Il Concerto per pianoforte in Mi bemolle maggiore, K 271 fu composto da Wolfgang Amadeus Mozart tra il 1776 e il 1777 a Salisburgo (Austria), ed è il nono dei suoi ventisette Concerti per pianoforte e orchestra. È comunemente chiamato Jeunehomme dal nome di una pianista francese che, secondo la tradizione, si recò nella cittadina austriaca per una tournée artistica: Mozart lo scrisse per lei. In realtà, delle indagini storiche accurate hanno messo in dubbio sia il nome della persona (Jeunehomme, Jenomi, Jenamy, Genomai) sia la sua nazionalità. Secondo alcuni era non vedente; altri favoleggiano di una bellezza dagli occhi verdi che avrebbe stregato il compositore ventunenne, e di una relazione romantica che indispettì la sorella di Wolfgang, Nannerl, anche lei pianista. Quel che è certo è che la Jeunehomme doveva essere una vera virtuosa, perché Mozart scrisse per lei qualcosa di estremamente complesso e, sul piano musicale, rivoluzionario. Questo Concerto è in effetti una delle pietre miliari nella produzione del compositore salisburghese e presenta una quantità di innovazioni stilistiche che si ripercuoteranno poi su tutta la sua produzione a venire, e anticipa di molti anni le atmosfere e le poetiche del suo periodo viennese. Le stesse dimensioni dell'opera indicano subito la distanza col passato: a fronte dei 18-20 minuti della durata dei Concerti precedenti, il K 271 supera la mezz'ora. Senza dubbio l’occasione di scrivere un Concerto per un'interprete di levatura stuzzicò Mozart a creare qualcosa di sorprendente per il pubblico di Salisburgo: quasi una rivincita sulla piatta produzione galante cui era costretto dai gusti della Corte e della piccola nobiltà del principato ecclesiastico. In quest'occasione Mozart poté respirare di nuovo le atmosfere mondane delle città che aveva conosciuto nei suoi viaggi di gioventù, e per orchestra cittadina deve essere stata una vera sfida confrontarsi con una pagina così ardita. Il Concerto K 271 cade nel mezzo del secondo dei periodi in cui è abitualmente suddivisa l’attività compositiva di Mozart, quello della “prigionia salisburghese”; è preceduto nel tempo da pagine come la Sinfonia in sol minore K 183, dal Concerto per fagotto K 191, dai cinque Concerti per violino, e da numerosi Divertimenti e Serenate in cui inquietudini preromantiche e ricerca stilistica chiudono i conti con tutta la musica precedente e contemporanea ed aprono nuove stagioni. Ebbene, questo Concerto sembra frutto di un'evoluzione parallela e salta a piè pari i cinque anni che lo seguiranno per collocarsi a fianco dei grandi capolavori dell’ultimo periodo. Alfred Einstein, uno dei maggiori storici mozartiani, definisce il concerto “Jeunehomme” come “l'Eroica mozartiana”; un parallelo con la terza Sinfonia di Beethoven, tradizionalmente il punto di svolta della produzione del compositore di Bonn. Il Concerto è organizzato nei tre tempi classici: un primo movimento Allegro in forma di sonata, seguito da un Andante in forma di romanza e da un Allegro finale in forma di rondò. L'Allegro iniziale dichiara subito gli intenti del compositore. L’attacco è quello marziale e solenne caratteristico dei Concerti scritti per le grandi occasioni: un primo tema a frasi brevi, molto marcate e segnate da interventi corali dei fiati. Già dalle prime battute assistiamo all’inserimento del primo elemento di rottura: il pianoforte interviene da subito fin dall'esposizione della seconda parte del primo tema. La forma classica ormai consolidata prevedeva una prima sezione puramente orchestrale dell'“esposizione” e l’ingresso dello strumento solista solo nel “da capo”. Mozart, anticipando le rivoluzioni tardo Beethoveniane e romantiche (o per meglio dire offrendo ad esse un modello), presenta immediatamente il solista per quello che è: un interlocutore paritetico dell'orchestra. Si parla spesso di concezione “operistica” per questo concerto, ed il parallelo teatrale è corretto e non stupirebbe se non fosse che dovranno passare altri cinquant'anni perché questa concezione “teatrale” della musica strumentale trovi le sue formulazioni teoriche, dopo che ormai vi erano stati Mozart, Beethoven e Franz Schubert. Il pianoforte è dunque in questo concerto un “personaggio”; il protagonista di un dramma (inteso nell'etimo greco di movimento) che si contrappone e dialoga con altri personaggi. Questa concezione teatrale della musica strumentale, non abbandonerà più Mozart in tutta la sua produzione successiva. L'orchestra non interagisce come una voce unica; in essa vanno distinti almeno due gruppi: gli archi e i fiati. Gli archi costituiscono qui, come spesso nei lavori futuri, il personaggio antagonista. Il rapporto con i fiati è più complesso. Mozart per primo intuisce le enormi possibilità cromatiche dei fiati ora in relazione dialettica col solista, ora come strumento di collegamento tra l’orchestra e questo. Proprio nel “Jeunehomme” Mozart incomincia ad usare i fiati in questo modo, anche se confrontandone l’ascolto con i Concerti più tardi si può cogliere come la tecnica sia ancora in evoluzione. I caratteri del primo movimento, per quanto innovativi sul piano tecnico e stilistico, per quanto schiudano orizzonti vasti nelle dinamiche e nello sviluppo della forma concertistica, sono ancora abbastanza in linea con l’estetica e i migliori lavori del suo tempo. L'autentica rivoluzione arriva con l'Andante centrale. Un tempo quasi congelato in una lunga sezione orchestrale in la minore ci introduce ad una pagina di incredibile bellezza. Un salto estetico di decenni avvicinabile forse solo all’incipit del primo tempo del Concerto in re minore. Qui archi e fiati si alternano alla conduzione della linea tematica con quella ricerca cromatica che sarà tipica dell’ultimo Mozart e porta a tensioni assolutamente inedite sino a questo momento. L’uso di note ribattute e tenute ora dei corni, ora dei flauti; quasi dei tenor bachiani, per anticipare e poi rafforzare i momenti di maggior tensione emotiva ed armonica. Il dialogo, qui perfetto, tra le diverse parti orchestrali. Lo sviluppo tematico lunghissimo in un brano che dura più di dodici minuti (un tempo pari solo a certi corali bachiani di cinquanta anni prima). L’ambiguità tonale: il continuo oscillare tra tonalità minori e maggiori e la ricerca di accordi aperti. Il passaggio senza soluzione di continuità al Rondò finale, che afferma la concezione unitaria dell’opera e ancora una volta anticipa concetti romantici. Uno solo di questi elementi nuovi avrebbe consegnato questo brano alla storia della musica: trovarli tutti assieme è quasi incredibile: una finestra aperta a ciò che di profondo stava maturando nella mente di Mozart ed aprirà le porte al “periodo viennese”. Fin dal suo attacco il terzo movimento è un'esplosione di virtuosismo. Scuote l’ascoltatore dalle atmosfere diradate dell’Andante e allo steso tempo lo proietta in un mondo di luci vorticanti. Galante, mondano e grandioso allo steso tempo fa assaporare un pizzico della grande città alla provinciale nobiltà salisburghese. Anch'esso nasconde una sorpresa, perché lo stupore del pubblico é ciò che Mozart persegue in tutta la sua opera, e la sezione centrale é occupata da un lungo e lirico tema del pianoforte; per poi chiudere pirotecnicamente tornando al tema iniziale. Non si hanno cronache della sua prima esecuzione a Salisburgo; si ha invece un preciso resoconto di una sua esecuzione nel 1777 a Monaco, con lo stesso Mozart al fortepiano