il 17 ottobre 1797 dalla pace di Campoformio con l’Austria, la quale ottenne Venezia, l’Istria e la Dalmazia. La campagna d’Egitto Napoleone fece, poi, accettare dal Direttorio un piano di invasione dell’Egitto rivolto a tagliare le vie del commercio inglese con l’Oriente. Nel luglio 1798, sbarcato ad Alessandria, vinse nella battaglia delle Piramidi i Mamelucchi (le milizie turche che governavano l’Egitto), ma in agosto la flotta francese venne completamente distrutta dall’ammiraglio inglese Horatio Nelson. Agli inizi del 1799 Napoleone penetrò in Siria. Intanto però in Europa e in Italia la guerra stava avendo un esito sempre più negativo per gli eserciti della Francia, dove era in corso una grave crisi politica. Allora egli decise di tornarvi e vi approdò in ottobre dopo un viaggio fortunoso. Con il determinante aiuto del fratello Luciano, presidente del Consiglio dei Cinquecento, mediante il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre), pose fine al governo del Direttorio e assunse il potere con la formazione di un triumvirato formato da tre consoli. Il legislatore Nel febbraio 1800 un plebiscito approvò una nuova costituzione che di fatto conferiva tutti i poteri al primo dei tre consoli, cioè a Napoleone, che ottenne l’appoggio della borghesia e anche degli strati popolari, desiderosi di un governo retto da un uomo forte. Assunto il potere, Napoleone si volse ad affrontare la gravissima situazione militare, il che fece con mosse fulminee. In giugno, penetrato in Lombardia, sconfisse gli Austriaci presso Marengo. La pace di Lunéville del febbraio 1801 assegnò alla Francia la riva sinistra del Reno e pose sul trono di Toscana, con il titolo di re dell’Etruria, Ludovico di Borbone. Nel 1802 la Repubblica Cisalpina fu ricostituita come Repubblica Italiana e il Piemonte venne annesso alla Francia. Napoleone, dominatore dell’Europa continentale, ormai mostrava inclinazioni apertamente monarchiche e tendenze politiche e sociali conservatrici. Col concordatodel 1801 cercò l’intesa con la Chiesa, accordando una serie di privilegi al cattolicesimo. Nelle vesti di legislatore prese importanti misure. Le finanze dello Stato migliorarono nettamente, anche in seguito alla creazione nel 1800 della Banca di Francia. L’amministrazione del paese venne saldamente tenuta nelle mani di Parigi mediante una rete di giudici, prefetti, sottoprefetti, sindaci nominati dal governo. Il coronamento dell’opera fu il varo nel 1804 del Codice civile (detto anche Codice napoleonico), cui fecero seguito altri codici, i quali diedero alla Francia ordinamenti coerenti tesi a proteggere e a favorire lo sviluppo della proprietà borghese, conferendo un ruolo centrale alla famiglia posta sotto il dominio paterno. Il codice garantiva la libertà delle persone, l’eguaglianza giuridica, l’autonomia dello Stato dalla Chiesa, la libertà di impresa. Ma agli operai fu vietato di costituire coalizioni e di agire collettivamente e fu assegnato un libretto di lavoro che aveva insieme il carattere di una carta di identità e di una carta di polizia. Inoltre, indice di una grave involuzione, nelle colonie venne ripristinata la schiavitù, che era stata abolita dai giacobini. L’imperatore dei Francesi Nel 1802 Napoleone, monarca ancora senza corona, era stato nominato console a vita. Infine il Senato, con un atto poi sancito da un nuovo plebiscito, il 18 maggio 1804 proclamò Napoleone imperatore dei Francesi. La Francia venne retta dalla Costituzione dell’anno XII (dodici anni, infatti, erano trascorsi dal settembre 1792, quando i rivoluzionari francesi avevano abolito la monarchia e proclamato la repubblica). In dicembre, con la benedizione di Pio VII, Napoleone cinse la corona imperiale, alla quale seguì nel maggio 1805 quella del Regno d’Italia. La trasformazione della Francia da repubblica in impero era dovuta alla sua convinzione che la rivoluzione avesse fatto il suo corso, che occorresse tornare alla normalità e che questa sarebbe stata servita al meglio da una nuova dinastia, che sancisse le conquiste sociali ed economiche della rivoluzione in un quadro politico conservatore. Napoleone divenne una sorta di Cesare moderno. Ma l’impero non portò la pace, che trovò un ostacolo insormontabile nei contrasti anzitutto con la Gran Bretagna, ferita nei suoi interessi dalla politica economica francese. La nuova carta politica europea Nel 1805 l’imperatore dovette fronteggiare una coalizione (la terza) formata da Gran Bretagna, Austria, Russia e Regno di Napoli. Il progetto napoleonico di invadere l’Inghilterra dovette essere accantonato per la superiorità preponderante della flotta inglese. Dopo che la vittoria di Napoleone a Ulma portò l’Austria alla resa, la flotta francese venne distrutta in ottobre da Nelson a Trafalgar. La disfatta degli Austro-russi ad Austerlitz in dicembre indusse l’Austria alla pace di Presburgo. L’imperatore diede allora mano a ridisegnare la carta politica europea. Nel 1806 il Regno di Napoli fu assegnato al fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte (poi sostituito nel 1808 da Gioacchino Murat). Gli staterelli tedeschi, ridotti a 38, vennero organizzati nella Confederazione del Reno. Obbedendo ormai a una sistematica politica di potere familiare, Napoleone affidò l’Olanda, costituita in regno, a un altro fratello, Luigi; il principato di Massa e Carrara alla sorella Elisa; quello di Guastalla alla sorella Paolina. Il dominatore dell’Europa Nell’ottobre 1806 Napoleone piegò la Prussia, dopo averla duramente sconfitta. Poco dopo da Berlino, mostrando come il confronto tra Francia e Gran Bretagna fosse quello decisivo, proclamò il blocco commerciale contro quest’ultima. Nel 1807 a essere nuovamente battuto fu l’esercito russo, il che indusse l’imperatore Alessandro I ad accettare un’intesa con Napoleone, col quale si incontrò concludendo nel luglio 1807 i trattati di Tilsit, che sancirono un’alleanza in funzione anti-inglese e la costituzione del Regno di Vestfalia – sul cui trono fu posto Girolamo, fratello di Napoleone – e del Granducato di Varsavia. Tra il 1808 e il 1810 Napoleone era al culmine della sua potenza. La Francia dominava l’Europa continentale. Nella parte costituita dall’Impero e dagli Stati a esso soggetti l’imperatore mise in atto profonde riforme che segnarono un passo decisivo nella direzione della modernizzazione istituzionale ed economico-sociale. Nel 1808 le Marche entrarono a far parte del Regno d’Italia e la Toscana fu annessa direttamente all’Impero; nel 1809 venne annesso anche lo Stato della Chiesa e Pio VII fu deportato per avere scomunicato l’imperatore; nel 1810 fu la volta dell’Olanda. Nel 1809 la Gran Bretagna e l’Austria formarono una nuova coalizione, ma nella battaglia di Wagram Napoleone annientò gli Austriaci. A un’Austria prostrata egli, desideroso di legittimarsi anche agli occhi delle dinastie europee, inflisse l’umiliazione di chiedere la mano della figlia dell’imperatore Francesco I, Maria Luisa. Nel 1810, dopo aver divorziato da Giuseppina, la sposò e da lei ebbe un erede, Napoleone Francesco, nominato re di Roma. Questo matrimonio costituiva il punto culminante di una politica diretta ad amalgamare l’antica nobiltà con quella nuova creata dall’Impero. La società francese durante la monarchia dei ‘notabili’ Negli anni dell’Impero il potere di Napoleone assunse il carattere di una dittatura personale, alla quale erano soggetti gli altri poteri (il legislativo e il giudiziario) e il cui perno erano le autorità amministrative e in particolare i prefetti a capo dei dipartimenti. Questo sistema fu una forma di vero e proprio ‘cesarismo’ (termine che deriva da Cesare, il titolo distintivo degli imperatori romani a sua volta derivato dal cognomen di Caio Giulio Cesare). La stampa e la cultura erano asservite, l’istruzione improntata ai valori del regime, il sistema fiscale organizzato così da sostenere anzitutto le esigenze belliche. L’imperatore cercò di dare al suo potere una salda base fondata sul consenso attivo dei ceti alti e medi e su quello passivo delle classi inferiori. La religione venne considerata uno strumento essenziale per ottenere l’obbedienza politica. La formazione di una nuova nobiltà legata all’Impero ebbe il significato di un compromesso fra l’eredità della rivoluzione e il recupero del principio monarchico. La borghesia napoleonica si presentava come un ceto di notabili composto dai proprietari terrieri, dagli industriali, dai professionisti e dagli intellettuali di spicco. Fondamento dell’economia francese restava l’agricoltura. Le prime crepe Proprio quando Napoleone pareva conoscere il massimo trionfo, in un quadro che vedeva la società francese stabile, la grande proprietà terriera e la borghesia dell’industria e degli affari protette nei loro interessi, gli alti quadri militari (in cima ai quali stavano i marescialli di Francia) carichi di onori e di prebende, la rete burocratica e quella poliziesca, guidata da Joseph Fouché, in grado di controllare con efficacia il paese, gli Stati vassalli proni al volere dell’imperatore, si delinearono le prime serie crepe. La deposizione nel 1808 dei Borbone dal trono di Spagna aveva dato vita a una sollevazione armata, largamente appoggiata dalle masse popolari; nonostante Napoleone avesse riconquistato Madrid nel dicembre di quell’anno, la Spagna, aiutata dagli Inglesi, non fu mai realmente sottomessa. Gli enormi sforzi militari per assoggettarla non ebbero successo, sicché la piaga spagnola rimase aperta. Inoltre l’alleanza con la Russia, la cui economia soffriva gravemente per gli effetti del blocco continentale, rivelò presto la sua precarietà. Nei paesi soggiogati, a partire dalla Germania, l’oppressione francese alimentava movimenti nazionalistici. La campagna di Russia Convinto di essere imbattibile, Napoleone prese la decisione di aggredire la Russia, piegata la quale la Gran Bretagna sarebbe rimasta isolata e ridotta all’impotenza. Raccolta a Dresda una Grande armata di oltre 600.000 uomini, Napoleone attaccò nel maggio 1812 l’impero degli zar. Vinta la battaglia di Borodino a duro prezzo, in settembre entrò a Mosca, abbandonata dai Russi e data alle fiamme. Le truppe russe, comandate dal generale Michail I. Kutuzov, avevano fatto terra bruciata, lasciando l’armata napoleonica priva di risorse alimentari. Ebbe allora inizio in ottobre, di fronte alla volontà dei Russi di non venire a patti, una ritirata presto trasformatasi in rotta e tragedia, soprattutto per le sofferenze causate dall’inverno. Perduta la partita, Napoleone fece un precipitoso ritorno a Parigi, anche per far fronte alle cospirazioni. Nel 1813 Russia, Austria, Prussia, Svezia si unirono per dare il colpo definitivo alla Francia. Dopo alcune vittorie, Napoleone in ottobre venne sconfitto a Lipsia in quella che è stata definita la battaglia delle nazioni. Fu l’inizio della rivolta degli Stati satelliti, che coinvolse persino il re di Napoli, Murat. Nel marzo 1814 gli eserciti alleati occuparono Parigi e Napoleone fu dichiarato decaduto dal Senato, preparando così le condizioni del ritorno sul trono di Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI. Firmata in aprile l’abdicazione, Napoleone, abbandonato anche dalla moglie, venne confinato nell’isola d’Elba. La fuga dall’Elba, Waterloo e la prigionia a Sant’Elena Ridotto a piccolo sovrano dell’isola d’Elba, Napoleone, sollecitato dai suoi fedeli a tentare l’avventura del ritorno in Francia, riuscì il 1° marzo 1815, sfuggendo alle navi inglesi, a sbarcare a Golfe-Juan. Il maresciallo Michel Ney, già suo generale, inviato per arrestarlo, passò con i soldati entusiasti dalla parte di Napoleone, che entrò a Parigi appoggiato da quanti, avversi al governo regio o delusi da esso, speravano in una svolta liberale. Ma, raccolto un esercito, Napoleone venne definitivamente sconfitto il 18 giugno a Waterloo. Così finì l’avventura dei Cento giorni. Dopo aver tentato invano di imbarcarsi per l’America, si consegnò agli Inglesi, i quali lo deportarono a Sant’Elena, un’isoletta nell’Atlantico meridionale. Qui morì il 5 maggio 1821. Il mito di Napoleone Già in vita Napoleone era diventato una leggenda. Da quando negli anni 1796-97 aveva condotto la sua vittoriosa campagna d’Italia, egli era apparso come una personalità eccezionale, e dopo di allora il suo mito si era imposto ad amici e nemici. Dopo la sua morte, la leggenda del generale vittorioso, del genio militare pari solo ai maggiori della storia, del piccolo ufficiale corso salito sul trono imperiale, del grande legislatore che aveva dato ordine all’Europa, non è mai venuta meno. Il primo a costruire tale leggenda fu Napoleone stesso, che negli anni del suo potere favorì in tutti i modi la propria esaltazione e il culto della sua personalità. Ma alla leggenda, in chiave negativa, contribuì in modo determinante anche la propaganda dei paesi ostili, a partire dall’Inghilterra che lo denunciò come un tiranno mai sazio delle sue prede, un sovvertitore della pace, un distruttore delle più venerande istituzioni, il carceriere di un papa. Negli anni della prigionia, ben conscio del suo ruolo storico, Napoleone provvide a darne un’interpretazione stendendo ilMemoriale di Sant’Elena, pubblicato poco dopo la sua morte, nel 1822-23, nel quale rivendicava il merito di aver portato alla sua unica conclusione possibile la Rivoluzione francese e l’Europa a un livello più alto di modernità politica, civile e sociale. La leggenda di Napoleone, gigante che aveva imposto la sua indelebile presenza nella storia, venne poi alimentata e tramandata, con una varietà di accenti, improntati vuoi a simpatia vuoi a ostilità, da tutta una serie di grandi letterati tra cui Ugo Foscolo, Madame de Stäel, Stendhal, Alessandro Manzoni, Honoré de Balzac, Lev N. Tolstoj. LE GUERRE DI INDIPENDENZA li orizzonti delle guerre per l’Indipendenza o la giusta lotta dei popoli che aspirano alla libertà e alla giustizia. Così considerata, la questione delle guerre d’Italia si definisce, non senza un’ombra ingombrante di retorica, come l’insieme delle operazioni militari che vennero intraprese per l’unificazione e la liberazione dallo straniero. Come ricorda L. Villari nel suo recente Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento (Laterza, 2011), lo stesso Marx, nel marzo del ’48, scrive sulla Neue Rheinische Zeitung un indirizzo solidale – contro la soldataglia austriaca – affinché il popolo italiano sia messo nella posizione di poter pronunziare la propria volontà sovrana. Cerchiamo, dunque, di tratteggiare i caratteri, le fasi e le anime di quel belligerare, focalizzando la nostra attenzione proprio sulla specificità (e sulla almeno apparente contraddittorietà) delle guerre della prima Italia. È immediatamente evidente che già nello svolgimento delle vicende “militari” del processo di Indipendenza, comunque lo si giudichi, si mescolano, si confrontano – e si confondono a volte – le diverse anime del fiume risorgimentale. Tutti insieme, o quasi: è primavera. La prima guerra Se guardiamo ai primi eventi della “primavera d’Italia”, vediamo che la sollevazione fu di una inusitata ampiezza: da Milano alla Sicilia, alla Repubblica di San Marco, per citare solo gli estremi geografici. In queste giornate si fondono le istanze della borghesia moderata, della piccola borghesia repubblicana, dei ceti popolari, dove peraltro manca una vera e propria classe operaia. Si mobilita così il fronte democratico, formatosi negli anni della Restaurazione, in contiguità con l’eredità giacobina, disseminata sulla penisola dall’avventura napoleonica e dalle iniziative di Buonarroti e dei movimenti legati al mazzinianesimo. Da ogni parte d’Italia giungono in Lombardia volontari per la guerra di liberazione nazionale, mentre Garibaldi, rientrato in tutta fretta dal Sud America, si mette a disposizione del governo provvisorio milanese. Potevano restare fermi il fronte moderato, i circoli liberali e il re Carlo Alberto di Savoia? Per calcolo dinastico (espandere l’influenza piemontese oltre il Ticino) e per calcolo politico (sottrarre ai democratici repubblicani il controllo del movimento rivoluzionario) il re dichiara guerra all’Austria, il 23 marzo del 1848. Anche i moderati, come D’Azeglio e Cavour, avevano premuto in tale direzione, per scongiurare il pericolo di vedere nascere Repubbliche ovunque, da Milano a Venezia, a Genova e forse anche a Torino. Il federalismo giobertiano e il “papa liberale”: la caduta In aiuto a Carlo Alberto si muovono anche truppe provenienti da diversi Stati italiani: sembra il momento magico del sogno federalista di Gioberti, che però si infrange ben presto: Carlo Alberto si impegna a fondo per imporre ai lombardi l’annessione plebiscitaria al Piemonte, mentre da Roma giunge la “scomunica” papale contro la guerra nazionale. Richiamate le truppe pontificie, vengono ritirate anche quelle di Leopoldo di Toscana e quelle di Ferdinando di Borbone, che si preparava a ritirare la costituzione. La guerra entra così in una nuova fase: ridottasi a guerra “regia”, anche se non priva del contributo di significative forze volontarie, vede la pesante sconfitta contro gli Austriaci a Custoza, che porta all’armistizio di Salasco e al ritiro al di qua del Ticino delle truppe piemontesi. Fallimento dello schema federalista. Gli Austriaci rioccupano Milano e restaurano i vecchi principi nei ducati emiliani. La parabola della riscossa democratica I contemporanei avvenimenti di Parigi alimentano le speranze dei democratici, che si impongono a Firenze (triumvirato Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni), e a Roma, con la Repubblica romana di Armellini, Mazzini e Saffi, ma gli eventi vedranno la sconfitta di Novara, l’abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele e la caduta della Repubblica romana attaccata dalle truppe di Napoleone III. La rivoluzione, dunque, era fallita, anche se rimaneva il contenuto della Costituzione romana del ’49: la dichiarazione dei concetti di sovranità popolare, eguaglianza, libertà e fraternità, il carattere democratico della Repubblica, la libertà religiosa. Spente le fiamme del ’48 è tempo di bilancio: per i democratici sono mancate le masse popolari, come ebbe a evidenziare Pisacane (“l’Italia trionferà quando il contadino cangerà volontariamente la marra con il fucile”) e come sostenne anche Cattaneo, che individuava nell’insufficiente partecipazione del popolo delle città e delle campagne le ragioni della sconfitta. Un nuovo corso: l’estate del liberalismo Conclusasi con una sconfitta la prima battaglia, l’universo risorgimentale italiano vede rimescolarsi le carte: l’iniziativa passa nelle mani della monarchia sabauda, della classe dirigente piemontese e in generale subalpina e nelle mani del ministro Cavour. Non il popolo, come aveva sognato Mazzini, ma la politica di annessione e le alleanze variabili con le potenze europee – e il placet inglese – avrebbero segnato il destino dell’Italia. Si persero dunque le forze democratiche? No, esse continuarono a iniettare vigore popolare ed entusiasmo, fino alla decisiva spedizione dei Mille, che sembrò (sembrò!) segnare il sopravvento del programma democratico. Il programma moderato: Cavour Cavour era convinto che vi fosse su un solo modo di preservare il paese dalle convulsioni rivoluzionarie: sottrarre forza popolare ai mazziniani negatori della proprietà prendendo decisamente la strada delle riforme politiche ed economiche dietro l'esempio inglese. Mentre il Piemonte imboccava la via del liberalismo, negli altri Stati italiani infieriva più o meno violenta la reazione. Il realismo politico suggeriva a Cavour che non c'era altro mezzo per battere la concorrenza dei democratici e risolvere il problema italiano se non quello di inserire il Piemonte e l'Italia nel gioco diplomatico delle grandi potenze europee; problema italiano che si limitava all’alta Italia, giacché l'unificazione della penisola esorbitava dalle aspirazioni tradizionali dei Savoia e dello stesso Cavour, che accettò nel 1854 di partecipare alla guerra di Crimea. Il successo riportato e il rafforzamento delle strutture militari piemontesi garantirono al Piemonte lafunzione di guida nella lotta di liberazione nazionale, in alternativa alle agitazioni di stampo mazziniano, considerate velleitarie e inefficaci. Dagli accordi di Plombières alla Seconda Guerra: la guerra “dinastica” e il contributo “volontario” I fitti contatti diplomatici approdarono il 20 luglio del 1858 agli accordi segreti di Plombières: Napoleone III si impegnava a entrare in guerra al fianco del Piemonte se aggredito dall’Austria; in cambio i Savoia avrebbero ceduto alla Francia i possessi iniziali di Casa Savoia. Dopo la firma del trattato, dunque, Cavour si adoperò affinché le condizioni previste si realizzassero e nel giro di pochi mesi arrivò ladichiarazione di guerra dell’Austria e le truppe francesi valicarono le Alpi. Molte furono le tappe vittoriose dell'avanzata dei franco-piemontesi, efficacemente coadiuvati dai Cacciatori delle Alpi che, operando nella regione dei laghi, liberarono Varese, batterono gli austriaci a San Fermo e procedettero, dopo la liberazione di Bergamo e di Brescia, in direzione del Veneto. Durante la guerra, infatti, la collaborazione fra le forze “regolari” dell’esercito piemontese e quelle “irregolari”, volontarie – come i Cacciatori delle Alpi e i moti popolari promossi dai democratici in Emilia e in Toscana – fu particolarmente fruttuosa, cosa che allarmò particolarmente Napoleone III, spingendolo a chiudere velocemente il conflitto con l’Austria (armistizio di Villafranca). La Lombardia passava così, per mano francese, ai Savoia e la Francia si impegnava a riportare l’ordine nell’Italia centrale. Ma ormai in quella parte della penisola italica si era innescato un meccanismo difficile da bloccare e i governi provvisori resistettero, costituendo una forza militare comune. La soluzione sarà frutto, ancora una volta, dell’abilità politica di Cavour che riuscì a cavalcare il processo nato su iniziativa democratica e popolare e a trovare un accordo con Napoleone III. I plebisciti dell’undici e dodici marzo 1860, accompagnati dallascomunica del papa che sentiva “odor di bruciato” sulle sue terre, decretarono l’annessione dei Ducati di Modena e Parma, del Granducato di Toscana e delle Legazioni pontificie al Piemonte. La spedizione dei Mille: il fronte democratico rompe l’immobilismo Il processo unitario all'indomani dei plebisciti appariva irreversibile ma la politica moderata cavouriana sembrava non essere in grado di farlo avanzare ulteriormente. Si ebbe perciò una ripresa rivoluzionaria da parte dei democratici e la loro attenzione tornò a volgersi verso il Mezzogiorno d'Italia, dove la morte di Ferdinando II aveva portato sul trono il giovane Francesco II. Le vicende della spedizione sono assai note. La rivolta del 4 aprile 1860 a Palermo capeggiata da Francesco Riso, la sua propagazione nell’isola e la leadership di Rosolino Pilo, fino all’azione promotrice di Francesco Crispi che convinse Garibaldi ad assumere l’iniziativa. Il generale pose come condizione che il programma fosse: Italia e Vittorio Emanuele. Vittorio Emanuele scorgeva nell'iniziativa di Garibaldi la possibilità di condurre a compimento il programma unitario verso il quale ormai inclinava. Era invece contrario Cavour, preoccupato per le ripercussioni internazionali e per il riproporsi della soluzione repubblicana. L’avanzata delle camicie rosse fu possente e inarrestabile. Il fatto centrale, nel complesso, è che il fronte moderato, spiazzato da questa eterogenea e convulsa mobilitazione di masse e ceti popolari, temette di perdere il controllo: il prestigio dell'eroe, secondo Cavour, avrebbe fatto impallidire per sempre l'astro dei Savoia, mentre Mazzini – presente in Sicilia – insisteva sulla convocazione di un’assemblea costituente in una Roma liberata. La nazione sarebbe sorta per volontà di popolo non sarebbe più apparsa come risultato della conquista regia e delle trattative diplomatiche. La controffensiva moderata Cavour sembrava tagliato fuori dal gioco, ma la minaccia che si profilava su Roma gli consentì di riprendere l'iniziativa e di fare accettare Napoleone l'intervento dell'esercito piemontese nelle Marche, nell'Umbria e nelle terre pontificie per prevenire le mosse di Garibaldi. Nel frattempo Garibaldi batté ancora una volta i borbonici attestati sulla linea del Volturno e si fece incontro al re a Teano, nei pressi di Caserta, consegnando nelle sue mani il Mezzogiorno d'Italia liberato (26 ottobre). Nei giorni precedenti, il 21 ottobre, gli elettori meridionali erano stati convocati per votare l'annessione al Piemonte. Il plebiscito si risolse trionfalmente con l'annessione al Piemonte e con il consolidamento delle strutture liberali moderate proprie del regno sabaudo. La maggior parte dei garibaldini furono congedati. Il sovrano non comparve neppure alla loro parata d'addio. A Garibaldi non restò che ritirarsi a meditare, nell'eventualità che l'Italia avesse ancora bisogno della sua opera. Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele II "re d'Italia per grazia di dio e volontà della nazione". L'Italia era stata fatta e la casa Savoia si poneva come garante dell'ordine e della stabilità sociale. Dopo una serie di duri scontri in Parlamento nell'aprile del 1861 l'esercito garibaldino fu sciolto, mentre nel Mezzogiorno, sotto le insegne del brigantaggio, si scatenava la protesta popolare contro la nuova classe dirigente. La terza guerra d’Indipendenza: fra le pieghe delle guerra austro-prussiana Dopo soli cinque anni, ancora una guerra fra le potenze continentali: nel 1866 Austria e Prussia giungono a conflitto. Questa volta l’incombenza è totalmente a carico dell’esercito dell’Italia appena unificata; mancanza di collegamenti con i prussiani e divergenze e disorganizzazioni interne fecero sì che la guerra fosse segnata da una serie di evidenti insuccessi, soprattutto a Custoza. L’acquisizione del Veneto non era in discussione, ma un successo militare avrebbe dovuto giustificarla e renderla plausibile. Ma così non fu: soltanto Garibaldi, a capo delle solite truppe volontarie, ottenne una vittoria a Bezzecca, però – come è noto – le vicende diplomatiche e i preliminari di pace fra Prussia e Austria fermarono la sua azione. E fu richiamato. Risoltasi la guerra a Sadowa con la sconfitta degli Asburgo, l'Italia entrò in possesso del Veneto, nonostante le sconfitte di Custoza e di Lissa. Il Veneto fu ceduto non direttamente all'Italia ma a Napoleone che lo trasferì al governo italiano il 24 agosto 1866. La soluzione della questione romana: fra le pieghe delle guerra franco-prussiana Nel corso degli anni 1866-1867 la crisi economica si aggravò e il governo fece ricorso alla massiccia alienazione dei beni demaniali ed ecclesiastici. Garibaldi e i garibaldini tentarono una nuova impresa, che fallì però a Mentana e l’eroe tornò a Caprera. Negli anni successivi le vicende che si conclusero con la liberazione della Capitale confermarono il sostanziale scacco del movimento popolare e il definitivo trasferimento della questione romana sul piano della diplomazia europea. Quando Napoleone III fu sconfitto a Sedan e in Francia crollò il secondo impero, il governo italiano presieduto da Giovanni Lanza si ritenne sciolto dagli impegni contratti con la convenzione di settembre. Il 20 settembre 1870 un corpo di bersaglieri dopo breve scontro aprì una breccia nelle mura della città presso Porta Pia ed entrò in Roma. Un plebiscito sanzionò formalmente l'annessione di Roma all'Italia: una legge speciale, detta delle Guarentigie, provvide a regolare i rapporti tra lo Stato e Chiesa. Epilogo Lo Stato liberale si trovò di fronte alla ferma opposizione dei cattolici che denunciavano il carattere individualistico del modello proposto, facendo leva anche sul malcontento delle masse rurali sfruttate dalla borghesia. Diverse voci di opposizione provenivano dal governo dalla vasta costellazione delle associazioni operaie laiche, che raccoglievano lavoratori di tutte le arti e di tutti i mestieri. Dopo l'unità, le correnti mazziniane si fecero avanti con rivendicazioni apertamente politiche, aprendo uno scontro evidente tra la linea liberale moderata e quella democratica. Mazzini proponendo ai lavoratori la lotta per il suffragio universale, per la democrazia e per la Repubblica cercò di fare delle società operaie e artigiane la base di massa del Partito d'Azione, uno strumento di agitazione contro il governo monarchico. Nel 1864 a Napoli strappò al congresso delle società operaie una vittoria di misura ma in quello stesso anno Marx rivolgeva un ben diverso messaggio l'associazione europea dei lavoratori, proponendo l'emancipazione economica come grande fine cui deve essere subordinato ogni movimento politico. Il mazzinianesimo si avviava al tramonto e si andava delineando l'avanzata di una nuova linea di protesta, quella capeggiata e propugnata dal russo Bakunin, massimo esponente dell'anarchismo internazionale.