RICERCA più APPENNINI DISTRUTTIVI? È TUTTA COLPA DI ADRIA • di Edoardo Massimi • STUDIOSI DELL’INGV SCOPRONO L’EVOLUZIONE DELLA PARTE CENTRALE DELLA CATENA MONTUOSA: LA MICRO-PLACCA ADRIATICA SPROFONDA SOTTO L’ITALIA DA EST VERSO OVEST INNALZANDO LE VETTE E LIBERANDO GRANDI QUANTITÀ DI ENERGIA SISMICA “U n pezzo meraviglioso del creato”. Così vedeva gli Appennini Johann Wolfgang von Goethe nel suo “Viaggio in Italia”. Ma forse il poeta, scrittore e drammaturgo tedesco, ignorava la genesi di quella che descriveva semplicemente come “una catena di montagne aggrovigliate in modo così bizzarro che spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l’acqua”. Una bizzarria creata dalle forze della natura, ancora oggi non del tutto chiare per certi versi. La spina dorsale dello stivale, lunga oltre mille chilometri, ha infatti una storia geologica molto particolare, una delle più complesse dell’intero pianeta. Nel continuo spostamento delle placche – le porzioni di crosta terrestre che secondo la “Teoria della Tettonica a Zolle” muovono i continenti avvicinandoli e separandoli – Africa ed Europa, responsabili della formazione delle Alpi, non avevano fatto i conti con la micro-placca di Adria: sarebbe proprio lei il motore che ha generato la catena montuosa appenninica e i fenomeni sismici associati. A scoprirlo è stato il team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia composto da Claudio Chiarabba, Pasquale De Gori e Fabio Speranza. Nell’articolo “Deep geometry and rheology of an orogenic wedge developing above a continental subduction zone: seismological evidence from the northern-central Apennines” pubblicato su Lithosphere, rivista della Geological Society of America, gli studiosi spiegano il meccanismo di sollevamento di una parte dell’Appennino centrale (la regione compresa tra Toscana, Umbria, Marche e Lazio) e la liberazione dell’energia sismica che accompagna questo processo, con la subduzione di Adria, il meccanismo secondo il quale una porzione di placca scende in profondità (nel mantello) durante lo scontro con un’altra placca. Dall’analisi di circa 8 mila terremoti locali avvenuti tra il 2000 e il 2007 registrati dalle 357 stazioni sismiche temporanee o permanenti situate nell’area di studio, i ricercatori sono riusciti a comprendere la struttura e le geometrie di questa micro-placca, constatando che solamente la parte inferiore è coinvolta nel processo di subduzione. Cerchiamo di capirne di più. Pasquale De Gori, cosa aggiunge il vostro studio a ciò che si sapeva sull’origine degli Appennini? Siamo riusciti a delineare con una precisione e un dettaglio mai ottenuti prima il Piano di Benioff, la superficie lungo cui avviene lo sprofondamento, che scende fino a 60 chilometri in profondità. Non male come profondità. Con quali tecniche siete riusciti a investigare fin laggiù? In particolare ci siamo avvalsi della tomografia sismica. Ci spieghi meglio. Analogamente alla Tac che viene diffusamente utilizzata nella diagnostica radiologica, in geologia la tomografia sismica permette di “vedere” cosa accade nello strato superficiale della crosta terrestre. Si esaminano le anomalie di velocità di propagazione delle onde sismiche che si sprigionano durante i terremoti e dal confronto con i valori di riferimento noti siamo in grado di ricostruire i volumi di materiale profondo, lo stato fisico di queste rocce e le proprietà meccaniche. Il vostro studio che importanza può avere? Contribuisce senza dubbio alla comprensione dell’evoluzione nel tempo e nello spazio della catena appenninica. E, più tecnicamente, a risolvere alcuni aspetti strettamente connessi alla subduzione di litosfera continentale nella 15 RICERCA più formazione di una catena montuosa. Tempo e spazio, appunto. Benché si tratti di una catena montuosa in costru zione da diversi milioni di anni, l’Appennino è una struttura geologicamente ancora giovane. ‘Sismicamente’ parlando questo cosa significa per il nostro Paese? La sismicità è l’espressione più evidente che la zona studiata si sta tuttora evolvendo. Nell’Appennino centro-settentrionale abbiamo terremoti cosiddetti distensivi, ed esempi sono gli eventi di Colfiorito del 26 settembre 1997 e di L’Aquila del 6 Aprile 2009. Al contrario, abbiamo terremoti compressivi nella zona marchigiana, e questo è evidenziato dalla sismicità rinvenuta a circa 20-25 km di profondità. Che intensità massima è in grado di liberarsi nell’Appennino, sia da dati storici sia da previsioni con le moderne strumentazioni? Per capire quali magnitudo possiamo aspettarci in Appennino, bisogna considerare che solitamente i terremoti avvengono in zone che in passato sono già state colpite da eventi sismici. Analizzando la sismicità del passato più recente, quella cioè avvenuta in epoca misurabile con gli strumenti, il terremoto della Marsica del 1915 (Mercalli=XI grado, Magnitudo=7) risulta il più forte avvenuto nella zona appenninica. Segue l’evento dell’Irpinia del 1980 (Mercalli=X grado, Magnitudo=6.9). Considerando i terremoti più antichi, quelli avvenuti in età pre-strumentale, bisogna ricordare quello del 1456 in Campania-Molise e quello del 1857 in Campania-Basilicata: per entrambi la magnitudo stimata è prossima a 7. Va poi considerato che anche altri settori dell’Appennino (Mugello, Garfagnana, Forlivese, Val Tiberina, Gualdo Tadino, Val Nerina, Reatino, Frusinate, Aquilano, Maiella, Daunia, Vallo di Diano) sono stati sede di terremoti di magnitudo uguale o maggiore a 6. Si può quindi affermare che nell’Appennino possono avvenire terremoti di magnitudo elevata (fino a 7), così come è avvenuto nel passato. Sismicità che viene costantemente monitorata dall’Ingv… Certo, attraverso una modernissima rete sismica. Allo stesso tempo viene tenuta sotto controllo la deformazione crostale con strumentazioni geodetiche, terrestri e spaziali. Ferma restando l’impossibilità, attualmente, di prevedere con precisione il verificarsi di un terremoto, in cosa può aiutare il vostro studio per la comprensione dei fenomeni sismici? Il modello ottenuto con la tomografia evidenzia che, nella parte intermedia dello strato crostale, al di sotto della catena appenninica, esiste una zona in cui le onde sismiche viaggiano lentamente. Questa bassa velocità è dovuta alla presenza di anidride carbonica (CO2), prodotta più in basso, ma intrappolata in questa zona a circa 10-15 km di profondità, dove origina una diffusa sismicità. La CO2 risale in superficie attraverso le spaccature più superficiali e sembra rappresentare uno dei meccanismi che favoriscono la genesi dei terremoti appenninici. In cosa le Alpi sono diverse dall’Appennino? Le Alpi si sono formate circa 100 milioni di anni fa in seguito alla collisione tra Africa ed Europa, uno scontro vero e proprio tra enormi masse continentali. Gli Appennini sono più recenti, essendosi formati circa 20 milioni di anni fa. In questo caso poi, il motore che ha generato la catena appenninica è da ricercarsi nei movimenti della micro-placca Adriatica. La Alpi hanno rilievi più alti proprio perché le masse in gioco e le forze sono state maggiori. Pioniera nella sismologia, oggi la ricerca italiana in questo campo come è messa? Siamo ai primi posti a livello mondiale. In un paese sismico come il nostro, solamente una ricerca condotta ad alti livelli può garantire un avanzamento delle conoscenze su come si generano i terremoti e una sempre migliore valutazione del rischio sismico.