e -JURIDICA
5
Delicata e critica analisi intorno al mondo
della giurisprudenza greca
Melania Apolito
L’ADULTERIO NEL DIRITTO GRECO
RIFLESSIONE SUL DIRITTO DELL’ANTICO ORIENTE MEDITERRANEO
e -JURIDICA
5
a cura di
Francesco Lucrezi
Melania Apolito
L’ADULTERIO NEL DIRITTO GRECO
RIFLESSIONE SUL DIRITTO
DELL’ANTICO ORIENTE MEDITERRANEO
Apolito, Melania
L’adulterio nel diritto greco. Riflessione sul diritto dell’antico oriente mediterraneo
Collana Pegaso - University Library
Pars e-Juridica, 5
Museopolis Press, 2009
ISBN 978-88-6489-001-2
© 2009 Museopolis Press
piazza S. Maria la Nova, 44 - 80134 Napoli
tel/fax: 0815521597 - 0815523298
mail: [email protected]
In copertina:
Cristo con la donna adultera, Pieter Bruegel
Olio su tela, 1565
LA COLLANA
Lo studio del diritto positivo e dei comportamenti normativi di
ogni società, con particolare attenzione alla comunità europea ed
italiana, è fonte di precipuo interesse per cultori, studenti, professori
e professionisti dei fenomeni giuridici. La sezione di questa collana
universitaria dedicata allo studio e all’approfondimento delle
norme e delle questioni giuridiche, ha il principale scopo di offrire
spazi di ricerca per far confluire varie indagini scientifiche da cui
attingere riflessioni per un rinnovato e continuo confronto intorno
al complesso mondo del diritto.
In particolar modo gli studenti della Facoltà di giurisprudenza
troveranno, nei volumi di questa sezione e-Juridica, approfondimenti
specifici che aiuteranno concretamente il lettore a confrontarsi con
varie competenze giuridiche per riportarle nella propria esperienza
universitaria e professionale.
Questa sezione della Collana Pegaso, University Library,
si presenta come un’opera innovativa per il suo formato
principalmente digitale che contribuirà non poco alla diffusione e
al continuo confronto su di una realtà, quella giuridica, soggetta a
cambiamenti repentini e bisognosa di verifiche costanti.
IL TESTO
Nella normativa greca, l’adulterio aveva riflessi particolari
sulla società tali da irrigidire gli statuti e le pene già introdotte
gradualmente nel corso dei secoli per coprire nuove aree e riflettere
nuove esigenze. Poiché ciascuna di queste leggi era il prodotto del
suo tempo, rifletteva le necessità del momento e trattava differenti
aspetti del reato, esse non avevano una grande uniformità di spirito
e prassi: ma tutte le leggi erano una vera condanna unanime della
donna, tacendo spesso le responsabilità maschili.
Il saggio ripercorre l’evoluzione della condizione femminile
nell’antica Grecia attraverso le vicende storiche delle sue molteplici
costellazioni politiche, soffermandosi, in particolare, sull’esigenza
delle poleis di controllare la sessualità riproduttiva mediante la
repressione del reato di adulterio.
Melania Apolito
Nata a Boscoreale (NA) il 23 luglio del 1970. Laureata in
Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Salerno. È
appassionata di poesia e storia antica; nel tempo libero ama
dipingere e disegnare.
Indice
Capitolo I - Lo studio del diritto greco tra i diritti antichi
1.1. Primi approcci allo studio degli antichi diritti orientali
9
9
1.2. Il diritto greco
12
1.3. Il diritto attico quale più ricco campo d’indagine del diritto greco
16
1.4. Il concetto di “diritto” in Grecia
18
1.5. Le ragioni dell’assenza di una vera e propria scienza giuridica
21
1.6. Le fonti di cognizione del diritto greco
25
1.7. Ideologia democratica e produzione delle norme
28
Capitolo II - Posizione giuridica e sociale della donna in Grecia
31
2.1. Le fonti
31
2.2. Ipotesi di matriarcato presso le popolazioni pre-greche
34
2.3. Le donne nei poemi omerici
38
2.4. In Esiodo e Simonide
42
2.5. Nell’epoca arcaica
46
2.6. Nell’Atene classica
52
2.7. Figure femminili irregolari: sacerdotesse ed etère
65
2.8. Le donne a Sparta
70
2.9. A Gortina
76
2.10. Nell’età ellenistica
79
Capitolo III - Il matrimonio in Grecia
83
3.1. L’importanza del dispositivo matrimoniale quale
rivelatore dei meccanismi della società
83
3.2. Il matrimonio nell’età arcaica
84
3.3. Nel diritto attico in età classica
90
3.4. I rituali nuziali
97
3.5. La dote
104
3.6. I rapporti tra coniugi
109
3.7. Limiti al matrimonio e modalità di scioglimento
113
3.8. Fuori da Atene
116
Capitolo IV - La moikeia
122
4.1. L’infedeltà coniugale nell’antica Grecia
122
4.2. L’adulterio nel mondo omerico
123
4.3. Il reato di μοιχεία nel periodo classico
125
4.4. La tesi del Cohen
129
4.5. Struttura del reato di μοιχεία
132
4.6. Sanzioni dirette contro l’adultero
142
4.7. Punizione dell’adultero uti civis
148
4.8. Posizione della donna
151
Bibliografia
158
Indice
Capitolo I
Lo studio del diritto greco tra i diritti antichi
1.1. Primi approcci allo studio degli antichi diritti orientali
Lo studio dei diritti antichi ha avuto origine, come fenomeno
culturale, nel periodo umanistico, quando i giuristi della scuola
culta1 intrapresero, per la prima volta, l’analisi storica di tutte le
fonti giuridiche dell’antichità, non solo romane ma anche greche ed
orientali. Sino ad allora la scienza giuridica si era limitata all’esame
delle due supreme ed immutabili autorità legislative, il Corpus Iuris
civilis ed il Corpus Iuris canonici, considerate per secoli le uniche
matrici del diritto del mondo civile.
Ma proprio perché l’Europa medievale si era strutturata sul
lascito giustinianeo del diritto romano, i primi approcci degli
studiosi ai diritti del Mediterraneo antico non poterono non
essere condizionati da concetti, termini e forme mentali tipici della
tradizione romanistica2.
E anche quando, nei secoli successivi, nuove scoperte
archeologiche accrebbero in misura insperata la conoscenza
1
Per un approfondimento sul movimento della “scuola culta giuridica” cf
V. Piano Mortari, La scienza giuridica del secolo XVI: aspetti della scuola culta,
Catania 1966.
2
F.P. Casavola, Diritto romano e diritti dell’oriente mediterraneo, in Civiltà nel Mediterraneo 2, Napoli, 1992, ora in Sententia Legum tra mondo antico e
moderno, Napoli 2001, 12.
9
Indice
di quelle remote civiltà (babilonese, ebraica, siriana, persiana,
egiziana, greca, ecc.), il diritto romano continuò ad influenzarne la
comprensione di norme ed istituti giuridici.
Gli orientalisti, infatti, nel tradurre gli scritti che di volta in volta
venivano alla luce, erano portati a servirsi del lessico romanistico
corrente e, inevitabilmente, gli storici e i giuristi che si basavano su
quelle traduzioni per i loro studi, erano
tratti in inganno dalla terminologia, finendo col vedere
nell’identità di termine anche un’identità di struttura3.
La stessa ricostruzione scientifica degli antichi diritti orientali,
la classificazione dei loro istituti, la partizione delle loro norme si
fondavano sempre su un uso massiccio e disinvolto delle categorie
giuridiche romane, le quali erano difatti considerate imperiture ed
applicabili a qualunque ordinamento giuridico.
Di conseguenza l’approccio alle fonti avveniva, il più delle
volte, cercando in esse conferma di qualcosa di prestabilito, nella
convinzione che l’agire dell’uomo in società fosse da sempre
accompagnato dalle medesime forme concettuali4.
Nessuna meraviglia, quindi, se cominciò a farsi strada l’ipotesi di
una fonte primitiva comune a tutte le legislazioni mediterranee, e se
la crescente ammirazione per gli antichi diritti orientali spinse molti
studiosi ad immaginare una forte influenza di queste legislazioni
3
4
E. Volterra, Diritto romano e diritti orientali, Roma 1937, rist. 1991, 89.
E. Stolfi, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006, 113.
10
Indice
sullo stesso diritto quiritario.
Oggi simili teorie possono apparire bizzarre, stravaganti, ma non
bisogna dimenticare che, ancora agli inizi del secolo scorso, erano
considerate verità imprescindibili e che solo negli ultimi tempi
sono state definitivamente superate in virtù dei nuovissimi studi
di diritto comparato. In realtà l’attuale dottrina orientalistica deve
molta della sua recente evoluzione al contributo offerto dagli studi
di Edoardo Volterra sui rapporti tra diritto romano e diritti orientali.
Sin dal 1937 l’eminente studioso aveva intuito la necessità
di sovvertire il metodo di approccio alle fonti, nella convinzione
che, per giungere ad una corretta valutazione storica degli antichi
sistemi giuridici, fosse necessario analizzarli non, come avveniva
tradizionalmente, nella prospettiva d’individuare analogie e
derivazioni, ma con l’intento di scoprirne i caratteri originari
e distintivi, adoperando strumenti prettamente giuridici e
tralasciando troppo semplici considerazioni sociologiche.
In altre parole, Volterra aveva sviluppato una tecnica
interpretativa del tutto nuova, che gli permise di affermare, in
contrasto con la comune dottrina, l’assoluta indipendenza del
diritto romano dell’epoca più remota – quello che la tradizione
attribuisce alle XII Tavole – non solo dagli antichi diritti orientali ma
anche dalle possibili influenze della civiltà greca, che di elementi
orientali era notoriamente impregnata5.
5
E. Volterra, Diritto romano, 3 ss.
11
Indice
1.2. Il diritto greco
Il diritto greco, come gli altri antichi diritti del Mediterraneo, è
stato per secoli oggetto di studi eruditi, di carattere filologico più che
giuridico, ed anche quando storici e giuristi hanno cominciato ad
interessarsi ad esso, si trattava di escursioni sporadiche, riguardanti
soprattutto i profili privatistici e sempre all’ombra delle categorie e
degli istituti propri dell’elaborazione romana6.
In realtà chi si accosta all’esperienza giuridica dell’antica Grecia
si trova dinanzi ad uno scenario assai diverso da quello che la
tradizione romanistica ci ha reso familiare.
In primo luogo va precisato che per diritto greco s’intende il
complesso degli ordinamenti giuridici vigenti dalla formazione
storica del popolo greco (1200 – 1100 a. C.), all’età ellenistica, in un
ambito territoriale piuttosto esteso che comprendeva, oltre a Creta
e alla penisola greca, molte città dell’attuale Turchia, le colonie
dell’Italia meridionale, gli spazi commerciali dell’oriente e tutta una
cospicua porzione dell’Impero romano7.
Quindi non un sistema giuridico unitario, compatto, ma tante
comunità autonome, dotate di proprie istituzioni, di proprie
magistrature e di leggi corrispondenti alle rispettive esigenze
politiche e condizioni storiche.
Se, infatti, l’Impero romano (per quanto fosse vasto lo spazio
6
7
E. Stolfi, Introduzione, 5.
E. Stolfi, Introduzione, 4.
12
Indice
soggetto al suo dominio ed estesa la proiezione del suo diritto) era
sorto da un’unica città, capace di espandere il suo potere militare
ma anche le sue tecniche di disciplinamento sociale, l’antica Grecia
appariva, invece, frammentata in tante comunità politiche (πόλεις)
gelose delle proprie istituzioni e spesso in conflitto le une con le
altre.
C’è da chiedersi, allora, se sia più giusto parlare di “diritto greco”
o piuttosto far riferimento a tanti diritti greci quante furono le
πόλεις.
La questione ha dato luogo a non poche controversie tra gli
studiosi.
A favore di una configurabilità in termini unitari dell’esperienza
giuridica greca è stato soprattutto Ugo Enrico Paoli.
L’autorevole studioso era convinto, infatti, che, nonostante
le diversità tra i vari ordinamenti cittadini, in tutte le legislazioni
greche persistessero dei princìpi fondamentali comuni, espressione
di una coscienza giuridica uniforme.
Come nelle altre manifestazioni dello spirito greco, così anche
nel diritto sarebbe, cioè, possibile osservare quel carattere di
unità e continuità che si mantenne inalterato attraverso le vicende
storiche delle molteplici costellazioni politiche.
Finché la πόλις era nel suo splendore (κμή), questo diritto greco
“comune” affiorava appena alla superficie, ma col decadere delle
c.d. città-stato e, di conseguenza, con il diminuire di tono della vita
13
Indice
pubblica, si produsse nel mondo greco un generale appiattimento
dei rapporti giuridici, in seguito al quale perse importanza tutto
ciò che era caratteristico e singolare per lasciare allo scoperto solo
quello che appariva omogeneo e comune.
La degradazione della πόλις ebbe come effetto l’inevitabile
adattamento di numerosi istituti di diritto pubblico, e di conseguenza
si andarono perdendo anche quegli elementi particolaristici che
ogni città aveva impresso al proprio diritto privato, mentre venne
a galla quel fondamento di diritto comune che è possibile ritrovare
fin oltre l’età ellenistica8.
Le stesse convinzioni sono condivise anche dal Biscardi9, il quale
ricorda come gli stessi Greci fossero consapevoli dell’esistenza di un
fondo culturale unitario, prova sicura di un’altrettanta comunanza
di principi giuridici.
A testimonianza di ciò, lo studioso riporta una frase di Erodoto in
cui lo storico greco scrive:
«…la nostra comunanza di stirpe e di lingua, i nostri comuni
templi degli dei e i nostri riti, i nostri costumi affini,…»10.
La dottrina più recente sembra prediligere, invece, la tesi
pluralistica, tant’è vero che negli ordinamenti didattici universitari
8
U.E. Paoli, Diritto greco, in Novissimo Digesto Italiano, vol. V/2, 1968,
864-865.
9
Biscardi - Cantarella, Profilo di diritto greco antico, Milano 1974, 6 ss.
10
Erodoto, Storie, VIII, 144, cf Biscardi-Cantarella, Profilo di diritto greco antico, 8.
14
Indice
degli ultimi anni la materia in argomento è denominata “Diritti
greci”.
Il rinvenimento di istituti simili nelle legislazioni di diverse πόλεις
(come ad esempio l’epiclerato) non è sufficiente, a giudizio del
Martini11, a far prospettare l’esistenza di un diritto greco comune,
perché troppo consistenti rimangono le diversità, prova sicura di
differenti realtà sociali.
Per Emanuele Stolfi12 la tesi della pluralità degli ordinamenti
giuridici appare chiara solo se si rinuncia a guardare la realtà
giuridica greca con un’ottica falsata da metodologie e concetti ad
essa estranee. L’utilizzazione delle categorie “dogmatiche” romane
induce a selezionare solo gli aspetti che rivelano comunanze e
coincidenze, e, di conseguenza, a tralasciare quelle diversità,
talora radicali, tra le strutture istituzionali delle città greche che
necessariamente si ripercuotevano sull’assetto giuridico delle
stesse.
La rinuncia a questo strumentario priva i dati offerti dalle fonti
quasi di ogni forma di aggregazione e conduzione ad unità, per cui
è facile giungere alla conclusione che tanti furono i diritti greci
quante furono le antiche πόλεις.
11
12
R. Martini, Lezioni di diritto attico, Siena 1996, 7.
E. Stolfi, Introduzione, 5-6.
15
Indice
1.3. Il diritto attico quale più ricco campo d’indagine del diritto
greco
Ma qualunque sia l’opinione riguardo all’unitarietà o alla
pluralità dell’esperienza giuridica greca, una cosa è certa: il diritto
attico rimane l’unico sistema organico e completo di diritto greco
che, per ricchezza di dati informativi, sia possibile ricostruire in
modo attendibile.
La Grecia classica era suddivisa in circa 750 πόλεις, cui vanno
aggiunte almeno altre trecento fondate da coloni fuori dalla
Grecia propriamente detta. Molte di esse erano minuscole, con un
territorio che non superava i 100 km. quadrati e una popolazione
inferiore ai 1000 maschi adulti, ma tutte difendevano gelosamente
la loro autonomia e tentavano allo stesso tempo di eliminare quella
dei vicini.
Tuttavia, a parte poche conquiste di breve durata, nessuna
città riuscì mai ad ottenere la sovranità sulle altre, e in ogni caso
l’autonomia dei piccoli stati si concluse con la conquista dell’intera
area da parte di qualche grande potenza vicina13.
Atene, soprattutto nei secoli d’oro della sua democrazia (V-IV sec.
a.C.), fu di gran lunga la città più ricca e popolosa di tutta l’Ellade
e dominò le altre πόλεις in campo politico, artistico, filosofico e
letterario. Ed è proprio in virtù di questa straordinaria fioritura
artistica ed intellettuale che sono giunte fino a noi la maggior parte
13
M.H. Hansen, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C. , trad. it., Milano 2003, 91 ss.
16
Indice
delle nozioni riguardanti non solo il diritto ateniese, ma anche
l’ambiente storico in cui esso fiorì e la società su cui le sue norme
imperarono.
Ben più esigue sono, invece, le informazioni conservateci
riguardo alle altre città greche.
Poco si conosce della costituzione politica di Sparta e ancor meno
del suo regime dei rapporti tra privati. C’è poi da precisare che la
maggior parte di queste informazioni ci derivano, pur sempre, da
autori ateniesi, il cui principale intento era quello di confrontare la
propria realtà con quella spartana.
Per quanto concerne le altre comunità di stirpe dorica, abbiamo
una discreta conoscenza soltanto del diritto di Gortina grazie al
rinvenimento di una grande epigrafe, risalente alla prima metà del
V sec. a.C., in cui sono riportate le disposizioni che regolavano i
rapporti familiari all’interno della città.
Originariamente l’epigrafe era esposta al pubblico nella piazza
principale della città, secondo l’uso delle πόλεις greche di incidere
sulla parete degli edifici pubblici le loro leggi per portarle a
conoscenza di tutti.
Tale preziosa iscrizione venne alla luce nell’estate del 1884,
durante gli scavi eseguiti da un gruppo di archeologi italiani, nel
luogo dove sorgeva l’antica πόλις cretese. Sempre nello stesso sito
furono, in seguito, rinvenute altre iscrizioni, alcune delle quali di
età più antica.
17
Indice
Il complesso di questi documenti epigrafici, il contenuto dei
quali può essere completato con elementi di altre epigrafi cretesi,
costituisce il c.d. “diritto di Gortina”14.
1.4. Il concetto di “diritto” in Grecia
A dire il vero non è del tutto esatto parlare di diritto a proposito
delle forme di regolamentazione sociale messe a punto nelle cittàstato dell’Ellade e della magna Grecia, dal momento che il greco
antico non conobbe alcuna parola corrispondente al nostro termine
“diritto”.
A fronte di almeno tre vocaboli (νόμος, qεσμός, e ψήφισμα)
con cui veniva designata la disposizione giuridica, sia pure con
sfumature diverse, neppure una parola fu coniata per indicare la
tecnica di disciplinamento che in quelle figure aveva i propri mezzi
e le proprie fonti15.
Né serviva a questo scopo l’espressione “τov δiκαιον”, la
quale indicava, invece, un concetto etico, e precisamente la
giustizia dell’ordinamento, cioè i valori in esso incorporati e che
rappresentavano il fondamento morale della convivenza sociale16.
Questo non vuol dire che non sia possibile o corretto parlare di
14
U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 481 ss.
15
E. Stolfi, Introduzione, 12.
16
H.J. Wolff, Preistoria ed origine del concetto di diritto nell’esperienza
greca arcaica, in Studi C. Sanfilippo, II, Milano 1982, 763.
18
Indice
diritto greco, ma è bene tener presente che tale termine assume
qui delle connotazioni lontane da quelle cui ci hanno abituato le
esperienze moderne.
Inoltre la mancanza di una vera e propria scienza del diritto
non fu una caratteristica esclusiva del mondo greco: nessuno dei
diritti mesopotamici e mediterranei conobbe una scienza giuridica
nel significato epistemologico della tradizione romanistica. Le
collezioni di leggi, di decisioni giudiziarie, gli archivi di atti privati che
ci sono pervenuti riguardo queste lontanissime civiltà, rivelano un
ancoraggio ai singoli casi che non lasciava spazio a generalizzazioni
né a sistemazioni concettuali, nessuna matrice raziocinante ma
solo esperienza e comando17.
Il diritto come funzione sociale autonoma - munita di un suo
specialismo tecnico, distinta dalla religione ma anche dalla politica
- fu un’invenzione prettamente romana.
A dire il vero in tutti i popoli antichi, a cominciare dallo stesso
popolo romano, è possibile individuare una fase originaria in cui
v’erano degli usi sociali generalmente seguiti ma ancora non si
distingueva tra semplici convenzioni moralmente vincolanti, doveri
religiosi e princìpi giuridici in senso stretto.
Si trattava cioè non ancora di diritto ma di una sorta di
“prediritto”18 costituito da una massa di regole di condotta di natura
soprattutto religiosa e destinato ad avere sviluppi differenti nelle
17
18
F.P. Casavola, Diritto romano e diritti dell’oriente, 13.
L. Gernet, Droit et société dans la Grèce ancienne, Paris 1955, 2.
19
Indice
diverse società.
In Egitto ed in Israele siffatta commistione tra prescrizioni
sociali, regole etiche e disposizioni religiose, continuò a perdurare
previo il costituirsi di apparati teleologici e sacerdotali sempre più
complessi.
Per la tradizione ebraica, ad esempio, tutta l’organizzazione del
mondo sociale derivava da Dio. Jahvé manifestandosi a Mosè sul
monte Sinai assunse le vesti di legislatore per dare al popolo ebreo
la sua legge. Le “dieci parole” , o decalogo, erano il contenuto
dell’alleanza stipulata tra Dio e il popolo: se il popolo le osservava
godeva delle benedizioni, se le infrangeva soffriva le maledizioni19.
Anche nelle comunità descritte da Omero, storico totale della
Grecia arcaica, era difficile distinguere le norme giuridiche dalle
altre regole di condotta, dal momento che il controllo sociale veniva
attuato attraverso sanzioni esclusivamente psicologiche, la cui
efficacia era garantita da un’etica collettiva condivisa e compatta20.
Ma con il sorgere di uno spazio cittadino e l’affermarsi di una
razionalità in grado di governarlo, al di fuori delle ingerenze delle
strutture familiari e del ritualismo magico sacrale, la produzione di
regole di comportamento sociale cominciò a staccarsi dalla sfera
religiosa per integrarsi nel meccanismo della vita pubblica e quindi
19
F.P. Casavola, Laicità tra religione e diritto nell’esperienza del mondo
antico, in Studium, 90 (1990), ora in Sententia Legum tra mondo antico e moderno, 382-383.
20
E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Milano 1976, 67.
20
Indice
politica.
Mentre, però, a Roma questo stesso fenomeno dette vita ad
una dimensione culturale ed istituzionale rigorosamente giuridica,
indipendente e separata dagli altri poteri, in Grecia non vi fu questa
ulteriore distinzione dei sistemi direttivi ma la norma venne sempre
considerata alla stregua di un comando politico.
1.5. Le ragioni dell’assenza di una vera e propria scienza giuridica
Le ragioni che hanno portato ad esiti così distanti vanno
individuate, secondo molti studiosi, in certi tratti distintivi ravvisabili
nel vissuto religioso dei due popoli.
Nelle comunità arcaiche l’esperienza religiosa non rimane mai
relegata entro i confini delle credenze personali e delle pratiche di
culto, ma coinvolge ogni momento della vita comunitaria, regola
i rapporti tra consociati, contribuisce a definire l’assetto delle
istituzioni. Ad un primo sguardo le tradizioni religiose greche e
romane potrebbero apparire assai simili, vista la presenza di figure
divine corrispondenti, ma ad un più attento esame, è possibile
individuare degli elementi distintivi di estremo interesse, che ci
aiutano a comprendere le differenziazioni della storia successiva.
In Grecia la percezione del sacro si accompagnava ad una
formidabile inventiva mitologica, ad una cascata inesauribile di miti
e leggende attraverso i quali s’intendeva dare spiegazione ai grandi
fenomeni della natura e, particolarmente, ai moti e alle dinamiche
21
Indice
dell’animo umano21.
Gran parte dell’esperienza religiosa del popolo ellenico era
infatti filtrata dalla creatività dei poeti nonché dalla credulità e
dalle fantasie popolari.
Facendo ricorso al mito l’uomo greco disseppelliva le angosce
e le pulsioni, non per prevenirle con comportamenti e rituali
propiziatori, ma allo scopo di esorcizzarle attraverso la comprensione
e la conoscenza.
Per questo motivo le comunità elleniche - certe che nessuna
osservanza di precetti divini né il compimento di gesti rituali e
propiziatori potevano evitare le sciagure, se questa era la volontà
degli dei - non dedicarono mai molta cura allo sviluppo di riti e
procedure cui affidarsi nel compimento degli atti più rilevanti della
loro esistenza.
Esattamente l’opposto accadde, invece, nella Roma arcaica,
dove il culto degli dei fu caratterizzato non dalla creazione di miti
e leggende (i miti romani più noti riguardano quasi esclusivamente
la fondazione della città), ma da un minuzioso intreccio di regole
da osservare, gesti da compiere, parole da pronunciare, tempi da
rispettare. Una vera e propria “sindrome prescrittiva”22 del tutto
assente nella cultura greca.
Per i Romani ciascuna divinità aveva uno specifico compito e
21
22
E Stolfi, Introduzione, 25 ss.
A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 53.
22
Indice
bisognava rivolgersi ad essa a tempo debito e con le giuste suppliche
per ottenere la protezione necessaria a realizzare con successo
gli atti più importanti, come dichiarare una guerra, trasferire una
proprietà, contrarre un matrimonio, raccogliere le messi, ecc.
Alla base di questo diffuso ritualismo religioso v’erano le
particolari condizioni ambientali della prima arcaicità romana.
Roma, agli inizi della sua storia, era circondata da pericoli e
nemici, isolata tra l’ostilità di Latini, Sabini ed Etruschi, quindi sotto
costante minaccia d’invasioni e violenze. In un simile scenario,
il ricorso ad una fitta rete di prescrizioni serviva a dar fiducia ed
equilibrio alla comunità attraverso l’illusione di proteggere ogni
atto della vita quotidiana per mezzo della presenza di un dio ad
esso preposto e un cerimoniale in grado di propiziarne i favori.
Dietro questi diversi stili di religiosità è possibile riconoscere
i segni precursori delle successive forme di razionalità laica che
caratterizzarono, nel prosieguo della storia, gli apparati culturali dei
due popoli: nel mondo greco, un impianto speculativo di grande
profondità, fondato sull’amore della conoscenza (philosophia) e
la ricerca del vero; a Roma, una tecnica che non mirava al puro
sapere né allo scavo interiore, ma al disciplinamento minuzioso
dei comportamenti sociali e, per mezzo di esso, all’ordine e alla
stabilità sociale23.
La presenza di un impianto ritualistico così rigoroso richiedeva,
23
E. Stolfi, Introduzione, 27.
23
Indice
inoltre, un altrettanto severo specialismo di funzioni e controlli.
Solo un esperto poteva garantire il corretto esperimento delle
procedure, ricordare le parole e i gesti solenni per l’infinità di
cerimonie e riti da cui era scandita la quotidianità romana. Da qui
il costituirsi di figure e collegi sacerdotali con competenze e ruoli
ben distinti.
A quelle stesse figure sacerdotali, con il tempo, i Romani
cominciarono a rivolgersi non solo per conoscere le formule più
appropriate da impiegare, ma anche il modo in cui si ci doveva
comportare in una pluralità di casi.
Ed è proprio qui che va collocata l’origine di quell’invenzione,
tutta romana, di affidare la produzione del diritto non ad isolati
legislatori o ad assemblee popolari, ma all’elaborazione di esperti
- in un primo momento i pontefici stessi, più tardi, figure laiche di
estrazione aristocratica, infine veri scienziati del ius a prescindere
dalla provenienza sociale.
All’esperienza greca mancò, quindi, una prassi scientifica
del diritto che fosse rivolta all’affinamento e alla scoperta delle
conseguenze pratiche dei principi e dei metodi giuridici. È vero
che, soprattutto nel periodo classico di Atene, la retorica giuridica
raggiunse livelli vicini alla perfezione, essa però non mirava ad una
chiarificazione e ad un approfondimento oggettivi, ma al successo
contingente nelle controversie in cui i discorsi erano pronunciati24.
24
H.J. Wolff, Preistoria, 760.
24
Indice
1.6. Le fonti di cognizione del diritto greco
La mancanza di una scienza giuridica non significava, tuttavia,
mancanza di coscienza giuridica; al contrario, proprio l’assenza di
un ceto di giuristi fece si che il diritto, invece di rimanere oggetto di
conoscenza di un ristretto numero di specialisti, fosse un sentimento
comune a tutto il popolo, che investiva ogni manifestazione della
vita e che finiva con l’affiorare nei vari generi della letteratura
greca25.
Non è un caso che le fonti attraverso le quali ci è dato conoscere
e ricostruire il diritto greco siano di natura quasi esclusivamente
letteraria.
Mancando l’apporto di veri e propri esperti del diritto non è,
infatti, possibile contare sulla presenza di materiale specificatamente
giuridico, ma si è costretti ad attingere a qualsiasi altro documento
possa offrire indicazioni sugli assetti giuridici vigenti nelle diverse
città greche. Dalle opere degli storici, a quelle dei poeti, dagli scritti
dei filosofi alle raccolte lessicografiche, sino alla grande quantità di
testi retorici.
Naturalmente il riferimento a questo tipo di fonti pone non
pochi problemi di affidabilità. Le opere degli storici, per le
inevitabili pressioni delle ideologie cui gli autori s’ispiravano, le
fonti lessicografiche per la distanza temporale dei dati di cui davano
notizia, gli scritti dei filosofi per la difficoltà di discernere tra il
25
Biscardi-Cantarella, Profilo, 14-15.
25
Indice
riferimento a leggi realmente esistite ed il richiamo ad istituzioni
ideali di una società utopica cui bisognava tendere.
Ad esempio le Leggi di Platone sono una fonte ricchissima di
notizie sul diritto attico, purché si riesca a distinguere volta per volta
quando l’autore riporta norme effettivamente vigenti e quando
invece le modifica, totalmente o in parte26.
Le uniche fonti dirette sono costituite dai testi legislativi
conservatici per via epigrafica (ed è questa la trasmissione più
attendibile essendo quasi sempre l’epigrafe un documento autentico
e contemporaneo) o, più frequentemente, per via manoscritta,
quando cioè si trovano inseriti nel testo di opere letterarie, per lo
più nelle orazioni giudiziarie. Anche queste ultime, però, vanno
valutate con attenzione e cautela vista la loro destinazione retorica
e controversiale.
Le orazioni giudiziarie erano, infatti, discorsi redatti da
professionisti (λογογράφοι) per essere letti o recitati a memoria dal
soggetto coinvolto in un processo, il quale, secondo la legge attica,
doveva perorare personalmente la propria causa.
I λόγοι erano scritti con lo scopo di sostenere le ragioni di una
delle parti di fronte ad un tribunale popolare, non composto cioè
da esperti del diritto ma da semplici cittadini.
Gli oratori, quindi, non avendo il problema di rivolgersi a persone
26
790.
U.E. Paoli, Diritto attico, in Novissimo Digesto Italiano., vol. V/2(1968),
26
Indice
giuridicamente preparate, basavano l’intera argomentazione sugli
interessi di parte, con l’intento di persuadere ed impressionare i
giudici per mezzo di argomenti che, in realtà, avevano ben poco di
giuridico.
I λογοφράφοι, inoltre, pur essendo specializzati nella redazione
delle orazioni giudiziarie, avevano una preparazione più retorica
che giuridica, per cui leggendo i loro discorsi non è raro imbattersi in
tortuosità di ragionamento, imperfezioni o scarso rigore giuridico27.
Malgrado questi limiti e le difficoltà che s’incontrano nella loro
interpretazione, le orazioni restano comunque la principale fonte
di cognizione della legislazione attica.
Particolarmente preziose sono soprattutto quelle orazioni in
cui, come abbiamo già visto, l’autore non si limitava a ricordare
genericamente una legge, ma ne riproduceva fedelmente il testo
affinché, durante l’istruttoria, fosse letto, dal cancelliere, su
richiesta di colui che pronunciava l’orazione.
Nel diritto attico, infatti, era considerato onere delle parti portare
a conoscenza dei giudici le disposizioni legislative da applicare al
caso concreto. La legge cioè costituiva un mezzo di prova alla stessa
stregua delle testimonianze o di altri documenti scritti, e solo
l’iniziativa di una delle parti in causa ne garantiva l’applicazione.
A lungo gli storici del diritto hanno dubitato dell’autenticità dei
testi legislativi riferiti all’interno delle orazioni, sostenendo che
27
Biscardi-Cantarella, Profilo, 27.
27
Indice
tali documenti non erano compresi nella redazione originale dei
discorsi ma che vi furono inseriti solo in seguito , ad opera dei
copisti di età alessandrina.
La dottrina più recente propende, in linea di massima, a favore
dell’attendibilità dei documenti inseriti nelle orazioni privatistiche,
mentre nutre qualche dubbio in più su quelli riportati nelle orazioni
di diritto pubblico (ad es. nell’orazione di Demostene per la
corona)28.
1.7. Ideologia democratica e produzione delle norme
L’assenza di un’attività professionale del diritto è dovuta, in
parte, anche al progressivo affermarsi nelle πόλεις greche del
sistema democratico.
Rispetto all’ideologia democratica, infatti, una elaborazione del
diritto affidata a pochi esperti sarebbe apparsa in contrasto con quel
principio dell’eguaglianza dinanzi alla legge (isonomìa) che, se pur
di fatto limitata a fasce assai esigue della popolazione, costituiva il
punto focale del c.d. “governo del popolo”29.
Nell’Atene del V e IV sec. a.C. la legge veniva emanata
quasi esclusivamente dall’Assemblea (eκκλησία), cioè con la
partecipazione di tutto il popolo, a garanzia dell’effettiva eguaglianza
dei cittadini dinanzi alla πόλις e alle sue regole.
28
29
Biscardi-Cantarella, Profilo, 20 ss.
E. Stolfi, Introduzione, 36-37.
28
Indice
Ma anche nelle altre città-stato in cui si erano imposte forme
di democrazia meno radicali, l’affermarsi di un modello giuridico
incentrato sul νόμος più che sul carisma e l’attività di un gruppo di
sapienti, si legava ad un’idea della politica come categoria principale
ed assorbente della vita comunitaria.
Nel sistema giuridico romano, invece, la formazione della
norma avveniva lontano dalla politica, attraverso un meccanismo
di derivazione aristocratica (in origine l’estrazione sociale dei
pontefices era solo patrizia) o comunque riservata a pochi esperti.
Di conseguenza la vincolatività stessa dei responsi derivava non da
una investitura politica ma dal carisma religioso, dalla competenza
tecnica e dal prestigio di chi li emanava.
Al contrario nella Grecia arcaica, a dare autorità alle pronunce
del principe che servivano a dirimere una controversia (le c.d.
qevmιστες), non erano le qualità personali del principe stesso
né l’autorità di una sua riflessione, ma il fatto che esse erano
considerate un oracolo direttamente ispirato dalla divinità30.
In altre parole, ai tempi dell’epos la legge era considerata un
prodotto del volere della divinità, e, per questo, intangibile.
Una convinzione questa che, a prima vista, potrebbe ricordare la
concezione antico-ebraica della creazione diretta del diritto da parte
della divinità. Ma in realtà i νόμοι non esprimevano dei comandi di
legge, come i comandamenti di Dio, secondo la dottrina biblica, ma
30
H. J. Wolff, Preistoria, 774.
29
Indice
rivelavano la tipicità o la regolarità di determinati comportamenti31.
Gli dei cioè, secondo gli Ateniesi, non erano al di fuori del
mondo e causa della sua creazione, ma abitanti insieme all’uomo
del mondo. Essi vivevano vicende di vizi e di virtù come gli uomini,
per cui non potevano esser fonte di leggi o di modelli morali.
Compito della divinità non era quindi imporre un ordine alle cose
degli uomini ma svelare, procedendo per gradi e all’occorrenza, la
legittimità di singole posizioni giuridiche.
Con il tempo però anche tale convinzione andò perdendo forza
per il venir meno, già a partire dal V secolo, delle credenze religiose,
colpite dalla critica dei filosofi, contro i quali i ceti conservatori
tentarono invano di reagire con i processi per empietà (una simile
accusa costò la vita anche al sommo filosofo Socrate).
Ma in epoca classica era ormai ovvio per gli Ateniesi che
l’ordinamento giuridico vigente era il risultato di una cosciente
opera legislativa. Il definitivo affermarsi dei regimi democratici fece
si che l’ordine antico venisse gradualmente sostituito dalla volontà
degli uomini e dei gruppi sociali più forti.
Ciò nonostante il mutamento di un νόμος restò sempre un
atto eccezionale di straordinaria gravità, rigidamente regolato da
una minuziosa procedura che aveva inizio ogni anno nella prima
adunanza dell’eκκλησία.
31
U.E. Paoli, Diritto (principio e concetto). Nel mondo greco, in Enciclopedia del diritto., vol. XII, 1964, 634-635.
30
Indice
Capitolo II
Posizione giuridica e sociale della donna in Grecia
2.1. Le fonti
Ricostruire le reali condizioni di vita delle donne nell’antica
Grecia non è impresa facile. Una storiografia da sempre attenta
alla politica, agli avvenimenti, alle date e ai grandi personaggi ha
cancellato il loro passaggio, per conservare, al più, il ricordo di
alcune personalità la cui esistenza fu eccezionale32.
Nel mondo greco, come in quello romano, l’interesse degli
scrittori era prevalentemente politico-militare e, quindi, tagliava
fuori dal discorso le donne comuni, relegandole nella sfera del
quotidiano.
Non va dimenticato, inoltre, che la maggior parte delle
informazioni relative alle donne elleniche si ricavano da fonti non
obiettive: a parte qualche verso di Saffo e pochi altri frammenti di
poetesse di minor fama, il materiale documentario ci giunge da
autori maschi, i quali non potevano non risentire dei pregiudizi e
delle convinzioni elaborate all’interno di un sistema di relazioni
sociali dominato dagli uomini.
Del resto, il peso dell’ ideologia sulla condizione femminile è
sempre talmente forte da non potervi essere storia delle donne
32
E. Cantarella, L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana, Milano, 1995, nota introduttiva.
31
Indice
che non sia, al tempo stesso, storia delle relative rappresentazioni
mentali.
Ma quali sono, in concreto, i materiali di ricerca di cui disponiamo?
Le più diffuse sono, ovviamente, le fonti letterarie: la letteratura
greca parla molto delle donne e, spesso, lo fa in temi forti.
Anche in questo caso però va ricordato che la maggior parte
degli scritti giunti fino a noi proviene da Atene e, quindi, rispecchia
la mentalità e la cultura di quella particolare compagine sociale.
Inoltre i poemi, i testi teatrali, le orazioni e in genere tutte le opere
letterarie, sono dovute ad intellettuali che non avevano simpatia o
interesse per le sfere sociali più basse: per le donne del popolino, ad
esempio, dobbiamo accontentarci solo degli accenni di Aristofane33.
Numerose sono anche le fonti epigrafiche: testi legislativi,
giuridici, finanziari, dedicazioni onorifiche, regolamenti religiosi,
ecc.
Si tratta di iscrizioni incise su pietra o metallo e, di regola, collocate
nei luoghi di passaggio (agorà, teatri, santuari), particolarmente
interessanti perchè ci svelano aspetti della vita comunitaria delle
donne greche normalmente trascurati dalle altre fonti.
Pur essendo spesso concise, disconnesse o frammentarie, le
fonti epigrafiche hanno il merito di fornire informazioni impersonali
ed obiettive che, confrontate con le testimonianze letterarie,
ci permettono di riconsiderarne il valore. Ma, soprattutto,
33
I. Savalli , La donna nella società greca antica, Bologna 2003, 32.
32
Indice
rappresentano il solo mezzo per raccogliere informazioni riguardo
le categorie sociali meno rappresentate nella produzione letteraria:
donne di condizione modesta, straniere, affrancate, schiave, di cui
abbiamo notizia grazie ad una dedica, un epitaffio o una lista di
beni34.
Le fonti iconografiche, al contrario, risultano preziose per la
ricostruzione della vita quotidiana delle donne. L’onnipresenza
di effigi femminili negli spazi collettivi e domestici è significativa:
statue, rilievi, steli funerarie e soprattutto ceramiche, ci danno
utili ragguagli sulle tradizionali attività femminili quali la toilette, la
tessitura, i rituali matrimoniali, quelli religiosi, ecc.
Un ricco materiale archeologico per lungo tempo misconosciuto
dagli storici, avvezzi a far uso dei documenti figurativi solo per
corroborare o illustrare quanto ricavato dalle fonti scritte.
Solo negli ultimi anni gli studiosi hanno cominciato a considerare
questo tipo di testimonianze non più elementi di complemento,
ma fonti autonome di conoscenza, le cui rappresentazioni seguono
regole complesse che variano a seconda della natura degli oggetti,
della loro funzione, dei loro usi e dei loro destinatari.
Anche in questo caso va detto che si tratta comunque di oggetti
creati in ambienti maschili e che, di conseguenza, le immagini
raffigurate su di essi non sono frutto di una trascrizione oggettiva,
ma il prodotto di uno sguardo maschile che ricostruiva la realtà35.
34
35
B. Nadine, Femme et société dans la Grèce classique, Paris 2003, 16.
F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, in, Storia delle donne. L’antichi33
Indice
Infine un importante contributo alla ricostruzione della
condizione femminile nel mondo greco viene anche dalle fonti
giuridiche. Le regole del diritto, pur nella loro astrattezza e
generalità, ci consentono di conoscere meglio la vita di tutte le
donne, anche di quelle che sono passate nella storia senza entrarvi.
Naturalmente tra la regolamentazione giuridica e la pratica
quotidiana non sempre v’era coincidenza, ma il diritto e il costume
sono elementi complementari e solo dal loro esame combinato
può emergere un quadro concreto della realtà.
Studiare la presenza delle donne nella storia raccontata dagli
uomini vuol dire, in conclusione, dissotterrare i fatti da sotto una
profusione di discorsi ed immagini, filtrare la realtà dall’immaginario
e dal simbolico per mezzo di un attento lavoro critico che
comprenda di ogni tipo di fonte possibile, nessuna esclusa, purché
vagliata nel suo genere e nei suoi diversi livelli di credibilità sociale
o di rappresentatività, tenendo sempre conto dei condizionamenti
culturali, della natura dei discorsi e del contesto in cui essi sono
stati elaborati.
2.2. Ipotesi di matriarcato presso le popolazioni pre-greche
Secondo un’opinione molto diffusa nel secolo scorso, ma che
trova ancora oggi qualche ultimo sostenitore, risalendo nella storia
del Mediterraneo è possibile rinvenire un tempo in cui le donne
tà, G. Duby – M. Perrot ( a cura di), Roma 1990, 182.
34
Indice
detenevano non solo il potere familiare ma anche quello politico e
sociale, ovvero un tempo in cui le società erano prevalentemente
matriarcali.
Tale fenomeno avrebbe avuto origine sul finire dell’epoca
paleolitica e, più precisamente, nel momento del passaggio dalla
vita nomade a quella sedentaria, presso quei gruppi umani che
cominciarono a stanziarsi e a coltivare le terre circostanti, dando
vita ai primi villaggi.
Con l’introduzione dell’agricoltura, infatti, mentre gli uomini
seguitavano a dedicarsi alla caccia, le donne, aiutate dai bambini, si
occuparono delle prime forme di coltivazione e, divenendo in poco
tempo le principali procacciatrici di cibo, conquistarono sempre
maggiore prestigio sociale.
Questa situazione sarebbe durata fino a quando l’intensificarsi
della lavorazione del suolo rese necessario l’impiego di manodopera
maschile mentre la nascita dei primi commerci, con il conseguente
arrivo di maggiori ricchezze, richiesero la presenza di un capo
maschio capace di proteggere il villaggio dalle scorrerie delle tribù
nomadi. Fu giocoforza, allora, che alla diminuzione del contributo
femminile si accompagnasse un graduale peggioramento del loro
status.
Il matriarcato fu quindi, secondo questa teoria, l’organizzazione
sociale caratteristica del neolitico e nel Mediterraneo si estese
anche oltre tale era caratterizzando, in particolare, la cultura
minoica, la successiva cultura micenea e infine lasciando tracce
35
Indice
anche nella società descritta dai poemi omerici36.
In realtà, allo stato delle attuali conoscenze, non esiste alcuna
prova dell’esistenza del matriarcato, inteso quale potere politico
femminile, né presso i popoli primitivi né presso le due importanti
civiltà pre-greche; quel che è possibile appurare, con un certo
grado di attendibilità, è “solo” la notevole indipendenza e l’elevata
posizione sociale di cui godettero le donne di Creta e, in misura
minore, quelle di Micene e degli altri regni achei.
Che le donne minoiche fossero tenute in gran conto è testimoniato
innanzitutto dalla tradizione religiosa di questo popolo: a partire dal
III millennio gli abitanti di Creta veneravano quale divinità suprema
una divinità femminile, la Potnia, Grande Madre Mediterranea,
simbolo della forza generatrice delle donne, mentre sempre delle
donne, le sacerdotesse, svolgevano l’importante ruolo di mediatrici
tra l’uomo e la divinità37.
Gli affreschi e, più in generale, le iconografie rivelano, inoltre,
che le cittadine di Creta assistevano agli spettacoli, partecipavano
alla caccia e fabbricavano vasellame al pari degli uomini. Gli studi
archeologici dimostrano che nel palazzo di Cnosso e nelle altre
abitazioni cretesi la parte destinata alle donne non era isolata,
come avverrà in seguito nelle abitazioni greche, ma in diretto
contatto con gli altri ambienti, segno di una libertà femminile di cui
si perderà traccia nelle epoche successive.
36
37
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 7 ss.
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 9.
36
Indice
Alcune pitture murali mostrano ragazze alla guida di carri,
mentre esercitano il pugilato o affrontano dei tori, mentre le scene
di fidanzamento raffigurano l’uomo e la donna, sullo stesso piano,
uno di fronte all’altro, nell’atto di compiere il medesimo gesto:
entrambi alzano il braccio destro e uniscono le mani38.
Tuttavia, il fatto che le donne cretesi godessero di diritti civili
importanti e di un prestigio sociale ampiamente riconosciuto, non
costituisce certo una prova di un potere politico femminile: l’avere
un ruolo importante nella società non vuol dire esserne al vertice.
Ancor meno sostenibile appare la tesi matriarcale in
riferimento ai regni micenei (1400-1230 a.C.) presso i quali il ruolo
femminile risultava notevolmente ridimensionato in funzione di
un’organizzazione tipicamente militare della società.
Gli Achei, infatti, pur avendo assorbito, in seguito alla conquista
dell’isola, gran parte degli usi e dei costumi cretesi, li adattarono
alle loro esigenze e al loro spirito di rudi guerrieri: al culto della
Potnia affiancarono la devozione per divinità maschili (Zeus,
Poseidone, Ares, Ermes,… ) simbolo del potere e della forza virile,
trasformarono i palazzi reali in fortezze inespugnabili, circondarono
le città di mura poderose, ecc.
Dalla decifrazione dei famosi caratteri sillabici detti “lineare
B” sappiamo che gli uomini non solo occupavano tutti i posti
di comando e svolgevano le attività più prestigiose, legate alla
38
R. Ricchi, Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e
nella tragedia attica, Firenze 1987, 18.
37
Indice
pastorizia e all’artigianato, ma dirigevano e controllavano anche il
lavoro femminile.
Le donne, dal canto loro, erano adibite a compiti specifici: la
manipolazione dei cereali, i lavori ancillari, la tessitura, ecc.
Esse erano escluse anche dal complicato sistema di distribuzione
della terra: solo le sacerdotesse, in virtù di uno speciale privilegio,
potevano possedere appezzamenti di terreni.
Infine, nei palazzi le zone riservate al gentil sesso appaiono
maggiormente divise dal resto del complesso edilizio di quanto non
lo fossero in epoca minoica39.
In altre parole le donne micenee, anche se ancora libere nei
movimenti e non del tutto escluse dalle funzioni religiose e dalla
vita sociale, conobbero un peggioramento del loro status che in
qualche modo anticipa la reclusione di cui saranno vittime nella
società greca.
2.3. Le donne nei poemi omerici
Ma, come si è visto in precedenza, i sostenitori della cosiddetta
tesi matriarcale individuano tracce di potere politico femminile
anche nei poemi omerici.
La presenza nell’Iliade e soprattutto nell’Odissea di figure
femminili di grande rilievo dimostrerebbe, secondo costoro, che,
39
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 10-11.
38
Indice
perlomeno fino all’VIII secolo a.C., le donne greche godevano di
alcuni privilegi e di un’elevata dignità sociale, chiaro retaggio
di un’epoca in cui erano loro stesse ad avere il controllo delle
istituzioni.
Eppure, ad una più attenta lettura dei due poemi, non si può
far a meno di notare che i valori e le regole di comportamento
degli eroi omerici non si discostano poi tanto dalla misoginia tipica
dell’epoca classica.
I riferimenti a personaggi femminili dotati di potere ci sono,
ma appaiono isolati e, soprattutto, riguardano regine leggendarie
(quali Penelope, Elena, Clitemnestra) che nulla hanno delle donne
comuni, oppure figure mitiche (le Sirene, Circe, Calipso) dotate,
guarda caso, di poteri oscuri ed insidiosi.
Non è su queste figure che va ricostruita la condizione familiare
e sociale delle donne greche dell’età del bronzo: le mogli, le madri
e le figlie dei guerrieri vivevano in maniera ben diversa.
Anche se fruivano di una discreta autonomia, il loro posto
rimaneva la casa e i loro doveri gravitavano sempre intorno alla
famiglia. Tutte le protagoniste dell’epopea, comprese le regine,
erano donne di casa: filavano, tessevanono, ricamavano, dirigevano
il lavoro delle ancelle, vegliavano a che gli ospiti fossero bene
accolti, ecc.
Il loro lavoro era, quindi, esclusivamente domestico e veniva
considerato a dir poco disdicevole che si occupassero delle
39
Indice
“questioni riservate agli uomini”, come ad esempio la guerra40.
Significative sono le parole che Telemaco rivolge a sua madre,
Penelope:
«Ma ritorna tu alle tue stanze, ed attendi all’opere tue, al telaio
e alla rocca; fa’ che badin le ancelle all’opere loro; l’arco è affare
di uomini e mio soprattutto, ché a me spetta il comando qui nella
casa»41.
Molto simile è l’amorevole rimbrotto che Ettore rivolge ad
Andromaca nel loro ultimo incontro:
«Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso e al telaio,
e alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli
uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro»42.
Ad ogni modo, nel mondo omerico, le donne godevano di
autorevolezza e libertà; non erano confinate in casa ma circolavano
liberamente.
Andromaca, avendo sentito dire che l’esercito troiano stava
arretrando, in preda al panico, si precipita in cerca di notizie sino alle
porte di Scee, trascinando con sé la nutrice e il piccolo Astianatte,43
e quando Ettore cade per mano di Achille, sua madre Ecuba si trova
40
41
42
43
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 24.
Omero, Odissea, XXI, 350-353.
Omero, Iliade, VI, 490-493.
Omero, Iliade, VI.
40
Indice
sul bastione circondata dalle altre donne troiane44.
Arete si muove liberamente per la città e così fanno anche le
sue figlie, tra cui Nausicaa che se ne va, con la sola compagnia delle
ancelle, a lavare la biancheria di casa in un fiume fuori dalla città45.
Ma, nonostante ciò, la donna omerica rimaneva in una posizione
subalterna, vittima di una ideologia inesorabilmente misogena:
gli uomini guardavano con diffidenza e sospetto le femmine che
consideravano esseri deboli, inferiori, incapaci di sentimenti
duraturi.
Quella raccontata da Omero era una società essenzialmente
aristocratica, le cui tensioni erano determinate, in sostanza, dal
problema della ripartizione del potere tra il re e i principi.
In un simile contesto la donna fungeva da pegno di alleanza
fra le varie casate e rappresentava l’unico mezzo per assicurarsi la
prosecuzione dell’οiκος. Mentre infatti non v’erano vincoli per la
sessualità di carattere edonistico (le case erano piene di concubine
e prigioniere), i gruppi sociali si dimostravano intransigenti per
quanto riguarda la sessualità riproduttiva.
Tuttavia se la sposa veniva meno alla sua fondamentale funzione
procreativa, il marito poteva avere un figlio da una concubina
(παλλακή) e adottare il bastardo (νόqος) come suo legittimo
discendente.46
44
45
46
Omero, Iliade, XXII.
Omero, Odissea, VI.
I. Savalli, La donna, 38.
41
Indice
È quanto fa, ad esempio, Menelao che avendo avuto da Elena
solo una figlia, Ermione, adotta Megapente natogli da una schiava47.
Fin dall’età del bronzo, dunque, l’οiκος si presentava come un
“tutto” maschile che avvolgeva la componente femminile: la donna
era parte della casa, come i figli, l’abitazione, il lotto di terra e le
ricchezze, e trovava un riconoscimento sociale unicamente nel
mettere al mondo figli legittimi.
2.4. Le donne in Esiodo e Simonide
La diffidenza verso le donne che i poemi omerici esprimono
trovò una prima giustificazione teorica nelle opere letterarie del
periodo immediatamente successivo, fra le quali, in primo luogo, la
poesia di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) e Simonide (VII sec. a.C.).
Sia nella Teogonia che ne Le opere e i giorni Esiodo, attraverso il
mito di Pandora, presenta l’apparizione della donna sotto il segno
della diversità e della separatezza.
C’era un tempo in cui, racconta il poeta, gli uomini vivevano
felici, in completa armonia con gli dei e con la natura. Nella loro
vita non c’erano né dolore né fatica, il cibo era spontaneamente
offerto dalla terra incolta, non esistevano né malattia né vecchiaia.
Ma un giorno, per colpa di Prometeo, gli uomini e gli dei
entrarono in conflitto e la condizione umana fu condannata al
47
Omero, Odissea, IV, 10-14.
42
Indice
disagio e all’incertezza, a quell’ambigua mescolanza di bene e
di male, di gioia e di sofferenza che caratterizza l’esistenza delle
creature mortali48.
Tutto ebbe inizio da un inganno di Prometeo che, durante un
banchetto tra uomini e dei, divise la carne in porzioni disuguali: in
una riunì tutte le parti migliori, i muscoli e il grasso, e le nascose nello
stomaco dell’animale, per dar loro un’apparenza poco appetibile,
nell’altra fece un gran mucchio di ossa e le ricoprì con del grasso
per farla sembrare la porzione migliore.
Il Titano, quindi, invitò Zeus a scegliere la parte che preferiva
e questi, pur sapendo di essere ingannato, prese il mucchio più
grande (per questo motivo, d’allora in poi, nel fare i sacrifici, gli
uomini offrirono agli dei le ossa e il grasso, bruciandoli sull’altare, e
tennero per sé le parti commestibili).
Il padre degli dei decise, però, di punire gli uomini privandoli del
fuoco e rendendo così impossibile il sacrificio e definitiva la loro
separazione dagli dei.
Ma Prometeo, preso un bastone cavo, riuscì a nascondervi
dentro una piccola fiamma e la riportò ai mortali; così facendo
ristabilì, con l’inganno, il legame degli uomini col mondo divino.
Sdegnato Zeus escogitò, a sua volta, un terribile inganno in grado
di relegare per sempre gli uomini lontano dalla felicità divina: donò
loro Pandora, progenitrice di tutte le donne.
48
C. Franco, Senza ritegno. Il cane e la donna, Bologna 2003, 9.
43
Indice
«…da lei infatti viene la stirpe delle donne»49.
Zeus la diede in dono ad Epimeteo il quale affascinato dalla
ragazza dimenticò i consigli del fratello e la prese con sé insieme
al vaso che le aveva regalato Zeus. Quando lei aprì il vaso, per
vedere quali doni contenesse, ne volarono fuori tutti i mali (morte,
malattie, fame, discordia…).
Tutte le donne sono perciò creature insidiose, destinate ad
entrare nelle case degli uomini portando con se ogni più triste
disgrazia. Nessun uomo potrà mai sfuggire a questo male perché
solo attraverso la donna il maschio riesce ad avere una discendenza
e sfuggire ad «una triste vecchiaia, privo di chi abbia cura di lui… e
dei suoi beni»50.
La “razza delle donne”, quindi, viene presentata da Esiodo come
distinta da quella degli uomini e intrusivamente collocata nel cuore
dell’umanità.
Non a caso la prima femmina era nata in maniera artificiale: non
derivava cioè dalla natura come l’uomo ma, su ordine del signore
dell’Olimpo, fu plasmata da Efesto mescolando terra ed acqua, a
guisa di incantevole vergine, e poi perfezionata dai doni di tutti gli
altri dei. Atene le insegnò l’arte della tessitura, Afrodite le donò la
grazia, il desiderio struggente e gli affanni che fiaccano le membra,
49
50
Esiodo, Teogonia, 590.
Esiodo, Teogonia, 603-606.
44
Indice
mentre Ermes le diede un carattere sfacciato (un’indole cagnesca,
κàνεον νόον), un temperamento volubile e nel suo cuore pose
menzogna e discorsi ingannatori51.
Ma nella morale esiodea la donna è soprattutto un elemento
parassitario: in un’economia rurale fondata sul lavoro maschile
essa costituisce, per il marito, una inutile bocca da sfamare; il poeta
paragona la società umana ad una comunità di api industriose in
cui le donne si istallano parassitariamente tali quali i fuchi, sfaticati
ed esigenti52.
La satira di Semonide d’Amorgo contro le donne è, se possibile
ancora più dura.
Semonide suddivide l’universo femminile in dieci categorie,
ciascuna delle quali è rapportata ad una specie animale (scrofa,
volpe, cagna,…) o ad un elemento naturale (la terra o il mare) e,
attraverso questi paralleli, ne fustiga impietosamente i vizi più
ricorrenti (la sporcizia e il disordine nella donna scrofa, l’astuzia
nella donna volpe, l’impudenza nella donna cagna, ecc.)53.
Tutte le donne sono per Semonide un male senza fine; esse
trascinano l’ingenuo maschio nel mondo degli inganni o lo fanno
cadere nel ridicolo. L’unica soluzione è tener lontano la propria
moglie dalle altre donne, affinché non la corrompano e, soprattutto,
da eventuali ospiti maschili, perché non svelino ad essi la loro
51
52
53
Esiodo, Le opere e i giorni, 78.
Esiodo, Teogonia, 594-600.
I. Savalli, La donna, 101-102.
45
Indice
natura bacata.
Solo un tipo di donna, la donna ape, è immune da censure: ella
è fonte di prosperità, invecchia col marito in un amore muto, è
madre di figli illustri e belli e non si mescola alle altre donne lascive
e pettegole.
Anche le connotazioni positive della melissa, quindi, più che da
sue qualità specifiche dipendono dal suo rimanere chiusa entro
le mura domestiche: l’unico elogio insomma va alla donna che
fa parlare il meno possibile di se, manifestandosi appena nella
preservazione dell’οiκος.
Nelle loro opere, dunque, Esiodo e Semonide si sforzano di
trovare un fondamento razionale alla segregazione delle donne,
che percepiscono come una costante minaccia per l’ordine sociale,
causa di frizioni e conflitti tra gli uomini.
2.5. Nell’epoca arcaica
Negli ambienti aristocratici e guerrieri dipinti da Omero, e
che ritroviamo in tutto il primo periodo dell’età arcaica, le donne
venivano considerate delle proprietà, pregiata merce di scambio
utile a creare legami di solidarietà o dipendenza, ad acquistare
prestigio o confermare rapporti di vassallaggio tra le grandi famiglie
nobili.
In una società in cui le ricchezze costituivano “segno concreto”
46
Indice
degli statuti e delle posizioni all’interno del gruppo, anche le
donne erano beni preziosi, come quei doni (°γαλματα) scambiati
in occasione delle nozze, che così grande importanza ebbero nella
pratica sociale e nella mentalità dei Greci durante i primi secoli
della loro storia54.
Ma proprio perchè considerate depositarie e insieme segno di
valore, esse, pur rimanendo totalmente escluse dal potere politico
e indiscutibilmente sottomesse al capofamiglia, godettero di una
considerazione onorevole che permise loro di conservare una certa
libertà di movimento e il diritto di partecipare ad alcuni aspetti
della vita sociale.
Ma con la nascita della πόλις, collocabile tra il VII e il VI secolo
a. C., lo status femminile conobbe un brusco peggioramento. Una
serie di leggi limitò le poche libertà fino ad allora esistenti, mentre
svanirono del tutto le occasioni di essere presenti accanto agli
uomini in situazioni esterne, di vedere e di conoscere persone e
fatti al di fuori della cerchia familiare.
Il passaggio dai grandi clan dell’epoca omerica agli οiκοi, le famiglie
mononucleari cellule della πόλις, portò ad una esasperazione della
funzione femminile per eccellenza - la procreazione di un erede
maschio - svalutando così ogni altro loro apporto.
Assimilate alle ricchezze private, collocate con il loro corredo
patrimoniale sotto la tutela del loro sposo, le abitanti della πόλις
54
J.P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino 1981, 75.
47
Indice
non avevano maggior potere delle donne possedute delle società
omeriche, ma avevano molto meno valore.
La fissazione di ruoli sessuali rigorosamente determinati era
divenuta una condizione essenziale per la sopravvivenza stessa
della città.
Il territorio cittadino, infatti, si articolava in tanti appezzamenti
di terreno (κλhροι) ciascuno dei quali era sede di un οiκος. Gli
οiκοι costituivano cioè delle unità indipendenti all’interno di un
regime agrario basato sull’eguale distribuzione della terra, e la loro
preservazione serviva ad impedire l’accumulazione di ricchezze e di
potere nelle mani dei vecchi casati aristocratici.
Non a caso i legislatori che diedero ai Greci le prime norme
scritte si preoccuparono, innanzitutto, di regolare il comportamento
sessuale femminile, visto che erano proprio le donne ad
assicurare, attraverso la procreazione di eredi legittimi, un’ordinata
riproduzione dei gruppi familiari.
Così, ad esempio, il famigerato codice di Draconte (VII sec. a.C.),
primo legislatore greco, figura in bilico tra il mito e la leggenda,
considerava la μοικεία un reato talmente grave da giustificare
l’uccisione di un cittadino.
Anche il codice solonico, ratificato nel VI secolo a.C., era molto
restrittivo riguardo alle donne, e ciò non per la misoginia di Solone,
ma perché le sue regolamentazioni erano destinate ad eliminare i
contrasti e rafforzare la democrazia appena nata, e le donne erano
48
Indice
considerate una fonte perenne di frizione tra gli uomini55.
Gli oratori attici del IV secolo e, in particolar modo, Plutarco ci
riferiscono alcune leggi attribuibili a Solone che aprono squarci
significativi sulla condizione femminile in epoca arcaica.
Da una disposizione che vietava di vendere la propria figlia o
sorella non sposata, a meno di sorprenderla con un uomo, si può
dedurre come fosse consuetudine diffusa sbarazzarsi in questo
modo poco ortodosso delle ragazze che non trovavano marito.
Il matrimonio rappresentava per le fanciulle un termine di
valutazione necessario ed obbligato, uno spartiacque fra “normalità”
e “anormalità”, tanto che la donna matura non sposata, la zitella,
viveva considerata una donna mancata, un relitto, un peso.
La società ellenica, d’altronte, era strutturata in modo tale da non
consentire autonomia di vita alle donne di famiglia regolare:56 essa
si fondava essenzialmente su un sistema patriarcale in cui l’οiκος,
cioè l’insieme della famiglia, degli schiavi e dei mezzi di sussistenza,
era retto dall’uomo, che ne era il κύριος, cioè il signore e padrone.
Tutte le donne dovevano quindi essere obbligatoriamente
sottoposte alla tutela di un uomo, che prima del matrimonio era il
padre, successivamente il marito o, in mancanza, un figlio.
Ma la messa in vendita di figlie e sorelle veniva praticata, per
quanto è lecito supporre, anche dalle famiglie più povere che non
55
56
S.B. Pomeroy, Donne in Atene e Roma, ed. it., Torino 1974, 78.
U.E. Paoli, La donna greca nell’antichità, Firenze 1955, 40.
49
Indice
riuscivano a darle in matrimonio per l’impossibilità di fornire loro
una dote.
In realtà questa usanza, ai nostri occhi assai crudele, insieme
alla ancor più esecrabile pratica della esposizione delle neonate,
svolgeva una funzione socialmente e politicamente utile, in quanto
serviva a regolare il numero dei membri del gruppo e, soprattutto,
il rapporto fra i sessi in modo che non vi fossero donne in eccesso
destinate a restare nubili.
Tenere sotto controllo la popolazione femminile era molto
importante visto che le donne, a causa della loro mobilità da una
famiglia all’altra, costituivano un elemento d’instabilità per la
compagine socio-economica della città-stato.
La comparsa della dote (προίξ o φερνή) nel marimonio postomerico, comportando il trasferimento di proprietà dalla famiglia
del padre della sposa a quella del marito, rischiava infatti di aggirare
il fondamentale divieto dell’inalienabilità della proprietà terriera57.
Per questo tutte le πόλις si dotarono di una minuziosa
regolamentazione riguardante le donne in materia di matrimonio,
proprietà ed eredità.
Solone, ad esempio, introdusse una norma che limitava le
dimensioni delle doti, riducendo il corredo a tre vestiti e ad altri
oggetti di poco valore58.
57
58
I. Savalli, La donna, 45.
Plutarco, Solone, 20, 6, cf I. Savalli, La donna, 48.
50
Indice
La stessa istituzione dell’epiclerato serviva ad impedire
un’indebita accumulazione di proprietà.
Sappiamo che ad Atene l’esistenza di figli e discendenti maschi
escludeva dalla successione le femmine, le quali avevano diritto
solo ad una dote al momento del matrimonio. La sposa che aveva
un fratello veniva infatti denominata eπίπροικος, vale a dire istallata
su (eπί) la sua dote (προίξ).
Se però un uomo moriva lasciando solo una figlia, questa non
potendo ereditare il patrimonio (κλήρος) paterno, diveniva il
tramite attraverso il quale quel patrimonio si trasmetteva ai maschi.
Essa era allora definita eπίκληρος, cioè istallata sul κλήρος, ed
era obbligata a sposare il parente più prossimo, secondo un ordine
di priorità ben preciso.
Nel caso in cui l’ereditiera era contesa da più pretendenti, si
faceva ricorso ad un’apposita azione giudiziaria, l’eπιδικασία,
diretta dall’arconte eponimo, al termine della quale essa veniva
aggiudicata a colui che ne aveva diritto. Sposando l’epiclera costui
otteneva la tutela della moglie e la tutela della successione, i cui
redditi si aggiungevano ai suoi. Quando poi i figli maschi nati dal
suo matrimonio con l’epiclera raggiungevano la maggiore età, egli
consegnava loro la successione del loro nonno materno e questi
versavano alla loro madre una pensione alimentare59.
59
C. Leduc, Come darla in matrimonio? La sposa nel mondo greco, secoli
IX-IV a.C., in Storia delle donne, 296.
51
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A ben vedere, quindi, la funzione del marito era più che altro
quella di contribuire alla procreazione dell’erede effettivo, il quale
portava il significativo nome di “figlio della figlia” (qυγατριδοàς).
Non a caso una legge solonica obbligava il marito di una eπίκληρος
ad avere rapporti con la moglie almeno tre volte al mese, in modo
da assicurare un erede all’οiκος del defunto60.
Se l’eπίκληρος era già sposata e non aveva ancora figli, l’avente
diritto poteva esercitare l’aφαίρεσις, cioè il suo diritto di rapirla, e
il precedente matrimonio veniva sciolto. Lo scopo di questa norma
era chiaramente quello di evitare la disparizione della proprietà
dell’οiκος a vantaggio di un marito ad esso estraneo.
Solo se l’epiclera sposata aveva dei figli, cosa che la legava in modo
indissolubile all’οiκος del marito, la successione sfuggiva all’avente
diritto ed erano i figli dell’ereditiera a riceverla al raggiungimento
della maggiore età.
Nel caso in cui l’ereditiera era povera, poiché il patrimonio del
genitore defunto si rivelava modesto, se il parente più stretto si
rifiutava di sposarla, una legge, ancora una volta attribuita a Solone,
lo obbligava trovarle un marito e a fornirle una dote.
2.6. Nell’Atene classica
Il graduale processo d’isolamento del mondo femminile
cominciato con il sorgere delle πόλις divenne segregazione totale
60
I. Savalli, La donna, 50.
52
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nell’Atene classica: da sempre relegate nel loro ruolo domestico,
le donne finirono con l’essere letteralmente rinchiuse negli angusti
confini delle case, o meglio nella parte ad esse riservata e che
portava il loro nome, il gineceo.
Nel 508 a. C. Clistene, istituendo una nuova unità politicoterritoriale, il δoμος, sancì il prevalere dell’assetto civico territoriale
su quello gentilizio.
Il δoμος costituì, quindi, la tessera base della città e l’οiκος,
in quanto luogo privilegiato di organizzazione della terra e sede
primaria dell’economia, la struttura portante. La città divenne
istituzionalmente una pluralità di οiκοι e la sua continuità si legò
sempre più a quella delle famiglie che la costituivano.
Da qui l’importanza di stabilire con precisione i requisiti di chi era
preposto a perpetuare la casa e la comunità, nonché la tendenza ad
irrigidire le già limitate dinamiche della trasmissione ereditaria61.
Qualche decennio dopo, nel 451 a.C., un decreto di Pericle
moltiplicò i requisiti richiesti per entrare a far parte del corpo
civico, riconoscendo la cittadinanza solo a chi fosse nato oltre che
da padre anche da madre ateniese.
Per essere cittadino di Atene era cioè richiesta la qualità di aστοί
di ambedue i genitori.
Il decreto di Pericle subì alterne vicende legate a problemi
61
S. Campese, Madre materia: sociologia e biologia della donna greca,
Torino 1983, 72.
53
Indice
demografici. Disatteso durante la Guerra del Peloponneso, quando
per rimediare alla diminuzione della popolazione fu votata una
norma che consentiva agli Ateniesi di sposare una cittadina e di
procreare figli da un’altra, fu riattivato nel 403, durante l’arcontato
di Euclide, una volta che la situazione di crisi fu superata.
La diminuzione o l’aumento del numero delle donne deputate a
procreare figli legittimi era quindi un espediente per tenere sotto
controllo la popolazione della πόλις e regolare, di conseguenza, il
rapporto tra cittadini e risorse.
Attraverso la filiazione legittima la città cercava di mantenere,
nel corso delle generazioni, la permanenza delle sue strutture e
della sua forma, e per fare ciò accordava una speciale “protezione”
alle donne addette a questa importante funzione di riproduzione
sociale.
Se si esclude l’infanzia, che per i Greci arrivava fino ai sette anni e
che era quasi indifferenziata sessualmente, tutta la vita delle donne
nell’Atene classica ruotava intorno al loro “dovere procreativo”.
Allevate in casa dalle schiave, le ragazze non ricevevano alcuna
forma di educazione, né a scuola, dove non andavano, né in casa,
dove trascorrevano il tempo ad apprendere i c.d. lavori femminili62.
Tutti gli insegnamenti avevano come finalità quella di preparare
le ragazze ad assumere rapidamente i loro doveri di spose e di
madri. Anche i comuni passatempi, come il gioco con le bambole,
62
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 44.
54
Indice
il cerchio, la palla, la trottola o l’altalena, non contribuivano certo a
svilupparne l’intelletto.
Lo stesso Platone, nella Repubblica, si stupì e s’indignò del fatto
che il compito di allevare i cittadini fosse affidato ad esseri che
erano essi stessi tanto male allevati63.
D’altra parte le giovani non restavano a lungo nella casa paterna
visto che il matrimonio avveniva, di regola, intorno ai 14-15 anni.
La condizione di vita delle donne sposate era ancora peggiore:
affondate nella privatezza della casa trascorrevano una vita vuota,
priva di interessi e gratificazioni. Non avevano alcuna possibilità
d’incontrare persone diverse dai familiari, non andavano nemmeno
a far la spesa (le compere ad Atene erano incombenza degli uomini
o al limite degli schiavi) né partecipavano ai banchetti.
Con l’aiuto delle schiave, nell’intimità dell’οiκος, esse svolgevano
le tradizionali attività femminili, gli eργα γυναικéν: la tessitura, la
preparazione dei cibi cotti, l’allevamento dei figli.
La differenziazione dei ruoli tra uomo e donna si ripercuoteva,
infatti, anche nella differenziazione tra lavori domestici ed
extradomestici. Alle donne spettava la gestione di ciò che era
considerato ad esse più congeniale, cioè la cura degli spazi interni
dell’οiκος, agli uomini competevano gli spazi esterni: l’aγορά dove
esercitavano la ragione, il campo di battaglia dove mettevano alla
prova il coraggio.
63
Platone, Repubblica, II, 377, cf Storia delle donne, 58.
55
Indice
Per dire fino a che punti gli abitanti del Nilo differissero dai Greci,
Erodoto scriveva: «Gli Egiziani hanno costumi e leggi contrari a quelli
di tutti gli altri popoli. Presso di loro le donne vanno al mercato e
commerciano mentre gli uomini restano a casa e tessono»64.
Il fatto che un simile comportamento apparisse inconcepibile agli
occhi dello storico greco conferma fino a che punto la destinazione
delle donne ai lavori domestici fosse considerata naturale.
Senofonte, nell’Economico, fa dire ad Iscomaco - prototipo
dell’aνήρ καλός κaγαθός cioè del perfetto capofamiglia, ottimo
cittadino e dinamico amministratore delle proprie ricchezze - che la
divinità ha dato ai due sessi una uguale capacità di padroneggiare
le passioni, ma ha adattato la natura femminile ai lavori e alle cure
interne e quella maschile alle attività esterne65.
Un corpo meno resistente ed una natura più timorosa legano le
femmine ad attività in cui la superiorità virile susciterebbe il riso.
Persino Socrate, notoriamente ben disposto verso le donne, in
un dialogo riportatoci da Platone, liquida il lavoro femminile come
non degno nemmeno di essere considerato: «Dobbiamo dilungarci
a parlare della tessitura, della confezione di focacce e degli alimenti
cotti, dove sembra distinguersi il sesso femminile e dove anzi è
ridicolo che venga sconfitto?»66.
64
Erodoto, Storie, II, 35.
65
Senofonte, Economico, VII.
66
Platone, Repubblica, V, 5, 455 c, cf G. Sissa, Platone, Aristotele e la
differenza dei sessi, in Storia delle donne, 72-73.
56
Indice
Come a dire che a causa dell’abilità delle donne, queste erano
competenze ridicole per gli uomini.
Lo sviluppo della πόλις, d’altro canto, aveva prodotto una netta
distinzione tra vita pubblica e vita privata, tra l’interazione egalitaria
dell’aγορά e il sistema chiuso, intimo e gerarchico dell’οiκος.
All’interno della democraticissima Atene l’οiκος era governato
monarchicamente dal capofamiglia, colui che era uguale (iσος), il
cittadino, mentre le donne e i fanciulli non venivano considerati
cittadini ma sudditi; la loro condizione era quella di individui liberi
ma governati dal capofamiglia67.
La πόλις era un ordinamento essenzialmente militare,
un’associazione di uomini liberi, maschi, atti alle armi e dotati di
tutti requisiti fisici, di nascita e sacrali richiesti: i requisiti del πολίτης.
Di conseguenza ne erano escluse tutte le altre categorie di
persone: le donne, gli schiavi, gli stranieri e, per altri versi i poveri.
In Atene solo il πολίτης era ‘Aqηναiον; alla donna veniva
addirittura negato la qualifica di ateniese per placare, si diceva
ricorrendo ad un’immagine mitologica, Posidone irritato contro
i voti femminili in favore di Atena quando si scelse il nome della
città68.
Essa perciò era definita ’Aττική o aστή, termine, quest’ultimo,
che serviva ad indicare la sua appartenenza alla città in senso fisico
67
Cf S. Campese, Madre materia.
68
L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in Storia
delle donne, 376.
57
Indice
(aστυ), ma la sua esclusione dall’organizzazione cittadina.
Di nascita ateniese, l’aστή poteva solo dar vita a futuri titolari
della cittadinanza o a future spose di cittadini.
E proprio in qualità di madre, moglie o figlia di cittadini, essa
viveva sotto la protezione della πόλις e godeva dei diritti che le
spettavano ex iure familiari.
Ma poiché solo chi era cittadino poteva essere titolare di diritti
di fronte alla comunità politica, di questi diritti era titolare il κύριος,
cioè il potestatario, il quale agiva in ogni caso come rappresentante
legale della donna. Le donne senza l’assistenza del loro tutore non
potevano far testamento, agire in giudizio e soprattutto non avevano
la facoltà di disporre personalmente dei beni di loro proprietà che
costituivano la dote e che venivano difatti amministrati e gestiti dal
marito.
Ma le cittadine ateniesi non potevano nemmeno spendere
ingenti quantitativi di denaro. Un’orazione di Iseo69 datata nella
prima metà del IV secolo a.C., ci fa conoscere un’antica legge che
limitava la competenza contrattuale delle donne ad un medimno di
orzo, vale a dire, alla somma sufficiente a provvedere di cibo una
famiglia ordinaria per sei giorni.
Diverse testimonianze dimostrano che questa prescrizione
non era sistematicamente applicata e che, almeno nel IV secolo,
l’iniziativa economica femminile raggiungeva importi ben più
69
Iseo, X, 10, cf I. Savalli, La donna, 62.
58
Indice
rilevanti, anche se si trattava quasi sempre di donne vedove, di una
certa età e con figli piccoli, o di signore molto facoltose.
Naturalmente le donne erano estromesse da qualsiasi forma di
partecipazione alla vita politica, giudiziaria e militare della πόλις:
dibattere e votare nelle assemblee, divenire magistrato o giudice
nei tribunali, combattere per difendere la città, erano privilegi
esclusivi dei cittadini, da questi gelosamente protetti.
La subordinazione di una metà della popolazione libera all’altra
metà, in una società che si definiva alla luce dell’eguaglianza e della
libertà, costituiva, in ogni caso, un paradosso ideologico che gli
Ateniesi cercarono di giustificare attraverso una strategia filosofica
e culturale che faceva delle donne esseri deboli, volubili, incapaci
di auto controllo, facilmente seducibili da mani estranee e perciò
bisognosi di correzioni e restrizioni di ogni tipo.
Il cittadino maschio, fondatore dell’ideologia vigente, si attendeva
dalla donna una sola performance etica: la “σωφροσu?νη” da
interpretarsi come castità, moderazione, silenzio, le uniche virtù
che, nella città di Pericle, salvaguardavano l’onorabilità della donna,
la legittimità della discendenza e l’integrità dei cittadini70.
Pericle stesso, nel celebre epitaffio tucidideo, afferma che
la massima fama per una donna virtuosa consiste nel non avere
alcuna fama71.
70
71
I. Savalli, La donna, 110.
Tucidide, II, 45, 2, cf C. Franco, Senza ritegno, 258.
59
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Se una donna si comporta ottimamente non c’è motivo di
parlarne: si parla delle donne quando non ottemperano ai loro
doveri, quando trasgrediscono la norma dell’ubbidienza, quando
deludono il sistema di attese che la cultura maschile ha elaborato.
Solo allora esse escono dall’anonimato in cui le avvolge il velo di
pudicizia e guadagnano fama, pessima fama, ovviamente.
Negli ultimi decenni però l’approfondimento di campi ancora
poco esplorati, il fiorire di nuove ricerche antropologiche e la
crescente attenzione verso il ruolo femminile nella società, hanno
obbligato gli studiosi a “sfumare” il classico schema della donna
ateniese totalmente reclusa.
Si è visto ad esempio che l’esclusione delle donne dall’aγορά
non voleva dire anche esclusione dalla vita religiosa della πόλις.
Sappiamo con certezza che le donne prendevano parte a
diverse cerimonie sacre, quali feste pubbliche, matrimoni, funerali:
esse allora uscivano di casa con elegantissime vesti e con mirabili
acconciature e si mostravano in parata mentre la gioventù maschile
era tutt’occhi a guardarle. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se
proprio in queste occasioni nascevano degli intrighi d’amore: ad
una cerimonia funebre, ad esempio, si conobbero la moglie di
Eufileto e il suo amante Eratostene72.
Sulla trentina di feste celebrate ad Atene quasi la metà
presupponeva la partecipazione della popolazione femminile:
72
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene.
60
Indice
ragazzine e giovinette prendevano parte alle Arreforie,
successivamente alle Plinterie e poi, come canefore, cioè portatrici
del κανοuν, il cestino contenente l’occorrente per il sacrificio, a varie
celebrazioni in onore di Atena, Era e Artemide; le donne sposate
intervenivano agli Aloe e alle Tesmoforie di Demetra; quelle in età
avanzata alle Antesterie.
Il culto più interessante, da questo punto di vista, erano le
Panatenaiche: alla grande celebrazione annuale infatti prendevano
parte rappresentanti femminili di tutte le età e di tutti gli statuti.
Alle Tesmoforie le donne erano addirittura al centro del
rituale sacro, al punto che per i tre giorni della ricorrenza,
esse s’impadronivano provvisoriamente dello spazio politico
abbandonato dagli uomini i quali, per lo stesso periodo di tempo,
non sedevano né nei tribunali né nel consiglio73.
Le Tesmoforie erano una festa della seminagione che si teneva
una volta l’anno, in autunno, in onore di Demetra e di sua figlia
Core, per celebrare i misteri della fecondità e della nascita.
Demetra Tesmefora, infatti, oltre che detentrice delle leggi familiari
(ϑεσμός), era la divinità che vegliava sulla perpetuazione dei
cittadini per mezzo della fecondità delle donne, e che assicurava
il nutrimento e la prosperità degli uomini favorendo la fertilità del
territorio coltivato.
Non a caso al rituale erano ammesse solo le spose legittime
73
L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in Storia
delle donne, 389.
61
Indice
dei cittadini, al punto che la partecipazione ad esse bastava a
dimostrare, davanti ai tribunali, la legittimità di una unione.
Padrone della nascita e per questo in contatto con le forze
più segrete, le donne erano le intermediarie obbligate nella
celebrazione dei misteri della fecondità e del rinnovamento della
vita. Il culto delle divinità, per la maggior parte femminili, che
presiedevano al benessere degli uomini e della città esigeva la
loro presenza, anche se questa avveniva sempre all’insegna del
controllo e dell’intervento maschile.
Le donne erano inoltre escluse dal sacrificio cruento e dalla
spartizione delle carni, momenti fondamentali di ogni rituale
religioso che rimasero sempre una prerogativa maschile.
L’errore delle dottrine tradizionali, troppo propense a procedere
per conclusioni e generalizzazioni, sta nell’aver esteso la reclusione
e l’esclusione a tutte le donne della πόλις indiscriminatamente,
mentre in realtà la loro condizione variava non solo in base all’età,
ma soprattutto a seconda della ceto sociale cui appartenevano.
A ben vedere, la segregazione rappresentava un “lusso”
delle classi più elevate: nelle famiglie povere, che non potevano
permettersi di mantenere degli schiavi, anche le donne libere erano
costrette ad uscire più volte di casa per le elementari necessità
quotidiane, tra cui, prima di tutto, quella di andare a prendere
l’acqua alle fontane pubbliche.
Le pitture vascolari ci offrono diverse immagini di donne intente
62
Indice
alla raccolta e all’approvvigionamento dell’acqua: la fontana
appare quindi come un luogo d’incontro tra donne, una sorta di
corrispettivo femminile della piazza pubblica per gli uomini74.
Quando poi le necessità economiche erano urgenti, le donne
praticavano anche attività lavorative che implicavano una vita di
relazioni fuori della casa.
Demostene racconta che, in seguito ai disagi provocati dalla
guerra del Peloponneso, molte cittadine ateniesi furono costrette
a divenire nutrici, vendemmiatrici, venditrici di nastri nell’aγορά.75
Le testimonianze epigrafiche mettono in scena una folla
variopinta di venditrici: d’incenso, miele, sesamo, sale, abiti, ecc.
Di alcune di esse sappiamo con certezza che erano affrancate, per
altre rimane il dubbio se fossero meteche o libere, anche se, in
genere, il lavoro non era mai ricordato nelle epigrafi delle cittadine.
Sappiamo però che esisteva un’άγορά γυναικών, una sezione
del mercato in cui personale femminile vendeva articoli di uso
femminile ove la presenza di cittadine appare marginale, seppure
talvolta attestata76.
Va tenuto presente, in ogni caso, che l’etica del tempo non
attribuiva al lavoro valori identici a quelli della nostra cultura
moderna: in una società schiavista come l’Atene del V secolo il
lavoro era persino respinto dai cittadini, la cui sola occupazione
74
75
76
F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, 219.
Demostene, LVII, 45, cf I. Savalli, La donna, 80.
S. Campese, Madre materia, 76.
63
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doveva essere la politica.
In base alla morale greca valori che noi percepiamo come positivi
quali l’impegno, il lavoro, l’utilità, erano classificati sotto la tabella
della schiavitù mentre altri che possono sembrarci negativi, quali
l’ozio, l’inerzia, sotto quella della libertà.
In una sua commedia Aristofane, volendo denigrare Euripide,
sostiene che sua madre era un’erbivendola, una povera
στεφηνοπρόκλος (venditrice di corone) vedova di guerra e con tre
bocche da sfamare77.
Lo svolgimento di certe attività lavorative, correntemente
assimilate al lavoro servile, era sufficiente ad ingenerare il sospetto
che lo status delle donne che lo praticavano non fosse quello di
cittadine ma di straniere o di schiave.
Nell’orazione in Eoboulidem, attribuita a Demostene, la madre
dell’accusato, un certo Euxitheos, coinvolto in un poco chiaro
processo di usurpazione della cittadinanza, è sospettata di essere
una meteca perché in passato aveva svolto lavori umili come quello
di nutrice.
Allora Euxitheos invoca a sua difesa il fatto che dai registri non
risulta che essa abbia mai pagato la tassa sul mercato propria dei
meteci ed invita i giudici a non considerare i lavoratori come degli
stranieri ma, piuttosto i sicofanti come gente disonesta78.
77
78
Aristofane, Thesmoforiazuse, 387.
Demostene, LVII, 32, cf I. Savalli, La donna, 87.
64
Indice
2.7. Figure femminili irregolari: sacerdotesse ed etère
In una posizione particolare rispetto alle donne spose e madri
erano sicuramente le sacerdotesse. Di status cittadino e ben
rispettabile, nel periodo arcaico obbligatoriamente di estrazione
nobile, esse potevano essere sia sposate (abbiamo notizia di
sacerdozi assunti parallelamente da un sacerdote e sua moglie),
che παρqένοι, ossia giovinette non ancora maritate.
In molti casi, infatti, le più giovani venivano impiegate in culti
relativi all’adolescenza e al passaggio nell’età adulta, i quali avevano
una durata limitata nel tempo e, in genere terminavano con il
matrimonio delle fanciulle.
Certi rituali arcaici, come quelli di Eracle a Tespi, in Beozia,
esigevano, al contrario, la presenza di sacerdotesse vergini a vita.
Per tutta la vita o per un periodo limitato, queste sacerdotesse
non sposate andavano, comunque, contro quella incompiutezza così
altamente riprovata nelle fanciulle “normali” restie al matrimonio.
Esse costituivano, in altre parole, un’eccezione alla famosa regola
panellenica secondo la quale per gli uomini e le donne il solo
compimento era il matrimonio (τέλος ov γάμος)79.
Nell’attribuzione dei sacerdozi le donne non pativano alcuna
discriminazione: secondo una prassi generale nel mondo grecoromano le divinità maschili richiedevano per lo più sacerdoti, quelle
femminili sacerdotesse.
79
G. Arrigoni, Le donne in Grecia, Roma-Bari 1985, nota introduttiva.
65
Indice
Le sacerdotesse rivestivano, al pari dei sacerdoti maschi, una
carica pubblica (ereditaria, sorteggiata o comprata) che comportava
diverse occasioni di partecipare alla vita sociale, un’innegabile
possibilità d’influenza, persino certi poteri giurisdizionali e numerosi
altri privilegi.
La sacerdotessa di Demetra Camỳne, ad Olimpia, per fare solo
un esempio, era l’unica donna autorizzata a partecipare come
spettatrice alle Olimpiadi maschili, stando comodamente seduta su
un seggio posto di fronte a quelli dei giudici80.
Quindi all’ineguaglianza di trattamento di fronte al politico
corrispondeva, almeno a prima vista, una ripartizione egualitaria
degli onori e delle responsabilità nel campo religioso.
Non va dimenticato infatti che erano i cittadini-uomini ad
eleggere o estrarre a sorte le sacerdotesse. Quando poi la pratica
dell’acquisto dei sacerdozi si generalizzò specie per i santuari
dell’Asia Minore, gli uomini potevano acquistare il sacerdozio per
sé o per una donna mentre le donne potevano comprare solo per
sé.
Nei decreti onorifici, inoltre, veniva sempre menzionato il
padre, il marito o chiunque fosse il κύριος della sacerdotessa,
a dimostrazione che l’assunzione di un ufficio religioso non
sospendeva affatto la tutela81.
80
Pausania, VI, 20, 9, cf L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali
nelle città, in La storia delle donne, 417.
81
I. Savalli, La donna, 94.
66
Indice
Infine, anche se le sacerdotesse ricevevano la loro parte d’onore
nella distribuzione che seguiva i sacrifici, il divieto del sangue
faceva sì che se nelle loro funzioni dovevano offrire e consacrare un
sacrificio cruento, non potevano compiere loro il gesto della messa
a morte.
Un’altra categoria di donne che in qualche modo si sottraeva alle
norme vigenti e condivise da tutti erano le cortigiane di lusso, le
c.d. etère.
In un celebre passo dell’orazione Contro Neera, tramandata
sotto il nome di Demostene, l’autore afferma che l’uomo ateniese
poteva avere tre donne:
«…le etère per il piacere, le concubine per il servizio quotidiano,
le mogli per generare figli in modo legittimo e avere una custode
fidata delle nostre proprietà»82.
Le etère erano cortigiane non volgari né illetterate che, di solito,
venivano ingaggiate per allietare le riunioni simposiali. Il simposio,
cioè il bere insieme che generalmente seguiva il pasto vero e
proprio, rappresentava un momento di convivialità maschile in cui
si ci riuniva tra amici per parlare e stare in allegria, e dal quale erano
categoricamente escluse sia le mogli che le concubine.
Le etère rappresentavano, quindi, una specie di rimedio
organizzato da una società di uomini che, pur avendo segregato le
82
Pseudo Dem., Contro Neera, 122.
67
Indice
donne, riteneva tuttavia che la compagnia di alcune di esse potesse
rallegrare le attività sociali83.
Esse intrattenevano i convitati non solo con passatempi erotici
ma anche con la musica, la danza e persino prendendo parte a
quelle discussioni che le mogli non dovevano né erano in grado di
sostenere.
Non vanno perciò confuse con le volgari prostitute che si
concedevano per pochi spiccioli nelle case di tolleranza e che
venivano comunemente definite con il termine dispregiativo di
πόρναι, un derivato del verbo πέρνημι, vendere, per richiamare il
commercio che veniva fatto del loro corpo.
Questo tipo di prostituzione “a basso costo” pare fosse stato
introdotto in Atene da Solone il quale, volendo dissuadere i giovani
scapoli dall’intrecciare inopportune relazioni amorose con donne
di buona famiglia, specie se sposate, avrebbe fatto comperare
numerose ragazze di condizione servile per poi sistemarle in
apposite case, sorvegliate e gestite da donne a ciò preposte84.
Le cortigiane di un certo rango, al contrario, ricevevano
l’eufemistico appellativo di eταίραι, vale a dire “compagne”, termine
che poteva essere usato anche in senso onesto per designare
l’amicizia tra due donne.
Colte, esperte nell’arte della conversazione, sofisticate e
83
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 49.
84
E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti. Femminilità irregolare in Grecia
e a Roma, Milano 1999, 17.
68
Indice
seducenti, esse vivevano della liberalità dei loro amanti. Per
elevarsi nella gerarchia sociale facevano mostra delle loro qualità
personali e, non di rado avveniva che intrecciassero relazioni stabili
con singoli uomini e ne avessero figli.
Talune etère, dotate di bellezza ma anche di spirito e vivacità
intellettuali non comuni, divennero famose per i loro legami con
personaggi illustri: poeti, filosofi e anche uomini politici. Ricordiamo
Aspasia, compagna di Pericle, accusata di empietà dagli avversari
dell’illustre uomo politico e appassionatamente difesa proprio
da costui; Laide, l’etèra di Corinto, per la cui bellezza leggendaria
gli uomini erano disposti a spendere somme esorbitanti; Frine,
amante di Iperide, celebre soprattutto per il colpo di scena grazie al
quale fu assolta anch’essa da un’accusa di empietà; e molte altre.
È importante notare come i due processi che videro accusate
Aspasia e Frine, insieme alla già citata orazione “Contro Neera”,
siano le uniche testimonianze di procedimenti giudiziari nei
confronti di donne greche.
Tre sole imputate, dunque, e tutte e tre straniere e cortigiane, a
riprova, ancora una volta, del fatto che le donne di nascita libera,
soprattutto se di ceto elevato, erano escluse non solo dalla vita
pubblica ma da ogni diritto civile e politico, quindi anche della
capacità processuale85.
85
E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti, 24.
69
Indice
2.8. Le donne a Sparta
Questa era, dunque, per sommi capi, la condizione delle donne
nella città di Atene. Ma cosa accadeva presso le altre πόλεις greche?
Purtroppo la scarsità di testimonianze non ci permette di valutare
a pieno la varietà e la ricchezza dell’esperienza ellenica.
Sappiamo però che a Sparta e nelle altre città doriche una
diversa struttura sociale, ponendo al centro del sistema l’integrità
del gruppo cittadino e non quella del gruppo familiare, non poteva
che favorire uno status femminile più libero.
In società in cui la proprietà privata era per lo più interdetta e
la vita matrimoniale e familiare assai ridotta, veniva a mancare
la necessità stessa di quel confinamento domestico che tanto
condizionava l’esistenza delle donne ioniche.
Pur volendo abbandonare certe standardizzazioni antinomiche
estreme tra le due più importanti πόλεις greche (è noto, infatti,
che il regime spartano fu dai Greci idealizzato e contrapposto a
quello ateniese), va riconosciuto che le Lacedemoni conobbero una
condizione giuridica e sociale particolare.
Le fonti antiche insistono spesso sull’originalità dell’educazione
delle giovani Spartane, che venivano istruite collettivamente dalla
città “alla maniera dei ragazzi”86.
Ad esse infatti non venivano insegnate le tradizionali attività
86
B. Nadine, Femme et société, 37.
70
Indice
femminili - le spartane erano esentate dagli eργα γυναικìν in
quanto considerati lavori servili nonché sinonimo di vita sedentaria
- ma la loro istruzione verteva soprattutto su due discipline: i canti
corali e le prove ginniche.
A Sparta l’attività musicale e corale riguardava in egual misura sia
le donne che gli uomini. Anche se il contenuto di questi canti rimane
poco conosciuto, si può supporre che la loro funzione fosse quella
di favorire la coesione del gruppo attraverso l’assimilazione e la
ripetizione di concetti legati a valori civici, codici di comportamento,
racconti mitici,…
Per quanto riguarda l’attività ginnica, numerose testimonianze
narrano di spartane che praticavano prove di corsa e di forza, lancio
del disco e del giavellotto.
Esaltata dai socratici e, più dettagliatamente, da Senofonte, la
ginnastica femminile fu però oggetto di severe critiche per la tenuta
sportiva delle atlete e per la promisquità con i maschi. Le ragazze
più giovani e non sposate, infatti, indossavano una versione mini
del tradizionale chitone tipico spartano, il chitone scisso (χιτών
σχιστός), che nel camminare scopriva tutta la coscia.
Teocrito87 racconta, inoltre, che le compagne della mitica Elena,
futura sposa di Menelao, si ungevano d’olio come gli uomini prima
di correre, lasciando così intendere che, come i coetanei maschi,
anche le femmine in alcune occasioni gareggiavano nude.
87
ne, 72.
Teocrito, Idillio 18, Epitalamio di Elena, 22-23, cf G. Arrigoni, Le don71
Indice
Messa spesso in parallelo con l’aγωγή maschile, l’educazione
femminile spartana è stata per lungo tempo interpretata come un
suo adattamento, che serviva a trasformare le fanciulle in una sorta
di “ragazzi mancati”. Ma a dispetto delle similitudini la παιδεία
femminile va distinta da quella maschile perché gli obiettivi erano
diversi: le attività sportive femminili non servivano a preparare le
donne al combattimento ma a forgiare belle e vigorose fanciulle
che, esibendosi pubblicamente in occasione delle feste, fossero
pronte a suscitare il desiderio degli uomini. Assieme alla danza e
alle attività corali, la ginnastica femminile rappresentava cioè un
momento di socializzazione.
A Sparta, oltretutto, vigeva il culto della forza e della volontà e
la pratica sportiva femminile serviva ad irrobustire i giovani corpi
educando alla resistenza e al coraggio.
Stando alle affermazioni di Senofonte, fu Licurgo, mitico
legislatore spartano del VII secolo a.C., ad introdurre l’agonistica
femminile affinché le donne, esercitando il loro corpo, potessero
generare figli più sani e forti e sopportare meglio i dolori del parto88.
Non è certo casuale che le ragazze spartane si sposassero non
quando erano piccole e immature, ma nel momento della loro
ακμή fisica.
La ginnastica era considerata pertanto non un passatempo
generico ma un dovere funzionale alla πόλις, in quanto serviva a
88
G. Arrigoni, Le donne, 66ss.
72
Indice
garantire la continuità e l’eccellenza dei guerrieri spartani.
Anche a Sparta, quindi, il principale compito delle donne
continuava ad essere quello di mettere al mondo nuovi cittadini
in vista della conservazione della comunità. Ma qui l’opera di
procreazione, la τεκνοποιία, veniva considerata una sorta di
servizio pubblico, che gli Spartani equiparavano solo alla funzione
militare del guerriero: le donne che morivano dando vita a un
discendente beneficiavano di un riconoscimento pubblico postumo
- l’innalzamento di una stele commemorativa - onore che dividevano
solo con i cittadini morti in battaglia89.
L’importanza accordata dagli Spartani alla procreazione può
servire a chiarire certi aneddoti sulla loro presunta consuetudine
di dare in prestito le mogli.
Plutarco90, ad esempio, sostiene che un uomo anziano con una
moglie giovane poteva sceglierle un partner in modo da procurarsi
un erede e, nello stesso modo, un uomo la cui moglie fosse sterile,
poteva chiedere ad un uomo con figli la moglie per procreare un
figlio per se.
Secondo Polibio91, poi, la stessa moglie poteva essere condivisa
da tre o quattro uomini o anche più, se si trattava di fratelli, e i figli
erano comuni.
Di certo il ruolo riproduttivo non rendeva le donne spartane
89
90
91
B. Nadine, Femme et société, 128.
Plutarco, Licurgo, XV, 6-8, cf I. Savalli, La donna, 52.
Polibio, XII, 6, cf B. Nadine, Femme et société, 66.
73
Indice
inferiori o sottomesse ma, al contrario, sanciva la loro appartenenza
alla comunità pubblica e conferiva loro un potere che, secondo
Plutarco, giustificava l’autorità che esse esercitavano sui mariti.
Educate fuori casa, abituate a vivere all’esterno e a frequentare
stadi e palestre, le Spartane erano considerate dagli altri Greci
donne dai costumi sessuali liberi e addirittura sfrenati.
Ad esser criticata era soprattutto la loro competitività con i
mariti perché «comandavano con potere politico sulla casa e nelle
faccende pubbliche, prendendo parte alle decisioni e adottando
libertà di parola riguardo alle cose più grandi»92.
Anche se non partecipavano al governo della città, non
contribuivano alla sua difesa né intervenivano al συσσίτιον, il
banchetto comune quotidiano dei cittadini, «qual è in fondo la
differenza» notava polemicamente Aristotele «tra un governo
esercitato dalle donne e un governo esercitato da uomini governati
essi stessi dalle donne?»93.
La discordanza delle fonti antiche, divise tra detrattori ed
apologisti del regime spartano, non permette di ricostruire con
certezza la posizione e il ruolo delle donne nella sfera pubblica.
Di sicuro le Spartane erano più attive politicamente di quanto
non lo fossero le Ateniesi anche se, quasi certamente, la loro
partecipazione alla πολιτεία avveniva in maniera indiretta.
92
93
G. Arrigoni, Le donne, 71.
Aristotele, II, 9-1269 b.
74
Indice
Sappiamo, ad esempio, che, in occasione della nomina di un
geronte, esse non prendevano parte alla decisione vera e propria,
ma le loro acclamazioni avevano valore di approvazione ed erano
necessarie quindi alla buona riuscita del processo elettivo. Esse
rappresentavano cioè una frazione dell’opinione pubblica, il cui
compito, quasi certamente, era quello di favorire il rispetto dei
valori civici e dei codici di comportamento tradizionali.
Ma il più sicuro indizio dell’elevato grado di libertà di cui
godevano le donne di Sparta restano le testimonianze relative al
loro potere economico.
A differenza di quanto accadeva ad Atene, a Sparta le donne
avevano diritto all’eredità, totale nel caso dell’ereditiera, o parziale
nel caso della comune donna sposata.
Le doti, proibite in epoca arcaica da Licurgo e reintrodotte
più tardi, divennero col tempo assai ingenti e sempre più spesso
costituite da proprietà terriere cosicché, già nel IV secolo, i due
quinti della terra appartenevano alle femmine94.
Numerosi sono nei testi antichi gli accenni a donne spartane
molto ricche.
Plutarco95 racconta che nel III secolo a.C. furono proprio le donne
ad opporsi ad un progetto di riforma di Agis IV perché non volevano
perdere il prestigio e la potenza che procurava loro la ricchezza.
94
95
I. Savalli, La donna, 65.
Plutarco, Agis, 7, 5, cf I. Savalli, La donna, 66.
75
Indice
Ma lo strapotere economico femminile comportò fatalmente
uno squilibrio nella ripartizione delle terre, il che unitamente ad
una legge, attribuita ad Epitadeo, la quale annullava l’antico divieto
di vendere il κλέρος permettendo ai cittadini di alienare la casa e
il terreno tramite dono o testamento, decretò la concentrazione
delle proprietà nelle mani di pochi ricchi e, di fatto, la rovina del
sistema spartano.
2.9. A Gortina
Anche nell’aristocratica Gortina la famiglia rappresentava un
elemento trascurabile nella vita dei cittadini i quali, dopo un
periodo di formazione militare nelle γέλαι, entravano a far parte di
quelle ταιρίαι che fornivano alla πόλις le forze oplitiche necessarie
alla sua difesa, o dell’aνδρεον, il tradizionale pasto comune degli
uomini a Creta.
La struttura sociale di Gortina, come quella spartana, era
caratterizzata da una netta separazione tra la vita militare maschile
e la vita familiare femminile e ciò assicurava alle donne una larga
autonomia nella sfera domestica e, più in generale, in quella
economica.
Dalla grande epigrafe rinvenuta alla fine del XIX secolo d.C.
sappiamo che le donne della città erano titolari di diritti patrimoniali
dei quali disponevano liberamente e senza l’assistenza di alcuno.
Esse erano, cioè, proprietarie dei beni che avevano ricevuto in
76
Indice
dote o in eredità e questo loro diritto era rigorosamente protetto
dalla legge contro ogni possibile prevaricazione dei κύριοι: i mariti
non potevano vendere o ipotecare le proprietà delle mogli né i figli
quelle delle madri; in caso di divorzio, poi, esse conservavano la
propria dote, la metà di quando avevano prodotto tessendo, nonché
i doni che i mariti avevano fatto loro in presenza di testimoni96.
Ogni gruppo domestico fondato in modo legittimo comprendeva
perciò dei beni paterni (πατρώια) e dei beni materni (ματρùα), che
restavano separati per poi essere destinati ai figli.
Le figlie ricevevano la loro quota di eredità o al momento del
matrimonio o alla morte dei genitori. Esse avevano diritto alla
metà circa della parte che spettava ai maschi, ad esclusione degli
immobili, del loro contenuto e del bestiame grosso, che erano
sempre riservati ai figli. Solo se il patrimonio familiare era costituito
esclusivamente da beni immobili le femmine avevano diritto ad
una parte di essi.
Quando non v’erano eredi maschi l’ereditiera, detta πατροικος,
doveva sposare il più prossimo parente, ma i soli pretendenti
(πιβάλλοντες) erano gli zii paterni o, in assenza di questi, i cugini
germani.
Se però l’eπιβάλλον sceglieva di non sposare la πατροικος, l’intera
proprietà apparteneva alla donna. Anche l’ereditiera poteva però
rifiutarsi di sposare l’avente diritto e, in tal caso, essa riceveva la
96
B. Nadine, Femme et société, 116.
77
Indice
casa mentre il resto della proprietà era divisa tra lei e l’eπιβάλλον.
In assenza di eπιβάλλοντες l’ereditiera poteva scegliere di sposare
chi voleva entro la tribù paterna; se nessuno della suddetta tribù
voleva sposarla, i congiunti materni la proponevano in matrimonio
all’interno della propria tribù e, passati trenta giorni dal bando,
se nessuno si presentava, la πατροικος era libera di sposare chi
poteva.97
Quindi, in definitiva, a Gortina l’ereditiera aveva la possibilità
di scegliersi il marito, un privilegio dovuto probabilmente al fatto
che nella città l’unità larga della tribù prevaleva su quella della
famiglia, facendo venir meno la necessità di assicurare un erede
maschio all’eredità paterna. L’ereditiera era, in tal caso, l’effettiva
proprietaria dell’eredità insieme ai suoi figli da chiunque li avesse
avuti.
A Gortina la donna era una cittadina, anche se il suo sesso la
escludeva dalle pratiche collettive in cui la politica era immersa
(pasti comuni, riunioni nell’αγορά, guerra), e il suo statuto era
dovuto alla nascita, non al suo matrimonio o alla sua maternità98.
Tuttavia anche qui non mancavano le restrizioni: le donne
non avevano, ad esempio, la libertà di fare testamento e la loro
proprietà era rigorosamente trasmessa ai figli, non potevano
scegliere altri eredi tramite l’adozione e, addirittura, non potevano
97
I. Savalli, La donna, 56-57.
98
C. Leduc, Come darla in matrimonio?La sposa nel mondo greco, secoli
IX-IV a.C., in Storia delle donne, 280.
78
Indice
usufruire di lasciti testamentari del valore superiore ai cento stateri
da parte dei mariti senza che questi avessero ottenuto il consenso
preventivo degli eredi99.
2.10. Nell’età ellenistica
Una concreta evoluzione nelle condizioni di vita femminili si
verificò, per lo meno nel diritto privato, soltanto in epoca ellenistica.
A questo punto però il panorama storico e geografico si complica
e s’ingrandisce, mentre la documentazione sulle famiglie diventa
pressoché nulla per le πόλεις e più abbondante per l’Egeo, l’Asia
minore e l’Egitto.
Già verso la metà del IV secolo a.C. le fondamenta delle antiche
πόλεις greche erano irrimediabilmente minate e gli stessi equilibri
fra le singole città-stato risultavano estremamente precari. Il
mondo greco si avviava verso nuove forme di governo basate
sulla centralizzazione del potere e sull’allontanamento dei singoli
cittadini dalla vita politica.
La stessa Atene, con le sue tradizioni democratiche, ben poco
poté fare contro la potenza militare del regno macedone e contro
le mire egemoniche ed imperialistiche del re Filippo II.
La fine della libertà ateniese non si verificò tuttavia per opera
di Alessandro, bensì dei suoi successori: furono infatti le truppe di
99
U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 495ss.
79
Indice
Antipatro a soffocare nel sangue la rivolta antimacedone cui Iperide
e Demostene avevano istigato i cittadini ateniesi dopo la morte del
re100.
Ma è proprio dalla morte di Alessandro Magno, avvenuta nel
323 a.C., che per convenzione si fa iniziare l’età ellenistica, un
periodo storico-culturale caratterizzato da profondi cambiamenti
nelle visioni politiche, filosofiche e scientifiche, nelle forme
dell’espressione artistica e nelle concezioni di vita.
Con la fine delle città-stato e la creazione dei grandi regni
monarchici lo scenario politico greco subì dei cambiamenti radicali
che si ripercossero anche sulla vita privata delle persone.
Esclusi dalla partecipazione alla vita dello Stato, dispersi nella
vastità di grandi regni o comunque soggetti all’autorità di un potere
centrale, i singoli cittadini si ripiegarono progressivamente sulla
sfera del privato.
Sorsero così nuovi indirizzi filosofici, come lo Stoicismo e
l’Epicureismo, che rivolgevano la massima attenzione all’uomo nei
suoi risvolti e rapporti quotidiani.
Al rigido razzismo e classismo della tradizione classica si
sostituirono sentimenti di benevolenza e filantropismo, mentre la
letteratura (con le commedie di Menandro, le poesie di Teocrito,
i poemetti di Callimaco ecc.) cantava le passioni degli uomini e i
piccoli grandi affanni della loro esistenza.
100
E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti, 64.
80
Indice
In questo periodo anche le donne videro crescere la stima nei
loro confronti, ampliarsi le possibilità di partecipare alla vita sociale
ed estendersi sensibilmente il campo delle loro capacità giuridiche.
Esse potevano liberamente comprare e vendere mobili ed immobili,
costituire ipoteche sui propri beni, concedere ed ottenere prestiti,
assumere obblighi di lavoro, fare testamento ecc.101.
Solo per l’assunzione di obbligazioni era ancora necessario
l’assenso del proprio tutore.
In alcuni casi le donne potevano addirittura concludere
personalmente il loro contratto di matrimonio; le vedove, poi,
esercitavano sui figli una materna potestas assai estesa che non
solo le obbligava al loro mantenimento ma consentiva loro di
esporre i figli nati postumi, di collocarli come apprendisti e di dare
le figlie in moglie.
Sebbene l’analfabetismo continuasse ad essere più diffuso tra
le donne che tra gli uomini, la cultura femminile era in aumento,
soprattutto in certe aree del mediterraneo, né mancavano casi di
donne che, in situazioni diverse, esercitavano un potere politico:
Olimpiade, la madre di Alessandro Magno, le regine egiziane, ecc.
E, se pure persistevano situazioni di sottoposizione al potere
maschile (la pratica dell’esposizione riguardava soprattutto le
femmine, vigeva ancora il diritto del padre di interrompere il
matrimonio della figlia ecc.), l’ormai mutato clima sociale faceva si
101
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 98.
81
Indice
che questi abusi fossero visti con sfavore e quindi contestati.
Nel complesso si può dire quindi che le donne greche dell’età
ellenistica godettero di maggiore libertà e considerazione delle loro
antenate e anche se talvolta riaffiorava l’antica misogenia questa
non era più espressione di una società che escludeva le donne ma
di una società che vedeva vacillare le proprie certezze ed i propri
poteri102.
102
E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 105.
82
Indice
Capitolo III
Il matrimonio in Grecia
3.1. L’importanza del dispositivo matrimoniale quale rivelatore
dei meccanismi della società
Ogni società umana, nel corso della sua storia, elabora una
serie di meccanismi che le permettono di riprodursi attraverso le
generazioni, conservando la propria identità e il proprio equilibrio.
Le norme che regolano l’istituto matrimoniale e, attraverso di esso,
la circolazione delle donne all’interno del gruppo, giocano un ruolo
essenziale in questo processo.
L’unione legittima tra un uomo e una donna, lungi dall’essere un
fatto privato, ha molteplici incidenze sociali ed economiche poiché
tocca elementi fondamentali della vita degli individui e del gruppo:
la sessualità, l’istinto riproduttivo, i codici comportamentali, i valori
riconosciuti, il costume.
La scelta delle disposizioni legali e la loro messa in pratica, le
tradizioni legate al matrimonio incarnano i valori, la mentalità e la
cultura di un popolo.
Non a caso tutta la comunità si interessa ad un avvenimento
che è in grado di creare legami nuovi tra gruppi, di influire
sulla distribuzione dei beni, sugli statuti delle persone, o sulla
composizione stessa del corpo civico visto che, generalmente, i
83
Indice
concetti di nazionalità e legittimità risultano connessi103.
Per tutti questi motivi, lo studio del matrimonio nella Grecia
antica rappresenta un’efficace via d’accesso per penetrare nei
meccanismi di un sistema complesso come quello ellenico.
Proprio nell’ambito delle pratiche matrimoniali, infatti,
è possibile misurare meglio l’ampiezza delle trasformazioni
apportate dall’avvento delle città-stato. La nascita delle πόλεις e
la concomitante scomparsa della regalità, favorì il manifestarsi di
comunità rigidamente chiuse che, pur nella varietà di modelli sociopolitici, richiesero una riorganizzazione dell’istituto matrimoniale
ereditato dai secoli oscuri.
Per i suoi stretti legami con i concetti di alleanza, legittimità e
riconoscimento sociale, infatti, il matrimonio metteva in gioco
una pluralità di fattori essenziali per la sopravvivenza di tutte le
πόλεις elleniche: il perpetuarsi delle famiglie e della collettività, la
devoluzione ereditaria, la cittadinanza dei nuovi nati, la coesione
del gruppo.
3.2. In età arcaica
Secondo Aristotele104 durante l’età arcaica il matrimonio aveva
la forma di una compra-vendita della sposa e, a dire il vero, il
103
A.M. Vérilhac-C. Vial, Le mariage grec du VI siècle av.J.-C. à l’epoque
d’Auguste, Atene 1998, 9ss.
104
Aristotele, Politica, II, 1268 b, cf U.E. Paoli, voce Matrimonio, in E.I.,
vol. XXII, 578.
84
Indice
confronto con le usanze degli altri popoli indio-europei parrebbe
confermarlo.
Ma se è possibile supporre l’esistenza del matrimonio per
compera nei tempi più remoti, di certo durante età eroica delle
antiche consuetudini non rimanevano che poche tracce.
Negli ambienti aristocratici raccontati da Omero, l’unione
coniugale aveva origine, come in epoca classica, dalla promessa del
padre della fanciulla di dare la propria figlia in sposa alla persona
da lui prescelta.
È vero che in occasione delle nozze lo sposo faceva numerosi doni
al padre della sposa, ma questi più che una forma di pagamento,
erano parte di un sistema di prestazioni reciproche tra le due
famiglie.
Le stesse nozze, d’altronde, si inserivano in un circuito di
commercio sociale tra grandi famiglie nobili in quanto servivano a
suggellare l’alleanza tra due case, attraverso uno scambio di doni
all’interno del quale la sposa era solo uno dei valori in circolazione105.
La sposa (κουρίδια aλοχος letteralmente legittima compagna
di letto), era colei che l’uomo portava nella propria casa affinché
condividesse il suo talamo, e la formula più ufficiale per condurre
una donna in casa propria era quella di ottenerla dai suoi genitori
versando loro, in contraccambio, gli eδνα, regali innumerevoli, e
offrendo alla fanciulla i δwρα, doni stupendi.
105
J.P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino 1981, 56.
85
Indice
Il padre della ragazza, dal canto suo, dava in sposa la figlia
aggiungendo i μείλια, doni che hanno la dolcezza del miele, i quali
servivano ad indicare che la fanciulla non era uno scarto e che la
sua famiglia non la rifiutava106.
Era proprio questo scambio di beni a stabilire una distinzione
assoluta tra la sposa, data come dono grazioso, e la concubina
comperata, la prigioniera ottenuta come bottino dopo la battaglia,
rapita in una razzia o in una impresa piratesca.
Solo la donna ottenuta secondo le regole metteva al mondo figli
legittimi (γνήσιοι), gli unici che avevano diritto alla successione;
i figli illegittimi (νόοι), pur vivendo nella casa del padre, alla sua
morte ricevevano la “quota del bastardo”, cioè non una porzione
del patrimonio, che veniva diviso in parti uguali tra i figli legittimi,
ma uno o più beni determinati.
In realtà le infedeltà del marito avevano un ruolo ben preciso
nella politica familiare, in quanto evitavano un eccesso di figli
legittimi e, quindi, una eccessiva frantumazione del patrimonio.
Inoltre la presenza di un figlio naturale poteva tornare utile per
sostituire l’erede nel caso in cui questi morisse. Se poi la sposa
non riusciva a dare al marito un maschio, questi poteva essere
riconosciuto dal padre come suo erede legittimo.
La gerarchia delle posizioni femminili presso il padrone di casa,
dipendeva in larga misura dalla τιμή, cioè dall’onore che questi
106
C. Leduc, Come darla in matrimonio? La sposa nel mondo greco, secoli
IX-IV a.C., in Storia delle donne, 250ss.
86
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riconosceva loro: nell’Iliade, Agamennone paragona Criseide, cui va
la sua preferenza, alla sua sposa legittima, Clitemnestra107; Euriclea
viene comprata, ancora bambina da Laerte, ma per la sua origine e
per il prezzo che ha dovuto pagare per lei, questi la onora nella casa
come sua sposa108.
Ma nonostante la forte concorrenza esercitata dalle παλλακαί,
la legittima consorte ricopriva sempre una posizione di primo
piano nella casa del marito ed era l’unica ad avere una vita sociale
riconosciuta: l’uomo omerico doveva consentire solo alla moglie di
comparire al suo fianco nelle poche occasioni pubbliche alle quali
le donne erano ammesse. Né poteva trascurarla per la concubina:
Laerte che, come si è visto, era oltremodo invaghito di Euriclea, non
si unì mai a lei per evitare l’ira della moglie109.
Le case omeriche, dunque, si fondavano sul matrimonio
legittimo, e si perpetuavano imponendo il matrimonio legittimo.
La donna che veniva data da una casa ad un’altra casa come
sposa e madre legittima era considerata un essere sociale di grande
valore. Procurarsi una sposa di nobile stirpe significava tenerla
presso di sé come pegno d’accordo con potenti alleati, acquistare
prestigio, qualificare i propri figli e tutta la discendenza.
Una volta celebrato il matrimonio, la sposa non diveniva
proprietà del marito; questi poteva punirla o ripudiarla ma doveva
107
108
109
Omero, Iliade, I, 114
Omero, Odissea, I, 429 ss.
Omero, Odissea, I, 428 ss.
87
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stare molto attento a non suscitare la vendetta della sua famiglia di
origine, che continuava a proteggerla.
Marito e moglie abitavano in appartamenti separati: l’uomo in
genere al pian terreno, la donna al primo piano. La camera nuziale era
quella dello sposo. Nel palazzo di Ulisse essa si trova al pianterreno,
mentre la stanza di Penelope è situata sulla terrazza che ricopre il
μέγαρον, la sala d’onore dove si tenevano i banchetti110.
I coniugi non mangiavano insieme e le donne non era ammesse
ai banchetti nel μέγαρον, ma appena gli uomini avevano finito di
mangiare e banchettare, esse li raggiungevano e prendevano parte
alla conversazione liberamente. Così fa, ad esempio, Arete che
presiede l’assemblea riunita per ascoltare il racconto di Ulisse111.
Grazie al suo statuto coniugale la sposa rappresentava la casa del
marito e le sue virtù, soprattutto quelle delle dimore reali: suo era
il privilegio di perpetuare e trasmettere la sovranità. Nell’Odissea
Penelope come padrona di casa rappresenta la continuità del
focolare e per questo i Proci tentano di conquistare il trono di
Ulisse ottenendo, insieme alla mano della vedova, una sorta di
legittimazione al potere su Itaca112.
Per quanto riguarda gli usi nuziali, Omero113 ce ne offre una
descrizione abbastanza particolareggiata: la cerimonia delle nozze
110
R. Ricchi, Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e
nella tragedia attica, Firenze 1987, 20.
111
Omero, Odissea, VII, 145 ss.
112
I. Savalli, La donna, 42.
113
Omero, Iliade, XVIII, 126-131.
88
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vera e propria consisteva principalmente nel trasferimento della
sposa dalla casa paterna a quella del marito. Il trasferimento
era preceduto da un festoso banchetto (εivλαπίνε) offerto dal
padre della donna. Sopraggiunta la sera si formava un corteo di
familiari e giovani che cantando, danzando e recando fiaccole,
accompagnavano il carro su cui aveva preso posto la sposa.
L’impiego del matrimonio quale strumento di alleanza proprio
degli ambienti aristocratici dell’età eroica sopravvisse anche in
epoca successiva, presso quei personaggi eccezionali e un po’
al margine della città che furono i tiranni, quasi a sottolineare
l’arcaicità e la distanza di questi individui rispetto ai valori della
πόλις democratica.
Sappiamo ad esempio che ancora alla fine del V secolo, a
Siracusa, Dioniso il Vecchio sposò nello stesso giorno due donne,
una di Siracusa stessa, l’altra di Locri, o che Pisistrato, nel VI secolo,
prima di unirsi alla figlia di Megacle, prese in moglie Timonassa,
una Agiva di nobile nascita114.
Ma si trattava comunque di eccezioni all’interno di una
compagine sociale profondamente mutata.
Con l’apparizione delle πόλεις, infatti, le unioni matrimoniali
non ebbero più lo scopo di stabilire relazioni di potere fra le grandi
famiglie sovrane, ma la loro funzione principale divenne quella di
perpetuare i focolari domestici che costituivano le città e garantirne
114
J. P. Vernant, Mito e società, 68.
89
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così la costante riproduzione.
Nelle società omeriche ogni casa era un’unità e la coesione del
corpo sociale era assicurata dalla casa del re, concepita come un
tutto che conteneva le case sottoposte ad essa.
Nelle πόλεις, invece, era la sovrapposizione delle case che saldava
il gruppo sociale e lo trasformava in un insieme indivisibile115.
Aristotele stesso definì la πόλις come una comunità umana
saldata dalla vita in comune, da un ideale morale condiviso e dalle
alleanze tra famiglie116.
Tutto ciò spiga la predilezione dei Greci per la c.d. endogamia
civica, vale a dire l’uso di contrarre matrimonio unicamente
all’interno della comunità cittadina, dovuto più che a sentimenti
di xenofobia o di rivalità tra πόλεις, al desiderio di unificare la
comunità moltiplicando i legami tra i suoi membri.
3.3. Nel diritto attico in età classica
Il principale fautore dell’endogamia ellenica è da ricercare,
tuttavia, nella regola della doppia filiazione adottata dalla maggior
parte delle πόλεις greche.
Ad Atene, ad esempio, fu soprattutto il decreto di Pericle del
451/450 a.C. a disincentivare i c.d. matrimoni misti limitando la
115
C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 269.
116
Aristotele, Polit., III, 1280 b, cf A.-M. Vérilhac – C. Vial, Le mariage
grec du VI siècle av. J.-C. à l’époque d’Auguste, Athèns 1998.
90
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cittadinanza ai soli figli di genitori avστόι.
Nella seconda metà del IV secolo, poi, questo tipo di unioni
coniugali vennero addirittura vietati da una legge che ci è nota
attraverso l’orazione Contro Neera, falsamente attribuita a
Demostene117.
Neera era una ex schiava che dopo aver praticato la prostituzione
a Corinto, era stata affrancata da un suo ricco cliente. Una volta
giunta ad Atene insieme ai suoi figli, aveva sposato un cittadino
ateniese, Stefano.
L’accusa principale riguardava, quindi, lo statuto di moglie
legittima che la donna non poteva ricoprire in quanto straniera.
Ma per provare che Neera era la sposa di Stefano e non una sua
amante, l’oratore afferma che Stefano aveva introdotto i figli della
donna nella comunità e, cosa ancor più grave, aveva dato in sposa
Fano ad un cittadino presentandola come sua figlia.
A questo punto lo pseudo-Demostene cita una legge della città
che vietava formalmente i c.d. matrimoni misti.
In base a questa norma se uno straniero, attraverso uno
stratagemma, sposava una donna ateniese, veniva venduto come
schiavo, i suoi beni erano confiscati ed un terzo di essi andava
all’accusatore. Se era una straniera a convivere come moglie con
un Ateniese, costei era soggetta alle stesse pene, mentre l’uomo
doveva pagare un’ammenda di mille dracme.
117
Pseudo-Demostene, Contro Neera, 16.
91
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Chiunque poi dava una straniera in matrimonio ad un Ateniese,
presentandola come sua parente, era condannato all’atimia e alla
confisca dei beni, un terzo dei quali andava all’accusatore.
Per divenire cittadino ateniese un individuo doveva essere
ammesso, tramite determinati riti, prima nell’οiκος paterno, poi
nella fratria, infine nella πόλις118. Ma per fare tutto ciò era necessaria
la certificazione della legittimità dell’unione matrimoniale dalla
quale egli discendeva. Solo un figlio nato da genitori entrambi
membri della civitas, uniti in nozze legittime, poteva vantare i
requisiti necessari a certificare la sua condizione.
Stranamente però l’atto matrimoniale, pur avendo così tante
ripercussioni sulla comunità civica, non esigeva né la partecipazione
né l’intervento di un rappresentante del potere pubblico, di un
magistrato o un sacerdote.
Il matrimonio non avveniva né attraverso una cerimonia religiosa
(esistevano naturalmente dei riti ma si trattava di riti di passaggio
o di fecondità), né per mezzo un atto giuridico, nel senso in cui lo
intendiamo ai giorni nostri, cioè di un atto dotato di una forma
fissa, compiuto in una cornice determinata e davanti ad un’autorità
ufficiale definita dalla legge119. Esso era un atto privato e come tale
aveva luogo esclusivamente all’interno della cerchia familiare.
I Greci parlavano poco della vita coniugale, lo dimostra il fatto che
non avevano un termine corrispondente al nostro “matrimonio”.
118
119
I. Savalli, La donna, 61.
A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 229.
92
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Aristotele, nella Politica120, si lamenta dell’assenza di un vocabolo
specifico per indicare la relazione tra marito e moglie ed è costretto
ad utilizzare γαμικός, un aggettivo derivato da γάμος, che però
designava la cerimonia delle nozze o al più l’unione sessuale, senza
essere peraltro riservato all’unione matrimoniale, tanto che veniva
utilizzato anche nel caso di adulterio o di violenza.
A dire il vero, nel greco antico non esistevano neanche i termini
“marito” e “moglie”: a parte i poetici πόσις e δάμαρ, per designare
i coniugi si usavano vocaboli generici indicanti l’uomo (avνήρ) e la
donna (γυνή).
Iscomaco, ad esempio, nella conversazione che gli attribuisce
Senofonte121, non nomina mai la sua sposa e quando è costretto a
menzionarla utilizza sempre la parola γυνή.
Questo non vuol dire naturalmente che mancasse il concetto di
“matrimonio”: l’unione coniugale legittima era uno stato di fatto,
foriero di numerose conseguenze, cui si perveniva attraverso il
compimento di una serie di atti complementari fino a giungere alla
tappa finale della coabitazione degli sposi.
In epoca classica il primo di questi atti era l’eγγύη o eγγύησις,
uno scambio verbale, accompagnato da gesti precisi, tra colui che
disponeva del potere di donare la donna in matrimonio e colui che
la riceveva come sposa.
120
121
Aristotele, Politica, 1253 b 9-10.
Senofonte, Economico, VII, cf I. Savalli, La donna, 104.
93
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Il verbo γγυάω significava letteralmente “mettere nel palmo della
mano” (γυή) ed è probabile che, almeno in origine, il padre della
sposa poneva la mano di sua figlia in quella del futuro genero122.
Le parole che accompagnavano questo semplice gesto ci sono
note soprattutto grazie alle commedie di Menandro dove, in più
occasioni, l’autore mette in scena la cerimonia dell’eγγυή.
Questo, ad esempio, nella Περικειρομένε (La fanciulla tosata)
è il dialogo tra il padre dell’eroina e colui che diverrà suo genero:
- Pateco (il suocero): «Ti dò mia figlia perché tu la fecondi e
abbia da lei dei figli legittimi».
- Polemone (il genero): «La prendo».
- Pateco: «E come dote tre talenti».
Attraverso l’uso del termine avrotos, letteralmente “aratura”,
la donna veniva assimilata, secondo un’immagine tradizionale, alla
terra coltivata che lo sposo doveva lavorare e seminare.
Il riferimento esplicito al rapporto sessuale serviva, invece, a
ribadire l’importante funzione che la sposa andava ad assumere
(quella di generare figli legittimi) mentre la menzione del valore
della dote ci ricorda che il matrimonio era anche una transazione
economica tra due famiglie123.
122
123
58.
C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 287.
N. Bernarde, Femmes et société dans la Grèce classique, Parigi 2003,
94
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L’γγύη era, quindi, un vero e proprio contratto verbale, sul cui
ruolo però gli studiosi non sono concordi: per alcuni rappresentava
l’atto costitutivo del matrimonio;124 per altri invece le nozze si
perfezionavano solo se alla promessa seguiva l’κδοσις, ovverosia la
consegna della sposa;125 per altri ancora l’vγγύη costituiva soltanto
una condizione di legittimità del matrimonio, il cui fondamento vero
e proprio risiedeva nel συνοικεν, cioè nella coabitazione materiale
della coppia126.
Il ventaglio di opinioni riguardo l’atto o gli atti fondativi del
matrimonio greco è in realtà molto più ampio e coinvolge la
distinzione stessa tra l’eγγύη e l’eκδοσις. Secondo alcuni autori,
infatti, questi due sostantivi non indicavano due fasi differenti
e successive del processo di perfezionamento del matrimonio,
ma si trattava di sinonimi che si distinguevano solo per ragioni
di ordine semantico: eγγύη era un termine tecnico che indicava
specificatamente l’atto giuridico di dazione della donna da parte
dell’uomo che aveva il potere di disporne, mentre il sostantivo
κδοσις, derivato dal verbo κδίδωμι (dono, consegno) era un termine
generale adoperato sia in riferimento alla donna che alla della dote,
sia che la dazione avvenisse da parte del padre che da parte del
tribunale, come per l’eπίκλερος.
Di certo l’importanza dell’eγγύη è attestata esplicitamente da
124
E. Hruza, Beitrage zur Geschichte des griech. Und romischen Familienrechts I. Die Ehebegrundung nach attische Rechte, cf F. Brindesi, La famiglia
attica. Il matrimonio e l’adozione, Firenze 1961, 3.
125
Lipsius, cf F. Brindesi, 3-4.
126
U.E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze 1930, 264 ss.
95
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Demostene il quale in un suo discorso cita una legge che definisce
gli γνήσιοι, i figli legittimi, come «coloro che sono nati da una
donna accordata con γγύη dal padre, dal fratello consanguineo o
dal nonno paterno»127.
La sposa era generalmente presente alla cerimonia, lo testimonia
il fatto che non ne venisse mai specificato il nome, ma la sua era
una presenza muta, passiva: data e ricevuta, la donna era oggetto
dell’azione, non soggetto.
Il suo consenso non era richiesto, ne le venivano rivolte parole:
l’alleanza matrimoniale era concordata e conclusa tra uomini.
La dazione della sposa non era che un aspetto della posizione
di subordinazione che i Greci attribuivano alle donne nei confronti
degli uomini e che Aristotele128 definì come posizione di governate
(τo aρχόμενον, dal verbo aρχω nella sua forma passiva).
Il padre della fanciulla, pertanto, aveva il potere di disporre di
sua figlia secondo il suo volere senza che lei avesse alcun diritto di
opporsi; il fatto che non fosse richiesto, nemmeno per la forma, suo
consenso toglieva alla fanciulla anche il più piccolo spazio teorico
di libertà.
Ma, d’altronde, il matrimonio greco non fu mai un atto per il quale
i due coniugi si univano l’un l’altro in una posizione d’eguaglianza.
127
128
Demosth, Contro Stefano II, 18; 44,49, cf J.P. Vernant, Mito e società, 51.
Aristotele, Politica, I, 1259 b, cf A.M. Verilhac- C. Vidal, Le mariage, 265.
96
Indice
3.4. I rituali nuziali
Alla dazione della sposa seguiva la cerimonia nuziale (γάμος),
un insieme di riti e di festeggiamenti che perfezionavano l’unione e
assicuravano la sua visibilità sociale.
I riti del matrimonio rappresentavano la più importante delle
feste familiari, con cui si celebrava un momento di vita privata che
si integrava con la vita della città.
In realtà nessuna di queste cerimonie era destinata a consacrare
in modo evidente l’unione dei coniugi: ciò a cui si dava risalto era
piuttosto la prosperità materiale della famiglia e la fecondità della
donna.
Non sappiamo esattamente quanti giorni intercorressero tra
l’eγγύη e i riti nuziali, ma probabilmente per la celebrazione delle
nozze veniva scelto un giorno fausto che, di regola, cadeva durante
l’inverno (il gennaio attico si chiamava γαμηλιών, mese delle
nozze)129.
Evocati in alcuni testi, parzialmente rappresentati dalle immagini,
le differenti tappe del γάμος non sono tuttavia precisamente ed
integralmente conosciute: la loro ricostruzione pertanto non è
esente da lacune o incertezze.
Le celebrazioni che normalmente duravano diversi giorni,
cominciavano con il compimento di una serie riti di passaggio e
propiziatori.
129
U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 579.
97
Indice
Il più diffuso era il rito della consacrazione dei capelli: la fanciulla
offriva ad una divinità (per lo più Era o Artemide) alcune ciocche
dei suoi capelli, a simboleggiare l’abbandono dei valori dell’infanzia
legati alla capigliatura lunga e l’ingresso nella condizione adulta.
Al largo di Trezene, a Sferia, vi era un santuario dedicato ad Atene
Apaturia in cui le fidanzate venivano a dedicare alla dea la loro
cintura prima delle nozze. Un epigramma votivo anonimo, dedicato
ad Artemide Limnate, nel territorio della Laconia, ci ricorda, infine,
che le ragazze al momento di sposarsi, dedicavano alla dea anche i
loro giochi di fanciulle130.
Queste offerte simboliche servivano a rimarcare il cambiamento
di statuto che il matrimonio comportava in particolare per la
donna, che da παρqένος, ragazza non maritata, diveniva γυνή,
donna sposata.
Mentre infatti per i ragazzi erano previsti vari riti di passaggio
collettivi che li introducevano nell’età adulta, per le fanciulle l’uscita
dall’infanzia avveniva solo con il matrimonio.
Oltre a queste offerte venivano eseguiti dal padre della sposa
una serie di sacrifici, i προτέλεια γάμον, in onore degli dei protettori
del matrimonio (qεoi γαμήλιοι): Zeus Tèleios, Era Tèleia, Artemide,
Afrodite e Peito.
Artemide rappresentava l’adolescenza che i fidanzati si
accingevano a lasciare, Zeus ed Era Tèleioi la maturità adulta
130
L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora, 403.
98
Indice
raggiunta dagli sposi e, al tempo stesso, l’aspetto legittimo
dell’unione consacrata dal matrimonio, Afrodite la sessualità e il
potere di fecondazione, Peito la seduzione131.
L’ultima cerimonia precedente al giorno del matrimonio era
la λουτροφορία, il trasporto dell’acqua per il bagno. Effettuata in
corteo notturno, alla luce delle torce e al suono dell’aulos, essa
aveva lo scopo di portare nella casa di ciascuno dei futuri sposi
l’acqua lustrale destinata al bagno nuziale.
L’acqua doveva provenire da una fontana o un fiume sacro
affinché possedesse proprietà purificanti e fecondanti. Ad Atene,
secondo Tucidide, veniva attinta alla fontana Enneacruno, a sud
dell’Acropoli e veniva trasportata dalle donne in vasi dalla forma
caratteristica, le lutrofore132.
Il bagno nuziale si svolgeva la sera stessa o, più verosimilmente,
al mattino seguente, ed era un rito di transazione e insieme
propiziatorio, che secondo gli antichi mirava ad ottenere la
generazione di bei figli.
Un’ultima cerimonia di ricezione dei doni offerti alla sposa (i c.d.
προγάμια δéρα), concludeva i riti da eseguire la vigilia delle nozze.
Il giorno delle nozze vere e proprie, il γavmoς, si apriva con
la preparazione della νύμφη, la sposa. Le donne del suo gruppo
d’origine, sorelle, cugine, amiche e giovani vicine, procedevano alla
131
C. Calame, Eros inventore ed organizzatore della società greca antica,
in L’amore in grecia, Roma-Bari 2006, intr.
132
N. Bernarde, Femmes et société, 59.
99
Indice
vestizione della fanciulla sotto l’autorità della νυμφεύτρια, colei
che aveva il compito specifico di assistere la νύμφη per tutta la
durata della cerimonia.
L’abbigliamento della sposa era costituito da una tunica stretta
in vita con una cintura e dall’i^μάτιον, un lungo drappo di stoffa che
fungeva da mantello. Il costume nuziale era poi completato da un
velo che copriva il capo, una corona in metallo e uno o più gioielli133.
Prima di lasciare la casa paterna, decorata per la circostanza
da rami di ulivo e di lauro, la ragazza partecipava ad un banchetto
offerto dal padre.
Il banchetto nuziale (γάμος o qοίνη γαμική) che riuniva le due
famiglie non era solo un’occasione di festa ma serviva a rimarcare
l’alleanza tra i due gruppi. Spesso i padri, per far mostra della loro
ricchezza, affermare il loro prestigio e onorare la famiglia che
diveniva loro alleata, offrivano dei ricevimenti molto fastosi, tanto
che fu necessario ricorrere a delle leggi apposite per porre dei limiti
al numero dei convitati134.
Al banchetto partecipavano sia gli uomini che le donne, ma
seduti a tavoli separati. Allietati da musiche e canti, gli invitati
consumavano dei cibi tradizionali, tra cui dei pani di frumento e
un dolce di miele e sesamo, considerato di buon augurio per una
discendenza numerosa.
133
134
N. Bernarde, Femmes et société, 59.
A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 299.
100
Indice
Non mancavano, infatti, neanche in questa occasione gesti
rituali e propiziatori: sappiamo ad esempio che un bambino di
sesso maschile i cui genitori erano ancora vivi (παiς aμφιqαλής),
pegno di prosperità e buon augurio, passava tra i commensali con
un canestro (λίκνον) colmo di pane pronunciando una frase rituale:
«Hanno fuggito il male, hanno trovato il meglio».
La formula si riferiva al cambiamento che la giovane coppia
affrontava abbandonando la vita selvaggia dell’infanzia per aderire
alla condizione adulta e civilizzata, simboleggiata dal pane frutto
del lavoro produttivo e domestico.
I cereali e altri oggetti simbolici presenti nella cerimonia, una
padella per tostare l’orzo, un setaccio, un pestello da mortaio,
designavano il ruolo che spettava alla novella sposa nella
continuazione della vita civilizzata che il matrimonio esprimeva135.
Secondo alcune fonti al termine del banchetto la sposa, che vi
aveva assistito velata, mostrava il suo volto e riceveva dallo sposo, o
dagli amici di lui, gli aνακαλυπτήρια, i doni dello svelamento.
Il pasto si concludeva infine con le libagioni e con gli auguri che i
presenti facevano alla fanciulla.
A questo punto si formava il corteo nuziale destinato a condurre
la sposa nella sua nuova dimora. Le ceramiche del V secolo
rappresentano la sposa attorniata dai suoi familiari, a piedi o su un
carro trainato da muli, mentre lo sposo la tiene per il polso, e ha sul
135
L.B. Zaidman, Le filie di Pandora, 406.
101
Indice
capo una corona intrecciata con foglie di lauro136.
Nel corteo la madre era una delle portatrici di fiaccole, mentre
accanto agli sposi procedevano di solito la νυμφεύτρια e il πάροχος,
un amico dell’uomo, chiamato così perché prendeva posto di fianco
a lui sul carro.
Il trasferimento si svolgeva in un’atmosfere di allegria: le luci
delle fiaccole, i canti imenei, la musica, i movimenti ritmici delle
danze non erano solo espressione di gioia ma avevano anche un
significato rituale (esorcizzare gli spiriti malvagi) e servivano a dare
all’evento la massima pubblicità, un modo questo di ufficializzare il
nuovo legame.
Al termine del percorso, la sposa era accolta dai suoceri
che compivano per lei nuovi riti di fecondità, d’accoglienza ed
integrazione. Vicino al focolare, luogo di radicamento dell’οiκος, le
venivano offerti i καταχύσματα, dolciumi e fichi secchi, in segno di
accoglienza ed integrazione nel nuovo ambiente.
Infine gli sposi si ritiravano nel qάλαμος, la camera nuziale,
accompagnati dall’eπιqαλάμος, un canto rituale che serviva ad
incoraggiare gli sposi e rassicurare la sposa, invocando su di essi la
benedizione delle divinità protettrici137.
Le festività terminavano il giorno seguente: al mattino ragazzi e
ragazze svegliavano gli sposi con nuovi canti detti eξεγερτικόν, cioè
136
137
F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, in Storia delle donne, 185.
A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 324.
102
Indice
del risveglio. Più tardi aveva luogo il rito degli eπαύλια: una nuova
πομπή recava nuovi doni, forse del padre della sposa e, secondo
alcune fonti, la dote.
Un’ultima incombenza, infine, spettava alla nuova coppia: il rito
della γαμηλία. Dopo le nozze lo sposo offriva un sacrificio e dava
un banchetto per i membri della sua fratria, al quale però non
sappiamo se prendeva parte anche la sposa.
Lo scopo della γαμηλία era di stabilire la legittimità del
matrimonio di un membro della fratria, la condizione di sua moglie
come figlia di un cittadino e la futura accettazione dei figli maschi
nati da quel matrimonio138.
Una vera e propria di dichiarazione di stato civile, quindi, che
conferiva alla donna il riconoscimento di sposa legittima e che, in
assenza di documenti scritti, serviva a testimoniare la veridicità del
legame.
Sia Demostene che Iseo menzionano più volte l’offerta della
γαμηλία e la relativa testimonianza dei membri della fratria, come
prova per la validità di un matrimonio.
Anche se, come si è visto, la definizione stessa del cittadino
passava attraverso la certificazione della legittimità dell’unione
matrimoniale dalla quale discendeva, nessuna delle procedure
nuziali rappresentava una sicura attestazione dell’avvenuto
138
S.G. Cole, Ragazzi e ragazze ad Atene: Koureion e Arkteia, in G. Arrigoni, Le donne in Grecia, 1985, 18.
103
Indice
matrimonio.
Da qui la difficoltà con cui nelle orazioni giudiziarie si cercava
di dimostrare la legittimità delle nozze, affiancando prove relative
ai diversi momenti, la testimonianza dei membri della fratria, dei
testimoni all’atto dell’eγγύη, la presenza della dote, ecc.
3.5. La dote
Il matrimonio greco, come nella maggior parte delle società
antiche, era accompagnato da un trasferimento di beni.
Nell’età arcaica le prestazioni provenivano da entrambe le parti.
Lo sposo, come si è visto, offriva al padre della sposa, gli eδνα,
armenti e greggi che venivano fatti sfilare davanti alla casa del
futuro suocero. Gli eδνα sono menzionati spesso nei poemi omerici
in virtù del prestigio che essi conferivano allo sposo, ma anche alla
sposa, nel gioco della competizione con gli altri pretendenti.
Oltre a ciò lo sposo offriva alla sposa dei doni, i δéρα,
probabilmente oggetti di metallo o indumenti, come il velo
splendidamente ornato che Elena regala a Telemaco affinché lo
doni alla sua futura sposa139.
Il padre della sposa dava la figlia insieme a dei doni, i μείλια.
Icaro, padre di Penelope, donò due schiavi a sua figlia quando
139
Omero, Odissea, XV, 125-127.
104
Indice
sposò Ulisse140.
Si vede bene, dunque, come il dispendio fosse molto più
consistente per lo sposo che per il padre della sposa.
Nell’età classica la situazione si ribaltò completamente: era
il padre della sposa a fornire la prestazione più preziosa, la dote,
mentre lo sposo si limitava a fare dei doni alla fanciulla.
Quando si sia verificato un simile cambiamento non è facile
dirlo. Di certo sappiamo da Plutarco che già nel VI secolo una legge
di Solone limitò la dote a tre mantelli e a pochi altri oggetti di scarso
valore141.
Nel linguaggio giuridico dell’epoca classica vi erano due termini
per indicare la dote: προίξ, la cui etimologia indicherebbe, secondo
studi recenti, il gesto di tendere la mano per donare o ricevere, e
φερνή, dal verbo φέρω (porto con me), utilizzato soprattutto nel
diritto bizantino142.
Parte del patrimonio paterno, la dote rappresentava in qualche
modo un sostituto dell’eredità per le figlie escluse dalla successione
in presenza di eredi maschi. Il suo ammontare dipendeva non solo
dalla ricchezza del padre, ma anche dal numero di fratelli e sorelle
presenti nella famiglia.
In un sistema successorio in cui mancava il diritto di primogenitura
140
141
142
Omero, Odissea, IV, 736 e XXIII, 228.
Plutarco, Vita di Solone, 20, 6, cf I. Savalli, La donna, 48.
A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 135.
105
Indice
e, di conseguenza, il patrimonio veniva diviso in parti uguali tra i
figli maschi, anche alle figlie femmine spettava una dote uguale per
tutte.
Dai discorsi degli oratori sappiamo che il valore di una dote per le
classi più agiate era piuttosto elevato, tra le 2000 e le 4000 dracme,
ma non mancano testimonianze riguardanti somme decisamente
superiori. Sappiamo, ad esempio, che la sorella di Demostene
ricevette dal padre una somma di 12000 dracme143.
Le doti si componevano principalmente di beni mobili:
soprattutto denaro, ma anche il corredo della sposa (κόσμος), che
comprendeva indumenti (iμάτια), gioielli (χρυσία), mobili, oggetti
d’arredo, talvolta anche schiavi.
Non mancavano tuttavia beni fondiari e immobili.
La composizione e il valore delle doti ricevute dalle ragazze
povere, invece, sono più difficili da determinare per la mancanza
di testimonianze.
Non potendosi sottrarre a quest’obbligo sociale per non
compromettere la loro onorabilità, le famiglie modeste erano
costrette a grandi sacrifici per costituire una dote conveniente
senza mettere in pericolo la parte da devolvere agli eredi maschi.
Una legge sull’επίκληρος povera attribuita a Solone144, con la
143
N. Bernarde, Femmes et cociété, 55.
144
Ps. Demostene, Contro Macartatos, 54, cf N. Bernarde, Femmes et
cociété, 56.
106
Indice
quale il legislatore disponeva l’obbligo del parente più prossimo
di dotare convenientemente la fanciulla, testimonia bene questa
esigenza.
Le ragazze di condizione modesta potevano talvolta contare
sull’aiuto di amici o congiunti, o beneficiare di atti di generosità di
cittadini ricchi: dotare una fanciulla priva di mezzi era considerato
un atto di pietà.
Tuttavia non mancavano casi di padri costretti ad indebitarsi per
realizzare il matrimonio delle figlie.
Di sicuro non vi fu mai una forma di “assistenza statale” per le doti
delle ragazze povere. La πόλις interveniva solo in casi particolari: a
Rodi, per esempio, nel IV secolo d.C., la città fornì parte della dote
alle fanciulle orfane di guerra145.
Ma la dote era anche un bene simbolico, segno della generosità
del padre e del valore della fanciulla: la morale sociale obbligava il
marito ad assicurare alla sua sposa un mantenimento degno della
magnanimità del suocero.
In diritto attico la costituzione della dote, che normalmente
accompagnava l’eγγύη, poteva aver luogo mediante δόσις, cioè
l’effettiva consegna dei beni al marito, o mediante oμολογία προικός,
una convenzione per effetto della quale, indipendentemente dalla
consegna, il marito prometteva al costituente, in caso di cessazione
del vincolo coniugale, il pagamento di una certa aestimatio dei beni
145
N. Bernarde, Femmes et cociété, 56.
107
Indice
che egli dichiarava di aver ricevuto.146
Per quanto riguarda la sua funzione, va detto che la dote nel
mondo greco non era destinata, come nel diritto romano, “ad
sustinenda onera matrimonii”, ma si trattava di un “quid feminae
additum”147. Non a caso il verbo che ne indicava la consegna era
eπιδίδωμι, aggiungo: la sposa veniva data allo sposo insieme a delle
ricchezze che non divenivano per questo proprietà del marito, ma
rimanevano legate alla giovane come simbolo del proprio valore e
del legame con la famiglia di origine.
Il suocero, infatti, continuava ad esercitare la propria κυριεία
vigilando sull’uso che il genero faceva della dote e, se era il caso,
pretendendo delle garanzie giuridiche, per lo più l’aποτίμημα
πριοκός un’ipoteca dotale sui beni del genero.
Lo sposo, quindi, gestiva la dote e ne utilizzava i redditi per tutta
la durata del matrimonio e, in una città marittima quale era Atene,
gli investimenti potevano essere molto produttivi.
Ma la titolare della dote rimaneva sempre la sposa: se l’uomo
moriva senza avere figli, essa ritornava con la dote alla propria
famiglia mentre, se v’erano figli, la dote diveniva parte della loro
eredità, a patto però che mantenessero la madre. In caso di divorzio,
poi, anche se la condotta della sposa non era stata esemplare, il
marito era obbligato a restituire la dote al padre della donna,
presso il quale rimaneva in qualche modo disponibile, a beneficio
146
147
A. Biscardi, Scritti di diritto greco, Milano 1999, 276.
Biscardi-Cantarella, Profilo di diritto greco antico, Milano 1974, 115.
108
Indice
di quest’ultima, per un nuovo eventuale matrimonio.
Non era raro, infatti, che dopo una vedovanza o un divorzio
una donna pervenisse a nuove nozze: a differenza di altre società
tradizionali, in Grecia l’esistenza di una precedente unione
coniugale non comportava una perdita di valore per la donna.
Proprio lo stretto legame tra circolazione delle donne e del denaro
faceva si che un’Ateniese, specie se ricca, poteva esser data in
matrimonio più volte, a tutto vantaggio degli interessi degli uomini
che le avevano sotto tutela.
3.6. I rapporti fra coniugi
Contrarre matrimonio per i Greci era un dovere, per cui si ci
ammogliava in età posata, di solito dopo i trent’anni. Le donne
invece andavano spose molto giovani, quindi, normalmente, la
differenza di età tra gli sposi era piuttosto consistente.
Il problema dell’età giusta per contrarre matrimonio fu molto
discussa dai greci. Secondo Esiodo la donna doveva sposarsi nel
quinto anno successivo alla pubertà, e l’uomo a trent’anni148.
Per Platone l’età ideale erano i sedici-venti anni per la donna e i
venticinque-trenta per l’uomo149.
Secondo Aristotele, infine, poiché le donne troppo giovani
morivano spesso di parto, era opportuno che le fanciulle fossero
148
149
Esiodo, Opere e giorni, 6-95.
Platone, Leggi, VII, 772, d-c.
109
Indice
maritate intorno ai diciotto anni150.
Nella pratica, però, le cose andavano diversamente e, di regola,
l’età della pubertà precedeva di poco quella delle nozze.
Sappiamo ad esempio che l’eπίκληρος poteva essere assegnata
in matrimonio a quattordici anni, mentre un’epigrafe funeraria
giunta sino a noi ricorda una donna che, sposatasi a tredici anni,
visse concorde col marito sino a tarda età151.
È probabile poi che le figlie minori venissero date in matrimonio
un po’ più tardi rispetto alle primogenite, vista la necessità per il
padre di costituire una nuova dote.
In genere, però, i Greci preferivano indebitarsi piuttosto che
ritardare le nozze delle loro figlie. Nessuna legge obbligava un padre
o un fratello a sposare una fanciulla posta sotto la loro autorità,
ma se la lasciavano invecchiare senza marito, l’opinione pubblica li
avrebbe accusati di furto o miseria.
Il celibato, perlomeno ad Atene, non era vietato per legge ma
la pressione sociale, nonché il legittimo desiderio di avere una
discendenza, inducevano la maggior parte degli scapoli, prima o
poi, a prender moglie.
Per le donne invece il matrimonio era l’evento più importante
della loro vita, al punto che se una fanciulla moriva senza essersi
150
Aristotele, Polit.,VIII, 1335 a, cf U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo
classico, 579.
151
U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 579.
110
Indice
ancora sposata, la si diceva “sposa di Ade”152.
Anche dopo il matrimonio, però, il destino di una donna non
era compiuto in assenza di figli. La sposa che non aveva ancora
partorito era detta νύμφη, e solo la nascita del primo bambino le
dava il nome riservato alle spose complete, γυνή.
La donna nella maternità trovava la sua realizzazione ma anche
una sorta di riconoscimento pubblico, corrispondente a quello
politico che era prerogativa dell’uomo. Del resto proprio nella
procreazione di uno o più discendenti risiedeva la ragion d’essere
del matrimonio, e non va dimenticato che la nascita di un bimbo
era il modo più sicuro per cementare il legame coniugale.
Se era il marito a morire senza lasciare figli, come abbiamo visto,
la moglie ritornava nella casa paterna, a meno che non dichiarava
di essere incinta e notificava il suo stato all’Arconte. In questo
caso essa restava nell’οiκος dello sposo, perchè, se partoriva
felicemente, aveva un titolo di appartenenza alla famiglia del
marito come madre di un suo erede; se invece il figlio non nasceva
o moriva, tornava all’οiκος di origine153.
Il matrimonio poneva la donna sotto la tutela del marito, ma la
κυριεία di quest’ultimo trovava un limite nella protezione della sua
famiglia d’origine154.
Nel sistema greco, infatti, la sposa anche se si istallava presso
152
153
154
I. Savalli, La donna, 109.
U.E. Paoli, Famiglia (Diritto attico), in N.N.D.I., vol. VII, 37.
A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 264.
111
Indice
il focolare del marito (residenza virilocale), non cessava di
appartenere alla famiglia paterna.
I legami che essa manteneva con i familiari erano sia affettivi che
istituzionali: suo padre e i suoi parenti continuavano a proteggere
lei e la sua dote. Il marito non poteva agire impunemente contro
la moglie, né il figlio contro la madre, perché avrebbero interferito
con l’οiκος cui apparteneva, quello del padre della donna.
A tal proposito Aristotele155 distingueva tra l’autorità del padre
su i figli di entrambi i sessi, che definiva come un potere di tipo
“regale”, e l’autorità del marito sulla moglie, che era invece simile
ad un potere “politico”, cioè un’autorità sottomessa a delle regole
e a dei limiti.
Protetta dalla sua famiglia di origine la sposa doveva essere
rispettata e trattata con dignità: lo sposo accettando la dazione
aveva accettato delle obbligazioni precise. Le donne chiamate al
matrimonio costituivano un gruppo ristretto, privilegiato: in quanto
strumenti di riproduzione del corpo civico esse erano protette ed
onorate.
La sposa era un bene prezioso, dato a un uomo per la realizzazione
di quello che è un bisogno primordiale di tutti gli uomini, avere una
discendenza che li perpetui. Essa era simbolo del rango familiare,
motivo di scandalo o di rispettabilità della casa.
La posizione della sposa nell’οiκος dipendeva da diversi fattori:
155
Aristotele, Politica, I, 1259 b, cf A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 265.
112
Indice
dall’appoggio della sua famiglia di origine, dall’importanza della
sua dote, dalla presenza o meno di eredi maschi.
La moglie che godeva della fiducia del marito aveva la direzione
della casa; per gli schiavi era la δέσποινα, la padrona. Il marito,
preso dalla sua professione e dagli affari politici, preferiva affidare
a lei il buon andamento della casa.
Naturalmente rimanevano l’assenza di libertà e di diritti, nonché
quelle gravi lacune nell’educazione che impedivano qualsiasi
comunione spirituale ed intellettuale tra marito e moglie. D’altra
parte la grande differenza di età tra gli sposi non contribuiva certo
a potenziarne i legami affettivi e spirituali.
Le mogli vedevano molto poco i loro mariti al di fuori del letto
coniugale, mangiavano raramente insieme, fatta eccezione per
alcune ricorrenze familiari, e nella casa abitavano in appartamenti
separati.
Sia le donne che gli uomini vivevano con persone dello stesso
sesso, e questo sovente comportava per le donne problemi di
solitudine156.
3.7. Limiti al matrimonio e modalità di scioglimento
Le limitazioni che il diritto attico poneva al matrimonio erano
poche. Una regola degli a^γραφα νόμοι, le leggi non scritte, vietava
156
R. Ricchi, Femminilità e ribellione, 60.
113
Indice
il matrimonio tra ascendenti e discendenti, e tra fratello e sorella
della stessa madre, mentre era tollerato quello tra fratello e sorella
di madre diversa e tra suocera e genero. Dare la propria figlia in
sposa a un fratello consanguineo evitava al padre di sottrarre al
patrimonio familiare i beni della dote157.
I matrimoni tra altri parenti erano invece piuttosto frequenti.
Il legame matrimoniale, soprattutto in mancanza di figli, era un
legame precario in quanto entrambi i coniugi avevano la facoltà di
interromperlo in qualsiasi momento. I divorzi e il ricorso a nuove
nozze erano piuttosto diffusi. Naturalmente il ripudio della donna
da parte del marito (aπόπεμψις) era più semplice da ottenere,
perché non erano previste formalità né giustificazioni, mentre
l’unica conseguenza consisteva nel dover restituire la dote.
Per la donna invece l’abbandono del tetto coniugale (aπόπεμψις),
era molto più complicato poiché per ufficializzare la procedura
bisognava presentare una richiesta formale all’arconte eponimo,
cosa che, a causa della sua incapacità giuridica, richiedeva
l’appoggio del padre, di un fratello o di un altro membro della
famiglia d’origine. Non a caso ci sono noti solo tre casi di divorzi
richiesti dalla moglie e tutti piuttosto problematici.
Plutarco158 ci racconta la triste vicenda di Ipparete ed Alcibiade.
Alcibiade, dopo aver ottenuto in moglie Ipparete insieme ad una
ricca dote, si comportò così male nei suoi confronti che la donna si
157
158
U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 578.
Plutarco, Vita di Alcibiade, 8, 4 e ss, cf I. Savalli, La donna, 64.
114
Indice
recò dal fratello e decise di domandare il divorzio all’arconte. Ma
poiché la procedura richiedeva che la domanda fosse presentata
in presenza della donna, Alcibiade, sorpresa la moglie nell’agorà, la
costrinse con la forza a rientrare in casa e, così facendo, impedì il
seguito dell’azione.
Una caratteristica propria dell’istituto matrimoniale attico, che
non trova altri riscontri né nel mondo antico né in quello moderno,
stava nella possibilità che il vincolo coniugale venisse sciolto per
iniziativa di un terzo.
Con una particolare procedura, l’aφαίρεσις, il padre della sposa,
sulla base di considerazioni sue, per lo più di carattere patrimoniali,
poteva in ogni momento, fino alla nascita di un erede, interrompere
le nozze e richiamare la figlia nella sua famiglia d’origine.
Atto singolare, l’aφαίρεσις, che trova la sua spiegazione oltre
che nella permanenza del padre nella qualità di κύριος della sposa,
anche nel carattere prevalentemente contrattuale e patrimoniale
del matrimonio attico. Ma il padre della sposa non era la sola
persona che poteva sciogliere un matrimonio dall’esterno. Anche
il parente più prossimo dell’eπίκληρος se al momento della morte
del padre l’ereditiera era già sposata ma senza figli, aveva il diritto
di interrompere il suo matrimonio, esercitando l’aφαίρεσις al
posto del padre morto, e ottenere l’assegnazione giudiziaria della
donna159.
159
F. Brindesi, La famiglia attica. Il matrimonio e l’adozione, Firenze 1961, 22 ss.
115
Indice
Infine, in due casi particolari, il vincolo coniugale era sciolto per
espressa disposizione di legge: quando la moglie risultava essere
una forestiera o quando veniva sorpresa in flagrante adulterio con
uno straniero.
3.8. Fuori da Atene
Per quanto riguarda il matrimonio nelle altre πόλεις greche le
informazioni di cui disponiamo sono poche e spesso falsate dai
pregiudizi di chi le riporta.
Sappiamo che il matrimonio per gli spartani era obbligatorio e
poteva avvenire solo con le loro concittadine. I celibi ostinati erano
puniti con la perdita parziale dei diritti civili e col divieto di assistere
alle esibizioni ginniche delle ragazze.
I costumi nuziali spartani erano assolutamente insoliti,
riconducibili al modello del matrimonio per ratto.
Secondo una notizia di Ermippo160, le fanciulle venivano rinchiuse
in una stanza buia insieme ai giovani celibi ed ciascuno sposava la
ragazza di cui si fosse impossessato nell’oscurità.
Questa versione però si discosta notevolmente da un’altra
descrizione che Plutarco161 ci offre del rituale matrimoniale spartano.
Secondo l’autore delle Vite parallele, il matrimonio prevedeva
160
161
Ermippo, in Atheneo di Naucrati, Il banchetto dei sapienti, libro XIII, 555 C.
Plutarco, Lyc., XV, 3-5.
116
Indice
il rapimento della sposa e il suo successivo affidamento ad una
donna che le rasava il capo, le faceva indossare degli abiti maschili,
e la lasciava coricata sul un giaciglio di paglia, sola, al buio, in attesa
del marito. Questi dopo aver partecipato come al solito ai pasti in
comune (sissizi) andava incontro alla sposa non ubriaco né svigorito
ma perfettamente lucido, la prendeva tra le braccia e la trasportava
sul letto. Dopo essere rimasto con lei poco tempo, se ne andava a
dormire nel luogo dove era solito farlo insieme con gli altri giovani.
Gli sposi continuavano ad avere rapporti occasionali, nel modo
sopra descritto, per tutto il periodo durante il quale il giovane
spartiata era tenuto a vivere insieme ai coetanei, e cioè fino al
compimento dei trent’anni162.
E siccome l’età del matrimonio a Sparta, tanto per l’uomo che
per la donna era fissata a diciotto anni, ciò vuol dire che tra gli sposi
non v’era convivenza per i primi dodici anni di matrimonio.
Secondo alcuni studiosi lo scopo di questa sorta di “matrimonio
a prova” era quello di saggiare la fecondità dei due sposi, in
modo che l’unione, in assenza di figli, potesse essere sciolta senza
disonore di alcuno.163
Per altri invece si tratterebbe di pratiche sessuali pre-matrimoniali
che poi, nella versione di chi le ha riportate, sono state giustificate
162
M. Lupi, L’ordine delle generazioni. Classi di età e costumi matrimoniali
nell’antica Sparta, Bari 2000, 76.
163
Cf I. Savalli, La donna, 52.
117
Indice
sotto il manto dell’unione legittima164.
Fine del matrimonio era, a Sparta più che altrove, la generazione
di nuovi cittadini e l’uso di sposarsi nell’età del pieno vigore
fisico trovava il suo fondamento su un’ideologia eugenetica che
considerava imperfetti i figli nati da genitori non maturi.
Questo tipo di preoccupazioni, unite a certe notizie sulle
esperienze extraconiugali delle donne sposate, si spiega con
la necessità che gli spartiati avevano di non lasciar diminuire
demograficamente il loro gruppo etnico per non alterare il rapporto
numerico con gli altri gruppi e per conservare un alto potenziale
militare.
Il rapimento era presumibilmente un atto rituale che sanciva
l’inizio della relazione, ma che non impediva che venissero stipulati
accordi familiari. Anche nella città lacedemone il matrimonio era
un atto privato, una transazione tra due uomini che mettevano in
opera un’alleanza tra due case e si accordavano su una dote: lo si
deduce indirettamente da una breve indicazione di Erodoto che fa
riferimento ad un accordo su un futuro matrimonio tra Leotichida e
Percalo, figlia di Chilone, reso vano dal rapimento della ragazza per
opera di un altro uomo165.
Il fattore del travestimento, più che un segno del passaggio della
ragazza dallo stato di nubile a quello di donna sposata, deve essere
inteso come un tentativo di stornare le potenze malefiche emananti
164
165
Cf M. Lupi, L’ordine delle generazioni, 65ss.
Erodoto, Storie, VI, 65.
118
Indice
dalla femminilità all’inaugurazione del matrimonio, secondo una
credenza comune a certe popolazioni primitive.
A Sparta, al contrario di quanto accadeva ad Atene, era consentito
il matrimonio di due figli della stessa madre ma di padri differenti.
Il celibato era combattuto con mezzi singolari: in una certa festa le
donne trascinavano i celibi attorno all’altare e li fustigavano, affinché
questi per evitare un trattamento tanto umiliante, si accostassero
alle nozze a tempo debito166.
La vita familiare era organizzata in modo totalmente diverso
rispetto al modello attico: poiché gli uomini erano presi da obblighi
militari e impegni pubblici, l’amministrazione domestica era tutta
nelle mani delle donne, le quali erano anche le sole responsabili di
quella parte dell’educazione dei figli che lo stato non si assumeva.
Ai banchetti era ammessa la presenza femminile,
Anche a Gortina il matrimonio era obbligatorio.
L’età minima per sposare un’ereditiera era fissata a dodici anni e
di poco maggiore doveva essere quella richiesta normalmente per
la sposa novella.
Da un celebre frammento dello storico Eforo di Cuma sappiamo
che i giovani cretesi erano tenuti a sposarsi collettivamente quando,
al compimento dei ventisette anni, uscivano dalle aγέλαι167.
Il matrimonio però, come a Sparta, non implicava l’immediata
166
167
Atheneo di Naucrati, 555 d.
Ephor. in Strab. X, 4, 16, C 480 ss.
119
Indice
coabitazione dei due coniugi, perché la moglie veniva condotta a
casa del marito solo quando fosse stata capace di dirigere l’οiκος168.
Poiché il codice prevedeva che l’ereditiera (πατροιéκος) potesse
non accettare il marito che la legge le destinava, è probabile
che, a differenza di quanto accadeva ad Atene, al momento della
conclusione del matrimonio fosse richiesto il consenso della
sposa169.
Di certo sappiamo che le vedove e le divorziate potevano sposarsi
di nuovo secondo la loro volontà, senza l’intervento del padre170.
Il codice non poneva alcun divieto ai matrimoni misti. Se una
donna libera sposava un non libero e viveva in casa di questo, i figli
non erano liberi; se invece il marito viveva in casa della moglie, i figli
erano liberi: il loro statuto dipendeva cioè dall’essere il matrimonio
matrilocale o meno.
Il codice non prevedeva il caso dei figli nati da uomo libero e
da una serva probabilmente perché i figli nati nella casa del padre
erano liberi per definizione.
Le cause di divorzio non sono specificate nella grande epigrafe.
La sola circostanza considerata è quella del divorzio per colpa del
marito, nel qual caso l’uomo, oltre all’ovvia restituzione della dote
e dei lavori di tessitura, era tenuto a versare all’ex moglie la somma
168
M. Lupi, L’ordine delle generazioni, 82.
169
U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 449.
170
C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 272.
120
Indice
di cinque stateri171.
La donna che partoriva dopo il divorzio doveva presentare il figlio
all’ex marito, nella sua casa, alla presenza di tre testimoni. Se egli
lo rifiutava la madre era libera di tenere o no il bambino, ma se lo
esponeva senza aver prima consultato l’ex marito, era soggetta ad
una multa di cinquanta stateri, se il figlio era libero, di venticinque
se schiavo172.
171
172
Lex Gort., II, 45-54, cf I Savalli, La donna, 58.
I. Savalli, La donna, 57.
121
Indice
Capitolo IV
La μοικεία
4.1. L’infedeltà coniugale nell’antica Grecia
Nell’antica Grecia, come si è visto, il controllo della sessualità
riproduttiva attraverso le procedure matrimoniali serviva a garantire
la persistenza delle famiglie e della città.
Ma, se lo scopo principale dell’οiκος consisteva nella procreazione
di figli legittimi, la preservazione del letto coniugale da possibili
infedeltà era un’esigenza che andava oltre la sfera privata.
L’infedeltà femminile era considerata, quindi, un’infrazione
molto grave che, precludendo la certezza della prole, offendeva
e minacciava non solo l’onore della famiglia ma la stabilità stessa
della πόλις.
Inoltre, poiché la partecipazione alla vita pubblica e alle istituzioni
si basava sul diritto di nascita e sulla legittimità, l’intrusione di
elementi estranei nel numero dei cittadini rappresentava, per
la mentalità ellenica, un vero e proprio attentato all’integrità
del gruppo civico. Ogni usurpazione del diritto di cittadinanza
comportava, infine, anche un’infrazione delle norme religiose,
perché solo i cittadini potevano prender parte ai culti civici173.
Al contrario, dato il regime di libertà sessuale maschile, era del
173
I. Savalli, La donna, 61.
122
Indice
tutto assente la nozione di adulterio perpetrato dal marito nei
riguardi della moglie.
Salvo il divieto di compromettere la sposa o la figlia di un altro
cittadino, tutte le altre forme di commercio sessuale erano lecite.
La frequentazione di concubine, cortigiane o semplici prostitute,
era considerato un fatto normale, socialmente e in parte anche
giuridicamente riconosciuto.
Certo la morale riprovava le condotte troppo indiscrete o
sfacciate, che potevano recar danno alla dignità e all’onore delle
spose legittime ma, in genere, gli uomini potevano disporre
liberamente della loro vita sessuale174.
Ad essere vietati, quindi, non erano le relazioni extraconiugali ma
solo i rapporti illeciti con donne poste sotto la tutela di un κύριος.
4.2. L’adulterio nel mondo omerico
L’adulterio nella antica Grecia era punito severamente da una
serie di leggi collocabili, con un certo grado di attendibilità, in diversi
periodi della storia ellenica e giunte fino a noi in quanto citate ad
verbum o parafrasate nelle opere di numerosi autori del periodo
classico e post-classico.
Non è ben chiaro quale fosse la pena prevista per questo
tipo di infrazione nel mondo omerico, anche perché i tre casi di
174
N. Bernarde, Femmes et société, 65.
123
Indice
adulterio presenti nell’Iliade e nell’Odissea sono tutti, per così dire,
eccezionali.
Il primo è naturalmente il rapimento di Elena da parte di Paride175,
poi c’è il tradimento di Clitemnestra con Egisto176, infine l’episodio
della seduzione di Afrodite da parte di Ares177.
Omero condanna nettamente la condotta di Clitemnestra,
presentata come il prototipo della donna mascolina e ostile
all’uomo, mentre appare assai comprensivo nei riguardi di Elena,
che egli non ritiene colpevole perché indotta a tradire il marito da
Afrodite. Il poeta però non fa alcun cenno a sanzioni giuridiche né
a punizioni private.
Il racconto dell’adulterio di Afrodite presenta maggiori particolari.
Afrodite, moglie di Efesto, aveva una relazione con Ares, il dio
della guerra. Efesto, avendolo saputo, perché il Sole aveva fatto
la spia, tese una rete invisibile attorno al letto e finse di andare
a Lemno. Quando i due amanti entrando nel talamo vi rimasero
intrappolati, Efesto chiamò tutti gli dei a testimoni del tradimento
dicendo che non li avrebbe liberati finché non gli sarebbero stati
restituiti i doni delle nozze.
Le sanzioni che colpivano la moglie infedele, quindi, erano il
ripudio e la restituzione degli ἔδνα mentre, ancora una volta, non
v’è nessun riferimento a punizioni corporali, che pure in quell’epoca
175
176
177
Omero, Iliade, III, 39-57, 156-165.
Omero, Odissea, III, 261-275; XXIV, 192-202.
Omero, Odissea, VIII, 270-319.
124
Indice
erano piuttosto diffuse178.
4.3. Il reato di μοιχεία nel periodo classico
Punto di partenza di tutte le discussioni moderne sullo scopo
e il significato delle parole μοιχεία e μοιχός nel diritto attico è un
noto passo dell’orazione Contro Aristrocrate di Demostene, in cui
l’autore riporta il testo di una legge aeropagitica:
«Se uno uccide nelle gare involontariamente, o nella strada, o in
guerra per errore, o ( colui che sorprende in rapporti carnali ) con
la moglie, la madre, la sorella, la figlia o la concubina, che tenga
per avere figli liberi, non deve per questi motivi andare in esilio»179.
L’autenticità di questa legge e la sua effettiva applicazione ai casi
di adulterio è confermata da diverse allusioni presenti in altri testi e
dall’applicazione che se ne faceva nelle scuole retoriche.
In particolare, nell’orazione in difesa di Eufileto, Lisia fa
riferimento ad una legge secondo la quale il tribunale dell’Aeropago
non era competente a giudicare colui che avesse ucciso il μοιχός
della moglie:
«Ascoltate, o cittadini, che a questo stesso tribunale
dell’Aeropago chiaramente è stato detto di non dichiarare omicida
178
E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero: contributi alla protostoria
del diritto greco, Milano 1979, 173.
179
Demostene, Contro Aristocrate, 53.
125
Indice
colui che, avendo sorpreso il μοιχός con la propria moglie, abbia
inflitto questa punizione»180.
Sebbene l’orazione non riveli l’esatta formulazione dello statuto,
l’uso delle parole “ἐπί δάρματι” dimostra chiaramente che si tratta
della stessa legge citata da Demostene181.
Ma qual è, in realtà, la natura della disposizione cui fa riferimento
il celebre oratore greco?
Il contesto come pure il linguaggio adoperato da Demostene
fanno pensare ad un passo citato dalla famosa legge di Draconte
sull’omicidio.
Come è noto, negli ultimi decenni del VII secolo a. C., Draconte
diede ad Atene le sue prime leggi in materia penale, con le quali,
per la prima volta veniva vietava la vendetta privata dei torti subiti.
Alcune di queste norme, quelle sui reati di sangue, ripubblicate
dagli ἀναγραφεῖς nel 409-408 a.C., rimasero in vigore per tutta l’età
classica.
Per mezzo di esse l’omicidio divenne un “reato” nel senso
moderno del termine, punito con pene previste dalla legge ed
applicate solo in seguito ad una pronunzia di colpevolezza emessa
dal tribunale competente. Se l’omicidio era volontario la punizione
era la morte, se involontario l’esilio.
180
181
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 30.
D. Cohen, The Athenian Law of Adultery, in RIDA, 31(1984), 149.
126
Indice
Ma in deroga ai nuovi fondamentali principi che segnavano la
nascita del diritto penale, Draconte aveva stabilì una serie di ipotesi
in cui l’omicidio era considerato δίκαιος, vale a dire legittimo.
E proprio casi di φόνος δίκαιος sono quelli ricordati da
Demostene: l’uccisione involontaria durante le gare atletiche,
l’uccisione di un commilitone in guerra per errore, l’uccisione di
un brigante nel corso di un assalto per strada, infine l’uccisione di
un uomo sorpreso in rapporti carnali con la moglie, la madre, la
sorella, la figlia o la concubina tenuta per avere figli liberi.
Quest’ultimo passaggio è considerato, dagli storici del diritto,
di fondamentale importanza per la comprensione della normativa
ateniese sull’adulterio in quanto racchiude alcune particolarità
che valgono a differenziare nettamente l’adulterio greco sia dal
corrispondente reato romano che da quello cristiano.
Da esso si evince innanzitutto che i Greci consideravano adulterio
non solo la seduzione della moglie, ma anche quella della madre
vedova, della figlia non sposata, della sorella o della concubina di
un cittadino ateniese.
La μοιχεία, quindi, non presupponeva necessariamente
l’esistenza di un vincolo di iustae nuptiae ma rientravano in questo
tipo di reato anche gli illeciti commerci carnali con donne nubili o
con χήραι (donne, cioè, che avevano avuto un marito e che non
lo avevano più perché era morto o perché il matrimonio era stato
127
Indice
sciolto)182.
Inoltre, poiché non solo il marito era direttamente oltraggiato
dall’adulterio ma anche il figlio, il fratello, il padre e l’uomo vivente
in concubinato, gli eccezionali poteri di repressione consentiti
contro l’adultero erano riconosciuti a tutti i maschi dell’οiκος che
fossero in possesso del diritto di cittadinanza183.
Questo perché attraverso la punizione della μοιχεία gli Ateniesi
intendevano tutelare non tanto l’interesse del marito alla fedeltà
della moglie, quanto l’interesse del gruppo familiare a che nell’οiκος
non venissero immessi figli spuri.
In una società in cui la partecipazione alla vita pubblica e
alle istituzioni della città si basavano sul diritto di nascita, era di
fondamentale importanza assicurarsi che coloro cui veniva conferita
la cittadinanza fossero nati legittimamente.
Lisia, sempre nella stessa orazione conferma questo timore:
«…e non si sa più quali figli sono dei mariti e quali dei μοιχοί…»184.
Il rapporto illecito con una donna libera più che una offesa
all’onore del suo κύριος era, un oltraggio (uβρις) all’οiκος cui essa
apparteneva, perché ne contaminava la purità sacrale e, rendendo
182
E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano
1976, 154.
183
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, in SDHI,
16(1950), 254.
184
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 33.
128
Indice
equivoca la prole, tendeva a frustrare lo scopo dell’οiκος, che era la
procreazione di figli legittimi con la quale assicurare la propagazione
della famiglia e il mantenimento dei sacra familiari185.
Che l’adulterio rivestisse il carattere di una uβρις risulta
chiaramente dal testo della orazione di Lisia in difesa di Eufileto:
«…è questo l’oltraggio che tutti ritengono il più grave…»186.
«…l’uomo che fa questo oltraggio a te e alla tua moglie è nostro
nemico»187.
Alcuni studiosi sconsigliano persino di tradurre il termine
μοιχεία con quello di adulterio, dal momento che nel nostro
sistema giuridico la parola “adulterio” indica un reato differente,
circoscritto soltanto all’ambito coniugale.
4.4. La tesi del Cohen
Molte sono, nell’antica letteratura, le testimonianze a conferma
della suddetta interpretazione “estesa” della μοιχεία: il Paoli ce
ne fornisce un’ interessante rassegna, individuando un sicuro
riscontro documentale per ciascuna ipotesi di adulterio al di fuori
185
186
187
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 266.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 2.
Lisia, Per L’uccisione di Eratostene, 16.
129
Indice
del matrimonio188.
Tuttavia, negli ultimi tempi, un controverso studio di David
Cohen189 ha messo in dubbio questa visione tradizionale,
generalmente accettata, suggerendo una diversa lettura del passo
D.27,53 sulla base di un più attento esame del linguaggio adoperato
dall’oratore ateniese.
A ben vedere, osserva il Cohen, la norma menzionata da
Demostene non fa alcun riferimento alla μοχεία ma descrive
soltanto dei rapporti sessuali eπi δάρματι, eπi μητρi, ecc., e
per questo motivo può riferirsi con eguale validità allo stupro,
all’adulterio e alla seduzione.
Non a caso è proprio in tali termini che il celebre logografo ne
discute nel resto dell’orazione, dove si parla di stupro (uβρίζειν)190 e
seduzione191, mentre manca qualsiasi accenno alla μοιχεία.
Questo perché la disposizione citata non contiene, come
comunemente si crede, una definizione della μοιχεία ma, in quanto
parte della legge sull’omicidio giustificabile, espone soltanto delle
eccezioni al generale divieto di omicidio.
Il riferimento alla moglie, alla madre,alla figlia, ecc., non fornisce
alcuna base per supporre che si tratti in ogni caso di μοιχεία, ma
serve solo ad includere i tre tipi di criminali sessuali nella previsione
188
189
190
191
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 256 ss.
D. Cohen, cit., The Athenian Law of Adultery, 147-165.
Demostene, Contro Aristocrate, 23-56.
Demostene, Contro Aristocrate, 54-55.
130
Indice
discolpante, e, in effetti, dal punto di vista della legge sull’omicidio,
non fa differenza se l’offensore è un seduttore, uno stupratore o un
adultero, ma tutti possono essere uccisi con impunità se sorpresi
sul fatto dai membri maschi della famiglia.
Il fatto che la μοιχεία fosse un reato diretto esclusivamente contro
il matrimonio trova conferma, sempre secondo Cohen, in diversi
passaggi nelle fonti classiche, molti dei quali ignorati dalla dottrina
tradizionale a causa della supposizione che la norma sull’omicidio
giustificabile letta da Demostene concernesse esclusivamente
l’adulterio.
Come numerosi sarebbero anche i richiami ad un’altra legge che,
in realtà, governava l’adulterio nell’Atene classica e che lo studioso
tenta di ricostruire, pur se in maniera approssimativa192.
Le ipotesi del Cohen hanno suscitato un vivido dibattito nel
mondo scientifico, con il merito, tra l’altro, di aver riacceso l’interesse
su queste tematiche; tuttavia la maggior parte degli studiosi
rimane ancorata alla visione classica della μοιχεία, anche perché
la ricostruzione del reato di adulterio alla luce della testimonianza
di Demostene sembra godere di un maggior sostegno delle fonti.
Inoltre l’idea di una μοιχεία estesa a comprendere la seduzione
di qualsiasi donna libera dell’οiκος ben si armonizza con quella che
abbiamo visto essere la concezione del matrimonio nella società
ellenica.
192
D. Cohen, The Athenian Law of Adultery, 153ss.
131
Indice
Queste considerazioni non escludono però che anche per gli
Ateniesi l’adulterio considerato normale e tipico fosse quello
commesso con donna maritata, tanto che nel parlare comune il
μοιχός era colui che aveva sedotto una donna sposata. Tale forma
di adulterio, infatti, rivestiva maggiore gravità perché mentre la
violenza recata ad una fanciulla, o ad una χήρα, poteva essere
riparata con un matrimonio “riparatore”, l’adulterio con donna
sposata era oltraggio insanabile193.
4.5. Struttura del reato di μοιχεία
Dall’esame del brano di Demostene si evince anche un’altra
particolarità propria dell’adulterio greco: perché l’uccisione del
μοιχός fosse legittima era necessaria, oltre alla consumazione del
reato di μοιχεία, la sorpresa del reo in flagranza di reato.
Έπί più il dativo che indica una persona non può avere altro
significato che “prendere sul fatto”194.
Quindi se l’adultero era colto in flagrante poteva essere ucciso
impunemente anche senza necessità di una sua confessione, non
avendo egli altra possibilità di negare. Se invece veniva sorpreso in
casa dopo aver commesso l’adulterio ma prima di essersi messo
al sicuro fuori dalle pareti domestiche della donna, era necessaria
una confessione in quanto egli poteva negare l’adulterio adducendo
193
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 265.
194
K. Kapparis, When were the Athenian Adultery Laws Introduced?, in
RIDA, 42(1995), 105.
132
Indice
un qualsiasi altro motivo, lecito o illecito, del trovarsi in domicilio
altrui195.
Sia Paoli che Cantarella, basandosi su un noto passaggio di
Luciano196, sostengono che l’uccisione dell’adultero fosse consentita
dalla legge solo se i due amanti venivano sorpresi nell’atto stesso
del coito (aρθρα eν aθροις eχων), mentre altri autori197 sono convinti
fosse sufficiente trovare l’uomo con la donna, nella propria casa, in
circostanze sospette.
Considerando infatti la realtà delle relazioni sociali nell’Atene
classica dove gli uomini non potevano nemmeno supporre di far
visita a delle donne che non fossero loro consanguinee, anche in
presenza del κύριος, per l’amante trovarsi nella casa della donna
era un fatto incriminante di per sé.
Un’altra caratteristica della normativa ateniese sull’adulterio
è data nella mancanza di qualsiasi valutazione soggettiva dietro
l’immunità concessa all’uccisore del μοιχός.
A differenza del moderno omicidio per causa d’onore, in Grecia
l’uccisione dell’adultero restava impunita indipendentemente dalla
considerazione del particolare stato d’animo in cui si era trovato
195
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 271.
196
Luciano, Eunuch., 10: εἱ δὲ μὴ ψεύδονται οἱ περὶ αὐτοῦ λέγοντες, καὶ
μοιχὸς ἑάλω ποτέ, ὡς ὁ ἄξων φησίν, ἄρθρα ἐν ἄρθροις ἔχων (e se coloro che
parlano di questo non mentono, anche il μοιχός, come prescrive la tavola, sia
sorpreso mentre ha i genitali nei genitali).
197
L. Foxhall, Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte, in Symposion 1990; K. Kapparis, When were the Athenian Adultery
Laws Introduced?, 105ss.
133
Indice
l’omicida nel momento in cui aveva scoperto l’illegittima relazione
carnale. Posto che per la sua immunità era necessario che egli
avesse scoperto il μοιχός in flagranza di reato, non si richiedeva
che questa scoperta fosse per lui una sorpresa: egli poteva uccidere
impunemente anche nel caso fosse stato da tempo a conoscenza
della relazione illecita e anche se si fosse adoperato per sorprendere
l’adultero nelle condizioni che gli garantivano l’immunità198.
Questo concetto è chiaramente confermato da un’asserzione di
Lisia:
«E a me, dunque, o cittadini, le leggi non soltanto riconoscono
che non ho commesso un illecito, ma ordinano di prendere questa
vendetta…»199.
L’immunità concessa all’uccisore del μοιχός derivava, quindi,
esclusivamente dalla presenza di circostanze di tipo oggettivo. Di
queste una, abbiamo visto, era la sorpresa in flagrante del reo,
un’altra, non meno importante, era la consumazione della μοιχεία
all’interno dell’οiκος cui apparteneva la donna.
Anche questa ultima caratteristica trova conferma dalla lettura
di Lisia, il quale, nella orazione in difesa di Eufileto, afferma più
volte che Eratostene, l’adultero ucciso dal suo assistito, era stato
sorpreso in casa di quest’ultimo, e lo ripete con un’insistenza che
198
199
E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, 140.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 34.
134
Indice
conferma l’importanza del particolare.
Secondo il Paoli la violazione del domicilio della vittima era uno
degli elementi costitutivi del reato di μοιχεία, in mancanza del
quale il rapporto sessuale illecito dava luogo ad un reato diverso
dalla μοιχεία, cioè ad una uvβρις. Il fatto che l’adulterio avesse
avuto luogo all’interno dell’οivκος serviva, infatti, a legittimare le
sanzioni che i rappresentanti della sovranità familiare potevano
infliggere in casa propria all’adultero, perché il luogo cui il reato era
stato commesso soggiaceva ad una giurisdizione diversa da quella
della πόλις200.
Per Cantarella, invece, si aveva μοιχεία ogni qual volta un
uomo aveva una relazione sessuale all’infuori di un rapporto di
matrimonio o di concubinato, con una donna libera e che non si
prostituiva.
Il luogo in cui ciò avveniva non aveva alcuna rilevanza, almeno
per quanto riguarda la struttura del reato, perché la violazione di
domicilio non era un elemento costitutivo del reato ma una delle
condizioni richieste affinché l’uccisione del μοιχός fosse legittima.
Se infatti l’interesse che si voleva tutelare era la legittimità della
prole, la μοιχεία non poteva non aver luogo indipendentemente
dalla violazione di domicilio201.
A dimostrazione di questa tesi, sempre nell’orazione in difesa di
Eufileto, si legge:
200
201
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 268 ss.
E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 145-146.
135
Indice
«Io ritengo dunque, o cittadini, di aver dimostrato questo,
che Eratòstene commise μοιχεία su mia moglie, e oltraggiò me
essendosi introdotto in casa mia…»202.
Come si vede, Lisia distingueva tra due reati diversi: un primo
reato che Eratostene aveva commesso unendosi alla moglie di
Eufileto, e che l’oratore qualificava come μοιχεία, e un secondo che
consisteva nell’intrusione dell’uomo in casa di altrui.
Ma perché allora subordinare la concessione dell’impunità
alla circostanza che la μοιχεία fosse stata consumata all’interno
dell’οiκος?
Per Cantarella il motivo di questa limitazione va ricercata nella
plurisecolare evoluzione storica del diritto penale greco.
Muovendo dall’originale sistema della vendetta privata, la Grecia
aveva conosciuto un momento nel quale la giustizia era assicurata
grazie all’attività dei privati, riconosciuta legittima dal potere
pubblico. Successivamente, con la legge di Draconte, lo Stato si
riservò, in via esclusiva, il diritto di usare la forza, segnando così il
passaggio ad una repressione di tipo diverso, che aveva i caratteri
di una giuridicità più moderna.
La stessa legge, però, come si è visto, prevedeva alcune ipotesi
eccezionali in cui il privato poteva continuare a farsi giustizia da sé,
e una di queste era proprio la scoperta di un adulterio. Pertanto
202
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 29.
136
Indice
allo scopo di rendere inequivocabile l’eccezionalità della regola,
fu stabilito che l’uccisione dell’adultero fosse lecita solo se questi
veniva sorpreso in flagrante e all’interno dell’οiκος.
Ma perché la permanenza del μοιχός nella casa dove aveva
commesso adulterio costituisse flagranza era necessario che tra
il fatto compiuto e la permanenza dell’adultero dentro la casa
oltraggiata non vi fosse soluzione di continuità: se l’adultero
riusciva ad allontanarsi furtivamente dalla casa e vi tornava perché
attrattovi dal cittadino che egli aveva offeso, o trascinatovi a forza,
anche se confessava non poteva più essere ucciso impunemente203.
Nell’orazione di Lisia Per l’uccisione di Eratòstene Eufileto,
il marito uccisore dell’adultero, compare come accusato in un
processo per omicidio perché, pur essendo indiscusso tra le parti
che tra Eratòstene e la moglie di Eufileto esistesse una relazione
adulterina, i parenti dell’ucciso sostenevano che questi non era
stato sorpreso sul fatto ma attirato in casa con l’inganno.
La tesi degli avversari di Eufileto si ricava dalle argomentazioni
adoperate da Lisia per difendere il suo assistito:
«…mi fanno l’accusa che in quel giorno mandai la mia ancella a
chiamare il giovinetto…»204.
«…se in quella notte avessi teso insidie a Eratòstene…»205.
203
204
205
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 272.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 37.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 40.
137
Indice
Ma i parenti dell’ucciso contestavano la legittimità dell’esecuzione
anche per il fatto che Eratòstene si era rifugiato presso l’altare
domestico:
«…non trascinato in casa dalla strada, ne rifugiatosi presso il
focolare…»206.
Se, infatti, l’adultero sorpreso in casa, riusciva a mettersi sotto
la protezione dell’altare domestico, godeva di uno speciale diritto
d’asilo in base al quale l’uomo oltraggiato era obbligato a non
usargli violenza.
L’altare domestico era il cuore della casa greca, il centro della
religiosità familiare, e per questo motivo, uccidere una persona
che fosse riuscita a rifugiarsi presso di esso era considerato un
sacrilegio.
Da un brano di un’altra orazione di Lisia apprendiamo, infatti,
che i delinquenti (aδικοuντες o κακοuργοι) inseguiti da magistrati
e cittadini, potevano sottrarsi all’arresto cercando riparo nei templi
o presso gli altari:
«…a voi , a cui si faceva un torto, non giovarono per il modo di
procedere di costoro né i templi né gli altari, che pur sono di salvezza
anche ai delinquenti»207.
206
207
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 27.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 98.
138
Indice
E poiché, come si vedrà più avanti, il diritto greco poneva sullo
stesso piano μοιχός e κακοuργος, lo stesso diritto spettava agli
adulteri, sia nei confronti della sovranità della πόλις che della
sovranità familiare.
Tornando alla struttura del reato, un’ulteriore elemento
costitutivo della μοιχεία era dato dalla condizione di donna libera
di colei presso la quale l’adultero veniva sorpreso. Il commercio
carnale con una schiava, anche se avveniva con violazione di
domicilio, non era considerato μοιχεία.
Anche questa circostanza è confermata, indirettamente, da un
passo di Lisia:
«…sedusse delle donne libere e fu colto sul fatto come adultero»208.
e dal diritto di Gortina, dove si limita l’ipotesi di adulterio al solo
commercio con donna libera:
«…se uno è sorpreso in adulterio con donna libera…»209.
Secondo il Paoli, inoltre, durante il periodo classico un rapporto
illecito era considerato adulterio solo se la donna, oltre che libera,
208
209
Lisia, Contro Agorato, 66.
Lex Gort., II, 22-23.
139
Indice
era anche cittadina210.
Lo studioso deriva questa convinzione, ancora una volta,
dall’analisi del passo D.27,53, dove è legittimata l’uccisione
dell’adultero sorpreso eπi παλλακh hν aν eπ’eλευqέροις παισiν eχh
(presso la concubina tenuta per avere figli liberi).
Nel 451-450 a.C. un decreto di Pericle aveva stabilito, come si è
visto, che potevano essere cittadini solo gli ἐξ ἀμφοτέρων γεγονότες
ἀστῶν, cioè i nati da padre cittadino e madre cittadina, ragion per
cui, da allora in poi, i figli nati da donna forestiera non potevano
avere diritto di cittadinanza. Ma siccome non era concepibile che
un cittadino si procurasse, anche fuori dalle iustae nuptiae, dei
figli liberi se questi divenuti adulti non potevano essere cittadini,
se ne deduce che per esservi adulterio la παλλακh doveva avere
cittadinanza ateniese211.
Di parere del tutto opposto si mostra invece Cantarella: proprio
perché a partire dall’attuazione del famoso decreto di Pericle, ad
Atene vigeva il divieto di contrarre matrimonio con una straniera,
il cittadino che voleva vivere con una donna di un altro paese non
aveva altra possibilità che tenerla come concubina. Quindi se, come
sostiene il Paoli, fosse stata considerata μοιχεία solamente l’unione
con donna cittadina, la regola che prevedeva la punizione come
μοιχός di colui che si univa con l’altrui παλλακή avrebbe garantito
in pochi casi che i figli nati da un rapporto di concubinato fossero
210
211
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 264.
U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 265.
140
Indice
realmente del convivente della παλλακή212.
L’affermazione del Paoli che fino all’epoca di Pericle per avere
adulterio bastava che la donna fosse libera, mentre dopo divenne
indispensabile che essa fosse cittadina ateniese, va perciò capovolta:
anche ammesso che prima di Pericle venisse considerata μοιχεία
l’unione con donna libera e cittadina, dopo il 451 divenne reato
anche l’unione con donna libera straniera.
Non era invece considerato μοιχεία l’atto venereo con
donna libera se questo avveniva in una casa in cui si tollerava la
prostituzione:
«…allega perciò la legge la quale non consente di agire come
contro un adultero, se si tratta di donne che siedono in un lupanare,
o apertamente si prostituiscono»213.
La legge citata da Demostene e attribuita a Solone da Lisia214 e
da Plutarco215, permetteva all’uomo accusato di adulterio di negare
l’accusa sostenendo che, anche se aveva avuto rapporti sessuali
con quella particolare donna, ciò non costituiva adulterio perché
essa praticava un qualche tipo di prostituzione.
Il marito che uccideva il complice di sua moglie nel caso appena
menzionato doveva essere perciò trattato come un assassino ordinario.
212
213
214
215
E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 152.
Demostene, Contro Neera, 67.
Lisia, 10, 15-19.
Plutarco, Solone, 23.
141
Indice
4.6. Sanzioni dirette contro l’adultero
Per quanto riguarda la repressione del reato, abbiamo visto come
la legislazione di Dragonte, nota per la sua crudeltà, autorizzava il
κύριος della donna ad uccidere personalmente il μοιχός sorpreso in
casa nell’atto di commettere adulterio, o prima che potesse fuggire,
purché, in tal caso, avesse confessato.
Questa disposizione rimase in vigore non solo durante il periodo
classico ma durò fino in tarda antichità, e non fu applicata nella sola
Atene ma divenne comune a molte città greche.
Vari indizi presenti nelle fonti portano a supporre che il mezzo
più usuale per giustiziare il μοιχός consistesse nell’immobilizzare
l’uomo e nel fracassargli il cranio a bastonate216.
Con il bastone Eufileto ridusse a mal partito Eratòstene prima di
finirlo, ed è probabile che lo uccidesse con lo stesso mezzo:
«…ed io avendolo colpito con un randello, lo stendo a terra»217.
Ma poiché non tutti gli uomini potevano avere il sangue freddo
necessario a giustiziare di propria mano l’adultero, l’uccisione
del colpevole non era l’unica possibilità che la legge concedeva
all’oltraggiato. In alternativa all’esecuzione immediata, il κύριος
della donna poteva mettere in ceppi l’adultero e accordarsi con lui
circa il pagamento di una somma di danaro come risarcimento del
216
217
U.E. Paoli, l reato di adulterio, 274.
Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 25.
142
Indice
danno recato all’onore della famiglia.
La remissione della pena dietro compenso pecuniario era una
pratica diffusa sin dai tempi antichi, tant’è vero che se ne trova
traccia anche in Omero. Nell’ottavo libro dell’Odissea, Demodoco,
l’aedo dei Feaci, nel cantare lo scandaloso episodio di Ares e
Afrodite, sorpresi in flagrante adulterio da Efesto, racconta di come
Poseidone intervenisse in favore di Ares offrendosi come garante
del risarcimento che questi doveva all’oltraggiato:
«Liberalo, io ti prometto in presenza agli dèi immortali che egli ti
pagherà tutto ciò che ti è dovuto, secondo la tua richiesta»218.
Ma la diffusione dell’usanza di risarcire l’adulterio è testimoniata
con chiarezza anche nel diritto di Gortina.
Nella città dorica, infatti, il μοιχός sorpreso in flagranza di reato
era condannato a pagare una ποινή che non veniva stabilita di volta
in volta dalle parti, ma era determinata preventivamente dallo
Stato, il quale valutava la gravità dell’offesa in base alla posizione
giuridica e sociale del reo (se libero o schiavo), la posizione della
vittima (se donna di un libero, di un απεταίρος, cioè di un uomo
che non apparteneva ad alcuna eteria, o di uno schiavo), e alle
circostanze nelle quali era stato commesso il reato (dove il rapporto
sessuale era stato consumato)219.
218
Omero, Odissea, VIII, 347-348.
219
U.E. Paoli, La legislazione sull’adulterio nel diritto di Gortina, in Altri
studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 509 ss.
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Anche in epoca classica, quindi, il cittadino oltraggiato che avesse
sorpreso l’adultero in casa sua poteva tenerlo prigioniero finché
non presentava dei garanti per il pagamento: Efeneto, sorpreso con
Fanò, figlia di Neera, ottenne la libertà pagando 30 mine220, mentre
Eratòstene, colto sul fatto da Eufileto, tentò inutilmente, di evitare
la morte offrendo del denaro221.
È probabile, inoltre, che la legge prevedesse dei limiti di tempo
all’imprigionamento del μοιχός, ma nelle fonti non ve n’è prova
certa.
Questa sorta di accomodamento finanziario, tuttavia, non era
visto come una scelta di grande valore morale, poiché era ritenuto
spregevole accettare un compenso in luogo di una ben più onorabile
vendetta; ed è questa, forse, la ragione per cui le informazioni che
le fonti ci offrono sull’argomento sono così scarse.
Ma accettare un risarcimento in luogo dell’esecuzione presentava
innegabili vantaggi anche per il κύριος, visto che l’uccisione del
μοιχός poteva sempre portare ad un processo per omicidio, come
testimonia la vicenda di Eufileto. Se poi la donna sedotta non era
sposata, contrattare un buon risarcimento ed, eventualmente, un
opportuno matrimonio, era di sicuro più conveniente.
La diffusione di questa pratica è, comunque, dimostrata
dall’esistenza di una speciale azione contro il suo abuso, la γραφh
aδίκως εiρχqhναι éς μοιχόν. Se un uomo, tenuto prigioniero come
220
221
Demostene, Contro Neera, 65.
Lisia, Per la morte di Eratostene, 20.
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adultero e obbligato a promettere una somma di denaro, dichiarava
di non essere colpevole di adulterio e di essere stato illegalmente
imprigionato, poteva promuovere questa speciale azione presso il
foro dei Tesmoteti, contro la persona che lo aveva sottoposto a quel
trattamento.
Nel processo che ne scaturiva, quindi, l’accusato non era
l’adultero ma colui che lo aveva sorpreso222.
Se il presunto adultero veniva giudicato innocente era liberato
dalla sua promessa e i garanti dalla sua cauzione; se invece era
ritenuto colpevole, allora gli stessi garanti dovevano consegnarlo al
convenuto, il quale, innanzi allo stesso tribunale, poteva fare di lui
ciò che voleva, ma senza usare armi da taglio223.
È questa l’azione esperita da Epeneto contro Stefano di cui parla
Demostene nell’orazione “contro Neera”:
«Ed Epeneto, uscito di là, e divenuto padrone di se stesso,
promuove contro questo Stefano davanti ai Tesmoteti, un’ accusa di
essere stato ingiustamente sequestrato da lui, in forza della legge
che stabilisce che se uno sequestri illecitamente un altro come
μοιχός, il sequestrato iscriva davanti ai Tesmoteti una γραfh aδίκως
εiρχθhναι èς μοιχόν, e se dimostri che colui che ha sequestrato
è colpevole e risulti che costui abbia tramato ingiustamente, il
sequestrato sia libero, e i garanti sciolti dalla garanzia; se invece
risulti che il sequestrato è un μοιχός, la legge comanda che i garanti
222
223
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 275.
K. Kapparis, When were the Athenian Adultery Laws Introduced?, 115.
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lo consegnino a chi lo ha sorpreso in flagrante, e costui dinanzi al
tribunale lo sottoponga al trattamento che vuole, in quanto μοιχός,
senza usare armi da taglio»224.
Malgrado i suoi innegabili vantaggi, la remissione per risarcimento
era però praticabile solo se l’adultero versava in buone condizioni
finanziarie. Se questi non era in grado o non era disposto a pagare,
o se l’uomo insultato era restio ad accettare il denaro e a lasciar
cadere la faccenda, v’era un’altra possibilità: l’oltraggiato poteva
vendicare il suo orgoglio ferito infliggendo umiliazioni fisiche
all’adultero, quali il marchio a fuoco, la ραφανίς, la depilazione
violenta o l’ustione di alcune parti del corpo con cenere calda225.
La legge che permetteva il maltrattamento dell’adultero fu
introdotta probabilmente in epoca classica da Solone, con l’obiettivo
di mitigare la durezza della legislazione draconiana, prevedendo
punizioni alternative, meno rischiose per il κύριος e meno severe
per l’adultero.
Un chiaro riferimento a questo statuto si trova, ancora una volta,
nell’orazione Per la morte di Eratòstene, di Lisia:
«…se uno coglie qualcuno nell’atto di commettere adulterio può
trattarlo in qualunque modo vuole»226.
224
Demostene, Contro Neera, 66.
225
K. Kapparis, Humiliating the Adulterer: the Law and the Practice in Classical Athens, in RIDA, 43, (1996), 63 ss.
226
Lys., de caede Eratosth., § 49.
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Il linguaggio adoperato è lo stesso che si legge nel summenzionato
passo di Demostene, dove però, in aggiunta, è espressa la condizione
che il κύριος non adoperi armi taglienti. In realtà l’espressione aνευ
eγχειριδίου è stata interpretata in diversi modi dagli studiosi.
Secondo U.E. Paoli questa restrizione non impedirebbe al κύριος
di uccidere l’adultero con altri mezzi, inclusa la tortura227.
Per K. Kapparis, invece, essa sta a significare che, a meno che
il κύριος non uccideva l’adultero sul posto, non poteva metterlo
a morte successivamente, né infliggergli punizioni mortali,
specialmente davanti alla corte di giustizia228. Il fine di questi
trattamenti crudeli era l’umiliazione più che la tortura o la morte e,
giacché l’adulterio era inteso come un’offesa non solo all’autorità
e all’onore del singolo uomo, ma anche alle strutture dello Stato,
gli abusi servivano sopratutto a punire la boria dell’uomo e il suo
essere cittadino e uomo libero.
La sospensione di alcuni diritti civili, quali la libertà e la difesa
contro gli abusi, era una punizione molto severa che testimonia la
gravità del reato agli occhi della legge ateniese.
È probabile, ma non se ne ha la certezza, che in aggiunta a queste
pene degradanti e dolorose, fosse consentito esporre il μοιχός alla
berlina. Infatti, pur mancando, nelle fonti, attestazioni di simili
227
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 274.
228
K. Kapparis, Humiliating the Adulterer: the Law and the Practice in Classical Athens, 65.
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procedimenti presso il diritto attico, abbiamo diverse testimonianze
riguardanti l’uso di pene ad ludibrium contro l’adultero in altre città
greche.
Sappiamo da Eliano229 che a Gortina, nell’isola di Creta, il μοιχός
veniva condotto dai magistrati e, se non poteva negare la sua colpa,
gli venivano posti sulla testa, nella pubblica piazza, dei nastri di
lana, per una sorta di incoronazione che aveva lo scopo di umiliare
il colpevole paragonandolo ad una donna.
Anche in questo caso la riparazione della virilità offesa del κύριος
avveniva con un assalto diretto alla mascolinità dell’adultero.
A Lepron, secondo una notizia trasmessaci da Eraclite Pontico230,
il μοιχός veniva legato e per tre giorni condotto in giro per la città.
D’altro canto, la pena aggiuntiva del ludibrio non era affatto
estranea all’ordinamento giuridico ateniese: dato che poteva essere
inflitta per sentenza al κλέπτης è probabile che venisse applicata
anche al μοιχός.
4.7. Punizione dell’adultero uti civis
Finora abbiamo visto le sanzioni dirette che, coloro che
appartenevano all’οiκος e godevano del diritto di cittadinanza,
potevano porre legittimamente in atto allorché sorprendevano
l’adultero in flagrante nella propria casa.
229
230
Eliano, Var. Hist. 13,24.
Cf E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 151.
148
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Ma anche in tali circostanze l’oltraggiato poteva rinunciare
ad avvalersi direttamente dei poteri che gli spettavano di diritto
(perché, ad esempio, gli ripugnava farsi giustizia da sé, o perché
temeva eventuali contestazioni sulla legittimità del suo procedere,
ecc.) e rimettere la punizione del responsabile agli organi della
πόλις.
In tal caso costui aveva a disposizione diversi mezzi:
1) La γραφή μοιχείας, una normale azione penale che poteva
esser promossa presso il tribunale ordinario in uno speciale giorno
- l’ultimo del mese - non solo dal κύριος della donna sedotta ma da
qualsiasi cittadino, anche estraneo all’οiκος231.
In tal modo lo Stato si garantiva contro l’eventuale inerzia dei
poteri familiari nei confronti di un reato che non solo disonorava la
famiglia ma turbava altresì l’ordine giuridico della πόλις.
Il processo regolare era poi l’unico mezzo per applicare le
sanzioni penali quando l’adultero non era stato sorpreso sul fatto o
era riuscito a fuggire prima di essere catturato.
2) L’aπαγωγή, una procedura sommaria con cui il colpevole
veniva trascinato (aπαγέιν) dinanzi alla magistratura degli Undici
per esservi, se reo confesso, messo a morte.
In realtà nelle fonti non c’è testimonianza circa l’aπαγωγή
dell’adultero, ma l’esperibilità di questa procedura è suffragata
231
E. Baloch, Some notes on adultery and the epikleros, in Studi Albertario, II, 691.
149
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dall’esame incrociato di alcuni testi.
Sappiamo da Aristotele232 che l’aπαγωγή era consentita contro
i κακοuργοι (una categoria di malfattori che comprendeva ladri,
rapinatori, ecc.) mentre da altre testimonianze233 risulta chiaramente
che la legge ateniese assimilava il μοιχός al κακοuργος. Se ne
deduce, quindi, che anche contro l’adultero sorpreso in flagrante,
se sussistevano tutte le circostanze che potevano legittimare
l’uccisione, era esperibile l’aπαγωγή ad opera di colui che aveva il
diritto di ucciderlo.
La sola aπαγωγή era consentita, invece, se l’adultero veniva
sorpreso in casa ma in circostanze tali da poter negare di aver
commesso il fatto, o se questi non negava di aver commesso il reato
ma, riuscito a fuggire dalla casa dell’oltraggiato, era stato inseguito
e raggiunto234.
3) La δίκη, un’azione privata di risarcimento. Anche in questo
caso l’esperibilità dell’azione va dedotta, indirettamente,
dall’assimilazione del μοιχός al κακοuργος: in un passo di
Demostene235, tra le azioni concesse contro il κλέπτης, viene
nominata anche la δίκη, e se, come è probabile, il legislatore attico
prevedeva contro il μοιχός la stessa pluralità di azioni consentita
nei confronti dei κακοuργοι, è facile immaginare che anche
quest’ultima fosse applicabile all’adulterio.
232
233
234
235
Aristotele, Άθηναίων πολιτεία (52, 1).
Eschine, c. Tim., 90-91; Platone, Leggi 9, 874 b.
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 281.
Demostene, Contro Androzione, 26.
150
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Se poi il malfattore aveva usato violenza nel rapporto sessuale,
il κύριος della donna poteva promuovere la γραφh uβρεως, se
la violenza era avvenuta fuori dalle pareti domestiche, o la δίκη
βίαιων, se, nelle stesse circostanze, l’offeso rinunciava all’azione
penale e si limitava a chiedere il risarcimento del danno236.
4.8. Posizione della donna
Per i Greci la μοιχεία era un reato esclusivamente maschile, che
cioè veniva commesso solo dall’uomo, mentre la donna, quale che
fosse stata la sua condotta nei confronti del μοιχός era sempre
μεμοιχευμένη (colei che ha subito l’adulterio) o eφh aj μοιχoς aλé
(presso la quale sia stato sorpreso l’adultero)237. In altre parole essa,
anche se consenziente, era ritenuta sedotta o, più precisamente,
oltraggiata dall’adultero.
Ancora una volta ne troviamo chiara testimonianza in Lisia:
«Io allora, o giudici, lo colpisco stendendolo a terra, e dopo
avergli piegato indietro le braccia e avergliele legate, gli domando
perché sia entrato in casa mia per oltraggiarla»238.
In realtà la legge della πόλις non riconosceva alcun valore
giuridico alla volontà della donna, e per questo motivo non si
236
237
238
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 293 ss.
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 289.
Lisia, Per la morte di Eratostene, 25.
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preoccupava di indagare sul ruolo che essa poteva aver avuto
nell’adulterio. In altre parole la donna non costituiva parte attiva
nella uβρις perpetrata all’οiκος, ma era considerata sempre parte
passiva e, per questo motivo la responsabilità legale del reato
ricadeva unicamente sull’uomo.
Infatti, mentre per l’adultero era prevista la pena di morte, la
donna, anche se colpevole, non poteva essere uccisa.
Ciò non toglie però che anche nei confronti della donna fossero
previste delle misure punitive, anche gravi, ma in misura diversa
(con esclusione della morte), e a titolo differente (non per adulterio
ma per infrazione della disciplina familiare).
È molto probabile, e se ne trova traccia in alcuni epigrammi più
tardi, che fino al V secolo le punizioni e le umiliazioni avvenissero
all’interno dell’οiκος, senza che la πόλις interferisse in quella che
era considerata una questione di giustizia familiare.
Ma è solo in epoca classica che il bisogno di garantire la legittimità
della prole dei cittadini ateniesi indusse il legislatore ad occuparsi
direttamente delle adultere.
In tale periodo, infatti, furono l’introdotti il concetto di cittadinanza
e tutti i vantaggi ad essa collegati. Pieni diritti civili e cittadinanza
erano, tuttavia, riservati solo ai figli legittimi di due cittadini. Se era
stato commesso un adulterio non vi poteva più essere certezza
sulla paternità dei figli, né si poteva dar fiducia all’adultera per il
futuro: l’unica soluzione in questi casi era l’immediata rottura del
152
Indice
matrimonio.
Ma non tutti gli uomini erano disposti a compiere, di loro volontà,
un simile passo, perché, come abbiamo visto, il matrimonio per i
Greci aveva una natura essenzialmente economica. Molte donne
giungevano alle nozze con una ricca dote, e questa andava restituita
per intero in caso di divorzio.
Per questo motivo il νόμος μοιχείας, riportato da Demostene
nell’orazione “Contro Neera”, puniva con l’aτιμία, cioè con la
perdita dei diritti di cittadinanza, il marito che avesse continuato a
vivere con la moglie sorpresa in adulterio.
«Legge sull’adulterio – Se uno sorprende l’adultero non gli sia
consentito tenere la donna come moglie e se lo faccia decada dai
diritti civili…»239.
La seconda parte del νόμος μοιχεία concerne, invece,
direttamente la punizione della donna coinvolta nell’adulterio:
«…e alla donna presso la quale l’adultero sia stato sorpreso
non sia consentito di presenziare alle cerimonie di culto pubblico
e, se vi presenzi, subisca impunemente quel che le capiti, tranne la
morte»240.
239
240
Demostene, Contro Neera, 87.
Demostene, Contro Neera, 87.
153
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La donna, quindi, era colpita da una sorta di aτιμία sacrale,
diversa da quella prevista per l’uomo.
In senso rigoroso l’aτιμία era la perdita del diritto di cittadinanza
e, poiché la donna era aστή e non πολίτις, non era cioè titolare
di diritti da esercitare direttamente nei confronti della πόλις,
non poteva esser privata di ciò che non aveva. Nondimeno essa
era provvista di una personalità sacrale e familiare in quanto
collaborava con il marito nell’osservanza dei riti dell’οiκος,
rappresentava la famiglia nelle celebrazioni che le donne del δήμος
facevano in comune in certe ricorrenze solenni, partecipava ad
alcune cerimonie pubbliche, aveva accesso ai templi241. Se veniva
sorpresa in adulterio perdeva tutto ciò.
Si trattava di un castigo molto severo, perché una donna che
non poteva presenziare alle cerimonie religiose non aveva quasi
più nessuna ragione per lasciare la casa ed era condannata a
trascorrere un’esistenza di isolamento e indegnità.
Ulteriori divieti imposti all’adultera sono specificati da Eschine in
un suo commento al νόμος μοιχεία :
«La legge non consente che la donna che sia stata sorpresa
con l’adultero si adorni e partecipi alle cerimonie pubbliche nei
sacrari, perché ella non contamini, mescolandosi con esse, le
donne incolpevoli; se ella vi entri e si adorni, la legge da diritto a
chicchessia di stracciarle le vesti, di strapparle via gli ornamenti e di
241
U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 292-293.
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percuoterla, purché si astenga da ucciderla o mutilarla, disonorando
per tal modo una simile donna e rendendole impossibile la vita»242.
Il diritto di punire l’adultera spettava, dunque, a qualsiasi uomo, il
quale poteva strapparle i vestiti, toglierle gli ornamenti e picchiarla,
non poteva però ucciderla o mutilarla.
L’obiettivo del legislatore era chiaramente quello di proteggere
i luoghi sacri da ogni contaminazione e, screditando le adultere,
esortare le donne ateniesi a condurre sobriamente le proprie vite e
ad evitare ogni immoralità.243
Ma le parole con le quali Eschine ricorda ai giudici che alla donna
adultera era lecito rendere impossibile la vita, ci fanno supporre
che chi l’avesse sorpresa con sul fatto potesse infliggerle anche
delle sanzioni ad ludibrium.
L’esposizione dell’adultera alla berlina non era, infatti, estranea
agli usi greci: Plutarco, ad esempio, riferisce l’uso esistente a Dyme
di far salire la donna su una pietra posta nell’αγορά, in vista di tutti,
e di farle percorrere le vie della città sul dorso di un asino, per cui
l’adultera era detta ὀνοβάτις, cioè “cavalcatrice di asini”244.
In conclusione, la normativa greca riguardante l’adulterio era
costituita da una serie di statuti severi, introdotti gradualmente nel
242
Eschine, Contro Timarco, 183.
243
E. Baloch, Some notes on adultery…, 694.
244
Plutarco, Quaest. Gr., 2, cf U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in
diritto attico, 292.
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corso dei secoli per coprire nuove aree e riflettere nuove esigenze.
E poiché ciascuna di queste leggi era il prodotto del suo tempo,
rifletteva le necessità del momento e trattava differenti aspetti del
reato, esse non avevano una grande uniformità di spirito e prassi.
Nondimeno alcune caratteristiche erano universali: in tutte
l’adulterio era trattato come un reato penale grave ma che
concerneva solo la parte maschile.
La parte femminile, come abbiamo visto, non venne penalizzata
dalla legge prima del periodo classico, quando l’interesse per la
legittimità della prole coinvolse anche la donna nelle procedure
legali.
Ma la più sorprendente caratteristica della legge ateniese, che
vale a differenziarla dalle successive legislazioni dei tempi antichi,
resta la definizione stessa del reato di adulterio, che non era limitato
al rapporto matrimoniale ma si estendeva ad includere qualsiasi
donna sotto la protezione legale di un cittadino ateniese.
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