Il Potere della Parola

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“LA CONSULENZA FILOSOFICA E IL POTERE DELLA PAROLA”
Al fine di presentare la Consulenza Filosofica - professione non recentissima, ma perlopiù
sconosciuta – ho ritenuto opportuno partire da quelli che sono i suoi presupposti teorico-filosofici,
così da proporre, in primis, una vera e propria serata di filosofia e, in secondo luogo, da giungere a
trattare della Consulenza Filosofica avendo ben chiaro l’orizzonte di pensiero dal quale emerge e
sul quale si fonda.
Innanzitutto, trattandosi di consulenza definita, appunto, “filosofica”, sarebbe opportuno trattare il
tema della filosofia in generale: cos’è, di cosa occupa, come se ne occupa; tuttavia non abbiamo il
tempo materiale per fare questo in questa sede, così mi limiterò a ricordare brevemente che cosa si
intende quando si parla di “filosofia”, rimandando eventuali, ulteriori approfondimenti alla ricerca
personale o, per chi lo desiderasse, al confronto con me.
La filosofia, come disciplina (o “scienza”?) nuova e peculiare nel panorama culturale del tempo,
nasce “ufficialmente” in Grecia nel VI secolo a.C. (Esistono diverse teorie in merito perché non tutti
gli storici della filosofia sono concordi nel ritenere che il “fenomeno filosofico” fosse del tutto
nuovo, rintracciandone antecedenti nelle grandi culture orientali). La tradizione identifica il primo
filosofo in Talete di Mileto, mentre il termine “filosofia” venne coniato qualche tempo dopo da
Pitagora e significa “amore di sapienza” (dal greco phylos – amore; sophia – sapienza). Da
ricordare che la sophia era, per i Greci, la sapienza tipica degli déi, alla quale l’uomo poteva sì
tendere (anzi, necessariamente doveva tendere come afflato naturale), ma alla quale l’uomo non
poteva mai arrivare in maniera compiuta e ultimativa. Questo non è un dettaglio di poco conto
perché questa “tensione”, questa ricerca continua è sempre stata ed è uno dei caratteri peculiari della
filosofia, che, se è veramente tale, si caratterizza proprio per questo desiderio di andare sempre
avanti e sempre oltre nella ricerca di spiegazioni, motivazioni, chiarificazioni, considerando ogni
“conoscenza” acquisita come sempre provvisoria e suscettibile di messa in discussione.
Tipico della filosofia è l’utilizzo del ragionamento razionale che viene esercitato fino al suo limite
estremo attraverso la critica costante (in senso non negativo, bensì costruttivo) come metodo volto
alla messa in discussione di ciò che pare ovvio e dato per scontato) e l’applicazione del dubbio
sistematico (ovvero la costante messa in discussione di ciò che appare ovvio e scontato).
Ne discende che, pur essendo la filosofia peculiarmente esercizio della facoltà raziocinante
dell’uomo, la sua “pratica sistematica” si rivela anche come un vero e proprio “atteggiamento verso
il mondo”. Una delle annose questioni riguardo la materia, riguarda il rapporto tra teoria e pratica
che sussisterebbe – o non sussisterebbe – tra l’aspetto teorico e l’aspetto pratico. Tuttavia questa, a
ben guardare, si palesa come una “falsa domanda”, o comunque una domanda mal posta, perché i
due aspetti – pratico e pragmatico – non sono scindibili se non a livello meramente teorico, dal
momento che “pensare filosoficamente” comporta – di necessità – ad “agire filosoficamente”.
Ecco perché, se è ben vero che la filosofia parte dal ragionamento (e sempre lo mantiene e mai lo
abbandona), è altrettanto bene che essa coinvolge l’uomo nella sua totalità di essere umano.
Ora, perché parlare di “potere della parola” in collegamento alla filosofia?
Perché la filosofia, da sempre, utilizza come suo strumento principe proprio la “parola” (nel senso
che tra poco vedremo): esercitando in maniera rigorosa la capacità intellettiva, quindi il pensiero,
essa, per forza di cose (e vedremo anche cosa significa “per forza di cose”), non può non farlo che
attraverso le parole e il linguaggio.
Entriamo quindi nel vivo dell’argomento e vediamo cosa significa parlare di “parola” – e quindi
“linguaggio”, nel nostro contesto culturale.
Mediamente, cioè in generale e sempre tenendo presente che le eccezioni sempre esistono, quando
noi diciamo “parola” – e quindi “linguaggio” – pensiamo perlopiù a “vuote forme” che ci servono
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per designare le cose (materiali o meno, es. oggetti, ma anche pensieri, emozioni, concetti astratti).
Questo deriva soprattutto dal nostro modo di “vedere il mondo”, per il quale siamo abituati a
dividere nettamente la “forma” dalla “materia”, il “corpo” dall’ “anima”, ecc. (questa idea, per
esempio, questa divisione dicotomica del mondo, e dell’uomo, in due dimensioni è di derivazione
platonica, ma è così forte e connaturata ormai al nostro modo di pensare, che non solo non
sappiamo più che fu una “invenzione” di Platone, ma crediamo anche che sia l’unica maniera di
vedere e pensare il mondo).
Tuttavia, analizzando le “parole” in diversi contesti culturali, anche molto lontani tra loro nello
spazio e nel tempo, scopriamo che la “parola” non è mai utilizzata solo come “pura forma”. Questo
merita una riflessione.
Proponiamo di seguito alcuni esempi:
 Antico Testamento: Dio crea attraverso la parola e dà all’uomo il potere di “nominare” le
cose;
“In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla
superficie dell’oceano e lo spirito di Dio era sulle superficie delle acque. Dio allora ordinò: ‘Vi sia
luce’. E vi fu la luce. E Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalla tenebra. E Dio chiamò
la luce giorno e la tenebra notte. Poi venne sera, poi venne mattina: un giorno. Dio disse ancora:
‘Vi sia un firmamento in mezzo alle acque che tenga separate le acque dalle acque’. E avvenne così.
(…) E Dio chiamò il firmamento cielo.” (e così di seguito, la Creazione viene operata chiamando,
ordinando a voce, nominando). (Genesi, 1)
“Poi il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui
corrispondente’, Allora il Signore Dio modellò dal terreno tutte le fiere della steppa e tutti i volatili
del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo
avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il loro nome.. E così l’uomo impose dei
nomi a tutto il bestiame, a tutti i volatili del cielo e a tutte le fiere della steppa; (…) Allora l’uomo
disse: ‘Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché
dall’uomo fu tratta”. (Genesi, 3)
Salmo 33: “(…) Poiché retta è la parola del Signore e fedeltà ogni sua opera. (…) Con la parola
del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il loro ornamento. (…) Tema il
Signore tutta la terra, lo riveriscano tutti gli abitanti del mondo; poiché egli parlò e fu fatto, egli
comandò ed esso fu creato”.
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo. Questi era in principio
presso Dio. Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto.”
(Prologo al Vangelo di Giovanni)
Interessante notare, a proposito del celeberrimo Prologo di Giovanni, che “In principium erat
verbum” è stato soggetto a traduzioni differenti e non sempre verbum è stato inteso come “parola”:
“Alcuni traduttori ritengono che verbum possa voler dire ‘suono o canto’. Qualunque cosa sia,
suono, canto, parola, verbo, tutte queste parole fanno parte della stessa energia (…). In questo
senso le Scritture bibliche fanno eco alle Scritture vediche, perché quest’ultime affermano:
‘All’inizio era Brahman (aspetto impersonale dell’assoluto) con cui era la parola e – la parola è
Brahman – ‘ (…). Quello di cui stiamo parlando è il Logos, la famosa parola perduta delle
tradizioni esoteriche”. (P. BERNHARDT, La musica dell’anima. Il potere terapeutico del suono e
dei mantra, Gruppo Futura 1997)


Mondo della magia e degli incantesimi nelle società arcaiche: utilizzo di parole per
produrre degli effetti “pratici”;
Mantra (tradizione orientale): ripetizione di una particolare parola per provocare
“qualcosa” nel corpo e/o nello spirito;
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
Sami (Lapponia): “dottori della parola”, sciamani che curano attraverso parole
particolari;
 Maori (Australia): diversi nomi per le diverse fasi della vita;
 Indiani (America): nomi propri che rimandano a caratteristiche individuali (Toro Seduto,
Cavallo Pazzo);
 Imposizione del nome proprio ai neonati: in molte culture non si sceglie un nome a caso,
ma un nome che abbia un significato specifico, esempio per augurare al bambino di
sviluppare certe caratteristiche oppure per offrirgli protezione, o anche per descrivere
alcune sue caratteristiche;
 “Nomen omen” (“Il destino nel nome”/ “Un nome un destino”): credenza degli antichi
Romani per la quale nel nome proprio sarebbe inscritto il destino della persona;
 “Nomina sunt consequentia rerum” (“I nomi derivano in maniera essenziale dalle cose”,
Giustiniano, Imperatore bizantino del V-VI sec. d.c.): affermazione ripresa ampiamente
dalla filosofia medioevale, per la quale nel nome delle cose sarebbe contenuta l’
“essenza” delle cose stesse e per la quale, quindi, i nomi non sarebbero attribuzioni
casuali.
(Da notare che, accanto all’importanza della parola e del linguaggio, esiste il contraltare, ovvero il
silenzio. Il silenzio può essere inteso nella duplice accezione di “assenza di parola” e quindi anche
di “spazio” che permette il manifestarsi della parola stessa, ma anche come “sublimazione” della
parola (per esempio nelle esperienza mistiche).
Riflettendo più attentamente, però, vediamo che anche nel nostro utilizzo delle parole, c’è una certa
ambivalenza: da un lato pensiamo che le parole siano “vuote forme”, dall’altro utilizziamo
espressioni del tipo: “mi hai ferito con le tue parole”, piuttosto che evitiamo di nominare alcune
malattie definendole genericamente “brutti mali”…. Questo fa pensare che, anche noi, in qualche
modo, attribuiamo alle parole una “forza”, un “potere” di qualche genere, per cui usare/non usare
certi termini possa fare la differenza sulla “realtà”. Anche questo merita una riflessione.
A questo punto vale la pena di chiedersi: perché parliamo?
Le teorie filosofiche a riguardo sono varie e molteplici – come sempre accade in filosofia – ma qui
ne riporto una che sento affine al mio modo di pensare. Noi parliamo perché l’essere umano ha una
natura intrinseca che è costitutivamente “politica”(non nel senso odierno del termine, ma nel suo
originario senso greco, ovvero “politica” come dimensione comunitaria che prevede l’individuo
inserito e connesso in un contesto di “altri individui”), cioè è già predisposto naturalmente, diciamo
così, all’incontro con l’Altro che, prima ancora di essere “un altro fuori di lui” è “l’Altro in sé”.
Semplificando, il fatto che l’uomo sia capace non solo di coscienza, ma anche di autocoscienza, ci
dice che egli è fatto per “essere in rapporto”, e infatti: “(…) il modo in cui l’uomo è-con-gli-altri è
improntato ai medesimi caratteri che determinano il modo in cui egli è-con-se-stesso” (F.
Chiereghin, Possibilità e limiti dell’agire umano).
Io, infatti, non solo “sono”, ma anche “so di essere” (autocoscienza): l’autocoscienza implica uno
“sdoppiamento” del soggetto, per cui il soggetto si percepisce, oltre che come sé, anche come altroda-sé. Non a caso, quando parliamo con noi stessi – cosa che avviene solitamente pensando e non
pronunciando parole con la voce – diciamo “parlare tra sé e sé”, espressione che ben esemplifica
cosa vuol dire “sdoppiamento del soggetto”.
“L’uomo non è con gli altri perché sia incapace di bastare a se stesso; al contrario, proprio
nell’autonomia e nella libertà dalla necessità, nella pienezza, quindi, e non nella deficienza, egli è
originariamente (…) animale politico”. (F. Chiereghin, Op. cit.)
Ma che cosa facciamo con le parole? A cosa ci servono?
Le parole (e quindi il linguaggio) vengono utilizzate per “descrivere” il mondo e per attribuire dei
“sensi”. Semplificando, possiamo dire che esiste un mondo “fuori di noi”(costituito di oggetti, cose,
fatti, situazioni, persone) - ma anche un mondo “dentro di noi” - (costituito di pensieri, emozioni,
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concetti “astratti”) che noi abbiamo bisogno (o voglia) di “descrivere” per comunicare con gli altri
(o anche solo con noi stessi).
Ma, ogni volta che utilizziamo una parola piuttosto che un’altra, sia per comunicare con gli altri sia
per pensare con noi stessi, compiamo sempre una operazione di “interpretazione” del mondo.
Non è possibile operare diversamente, diciamo così, perché fa parte del nostro modo di pensare il
fatto di “attribuire sensi” alle cose. Dal “circolo dell’interpretazione” non possiamo uscire, tuttalpiù
possiamo essere consapevoli che ci siamo naturalmente – e irrimediabilmente – immersi.
Alcuni semplici esempi a riguardo: lo stesso “fatto” può essere raccontato in modi diversi da
diverse persone pur essendo lo stesso fatto; la stessa “situazione”, a seconda che ci piaccia o meno,
provocherà in noi pensieri diversi che si rifletteranno sulla scelta delle parole che utilizzeremo per
parlarne; osservando lo stesso panorama, due persone noteranno cose diverse.
Questo avviene perché le parole che noi usiamo sono strettamente connesse ai pensieri che noi
facciamo, o meglio, non esiste parola senza pensiero né pensiero senza parola. Non a caso i Greci
utilizzavano lo stesso termine per indicare la parola e il pensiero (logos), che ha anche molti altri
significati (ragionamento, causa, ragion d’essere, calcolo, ecc.).
“E’ noto che gli antichi ritenevano di poter dominare le potenze malvagie chiamandole con il loro
nome, di poter indebolire o neutralizzare il proprio nemico eseguendo certi procedimenti magici sul
suo nome. I bambini conoscono un oggetto quando lo nominano, la denominazione non viene dopo
il riconoscimento, ma è il riconoscimento stesso; essa appartiene all’oggetto allo stesso titolo del
suo colore e della sua forma. (…) Ogni esperienza, reale o potenziale che sia, è quindi
completamente impregnata di espressioni verbali, (…) la lingua non è lo strumento di un pensiero
che da sé potrebbe raggiungere la cosa, non è il semplice segno degli oggetti e dei significati, ma è
ciò che, abitando le cose, le esprime”. (U. Galimberti, Il corpo)
Vale la pena di ribadire questo concetto e di ricapitolare:
-
noi parliamo perché siamo “naturalmente” fatti per “essere in rapporto” con l’Altro (fuori di
me o dentro di me);
quando parliamo utilizziamo parole;
dietro ad ogni parola c’è un pensiero, perché non esiste parola senza pensiero né pensiero
senza parola;
i nostri pensieri (e quindi le parole che noi utilizziamo) derivano dal “senso” che noi
attribuiamo alle cose, cioè dalla nostra “interpretazione” del mondo.
Se, dunque, esiste un MONDO che io “descrivo” con certe PAROLE (che corrispondono a certi
PENSIERI) e se la scelta delle parole non è “casuale”, ma dipende dal “senso” che io attribuisco
alle cose del mondo (alla mia INTERPRETAZIONE), e, quindi, c’è un rapporto stretto tra parole e
cose, allora è verosimile che valga anche il rapporto inverso, ovvero che – agendo sulle PAROLE (e
quindi sui PENSIERI che a queste parole corrispondono) io possa “agire” sul MONDO.
Attenzione! Non stiamo parlando di strani incantesimi né di formule magiche, piuttosto stiamo
dicendo che abbiamo un certo margine per “agire” sul mondo (esterno ed interno) e anche di
“modificarlo” attraverso l’utilizzo del linguaggio. Questo perché il linguaggio è strettamente
connesso alle “cose”, ma anche ai “pensieri” ed è la “via di mezzo”, l’anello di unione, tra il mondo
e i pensieri.
“Nel linguaggio, dunque, è il senso delle cose e del mondo. E se l’uomo, a differenza dell’animale,
parla, non è perché pensa o perché la sua regione laringea è più specializzata, ma perché, a
differenza dell’animale, è aperto al mondo e le cose del mondo hanno per lui un nome. (…) Parlare,
infatti, non è emettere suoni, ma esprimere sensi, e non si può credere che un pensiero, senza
l’organizzazione simbolica apportata dalla lingua, possa pensare qualcosa.” (U. Galimberti, Op.
cit.)
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Il sistema descritto di relazione che esiste tra MONDO – PAROLE – PENSIERI ci dice, tra le altre
cose, che io non ho in testa il mondo, quanto piuttosto una “mappa del mondo” che, in quanto tale,
proprio alla stessa stregua di una cartina geografica, non è il mondo, ma una sua rappresentazione.
La rappresentazione propria di ognuno di noi si forma, come abbiamo accennato, attraverso i sensi,
i significati e le interpretazioni che noi diamo alle cose del mondo. Tale “mappa mentale”, diversa
per ogni persona, è ciò che traspare dalle nostre parole quando parliamo (a noi stessi o agli altri).
Nella maggior parte dei casi, la nostra mappa mentale si crea in maniera “automatica” o comunque
non pienamente consapevole, così che noi, di solito, non siamo nemmeno consci di descrivere la
nostra mappa, quanto piuttosto pensiamo di descrivere il mondo. Acquisire consapevolezza delle
proprie mappe mentali può essere uno dei passi da fare per raggiungere maggiore lucidità di
pensiero e per disporre di qualche strumento in più per gestire la nostra mappa con conseguenti
“effetti pratici”. Se siamo consapevoli, infatti, che le nostre parole riflettono i nostri pensieri i quali,
a loro volta, esprimono la nostra mappa mentale (fatta di nostre interpretazioni), allora si può
iniziare a comprendere come sia possibile operare sulla nostra mappa partendo dalle parole, ovvero
percorrendo la catena mondo-parole-pensieri-mappe a ritroso. Anche perché non c’è altra via di
accesso alla nostra mappa, se è vero che essa viene espressa dai pensieri e che non esiste pensiero
senza parola.
“’Ci sono solo fatti?, io direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. ‘Tutto è
soggettivo’, dite voi; ma già questa è un’interpretazione. Il ‘soggetto’ non è niente di dato, è solo
qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. Nella misura in cui la
parola ‘conoscenza’ ha senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non
ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi”. (F. Nietzsche)
Cosa c’entra tutto ciò con la Consulenza Filosofica?
Innanzitutto, la Consulenza Filosofica si situa all’interno del più ampio panorama del Counseling,
disciplina che ha diverse sfaccettature, ma alcuni presupposti di base comune.
La Consulenza Filosofica nasce agli inizi degli anni ’80 in Germania con G.B. Achenbach, il quale
fa alcune riflessioni sul ruolo della filosofia in epoca moderna e sul percorso che questa ha fatto nel
corso dei secoli. Uno dei motivi fondamentali che hanno portato al sorgere di questo nuovo
approccio alla filosofia è stata l’esigenza di riportare questa disciplina “fuori dall’Accademia”, nella
quale per secoli è stata confinata, perdendo così non solo il contatto con il mondo, ma soprattutto
tradendo quella che era una parte fondamentale della sua “missione” originaria.
La filosofia delle origini, infatti, era – ed è stata per molto tempo – un esercizio del pensiero che
però implicava, costitutivamente, una dimensione “pratica” e anche “politica”. Il filosofo era colui
che “pensava bene” e che, proprio per questo, “viveva bene” (sarebbe opportuno approfondire il
concetto di “vivere bene”, ma questo ci porterebbe troppo lontano dalla presente trattazione). Ed
egli, per “pensare bene”, necessitava della dimensione “politica”, ovvero dell’apertura all’altro, nel
senso che la filosofia era intrinsecamente “pratica filosofica”, ovvero discorso, confronto, dialogo,
dialettica che, in quanto tale, poteva essere esperito solo tra due o più soggetti.
Il Counseling, in tutte le sue forme, propone degli interventi non di carattere psicologico, né
psicoanalitico, né psichiatrico. Gli interventi di Counseling hanno la caratteristica di essere brevi nel
tempo e fortemente focalizzati su un argomento che la persona (o le persone) sentono come
“problematico” e/o “sensibile” e che hanno voglia di affrontare. Le diverse forme di Counseling
non mirano mai ad “imporre” modelli precostituiti di comportamento, né propongono “soluzioni”
preconfezionate di “giusto” e “sbagliato”, piuttosto sono volte – pur nella differenza delle
metodologie adottate – a innescare nelle persone un processo autonomo di chiarificazione e di
“messa in moto” delle risorse proprie di ognuno, che sempre abbiamo, ma che a volte non riusciamo
ad utilizzare in maniera proficua ed efficace. Il Counseling lavora, come si dice in gergo tecnico, sul
“qui e ora”, ovvero parte dalla situazione attuale “prendendone atto”, senza ricerche sull’inconscio e
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senza indugiare sulle cause passate (anche se può accadere che, nel discorso, vengano fatti accenni
a episodi passati della vita del “consultante”, il Counselor non tenderà ad indagare alla maniera
psicologico-psicoanalitica tali aspetti). La Consulenza Filosofica, all’interno di questo panorama, si
contraddistingue per l’utilizzo di strumenti e “cornice di pensiero” strettamente filosofici.
I discorsi fatti sulla parola, il pensiero, il linguaggio, il mondo, ci sono serviti per spiegare e
“giustificare” a livello teorico il perché, attraverso l’utilizzo e l’analisi delle parole, si può giungere
a qualche forma di cambiamento e/o modificazione “pratica”.
L’obiettivo della Consulenza Filosofica è quello di “aiutare” l’altro ad esplorare autonomamente le
sue mappe mentali mettendo in moto un processo di autoconsapevolezza che fa leva sulle risorse
proprie della persona che al consulente si rivolge (definito “consultante”).
Ma attenzione, qui tocchiamo un punto molto importante degli interventi di Consulenza Filosofica:
essere consapevoli, di per sé, non risolve nulla, ma essere consapevoli (o più consapevoli, perché la
ricerca non è in realtà mai finita) può aprire nuove possibilità e nuove vie. Gli stessi “guru” della
Consulenza Filosofica si sono a lungo interrogati su questo punto e spesso sono i primi a muovere
forti autocritiche a quegli approcci che vogliono spacciare per “risolutiva” la sola attività mentale e
di ragionamento. Nessuno di coloro che lavora in questo ambito in maniera seria crede che basti
“pensare” (in senso “astratto”) per “cambiare il mondo”! Ma tutti coloro che praticano la
Consulenza Filosofica – e ancor prima la Filosofia – in maniera seria ed onesta, credono che la
Filosofia non è, come comunemente si crede, un puro esercizio intellettuale, ma un vero e proprio
modo di essere e di vivere.
Come si fa, concretamente, questa cosa?
I metodi utilizzati dai Consulenti Filosofici sono molti e diversi, perlopiù dettati dalla particolare
visione filosofica del Consulente, dall’orientamento della scuola che segue e, anche, dal suo
carattere e dalle sue inclinazioni. Sostanzialmente, comunque, il Consulente lavora “sulle parole” e
“con le parole”: attraverso il dialogo filosofico, la lettura di brani, un “particolare” modo di porre le
domande e di “analizzare” quanto viene detto dal consultante, il consulente tende a innescare un
processo di “chiarificazione interiore” nella persona che gli sta di fronte, la quale, in maniera del
tutto autonoma e “non pilotata” né invasiva, riuscirà, da sé, a mettere in moto alcune delle risorse
che già possiede al fine di “ampliare i propri orizzonti” non solo di pensiero, ma anche di vita.
In questo senso, il consulente deve cercare di fare da “specchio”, ovvero non deve cercare di
“imporre” la sua idea e la sua “visione del mondo”, ma deve utilizzare il metodo in maniera
rigorosa al fine di permettere al consultante di intraprendere i suoi percorsi senza forzature né
imposizione di schemi. Questa operazione, a parole semplicissima, è invece molto ardua da attuare
nella pratica perché, come abbiamo tentato di esplicitare sopra, è impossibile non avere dei giudizi,
dei pre-giudizi, delle interpretazioni. Quindi, essendo impossibile “eliminare” i giudizi, i pre-giudizi,
le interpretazioni del consulente, questo deve tendere a “sospendere” temporaneamente tutto ciò, al
fine di non “influenzare” e “pilotare” il consultante, il quale, tramite l’attivazione delle sue proprie
risorse, deve essere libero di compiere (o meno) il suo “percorso”. A tal fine, il primo dei due
soggetti che deve continuamente autoformarsi e praticare la consulenza filosofica su se stesso è
proprio il consulente! Allo stesso tempo, a differenza delle pratiche psicologiche e psicoterapiche, il
consulente non resta “estraneo” al rapporto con il consultante, ma è disposto a “mettersi in gioco” e,
anzi, proprio da questo “contatto” reciproco scaturiscono, di solito, i progressi più significativi per
entrambi. In questo senso, non è affatto necessario che consulente e consultante siano estranei: essi
possono anche conoscersi perché la modalità con cui vengono affrontate le questioni non implica né
un lavoro sull’inconscio né, necessariamente, lo “svelamento” di “segreti” da parte del consultante.
In ogni modo, come per tutte le attività che sono rivolte alla persona, la privacy è garantita in
maniera assoluta e – da codice deontologico – al consulente è fatto divieto di rivelare i nomi delle
persone che a lui si rivolgono e, ancor più, le tematiche e le informazioni che vengono trattate in
consulenza, a maggior ragione quelle sensibili.
La consulenza uno a uno è però solo una delle possibili applicazione della Consulenza Filosofica, la
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quale può essere utilizzata – ed è effettivamente utilizzata – anche in altri ambiti e con altre
sfumature: mondo aziendale, scuola, sanità, ma anche gruppi di consulenza e studio, ma anche
seminari e Pratiche Filosofiche.
Non mancano, nella Consulenza Filosofica, le “questioni aperte” sull’esercizio della professione.
Questo, oltre ad essere un fenomeno “fisiologico” di tutte le professioni, a maggior ragione delle
professioni che non hanno ancora una storia consolidata, è anche tipico dell’approccio filosofico
generale: nessuna conoscenza, nessuna teoria, deve mai essere data per acquisita in maniera certa e
definitiva, quanto piuttosto sempre verificata, sottoposta al vaglio della “critica” e all’”esercizio
sistematico del dubbio”. Tale aspetto non sminuisce la Consulenza Filosofica, ma ne garantisce
invece la “genuinità” e la “onesta intellettuale” e – anche – “etica e morale”.
“L’anima, o caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i discorsi belli”.
“L’inesattezza del linguaggio non è solo un errore in se stessa, ma fa del male anche alle anime”.
(Platone)
Ora però, dopo aver tentato di spiegare perché le parole sono così importanti e come la filosofia e la
consulenza filosofica lavorino proprio con il linguaggio, è giunto il momento di porsi una domanda
ancor più radicale. Abbiamo cercato di dimostrare che le parole hanno un grande potere su di noi e
sul nostro modo di percepire il mondo, con tutte le conseguenze che questo comporta. Tuttavia, per
seguire il ragionamento, bisogna quasi “accettare per fede” questo presupposto, che però non
abbiamo dimostrato.
La domanda radicale è quindi questa: perché le parole hanno questo potere?
Ovvero: come fanno, “praticamente”, a provocare qualcosa?
Se non si risponde a questo, il ragionamento condotto fin qui è estremamente debole, e potrebbe
essere facilmente attaccato come un semplice processo mentale, anche illusorio, molto labile nella
sua tenuta.
In realtà, a mio modo di pensare, questo quesito si pone e ha senso solo nel nostro contesto culturale
e solo per il nostro modo di pensare che necessita, per accettare qualcosa, di avere una “prova
scientifica”, diciamo così. Insomma, nessuno avrebbe mai chiesto a Pitagora una “prova scientifica”
del fatto che egli ritenesse che la musica ha un potere curativo. Né nessuno chiede agli sciamani
perché nel corso delle cerimonie sacre si suona il tamburo con un certo ritmo piuttosto che con un
altro. E’ così e basta. Solo che per noi, dire “è così e basta” equivale ad un credere “per fede” nel
suo senso più deteriore, in altri contesti, invece, “è così e basta” significa che “si sa”, davvero, che
“è così e basta”; potremmo dire che si sa a un livello diverso rispetto a quello razionale puro.
In ogni modo, noi, mediamente, necessitiamo della prova razionale, la stessa filosofia non può, non
vuole e non deve abdicare a questo, almeno come punto di partenza, quindi tentiamo di fornirla,
visto che ne abbiamo la possibilità.
Cercherò quindi di dar ragione dell’argomento nella maniera più semplice possibile, senza
addentrarmi in dettagli tecnici troppo spinti, che ci porterebbero a sconfinare in altri campi senza
avere, peraltro, le adeguate conoscenze per gestirli.
Dunque, a livello fisico, la parola, ma anche la musica, il canto, il suono (anche il rumore) sono
delle onde vibrazionali. Questo si sa, ma di solito questo fenomeno viene associato al solo fatto che
queste onde vengono percepite dal nostro orecchio e quindi noi le sentiamo. Al massimo si sa che
esistono anche delle onde vibrazionali non percepibili dall’apparato acustico umano, tipo gli
ultrasuoni, che viaggiano su frequenze che non rientrano nel range dei suoni udibili dall’essere
umano.
Quello che, di solito, non si sa, invece, è che tutto emette delle onde di vibrazione, e, nel caso
specifico che ci riguarda, anche il nostro corpo le emette, anzi, ogni nostra cellula le emette.
E le onde non vengono solo emesse, ma anche captate, cioè, detto in maniera semplicissima, tutte
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queste onde emesse dalle cose/esseri si incontrano e/o si scontrano: alcune vanno “d’accordo” tra di
loro, altre no.
L’esperimento scientifico che più colpisce l’immaginario comune a questo proposito riguarda
l’acqua sottoposta all’”ascolto” della musica: ebbene, se io prendo due bicchieri d’acqua e li
espongo all’”ascolto” di due musiche differenti per un certo tempo, ad una analisi chimica
successiva vedrò che la struttura molecolare dell’acqua stessa non solo si è modificata perché c’è
stata l’esposizione al suono, ma che l’acqua che ha “ascoltato” un certo tipo di musica ha una
struttura diversa non solo dall’acqua di partenza, ma anche dall’acqua che ha ascoltato un altro tipo
di musica.
Basta ricordarsi che le cellule del nostro corpo sono costituite per la maggior parte di acqua, e già si
intuisce dove vogliamo arrivare con il ragionamento.
In sostanza, l’esposizione a suoni, musiche, parole, provoca delle modificazioni fisico-chimiche nel
nostro corpo, non per strani incantesimi esoterici, ma per un incontro/scontro di onde vibrazionali.
Esistono centinaia di esperimenti che analizzano gli effetti fisico-chimici che vengono provocati
dall’esposizione ad un certo tipo di vibrazione sonora piuttosto che di un’altra, non solo riguardo gli
esseri umani, ma anche relativi agli animali e alle piante: alcuni suoni provocano certe
modificazioni, altri ne provocano altri, a seconda della differenza di frequenza vibrazionale.
In parole molto povere: alcuni suoni “fanno bene”, altri “fanno male”.
Un esempio per tutti: il più famoso mantra, che anche gli occidentali ormai conoscono e utilizzano,
l’OM, non è un suono casuale, ma è un suono che ha una particolarissima lunghezza d’onda
vibrazionale, guarda caso particolarmente adatta a entrare in risonanza positiva con le nostre onde
vibrazionali. E, guarda caso, noi chiudiamo le nostre preghiere con la parola Amen, che ad Om
assomiglia molto…
Senza voler approfondire ulteriormente, ma ricordando che esistono moltissimi studi scientifici a
questo riguardo e che, anzi, la medicina stessa si sta interessando all’argomento perché gli orizzonti
che si stanno aprendo, anche sul fronte curativo, sono molteplici e interessanti, per il discorso che a
noi interessa credo possa essere sufficiente questo breve accenno al fatto che quando parliamo di
“potere della parola” non ci riferiamo a strane credenze magiche, ma ci stiamo riferendo ad un
fenomeno fisico.
Ora, come spesso mi accade, io non posso non rimanere affascinata dal fatto che la nostra scienza
sta dimostrando oggi cose che, al cosiddetto livello non scientifico, si sanno da sempre.
E mi commuove pensare che il nostro Pitagora, per citare uno fra tutti, che non sapeva niente degli
esperimenti sulla memoria dell’acqua, che non conosceva le onde vibrazionali, che non aveva
studiato fisica quantistica, sapeva, in altro modo evidentemente, che la musica curava, che la musica
poteva essere usata per l’elevazione spirituale e il perfezionamento dello spirito,
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