e -JURIDICA 5 Delicata e critica analisi intorno al mondo della giurisprudenza greca Melania Apolito L’ADULTERIO NEL DIRITTO GRECO RIFLESSIONE SUL DIRITTO DELL’ANTICO ORIENTE MEDITERRANEO e -JURIDICA 5 a cura di Francesco Lucrezi Melania Apolito L’ADULTERIO NEL DIRITTO GRECO RIFLESSIONE SUL DIRITTO DELL’ANTICO ORIENTE MEDITERRANEO Apolito, Melania L’adulterio nel diritto greco. Riflessione sul diritto dell’antico oriente mediterraneo Collana Pegaso - University Library Pars e-Juridica, 5 Museopolis Press, 2009 ISBN 978-88-6489-001-2 © 2009 Museopolis Press piazza S. Maria la Nova, 44 - 80134 Napoli tel/fax: 0815521597 - 0815523298 mail: [email protected] In copertina: Cristo con la donna adultera, Pieter Bruegel Olio su tela, 1565 LA COLLANA Lo studio del diritto positivo e dei comportamenti normativi di ogni società, con particolare attenzione alla comunità europea ed italiana, è fonte di precipuo interesse per cultori, studenti, professori e professionisti dei fenomeni giuridici. La sezione di questa collana universitaria dedicata allo studio e all’approfondimento delle norme e delle questioni giuridiche, ha il principale scopo di offrire spazi di ricerca per far confluire varie indagini scientifiche da cui attingere riflessioni per un rinnovato e continuo confronto intorno al complesso mondo del diritto. In particolar modo gli studenti della Facoltà di giurisprudenza troveranno, nei volumi di questa sezione e-Juridica, approfondimenti specifici che aiuteranno concretamente il lettore a confrontarsi con varie competenze giuridiche per riportarle nella propria esperienza universitaria e professionale. Questa sezione della Collana Pegaso, University Library, si presenta come un’opera innovativa per il suo formato principalmente digitale che contribuirà non poco alla diffusione e al continuo confronto su di una realtà, quella giuridica, soggetta a cambiamenti repentini e bisognosa di verifiche costanti. IL TESTO Nella normativa greca, l’adulterio aveva riflessi particolari sulla società tali da irrigidire gli statuti e le pene già introdotte gradualmente nel corso dei secoli per coprire nuove aree e riflettere nuove esigenze. Poiché ciascuna di queste leggi era il prodotto del suo tempo, rifletteva le necessità del momento e trattava differenti aspetti del reato, esse non avevano una grande uniformità di spirito e prassi: ma tutte le leggi erano una vera condanna unanime della donna, tacendo spesso le responsabilità maschili. Il saggio ripercorre l’evoluzione della condizione femminile nell’antica Grecia attraverso le vicende storiche delle sue molteplici costellazioni politiche, soffermandosi, in particolare, sull’esigenza delle poleis di controllare la sessualità riproduttiva mediante la repressione del reato di adulterio. Melania Apolito Nata a Boscoreale (NA) il 23 luglio del 1970. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Salerno. È appassionata di poesia e storia antica; nel tempo libero ama dipingere e disegnare. Indice Capitolo I - Lo studio del diritto greco tra i diritti antichi 1.1. Primi approcci allo studio degli antichi diritti orientali 9 9 1.2. Il diritto greco 12 1.3. Il diritto attico quale più ricco campo d’indagine del diritto greco 16 1.4. Il concetto di “diritto” in Grecia 18 1.5. Le ragioni dell’assenza di una vera e propria scienza giuridica 21 1.6. Le fonti di cognizione del diritto greco 25 1.7. Ideologia democratica e produzione delle norme 28 Capitolo II - Posizione giuridica e sociale della donna in Grecia 31 2.1. Le fonti 31 2.2. Ipotesi di matriarcato presso le popolazioni pre-greche 34 2.3. Le donne nei poemi omerici 38 2.4. In Esiodo e Simonide 42 2.5. Nell’epoca arcaica 46 2.6. Nell’Atene classica 52 2.7. Figure femminili irregolari: sacerdotesse ed etère 65 2.8. Le donne a Sparta 70 2.9. A Gortina 76 2.10. Nell’età ellenistica 79 Capitolo III - Il matrimonio in Grecia 83 3.1. L’importanza del dispositivo matrimoniale quale rivelatore dei meccanismi della società 83 3.2. Il matrimonio nell’età arcaica 84 3.3. Nel diritto attico in età classica 90 3.4. I rituali nuziali 97 3.5. La dote 104 3.6. I rapporti tra coniugi 109 3.7. Limiti al matrimonio e modalità di scioglimento 113 3.8. Fuori da Atene 116 Capitolo IV - La moikeia 122 4.1. L’infedeltà coniugale nell’antica Grecia 122 4.2. L’adulterio nel mondo omerico 123 4.3. Il reato di μοιχεία nel periodo classico 125 4.4. La tesi del Cohen 129 4.5. Struttura del reato di μοιχεία 132 4.6. Sanzioni dirette contro l’adultero 142 4.7. Punizione dell’adultero uti civis 148 4.8. Posizione della donna 151 Bibliografia 158 Indice Capitolo I Lo studio del diritto greco tra i diritti antichi 1.1. Primi approcci allo studio degli antichi diritti orientali Lo studio dei diritti antichi ha avuto origine, come fenomeno culturale, nel periodo umanistico, quando i giuristi della scuola culta1 intrapresero, per la prima volta, l’analisi storica di tutte le fonti giuridiche dell’antichità, non solo romane ma anche greche ed orientali. Sino ad allora la scienza giuridica si era limitata all’esame delle due supreme ed immutabili autorità legislative, il Corpus Iuris civilis ed il Corpus Iuris canonici, considerate per secoli le uniche matrici del diritto del mondo civile. Ma proprio perché l’Europa medievale si era strutturata sul lascito giustinianeo del diritto romano, i primi approcci degli studiosi ai diritti del Mediterraneo antico non poterono non essere condizionati da concetti, termini e forme mentali tipici della tradizione romanistica2. E anche quando, nei secoli successivi, nuove scoperte archeologiche accrebbero in misura insperata la conoscenza 1 Per un approfondimento sul movimento della “scuola culta giuridica” cf V. Piano Mortari, La scienza giuridica del secolo XVI: aspetti della scuola culta, Catania 1966. 2 F.P. Casavola, Diritto romano e diritti dell’oriente mediterraneo, in Civiltà nel Mediterraneo 2, Napoli, 1992, ora in Sententia Legum tra mondo antico e moderno, Napoli 2001, 12. 9 Indice di quelle remote civiltà (babilonese, ebraica, siriana, persiana, egiziana, greca, ecc.), il diritto romano continuò ad influenzarne la comprensione di norme ed istituti giuridici. Gli orientalisti, infatti, nel tradurre gli scritti che di volta in volta venivano alla luce, erano portati a servirsi del lessico romanistico corrente e, inevitabilmente, gli storici e i giuristi che si basavano su quelle traduzioni per i loro studi, erano tratti in inganno dalla terminologia, finendo col vedere nell’identità di termine anche un’identità di struttura3. La stessa ricostruzione scientifica degli antichi diritti orientali, la classificazione dei loro istituti, la partizione delle loro norme si fondavano sempre su un uso massiccio e disinvolto delle categorie giuridiche romane, le quali erano difatti considerate imperiture ed applicabili a qualunque ordinamento giuridico. Di conseguenza l’approccio alle fonti avveniva, il più delle volte, cercando in esse conferma di qualcosa di prestabilito, nella convinzione che l’agire dell’uomo in società fosse da sempre accompagnato dalle medesime forme concettuali4. Nessuna meraviglia, quindi, se cominciò a farsi strada l’ipotesi di una fonte primitiva comune a tutte le legislazioni mediterranee, e se la crescente ammirazione per gli antichi diritti orientali spinse molti studiosi ad immaginare una forte influenza di queste legislazioni 3 4 E. Volterra, Diritto romano e diritti orientali, Roma 1937, rist. 1991, 89. E. Stolfi, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006, 113. 10 Indice sullo stesso diritto quiritario. Oggi simili teorie possono apparire bizzarre, stravaganti, ma non bisogna dimenticare che, ancora agli inizi del secolo scorso, erano considerate verità imprescindibili e che solo negli ultimi tempi sono state definitivamente superate in virtù dei nuovissimi studi di diritto comparato. In realtà l’attuale dottrina orientalistica deve molta della sua recente evoluzione al contributo offerto dagli studi di Edoardo Volterra sui rapporti tra diritto romano e diritti orientali. Sin dal 1937 l’eminente studioso aveva intuito la necessità di sovvertire il metodo di approccio alle fonti, nella convinzione che, per giungere ad una corretta valutazione storica degli antichi sistemi giuridici, fosse necessario analizzarli non, come avveniva tradizionalmente, nella prospettiva d’individuare analogie e derivazioni, ma con l’intento di scoprirne i caratteri originari e distintivi, adoperando strumenti prettamente giuridici e tralasciando troppo semplici considerazioni sociologiche. In altre parole, Volterra aveva sviluppato una tecnica interpretativa del tutto nuova, che gli permise di affermare, in contrasto con la comune dottrina, l’assoluta indipendenza del diritto romano dell’epoca più remota – quello che la tradizione attribuisce alle XII Tavole – non solo dagli antichi diritti orientali ma anche dalle possibili influenze della civiltà greca, che di elementi orientali era notoriamente impregnata5. 5 E. Volterra, Diritto romano, 3 ss. 11 Indice 1.2. Il diritto greco Il diritto greco, come gli altri antichi diritti del Mediterraneo, è stato per secoli oggetto di studi eruditi, di carattere filologico più che giuridico, ed anche quando storici e giuristi hanno cominciato ad interessarsi ad esso, si trattava di escursioni sporadiche, riguardanti soprattutto i profili privatistici e sempre all’ombra delle categorie e degli istituti propri dell’elaborazione romana6. In realtà chi si accosta all’esperienza giuridica dell’antica Grecia si trova dinanzi ad uno scenario assai diverso da quello che la tradizione romanistica ci ha reso familiare. In primo luogo va precisato che per diritto greco s’intende il complesso degli ordinamenti giuridici vigenti dalla formazione storica del popolo greco (1200 – 1100 a. C.), all’età ellenistica, in un ambito territoriale piuttosto esteso che comprendeva, oltre a Creta e alla penisola greca, molte città dell’attuale Turchia, le colonie dell’Italia meridionale, gli spazi commerciali dell’oriente e tutta una cospicua porzione dell’Impero romano7. Quindi non un sistema giuridico unitario, compatto, ma tante comunità autonome, dotate di proprie istituzioni, di proprie magistrature e di leggi corrispondenti alle rispettive esigenze politiche e condizioni storiche. Se, infatti, l’Impero romano (per quanto fosse vasto lo spazio 6 7 E. Stolfi, Introduzione, 5. E. Stolfi, Introduzione, 4. 12 Indice soggetto al suo dominio ed estesa la proiezione del suo diritto) era sorto da un’unica città, capace di espandere il suo potere militare ma anche le sue tecniche di disciplinamento sociale, l’antica Grecia appariva, invece, frammentata in tante comunità politiche (πόλεις) gelose delle proprie istituzioni e spesso in conflitto le une con le altre. C’è da chiedersi, allora, se sia più giusto parlare di “diritto greco” o piuttosto far riferimento a tanti diritti greci quante furono le πόλεις. La questione ha dato luogo a non poche controversie tra gli studiosi. A favore di una configurabilità in termini unitari dell’esperienza giuridica greca è stato soprattutto Ugo Enrico Paoli. L’autorevole studioso era convinto, infatti, che, nonostante le diversità tra i vari ordinamenti cittadini, in tutte le legislazioni greche persistessero dei princìpi fondamentali comuni, espressione di una coscienza giuridica uniforme. Come nelle altre manifestazioni dello spirito greco, così anche nel diritto sarebbe, cioè, possibile osservare quel carattere di unità e continuità che si mantenne inalterato attraverso le vicende storiche delle molteplici costellazioni politiche. Finché la πόλις era nel suo splendore (κμή), questo diritto greco “comune” affiorava appena alla superficie, ma col decadere delle c.d. città-stato e, di conseguenza, con il diminuire di tono della vita 13 Indice pubblica, si produsse nel mondo greco un generale appiattimento dei rapporti giuridici, in seguito al quale perse importanza tutto ciò che era caratteristico e singolare per lasciare allo scoperto solo quello che appariva omogeneo e comune. La degradazione della πόλις ebbe come effetto l’inevitabile adattamento di numerosi istituti di diritto pubblico, e di conseguenza si andarono perdendo anche quegli elementi particolaristici che ogni città aveva impresso al proprio diritto privato, mentre venne a galla quel fondamento di diritto comune che è possibile ritrovare fin oltre l’età ellenistica8. Le stesse convinzioni sono condivise anche dal Biscardi9, il quale ricorda come gli stessi Greci fossero consapevoli dell’esistenza di un fondo culturale unitario, prova sicura di un’altrettanta comunanza di principi giuridici. A testimonianza di ciò, lo studioso riporta una frase di Erodoto in cui lo storico greco scrive: «…la nostra comunanza di stirpe e di lingua, i nostri comuni templi degli dei e i nostri riti, i nostri costumi affini,…»10. La dottrina più recente sembra prediligere, invece, la tesi pluralistica, tant’è vero che negli ordinamenti didattici universitari 8 U.E. Paoli, Diritto greco, in Novissimo Digesto Italiano, vol. V/2, 1968, 864-865. 9 Biscardi - Cantarella, Profilo di diritto greco antico, Milano 1974, 6 ss. 10 Erodoto, Storie, VIII, 144, cf Biscardi-Cantarella, Profilo di diritto greco antico, 8. 14 Indice degli ultimi anni la materia in argomento è denominata “Diritti greci”. Il rinvenimento di istituti simili nelle legislazioni di diverse πόλεις (come ad esempio l’epiclerato) non è sufficiente, a giudizio del Martini11, a far prospettare l’esistenza di un diritto greco comune, perché troppo consistenti rimangono le diversità, prova sicura di differenti realtà sociali. Per Emanuele Stolfi12 la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici appare chiara solo se si rinuncia a guardare la realtà giuridica greca con un’ottica falsata da metodologie e concetti ad essa estranee. L’utilizzazione delle categorie “dogmatiche” romane induce a selezionare solo gli aspetti che rivelano comunanze e coincidenze, e, di conseguenza, a tralasciare quelle diversità, talora radicali, tra le strutture istituzionali delle città greche che necessariamente si ripercuotevano sull’assetto giuridico delle stesse. La rinuncia a questo strumentario priva i dati offerti dalle fonti quasi di ogni forma di aggregazione e conduzione ad unità, per cui è facile giungere alla conclusione che tanti furono i diritti greci quante furono le antiche πόλεις. 11 12 R. Martini, Lezioni di diritto attico, Siena 1996, 7. E. Stolfi, Introduzione, 5-6. 15 Indice 1.3. Il diritto attico quale più ricco campo d’indagine del diritto greco Ma qualunque sia l’opinione riguardo all’unitarietà o alla pluralità dell’esperienza giuridica greca, una cosa è certa: il diritto attico rimane l’unico sistema organico e completo di diritto greco che, per ricchezza di dati informativi, sia possibile ricostruire in modo attendibile. La Grecia classica era suddivisa in circa 750 πόλεις, cui vanno aggiunte almeno altre trecento fondate da coloni fuori dalla Grecia propriamente detta. Molte di esse erano minuscole, con un territorio che non superava i 100 km. quadrati e una popolazione inferiore ai 1000 maschi adulti, ma tutte difendevano gelosamente la loro autonomia e tentavano allo stesso tempo di eliminare quella dei vicini. Tuttavia, a parte poche conquiste di breve durata, nessuna città riuscì mai ad ottenere la sovranità sulle altre, e in ogni caso l’autonomia dei piccoli stati si concluse con la conquista dell’intera area da parte di qualche grande potenza vicina13. Atene, soprattutto nei secoli d’oro della sua democrazia (V-IV sec. a.C.), fu di gran lunga la città più ricca e popolosa di tutta l’Ellade e dominò le altre πόλεις in campo politico, artistico, filosofico e letterario. Ed è proprio in virtù di questa straordinaria fioritura artistica ed intellettuale che sono giunte fino a noi la maggior parte 13 M.H. Hansen, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C. , trad. it., Milano 2003, 91 ss. 16 Indice delle nozioni riguardanti non solo il diritto ateniese, ma anche l’ambiente storico in cui esso fiorì e la società su cui le sue norme imperarono. Ben più esigue sono, invece, le informazioni conservateci riguardo alle altre città greche. Poco si conosce della costituzione politica di Sparta e ancor meno del suo regime dei rapporti tra privati. C’è poi da precisare che la maggior parte di queste informazioni ci derivano, pur sempre, da autori ateniesi, il cui principale intento era quello di confrontare la propria realtà con quella spartana. Per quanto concerne le altre comunità di stirpe dorica, abbiamo una discreta conoscenza soltanto del diritto di Gortina grazie al rinvenimento di una grande epigrafe, risalente alla prima metà del V sec. a.C., in cui sono riportate le disposizioni che regolavano i rapporti familiari all’interno della città. Originariamente l’epigrafe era esposta al pubblico nella piazza principale della città, secondo l’uso delle πόλεις greche di incidere sulla parete degli edifici pubblici le loro leggi per portarle a conoscenza di tutti. Tale preziosa iscrizione venne alla luce nell’estate del 1884, durante gli scavi eseguiti da un gruppo di archeologi italiani, nel luogo dove sorgeva l’antica πόλις cretese. Sempre nello stesso sito furono, in seguito, rinvenute altre iscrizioni, alcune delle quali di età più antica. 17 Indice Il complesso di questi documenti epigrafici, il contenuto dei quali può essere completato con elementi di altre epigrafi cretesi, costituisce il c.d. “diritto di Gortina”14. 1.4. Il concetto di “diritto” in Grecia A dire il vero non è del tutto esatto parlare di diritto a proposito delle forme di regolamentazione sociale messe a punto nelle cittàstato dell’Ellade e della magna Grecia, dal momento che il greco antico non conobbe alcuna parola corrispondente al nostro termine “diritto”. A fronte di almeno tre vocaboli (νόμος, qεσμός, e ψήφισμα) con cui veniva designata la disposizione giuridica, sia pure con sfumature diverse, neppure una parola fu coniata per indicare la tecnica di disciplinamento che in quelle figure aveva i propri mezzi e le proprie fonti15. Né serviva a questo scopo l’espressione “τov δiκαιον”, la quale indicava, invece, un concetto etico, e precisamente la giustizia dell’ordinamento, cioè i valori in esso incorporati e che rappresentavano il fondamento morale della convivenza sociale16. Questo non vuol dire che non sia possibile o corretto parlare di 14 U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 481 ss. 15 E. Stolfi, Introduzione, 12. 16 H.J. Wolff, Preistoria ed origine del concetto di diritto nell’esperienza greca arcaica, in Studi C. Sanfilippo, II, Milano 1982, 763. 18 Indice diritto greco, ma è bene tener presente che tale termine assume qui delle connotazioni lontane da quelle cui ci hanno abituato le esperienze moderne. Inoltre la mancanza di una vera e propria scienza del diritto non fu una caratteristica esclusiva del mondo greco: nessuno dei diritti mesopotamici e mediterranei conobbe una scienza giuridica nel significato epistemologico della tradizione romanistica. Le collezioni di leggi, di decisioni giudiziarie, gli archivi di atti privati che ci sono pervenuti riguardo queste lontanissime civiltà, rivelano un ancoraggio ai singoli casi che non lasciava spazio a generalizzazioni né a sistemazioni concettuali, nessuna matrice raziocinante ma solo esperienza e comando17. Il diritto come funzione sociale autonoma - munita di un suo specialismo tecnico, distinta dalla religione ma anche dalla politica - fu un’invenzione prettamente romana. A dire il vero in tutti i popoli antichi, a cominciare dallo stesso popolo romano, è possibile individuare una fase originaria in cui v’erano degli usi sociali generalmente seguiti ma ancora non si distingueva tra semplici convenzioni moralmente vincolanti, doveri religiosi e princìpi giuridici in senso stretto. Si trattava cioè non ancora di diritto ma di una sorta di “prediritto”18 costituito da una massa di regole di condotta di natura soprattutto religiosa e destinato ad avere sviluppi differenti nelle 17 18 F.P. Casavola, Diritto romano e diritti dell’oriente, 13. L. Gernet, Droit et société dans la Grèce ancienne, Paris 1955, 2. 19 Indice diverse società. In Egitto ed in Israele siffatta commistione tra prescrizioni sociali, regole etiche e disposizioni religiose, continuò a perdurare previo il costituirsi di apparati teleologici e sacerdotali sempre più complessi. Per la tradizione ebraica, ad esempio, tutta l’organizzazione del mondo sociale derivava da Dio. Jahvé manifestandosi a Mosè sul monte Sinai assunse le vesti di legislatore per dare al popolo ebreo la sua legge. Le “dieci parole” , o decalogo, erano il contenuto dell’alleanza stipulata tra Dio e il popolo: se il popolo le osservava godeva delle benedizioni, se le infrangeva soffriva le maledizioni19. Anche nelle comunità descritte da Omero, storico totale della Grecia arcaica, era difficile distinguere le norme giuridiche dalle altre regole di condotta, dal momento che il controllo sociale veniva attuato attraverso sanzioni esclusivamente psicologiche, la cui efficacia era garantita da un’etica collettiva condivisa e compatta20. Ma con il sorgere di uno spazio cittadino e l’affermarsi di una razionalità in grado di governarlo, al di fuori delle ingerenze delle strutture familiari e del ritualismo magico sacrale, la produzione di regole di comportamento sociale cominciò a staccarsi dalla sfera religiosa per integrarsi nel meccanismo della vita pubblica e quindi 19 F.P. Casavola, Laicità tra religione e diritto nell’esperienza del mondo antico, in Studium, 90 (1990), ora in Sententia Legum tra mondo antico e moderno, 382-383. 20 E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Milano 1976, 67. 20 Indice politica. Mentre, però, a Roma questo stesso fenomeno dette vita ad una dimensione culturale ed istituzionale rigorosamente giuridica, indipendente e separata dagli altri poteri, in Grecia non vi fu questa ulteriore distinzione dei sistemi direttivi ma la norma venne sempre considerata alla stregua di un comando politico. 1.5. Le ragioni dell’assenza di una vera e propria scienza giuridica Le ragioni che hanno portato ad esiti così distanti vanno individuate, secondo molti studiosi, in certi tratti distintivi ravvisabili nel vissuto religioso dei due popoli. Nelle comunità arcaiche l’esperienza religiosa non rimane mai relegata entro i confini delle credenze personali e delle pratiche di culto, ma coinvolge ogni momento della vita comunitaria, regola i rapporti tra consociati, contribuisce a definire l’assetto delle istituzioni. Ad un primo sguardo le tradizioni religiose greche e romane potrebbero apparire assai simili, vista la presenza di figure divine corrispondenti, ma ad un più attento esame, è possibile individuare degli elementi distintivi di estremo interesse, che ci aiutano a comprendere le differenziazioni della storia successiva. In Grecia la percezione del sacro si accompagnava ad una formidabile inventiva mitologica, ad una cascata inesauribile di miti e leggende attraverso i quali s’intendeva dare spiegazione ai grandi fenomeni della natura e, particolarmente, ai moti e alle dinamiche 21 Indice dell’animo umano21. Gran parte dell’esperienza religiosa del popolo ellenico era infatti filtrata dalla creatività dei poeti nonché dalla credulità e dalle fantasie popolari. Facendo ricorso al mito l’uomo greco disseppelliva le angosce e le pulsioni, non per prevenirle con comportamenti e rituali propiziatori, ma allo scopo di esorcizzarle attraverso la comprensione e la conoscenza. Per questo motivo le comunità elleniche - certe che nessuna osservanza di precetti divini né il compimento di gesti rituali e propiziatori potevano evitare le sciagure, se questa era la volontà degli dei - non dedicarono mai molta cura allo sviluppo di riti e procedure cui affidarsi nel compimento degli atti più rilevanti della loro esistenza. Esattamente l’opposto accadde, invece, nella Roma arcaica, dove il culto degli dei fu caratterizzato non dalla creazione di miti e leggende (i miti romani più noti riguardano quasi esclusivamente la fondazione della città), ma da un minuzioso intreccio di regole da osservare, gesti da compiere, parole da pronunciare, tempi da rispettare. Una vera e propria “sindrome prescrittiva”22 del tutto assente nella cultura greca. Per i Romani ciascuna divinità aveva uno specifico compito e 21 22 E Stolfi, Introduzione, 25 ss. A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 53. 22 Indice bisognava rivolgersi ad essa a tempo debito e con le giuste suppliche per ottenere la protezione necessaria a realizzare con successo gli atti più importanti, come dichiarare una guerra, trasferire una proprietà, contrarre un matrimonio, raccogliere le messi, ecc. Alla base di questo diffuso ritualismo religioso v’erano le particolari condizioni ambientali della prima arcaicità romana. Roma, agli inizi della sua storia, era circondata da pericoli e nemici, isolata tra l’ostilità di Latini, Sabini ed Etruschi, quindi sotto costante minaccia d’invasioni e violenze. In un simile scenario, il ricorso ad una fitta rete di prescrizioni serviva a dar fiducia ed equilibrio alla comunità attraverso l’illusione di proteggere ogni atto della vita quotidiana per mezzo della presenza di un dio ad esso preposto e un cerimoniale in grado di propiziarne i favori. Dietro questi diversi stili di religiosità è possibile riconoscere i segni precursori delle successive forme di razionalità laica che caratterizzarono, nel prosieguo della storia, gli apparati culturali dei due popoli: nel mondo greco, un impianto speculativo di grande profondità, fondato sull’amore della conoscenza (philosophia) e la ricerca del vero; a Roma, una tecnica che non mirava al puro sapere né allo scavo interiore, ma al disciplinamento minuzioso dei comportamenti sociali e, per mezzo di esso, all’ordine e alla stabilità sociale23. La presenza di un impianto ritualistico così rigoroso richiedeva, 23 E. Stolfi, Introduzione, 27. 23 Indice inoltre, un altrettanto severo specialismo di funzioni e controlli. Solo un esperto poteva garantire il corretto esperimento delle procedure, ricordare le parole e i gesti solenni per l’infinità di cerimonie e riti da cui era scandita la quotidianità romana. Da qui il costituirsi di figure e collegi sacerdotali con competenze e ruoli ben distinti. A quelle stesse figure sacerdotali, con il tempo, i Romani cominciarono a rivolgersi non solo per conoscere le formule più appropriate da impiegare, ma anche il modo in cui si ci doveva comportare in una pluralità di casi. Ed è proprio qui che va collocata l’origine di quell’invenzione, tutta romana, di affidare la produzione del diritto non ad isolati legislatori o ad assemblee popolari, ma all’elaborazione di esperti - in un primo momento i pontefici stessi, più tardi, figure laiche di estrazione aristocratica, infine veri scienziati del ius a prescindere dalla provenienza sociale. All’esperienza greca mancò, quindi, una prassi scientifica del diritto che fosse rivolta all’affinamento e alla scoperta delle conseguenze pratiche dei principi e dei metodi giuridici. È vero che, soprattutto nel periodo classico di Atene, la retorica giuridica raggiunse livelli vicini alla perfezione, essa però non mirava ad una chiarificazione e ad un approfondimento oggettivi, ma al successo contingente nelle controversie in cui i discorsi erano pronunciati24. 24 H.J. Wolff, Preistoria, 760. 24 Indice 1.6. Le fonti di cognizione del diritto greco La mancanza di una scienza giuridica non significava, tuttavia, mancanza di coscienza giuridica; al contrario, proprio l’assenza di un ceto di giuristi fece si che il diritto, invece di rimanere oggetto di conoscenza di un ristretto numero di specialisti, fosse un sentimento comune a tutto il popolo, che investiva ogni manifestazione della vita e che finiva con l’affiorare nei vari generi della letteratura greca25. Non è un caso che le fonti attraverso le quali ci è dato conoscere e ricostruire il diritto greco siano di natura quasi esclusivamente letteraria. Mancando l’apporto di veri e propri esperti del diritto non è, infatti, possibile contare sulla presenza di materiale specificatamente giuridico, ma si è costretti ad attingere a qualsiasi altro documento possa offrire indicazioni sugli assetti giuridici vigenti nelle diverse città greche. Dalle opere degli storici, a quelle dei poeti, dagli scritti dei filosofi alle raccolte lessicografiche, sino alla grande quantità di testi retorici. Naturalmente il riferimento a questo tipo di fonti pone non pochi problemi di affidabilità. Le opere degli storici, per le inevitabili pressioni delle ideologie cui gli autori s’ispiravano, le fonti lessicografiche per la distanza temporale dei dati di cui davano notizia, gli scritti dei filosofi per la difficoltà di discernere tra il 25 Biscardi-Cantarella, Profilo, 14-15. 25 Indice riferimento a leggi realmente esistite ed il richiamo ad istituzioni ideali di una società utopica cui bisognava tendere. Ad esempio le Leggi di Platone sono una fonte ricchissima di notizie sul diritto attico, purché si riesca a distinguere volta per volta quando l’autore riporta norme effettivamente vigenti e quando invece le modifica, totalmente o in parte26. Le uniche fonti dirette sono costituite dai testi legislativi conservatici per via epigrafica (ed è questa la trasmissione più attendibile essendo quasi sempre l’epigrafe un documento autentico e contemporaneo) o, più frequentemente, per via manoscritta, quando cioè si trovano inseriti nel testo di opere letterarie, per lo più nelle orazioni giudiziarie. Anche queste ultime, però, vanno valutate con attenzione e cautela vista la loro destinazione retorica e controversiale. Le orazioni giudiziarie erano, infatti, discorsi redatti da professionisti (λογογράφοι) per essere letti o recitati a memoria dal soggetto coinvolto in un processo, il quale, secondo la legge attica, doveva perorare personalmente la propria causa. I λόγοι erano scritti con lo scopo di sostenere le ragioni di una delle parti di fronte ad un tribunale popolare, non composto cioè da esperti del diritto ma da semplici cittadini. Gli oratori, quindi, non avendo il problema di rivolgersi a persone 26 790. U.E. Paoli, Diritto attico, in Novissimo Digesto Italiano., vol. V/2(1968), 26 Indice giuridicamente preparate, basavano l’intera argomentazione sugli interessi di parte, con l’intento di persuadere ed impressionare i giudici per mezzo di argomenti che, in realtà, avevano ben poco di giuridico. I λογοφράφοι, inoltre, pur essendo specializzati nella redazione delle orazioni giudiziarie, avevano una preparazione più retorica che giuridica, per cui leggendo i loro discorsi non è raro imbattersi in tortuosità di ragionamento, imperfezioni o scarso rigore giuridico27. Malgrado questi limiti e le difficoltà che s’incontrano nella loro interpretazione, le orazioni restano comunque la principale fonte di cognizione della legislazione attica. Particolarmente preziose sono soprattutto quelle orazioni in cui, come abbiamo già visto, l’autore non si limitava a ricordare genericamente una legge, ma ne riproduceva fedelmente il testo affinché, durante l’istruttoria, fosse letto, dal cancelliere, su richiesta di colui che pronunciava l’orazione. Nel diritto attico, infatti, era considerato onere delle parti portare a conoscenza dei giudici le disposizioni legislative da applicare al caso concreto. La legge cioè costituiva un mezzo di prova alla stessa stregua delle testimonianze o di altri documenti scritti, e solo l’iniziativa di una delle parti in causa ne garantiva l’applicazione. A lungo gli storici del diritto hanno dubitato dell’autenticità dei testi legislativi riferiti all’interno delle orazioni, sostenendo che 27 Biscardi-Cantarella, Profilo, 27. 27 Indice tali documenti non erano compresi nella redazione originale dei discorsi ma che vi furono inseriti solo in seguito , ad opera dei copisti di età alessandrina. La dottrina più recente propende, in linea di massima, a favore dell’attendibilità dei documenti inseriti nelle orazioni privatistiche, mentre nutre qualche dubbio in più su quelli riportati nelle orazioni di diritto pubblico (ad es. nell’orazione di Demostene per la corona)28. 1.7. Ideologia democratica e produzione delle norme L’assenza di un’attività professionale del diritto è dovuta, in parte, anche al progressivo affermarsi nelle πόλεις greche del sistema democratico. Rispetto all’ideologia democratica, infatti, una elaborazione del diritto affidata a pochi esperti sarebbe apparsa in contrasto con quel principio dell’eguaglianza dinanzi alla legge (isonomìa) che, se pur di fatto limitata a fasce assai esigue della popolazione, costituiva il punto focale del c.d. “governo del popolo”29. Nell’Atene del V e IV sec. a.C. la legge veniva emanata quasi esclusivamente dall’Assemblea (eκκλησία), cioè con la partecipazione di tutto il popolo, a garanzia dell’effettiva eguaglianza dei cittadini dinanzi alla πόλις e alle sue regole. 28 29 Biscardi-Cantarella, Profilo, 20 ss. E. Stolfi, Introduzione, 36-37. 28 Indice Ma anche nelle altre città-stato in cui si erano imposte forme di democrazia meno radicali, l’affermarsi di un modello giuridico incentrato sul νόμος più che sul carisma e l’attività di un gruppo di sapienti, si legava ad un’idea della politica come categoria principale ed assorbente della vita comunitaria. Nel sistema giuridico romano, invece, la formazione della norma avveniva lontano dalla politica, attraverso un meccanismo di derivazione aristocratica (in origine l’estrazione sociale dei pontefices era solo patrizia) o comunque riservata a pochi esperti. Di conseguenza la vincolatività stessa dei responsi derivava non da una investitura politica ma dal carisma religioso, dalla competenza tecnica e dal prestigio di chi li emanava. Al contrario nella Grecia arcaica, a dare autorità alle pronunce del principe che servivano a dirimere una controversia (le c.d. qevmιστες), non erano le qualità personali del principe stesso né l’autorità di una sua riflessione, ma il fatto che esse erano considerate un oracolo direttamente ispirato dalla divinità30. In altre parole, ai tempi dell’epos la legge era considerata un prodotto del volere della divinità, e, per questo, intangibile. Una convinzione questa che, a prima vista, potrebbe ricordare la concezione antico-ebraica della creazione diretta del diritto da parte della divinità. Ma in realtà i νόμοι non esprimevano dei comandi di legge, come i comandamenti di Dio, secondo la dottrina biblica, ma 30 H. J. Wolff, Preistoria, 774. 29 Indice rivelavano la tipicità o la regolarità di determinati comportamenti31. Gli dei cioè, secondo gli Ateniesi, non erano al di fuori del mondo e causa della sua creazione, ma abitanti insieme all’uomo del mondo. Essi vivevano vicende di vizi e di virtù come gli uomini, per cui non potevano esser fonte di leggi o di modelli morali. Compito della divinità non era quindi imporre un ordine alle cose degli uomini ma svelare, procedendo per gradi e all’occorrenza, la legittimità di singole posizioni giuridiche. Con il tempo però anche tale convinzione andò perdendo forza per il venir meno, già a partire dal V secolo, delle credenze religiose, colpite dalla critica dei filosofi, contro i quali i ceti conservatori tentarono invano di reagire con i processi per empietà (una simile accusa costò la vita anche al sommo filosofo Socrate). Ma in epoca classica era ormai ovvio per gli Ateniesi che l’ordinamento giuridico vigente era il risultato di una cosciente opera legislativa. Il definitivo affermarsi dei regimi democratici fece si che l’ordine antico venisse gradualmente sostituito dalla volontà degli uomini e dei gruppi sociali più forti. Ciò nonostante il mutamento di un νόμος restò sempre un atto eccezionale di straordinaria gravità, rigidamente regolato da una minuziosa procedura che aveva inizio ogni anno nella prima adunanza dell’eκκλησία. 31 U.E. Paoli, Diritto (principio e concetto). Nel mondo greco, in Enciclopedia del diritto., vol. XII, 1964, 634-635. 30 Indice Capitolo II Posizione giuridica e sociale della donna in Grecia 2.1. Le fonti Ricostruire le reali condizioni di vita delle donne nell’antica Grecia non è impresa facile. Una storiografia da sempre attenta alla politica, agli avvenimenti, alle date e ai grandi personaggi ha cancellato il loro passaggio, per conservare, al più, il ricordo di alcune personalità la cui esistenza fu eccezionale32. Nel mondo greco, come in quello romano, l’interesse degli scrittori era prevalentemente politico-militare e, quindi, tagliava fuori dal discorso le donne comuni, relegandole nella sfera del quotidiano. Non va dimenticato, inoltre, che la maggior parte delle informazioni relative alle donne elleniche si ricavano da fonti non obiettive: a parte qualche verso di Saffo e pochi altri frammenti di poetesse di minor fama, il materiale documentario ci giunge da autori maschi, i quali non potevano non risentire dei pregiudizi e delle convinzioni elaborate all’interno di un sistema di relazioni sociali dominato dagli uomini. Del resto, il peso dell’ ideologia sulla condizione femminile è sempre talmente forte da non potervi essere storia delle donne 32 E. Cantarella, L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana, Milano, 1995, nota introduttiva. 31 Indice che non sia, al tempo stesso, storia delle relative rappresentazioni mentali. Ma quali sono, in concreto, i materiali di ricerca di cui disponiamo? Le più diffuse sono, ovviamente, le fonti letterarie: la letteratura greca parla molto delle donne e, spesso, lo fa in temi forti. Anche in questo caso però va ricordato che la maggior parte degli scritti giunti fino a noi proviene da Atene e, quindi, rispecchia la mentalità e la cultura di quella particolare compagine sociale. Inoltre i poemi, i testi teatrali, le orazioni e in genere tutte le opere letterarie, sono dovute ad intellettuali che non avevano simpatia o interesse per le sfere sociali più basse: per le donne del popolino, ad esempio, dobbiamo accontentarci solo degli accenni di Aristofane33. Numerose sono anche le fonti epigrafiche: testi legislativi, giuridici, finanziari, dedicazioni onorifiche, regolamenti religiosi, ecc. Si tratta di iscrizioni incise su pietra o metallo e, di regola, collocate nei luoghi di passaggio (agorà, teatri, santuari), particolarmente interessanti perchè ci svelano aspetti della vita comunitaria delle donne greche normalmente trascurati dalle altre fonti. Pur essendo spesso concise, disconnesse o frammentarie, le fonti epigrafiche hanno il merito di fornire informazioni impersonali ed obiettive che, confrontate con le testimonianze letterarie, ci permettono di riconsiderarne il valore. Ma, soprattutto, 33 I. Savalli , La donna nella società greca antica, Bologna 2003, 32. 32 Indice rappresentano il solo mezzo per raccogliere informazioni riguardo le categorie sociali meno rappresentate nella produzione letteraria: donne di condizione modesta, straniere, affrancate, schiave, di cui abbiamo notizia grazie ad una dedica, un epitaffio o una lista di beni34. Le fonti iconografiche, al contrario, risultano preziose per la ricostruzione della vita quotidiana delle donne. L’onnipresenza di effigi femminili negli spazi collettivi e domestici è significativa: statue, rilievi, steli funerarie e soprattutto ceramiche, ci danno utili ragguagli sulle tradizionali attività femminili quali la toilette, la tessitura, i rituali matrimoniali, quelli religiosi, ecc. Un ricco materiale archeologico per lungo tempo misconosciuto dagli storici, avvezzi a far uso dei documenti figurativi solo per corroborare o illustrare quanto ricavato dalle fonti scritte. Solo negli ultimi anni gli studiosi hanno cominciato a considerare questo tipo di testimonianze non più elementi di complemento, ma fonti autonome di conoscenza, le cui rappresentazioni seguono regole complesse che variano a seconda della natura degli oggetti, della loro funzione, dei loro usi e dei loro destinatari. Anche in questo caso va detto che si tratta comunque di oggetti creati in ambienti maschili e che, di conseguenza, le immagini raffigurate su di essi non sono frutto di una trascrizione oggettiva, ma il prodotto di uno sguardo maschile che ricostruiva la realtà35. 34 35 B. Nadine, Femme et société dans la Grèce classique, Paris 2003, 16. F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, in, Storia delle donne. L’antichi33 Indice Infine un importante contributo alla ricostruzione della condizione femminile nel mondo greco viene anche dalle fonti giuridiche. Le regole del diritto, pur nella loro astrattezza e generalità, ci consentono di conoscere meglio la vita di tutte le donne, anche di quelle che sono passate nella storia senza entrarvi. Naturalmente tra la regolamentazione giuridica e la pratica quotidiana non sempre v’era coincidenza, ma il diritto e il costume sono elementi complementari e solo dal loro esame combinato può emergere un quadro concreto della realtà. Studiare la presenza delle donne nella storia raccontata dagli uomini vuol dire, in conclusione, dissotterrare i fatti da sotto una profusione di discorsi ed immagini, filtrare la realtà dall’immaginario e dal simbolico per mezzo di un attento lavoro critico che comprenda di ogni tipo di fonte possibile, nessuna esclusa, purché vagliata nel suo genere e nei suoi diversi livelli di credibilità sociale o di rappresentatività, tenendo sempre conto dei condizionamenti culturali, della natura dei discorsi e del contesto in cui essi sono stati elaborati. 2.2. Ipotesi di matriarcato presso le popolazioni pre-greche Secondo un’opinione molto diffusa nel secolo scorso, ma che trova ancora oggi qualche ultimo sostenitore, risalendo nella storia del Mediterraneo è possibile rinvenire un tempo in cui le donne tà, G. Duby – M. Perrot ( a cura di), Roma 1990, 182. 34 Indice detenevano non solo il potere familiare ma anche quello politico e sociale, ovvero un tempo in cui le società erano prevalentemente matriarcali. Tale fenomeno avrebbe avuto origine sul finire dell’epoca paleolitica e, più precisamente, nel momento del passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria, presso quei gruppi umani che cominciarono a stanziarsi e a coltivare le terre circostanti, dando vita ai primi villaggi. Con l’introduzione dell’agricoltura, infatti, mentre gli uomini seguitavano a dedicarsi alla caccia, le donne, aiutate dai bambini, si occuparono delle prime forme di coltivazione e, divenendo in poco tempo le principali procacciatrici di cibo, conquistarono sempre maggiore prestigio sociale. Questa situazione sarebbe durata fino a quando l’intensificarsi della lavorazione del suolo rese necessario l’impiego di manodopera maschile mentre la nascita dei primi commerci, con il conseguente arrivo di maggiori ricchezze, richiesero la presenza di un capo maschio capace di proteggere il villaggio dalle scorrerie delle tribù nomadi. Fu giocoforza, allora, che alla diminuzione del contributo femminile si accompagnasse un graduale peggioramento del loro status. Il matriarcato fu quindi, secondo questa teoria, l’organizzazione sociale caratteristica del neolitico e nel Mediterraneo si estese anche oltre tale era caratterizzando, in particolare, la cultura minoica, la successiva cultura micenea e infine lasciando tracce 35 Indice anche nella società descritta dai poemi omerici36. In realtà, allo stato delle attuali conoscenze, non esiste alcuna prova dell’esistenza del matriarcato, inteso quale potere politico femminile, né presso i popoli primitivi né presso le due importanti civiltà pre-greche; quel che è possibile appurare, con un certo grado di attendibilità, è “solo” la notevole indipendenza e l’elevata posizione sociale di cui godettero le donne di Creta e, in misura minore, quelle di Micene e degli altri regni achei. Che le donne minoiche fossero tenute in gran conto è testimoniato innanzitutto dalla tradizione religiosa di questo popolo: a partire dal III millennio gli abitanti di Creta veneravano quale divinità suprema una divinità femminile, la Potnia, Grande Madre Mediterranea, simbolo della forza generatrice delle donne, mentre sempre delle donne, le sacerdotesse, svolgevano l’importante ruolo di mediatrici tra l’uomo e la divinità37. Gli affreschi e, più in generale, le iconografie rivelano, inoltre, che le cittadine di Creta assistevano agli spettacoli, partecipavano alla caccia e fabbricavano vasellame al pari degli uomini. Gli studi archeologici dimostrano che nel palazzo di Cnosso e nelle altre abitazioni cretesi la parte destinata alle donne non era isolata, come avverrà in seguito nelle abitazioni greche, ma in diretto contatto con gli altri ambienti, segno di una libertà femminile di cui si perderà traccia nelle epoche successive. 36 37 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 7 ss. E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 9. 36 Indice Alcune pitture murali mostrano ragazze alla guida di carri, mentre esercitano il pugilato o affrontano dei tori, mentre le scene di fidanzamento raffigurano l’uomo e la donna, sullo stesso piano, uno di fronte all’altro, nell’atto di compiere il medesimo gesto: entrambi alzano il braccio destro e uniscono le mani38. Tuttavia, il fatto che le donne cretesi godessero di diritti civili importanti e di un prestigio sociale ampiamente riconosciuto, non costituisce certo una prova di un potere politico femminile: l’avere un ruolo importante nella società non vuol dire esserne al vertice. Ancor meno sostenibile appare la tesi matriarcale in riferimento ai regni micenei (1400-1230 a.C.) presso i quali il ruolo femminile risultava notevolmente ridimensionato in funzione di un’organizzazione tipicamente militare della società. Gli Achei, infatti, pur avendo assorbito, in seguito alla conquista dell’isola, gran parte degli usi e dei costumi cretesi, li adattarono alle loro esigenze e al loro spirito di rudi guerrieri: al culto della Potnia affiancarono la devozione per divinità maschili (Zeus, Poseidone, Ares, Ermes,… ) simbolo del potere e della forza virile, trasformarono i palazzi reali in fortezze inespugnabili, circondarono le città di mura poderose, ecc. Dalla decifrazione dei famosi caratteri sillabici detti “lineare B” sappiamo che gli uomini non solo occupavano tutti i posti di comando e svolgevano le attività più prestigiose, legate alla 38 R. Ricchi, Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e nella tragedia attica, Firenze 1987, 18. 37 Indice pastorizia e all’artigianato, ma dirigevano e controllavano anche il lavoro femminile. Le donne, dal canto loro, erano adibite a compiti specifici: la manipolazione dei cereali, i lavori ancillari, la tessitura, ecc. Esse erano escluse anche dal complicato sistema di distribuzione della terra: solo le sacerdotesse, in virtù di uno speciale privilegio, potevano possedere appezzamenti di terreni. Infine, nei palazzi le zone riservate al gentil sesso appaiono maggiormente divise dal resto del complesso edilizio di quanto non lo fossero in epoca minoica39. In altre parole le donne micenee, anche se ancora libere nei movimenti e non del tutto escluse dalle funzioni religiose e dalla vita sociale, conobbero un peggioramento del loro status che in qualche modo anticipa la reclusione di cui saranno vittime nella società greca. 2.3. Le donne nei poemi omerici Ma, come si è visto in precedenza, i sostenitori della cosiddetta tesi matriarcale individuano tracce di potere politico femminile anche nei poemi omerici. La presenza nell’Iliade e soprattutto nell’Odissea di figure femminili di grande rilievo dimostrerebbe, secondo costoro, che, 39 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 10-11. 38 Indice perlomeno fino all’VIII secolo a.C., le donne greche godevano di alcuni privilegi e di un’elevata dignità sociale, chiaro retaggio di un’epoca in cui erano loro stesse ad avere il controllo delle istituzioni. Eppure, ad una più attenta lettura dei due poemi, non si può far a meno di notare che i valori e le regole di comportamento degli eroi omerici non si discostano poi tanto dalla misoginia tipica dell’epoca classica. I riferimenti a personaggi femminili dotati di potere ci sono, ma appaiono isolati e, soprattutto, riguardano regine leggendarie (quali Penelope, Elena, Clitemnestra) che nulla hanno delle donne comuni, oppure figure mitiche (le Sirene, Circe, Calipso) dotate, guarda caso, di poteri oscuri ed insidiosi. Non è su queste figure che va ricostruita la condizione familiare e sociale delle donne greche dell’età del bronzo: le mogli, le madri e le figlie dei guerrieri vivevano in maniera ben diversa. Anche se fruivano di una discreta autonomia, il loro posto rimaneva la casa e i loro doveri gravitavano sempre intorno alla famiglia. Tutte le protagoniste dell’epopea, comprese le regine, erano donne di casa: filavano, tessevanono, ricamavano, dirigevano il lavoro delle ancelle, vegliavano a che gli ospiti fossero bene accolti, ecc. Il loro lavoro era, quindi, esclusivamente domestico e veniva considerato a dir poco disdicevole che si occupassero delle 39 Indice “questioni riservate agli uomini”, come ad esempio la guerra40. Significative sono le parole che Telemaco rivolge a sua madre, Penelope: «Ma ritorna tu alle tue stanze, ed attendi all’opere tue, al telaio e alla rocca; fa’ che badin le ancelle all’opere loro; l’arco è affare di uomini e mio soprattutto, ché a me spetta il comando qui nella casa»41. Molto simile è l’amorevole rimbrotto che Ettore rivolge ad Andromaca nel loro ultimo incontro: «Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso e al telaio, e alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro»42. Ad ogni modo, nel mondo omerico, le donne godevano di autorevolezza e libertà; non erano confinate in casa ma circolavano liberamente. Andromaca, avendo sentito dire che l’esercito troiano stava arretrando, in preda al panico, si precipita in cerca di notizie sino alle porte di Scee, trascinando con sé la nutrice e il piccolo Astianatte,43 e quando Ettore cade per mano di Achille, sua madre Ecuba si trova 40 41 42 43 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 24. Omero, Odissea, XXI, 350-353. Omero, Iliade, VI, 490-493. Omero, Iliade, VI. 40 Indice sul bastione circondata dalle altre donne troiane44. Arete si muove liberamente per la città e così fanno anche le sue figlie, tra cui Nausicaa che se ne va, con la sola compagnia delle ancelle, a lavare la biancheria di casa in un fiume fuori dalla città45. Ma, nonostante ciò, la donna omerica rimaneva in una posizione subalterna, vittima di una ideologia inesorabilmente misogena: gli uomini guardavano con diffidenza e sospetto le femmine che consideravano esseri deboli, inferiori, incapaci di sentimenti duraturi. Quella raccontata da Omero era una società essenzialmente aristocratica, le cui tensioni erano determinate, in sostanza, dal problema della ripartizione del potere tra il re e i principi. In un simile contesto la donna fungeva da pegno di alleanza fra le varie casate e rappresentava l’unico mezzo per assicurarsi la prosecuzione dell’οiκος. Mentre infatti non v’erano vincoli per la sessualità di carattere edonistico (le case erano piene di concubine e prigioniere), i gruppi sociali si dimostravano intransigenti per quanto riguarda la sessualità riproduttiva. Tuttavia se la sposa veniva meno alla sua fondamentale funzione procreativa, il marito poteva avere un figlio da una concubina (παλλακή) e adottare il bastardo (νόqος) come suo legittimo discendente.46 44 45 46 Omero, Iliade, XXII. Omero, Odissea, VI. I. Savalli, La donna, 38. 41 Indice È quanto fa, ad esempio, Menelao che avendo avuto da Elena solo una figlia, Ermione, adotta Megapente natogli da una schiava47. Fin dall’età del bronzo, dunque, l’οiκος si presentava come un “tutto” maschile che avvolgeva la componente femminile: la donna era parte della casa, come i figli, l’abitazione, il lotto di terra e le ricchezze, e trovava un riconoscimento sociale unicamente nel mettere al mondo figli legittimi. 2.4. Le donne in Esiodo e Simonide La diffidenza verso le donne che i poemi omerici esprimono trovò una prima giustificazione teorica nelle opere letterarie del periodo immediatamente successivo, fra le quali, in primo luogo, la poesia di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) e Simonide (VII sec. a.C.). Sia nella Teogonia che ne Le opere e i giorni Esiodo, attraverso il mito di Pandora, presenta l’apparizione della donna sotto il segno della diversità e della separatezza. C’era un tempo in cui, racconta il poeta, gli uomini vivevano felici, in completa armonia con gli dei e con la natura. Nella loro vita non c’erano né dolore né fatica, il cibo era spontaneamente offerto dalla terra incolta, non esistevano né malattia né vecchiaia. Ma un giorno, per colpa di Prometeo, gli uomini e gli dei entrarono in conflitto e la condizione umana fu condannata al 47 Omero, Odissea, IV, 10-14. 42 Indice disagio e all’incertezza, a quell’ambigua mescolanza di bene e di male, di gioia e di sofferenza che caratterizza l’esistenza delle creature mortali48. Tutto ebbe inizio da un inganno di Prometeo che, durante un banchetto tra uomini e dei, divise la carne in porzioni disuguali: in una riunì tutte le parti migliori, i muscoli e il grasso, e le nascose nello stomaco dell’animale, per dar loro un’apparenza poco appetibile, nell’altra fece un gran mucchio di ossa e le ricoprì con del grasso per farla sembrare la porzione migliore. Il Titano, quindi, invitò Zeus a scegliere la parte che preferiva e questi, pur sapendo di essere ingannato, prese il mucchio più grande (per questo motivo, d’allora in poi, nel fare i sacrifici, gli uomini offrirono agli dei le ossa e il grasso, bruciandoli sull’altare, e tennero per sé le parti commestibili). Il padre degli dei decise, però, di punire gli uomini privandoli del fuoco e rendendo così impossibile il sacrificio e definitiva la loro separazione dagli dei. Ma Prometeo, preso un bastone cavo, riuscì a nascondervi dentro una piccola fiamma e la riportò ai mortali; così facendo ristabilì, con l’inganno, il legame degli uomini col mondo divino. Sdegnato Zeus escogitò, a sua volta, un terribile inganno in grado di relegare per sempre gli uomini lontano dalla felicità divina: donò loro Pandora, progenitrice di tutte le donne. 48 C. Franco, Senza ritegno. Il cane e la donna, Bologna 2003, 9. 43 Indice «…da lei infatti viene la stirpe delle donne»49. Zeus la diede in dono ad Epimeteo il quale affascinato dalla ragazza dimenticò i consigli del fratello e la prese con sé insieme al vaso che le aveva regalato Zeus. Quando lei aprì il vaso, per vedere quali doni contenesse, ne volarono fuori tutti i mali (morte, malattie, fame, discordia…). Tutte le donne sono perciò creature insidiose, destinate ad entrare nelle case degli uomini portando con se ogni più triste disgrazia. Nessun uomo potrà mai sfuggire a questo male perché solo attraverso la donna il maschio riesce ad avere una discendenza e sfuggire ad «una triste vecchiaia, privo di chi abbia cura di lui… e dei suoi beni»50. La “razza delle donne”, quindi, viene presentata da Esiodo come distinta da quella degli uomini e intrusivamente collocata nel cuore dell’umanità. Non a caso la prima femmina era nata in maniera artificiale: non derivava cioè dalla natura come l’uomo ma, su ordine del signore dell’Olimpo, fu plasmata da Efesto mescolando terra ed acqua, a guisa di incantevole vergine, e poi perfezionata dai doni di tutti gli altri dei. Atene le insegnò l’arte della tessitura, Afrodite le donò la grazia, il desiderio struggente e gli affanni che fiaccano le membra, 49 50 Esiodo, Teogonia, 590. Esiodo, Teogonia, 603-606. 44 Indice mentre Ermes le diede un carattere sfacciato (un’indole cagnesca, κàνεον νόον), un temperamento volubile e nel suo cuore pose menzogna e discorsi ingannatori51. Ma nella morale esiodea la donna è soprattutto un elemento parassitario: in un’economia rurale fondata sul lavoro maschile essa costituisce, per il marito, una inutile bocca da sfamare; il poeta paragona la società umana ad una comunità di api industriose in cui le donne si istallano parassitariamente tali quali i fuchi, sfaticati ed esigenti52. La satira di Semonide d’Amorgo contro le donne è, se possibile ancora più dura. Semonide suddivide l’universo femminile in dieci categorie, ciascuna delle quali è rapportata ad una specie animale (scrofa, volpe, cagna,…) o ad un elemento naturale (la terra o il mare) e, attraverso questi paralleli, ne fustiga impietosamente i vizi più ricorrenti (la sporcizia e il disordine nella donna scrofa, l’astuzia nella donna volpe, l’impudenza nella donna cagna, ecc.)53. Tutte le donne sono per Semonide un male senza fine; esse trascinano l’ingenuo maschio nel mondo degli inganni o lo fanno cadere nel ridicolo. L’unica soluzione è tener lontano la propria moglie dalle altre donne, affinché non la corrompano e, soprattutto, da eventuali ospiti maschili, perché non svelino ad essi la loro 51 52 53 Esiodo, Le opere e i giorni, 78. Esiodo, Teogonia, 594-600. I. Savalli, La donna, 101-102. 45 Indice natura bacata. Solo un tipo di donna, la donna ape, è immune da censure: ella è fonte di prosperità, invecchia col marito in un amore muto, è madre di figli illustri e belli e non si mescola alle altre donne lascive e pettegole. Anche le connotazioni positive della melissa, quindi, più che da sue qualità specifiche dipendono dal suo rimanere chiusa entro le mura domestiche: l’unico elogio insomma va alla donna che fa parlare il meno possibile di se, manifestandosi appena nella preservazione dell’οiκος. Nelle loro opere, dunque, Esiodo e Semonide si sforzano di trovare un fondamento razionale alla segregazione delle donne, che percepiscono come una costante minaccia per l’ordine sociale, causa di frizioni e conflitti tra gli uomini. 2.5. Nell’epoca arcaica Negli ambienti aristocratici e guerrieri dipinti da Omero, e che ritroviamo in tutto il primo periodo dell’età arcaica, le donne venivano considerate delle proprietà, pregiata merce di scambio utile a creare legami di solidarietà o dipendenza, ad acquistare prestigio o confermare rapporti di vassallaggio tra le grandi famiglie nobili. In una società in cui le ricchezze costituivano “segno concreto” 46 Indice degli statuti e delle posizioni all’interno del gruppo, anche le donne erano beni preziosi, come quei doni (°γαλματα) scambiati in occasione delle nozze, che così grande importanza ebbero nella pratica sociale e nella mentalità dei Greci durante i primi secoli della loro storia54. Ma proprio perchè considerate depositarie e insieme segno di valore, esse, pur rimanendo totalmente escluse dal potere politico e indiscutibilmente sottomesse al capofamiglia, godettero di una considerazione onorevole che permise loro di conservare una certa libertà di movimento e il diritto di partecipare ad alcuni aspetti della vita sociale. Ma con la nascita della πόλις, collocabile tra il VII e il VI secolo a. C., lo status femminile conobbe un brusco peggioramento. Una serie di leggi limitò le poche libertà fino ad allora esistenti, mentre svanirono del tutto le occasioni di essere presenti accanto agli uomini in situazioni esterne, di vedere e di conoscere persone e fatti al di fuori della cerchia familiare. Il passaggio dai grandi clan dell’epoca omerica agli οiκοi, le famiglie mononucleari cellule della πόλις, portò ad una esasperazione della funzione femminile per eccellenza - la procreazione di un erede maschio - svalutando così ogni altro loro apporto. Assimilate alle ricchezze private, collocate con il loro corredo patrimoniale sotto la tutela del loro sposo, le abitanti della πόλις 54 J.P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino 1981, 75. 47 Indice non avevano maggior potere delle donne possedute delle società omeriche, ma avevano molto meno valore. La fissazione di ruoli sessuali rigorosamente determinati era divenuta una condizione essenziale per la sopravvivenza stessa della città. Il territorio cittadino, infatti, si articolava in tanti appezzamenti di terreno (κλhροι) ciascuno dei quali era sede di un οiκος. Gli οiκοι costituivano cioè delle unità indipendenti all’interno di un regime agrario basato sull’eguale distribuzione della terra, e la loro preservazione serviva ad impedire l’accumulazione di ricchezze e di potere nelle mani dei vecchi casati aristocratici. Non a caso i legislatori che diedero ai Greci le prime norme scritte si preoccuparono, innanzitutto, di regolare il comportamento sessuale femminile, visto che erano proprio le donne ad assicurare, attraverso la procreazione di eredi legittimi, un’ordinata riproduzione dei gruppi familiari. Così, ad esempio, il famigerato codice di Draconte (VII sec. a.C.), primo legislatore greco, figura in bilico tra il mito e la leggenda, considerava la μοικεία un reato talmente grave da giustificare l’uccisione di un cittadino. Anche il codice solonico, ratificato nel VI secolo a.C., era molto restrittivo riguardo alle donne, e ciò non per la misoginia di Solone, ma perché le sue regolamentazioni erano destinate ad eliminare i contrasti e rafforzare la democrazia appena nata, e le donne erano 48 Indice considerate una fonte perenne di frizione tra gli uomini55. Gli oratori attici del IV secolo e, in particolar modo, Plutarco ci riferiscono alcune leggi attribuibili a Solone che aprono squarci significativi sulla condizione femminile in epoca arcaica. Da una disposizione che vietava di vendere la propria figlia o sorella non sposata, a meno di sorprenderla con un uomo, si può dedurre come fosse consuetudine diffusa sbarazzarsi in questo modo poco ortodosso delle ragazze che non trovavano marito. Il matrimonio rappresentava per le fanciulle un termine di valutazione necessario ed obbligato, uno spartiacque fra “normalità” e “anormalità”, tanto che la donna matura non sposata, la zitella, viveva considerata una donna mancata, un relitto, un peso. La società ellenica, d’altronte, era strutturata in modo tale da non consentire autonomia di vita alle donne di famiglia regolare:56 essa si fondava essenzialmente su un sistema patriarcale in cui l’οiκος, cioè l’insieme della famiglia, degli schiavi e dei mezzi di sussistenza, era retto dall’uomo, che ne era il κύριος, cioè il signore e padrone. Tutte le donne dovevano quindi essere obbligatoriamente sottoposte alla tutela di un uomo, che prima del matrimonio era il padre, successivamente il marito o, in mancanza, un figlio. Ma la messa in vendita di figlie e sorelle veniva praticata, per quanto è lecito supporre, anche dalle famiglie più povere che non 55 56 S.B. Pomeroy, Donne in Atene e Roma, ed. it., Torino 1974, 78. U.E. Paoli, La donna greca nell’antichità, Firenze 1955, 40. 49 Indice riuscivano a darle in matrimonio per l’impossibilità di fornire loro una dote. In realtà questa usanza, ai nostri occhi assai crudele, insieme alla ancor più esecrabile pratica della esposizione delle neonate, svolgeva una funzione socialmente e politicamente utile, in quanto serviva a regolare il numero dei membri del gruppo e, soprattutto, il rapporto fra i sessi in modo che non vi fossero donne in eccesso destinate a restare nubili. Tenere sotto controllo la popolazione femminile era molto importante visto che le donne, a causa della loro mobilità da una famiglia all’altra, costituivano un elemento d’instabilità per la compagine socio-economica della città-stato. La comparsa della dote (προίξ o φερνή) nel marimonio postomerico, comportando il trasferimento di proprietà dalla famiglia del padre della sposa a quella del marito, rischiava infatti di aggirare il fondamentale divieto dell’inalienabilità della proprietà terriera57. Per questo tutte le πόλις si dotarono di una minuziosa regolamentazione riguardante le donne in materia di matrimonio, proprietà ed eredità. Solone, ad esempio, introdusse una norma che limitava le dimensioni delle doti, riducendo il corredo a tre vestiti e ad altri oggetti di poco valore58. 57 58 I. Savalli, La donna, 45. Plutarco, Solone, 20, 6, cf I. Savalli, La donna, 48. 50 Indice La stessa istituzione dell’epiclerato serviva ad impedire un’indebita accumulazione di proprietà. Sappiamo che ad Atene l’esistenza di figli e discendenti maschi escludeva dalla successione le femmine, le quali avevano diritto solo ad una dote al momento del matrimonio. La sposa che aveva un fratello veniva infatti denominata eπίπροικος, vale a dire istallata su (eπί) la sua dote (προίξ). Se però un uomo moriva lasciando solo una figlia, questa non potendo ereditare il patrimonio (κλήρος) paterno, diveniva il tramite attraverso il quale quel patrimonio si trasmetteva ai maschi. Essa era allora definita eπίκληρος, cioè istallata sul κλήρος, ed era obbligata a sposare il parente più prossimo, secondo un ordine di priorità ben preciso. Nel caso in cui l’ereditiera era contesa da più pretendenti, si faceva ricorso ad un’apposita azione giudiziaria, l’eπιδικασία, diretta dall’arconte eponimo, al termine della quale essa veniva aggiudicata a colui che ne aveva diritto. Sposando l’epiclera costui otteneva la tutela della moglie e la tutela della successione, i cui redditi si aggiungevano ai suoi. Quando poi i figli maschi nati dal suo matrimonio con l’epiclera raggiungevano la maggiore età, egli consegnava loro la successione del loro nonno materno e questi versavano alla loro madre una pensione alimentare59. 59 C. Leduc, Come darla in matrimonio? La sposa nel mondo greco, secoli IX-IV a.C., in Storia delle donne, 296. 51 Indice A ben vedere, quindi, la funzione del marito era più che altro quella di contribuire alla procreazione dell’erede effettivo, il quale portava il significativo nome di “figlio della figlia” (qυγατριδοàς). Non a caso una legge solonica obbligava il marito di una eπίκληρος ad avere rapporti con la moglie almeno tre volte al mese, in modo da assicurare un erede all’οiκος del defunto60. Se l’eπίκληρος era già sposata e non aveva ancora figli, l’avente diritto poteva esercitare l’aφαίρεσις, cioè il suo diritto di rapirla, e il precedente matrimonio veniva sciolto. Lo scopo di questa norma era chiaramente quello di evitare la disparizione della proprietà dell’οiκος a vantaggio di un marito ad esso estraneo. Solo se l’epiclera sposata aveva dei figli, cosa che la legava in modo indissolubile all’οiκος del marito, la successione sfuggiva all’avente diritto ed erano i figli dell’ereditiera a riceverla al raggiungimento della maggiore età. Nel caso in cui l’ereditiera era povera, poiché il patrimonio del genitore defunto si rivelava modesto, se il parente più stretto si rifiutava di sposarla, una legge, ancora una volta attribuita a Solone, lo obbligava trovarle un marito e a fornirle una dote. 2.6. Nell’Atene classica Il graduale processo d’isolamento del mondo femminile cominciato con il sorgere delle πόλις divenne segregazione totale 60 I. Savalli, La donna, 50. 52 Indice nell’Atene classica: da sempre relegate nel loro ruolo domestico, le donne finirono con l’essere letteralmente rinchiuse negli angusti confini delle case, o meglio nella parte ad esse riservata e che portava il loro nome, il gineceo. Nel 508 a. C. Clistene, istituendo una nuova unità politicoterritoriale, il δoμος, sancì il prevalere dell’assetto civico territoriale su quello gentilizio. Il δoμος costituì, quindi, la tessera base della città e l’οiκος, in quanto luogo privilegiato di organizzazione della terra e sede primaria dell’economia, la struttura portante. La città divenne istituzionalmente una pluralità di οiκοι e la sua continuità si legò sempre più a quella delle famiglie che la costituivano. Da qui l’importanza di stabilire con precisione i requisiti di chi era preposto a perpetuare la casa e la comunità, nonché la tendenza ad irrigidire le già limitate dinamiche della trasmissione ereditaria61. Qualche decennio dopo, nel 451 a.C., un decreto di Pericle moltiplicò i requisiti richiesti per entrare a far parte del corpo civico, riconoscendo la cittadinanza solo a chi fosse nato oltre che da padre anche da madre ateniese. Per essere cittadino di Atene era cioè richiesta la qualità di aστοί di ambedue i genitori. Il decreto di Pericle subì alterne vicende legate a problemi 61 S. Campese, Madre materia: sociologia e biologia della donna greca, Torino 1983, 72. 53 Indice demografici. Disatteso durante la Guerra del Peloponneso, quando per rimediare alla diminuzione della popolazione fu votata una norma che consentiva agli Ateniesi di sposare una cittadina e di procreare figli da un’altra, fu riattivato nel 403, durante l’arcontato di Euclide, una volta che la situazione di crisi fu superata. La diminuzione o l’aumento del numero delle donne deputate a procreare figli legittimi era quindi un espediente per tenere sotto controllo la popolazione della πόλις e regolare, di conseguenza, il rapporto tra cittadini e risorse. Attraverso la filiazione legittima la città cercava di mantenere, nel corso delle generazioni, la permanenza delle sue strutture e della sua forma, e per fare ciò accordava una speciale “protezione” alle donne addette a questa importante funzione di riproduzione sociale. Se si esclude l’infanzia, che per i Greci arrivava fino ai sette anni e che era quasi indifferenziata sessualmente, tutta la vita delle donne nell’Atene classica ruotava intorno al loro “dovere procreativo”. Allevate in casa dalle schiave, le ragazze non ricevevano alcuna forma di educazione, né a scuola, dove non andavano, né in casa, dove trascorrevano il tempo ad apprendere i c.d. lavori femminili62. Tutti gli insegnamenti avevano come finalità quella di preparare le ragazze ad assumere rapidamente i loro doveri di spose e di madri. Anche i comuni passatempi, come il gioco con le bambole, 62 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 44. 54 Indice il cerchio, la palla, la trottola o l’altalena, non contribuivano certo a svilupparne l’intelletto. Lo stesso Platone, nella Repubblica, si stupì e s’indignò del fatto che il compito di allevare i cittadini fosse affidato ad esseri che erano essi stessi tanto male allevati63. D’altra parte le giovani non restavano a lungo nella casa paterna visto che il matrimonio avveniva, di regola, intorno ai 14-15 anni. La condizione di vita delle donne sposate era ancora peggiore: affondate nella privatezza della casa trascorrevano una vita vuota, priva di interessi e gratificazioni. Non avevano alcuna possibilità d’incontrare persone diverse dai familiari, non andavano nemmeno a far la spesa (le compere ad Atene erano incombenza degli uomini o al limite degli schiavi) né partecipavano ai banchetti. Con l’aiuto delle schiave, nell’intimità dell’οiκος, esse svolgevano le tradizionali attività femminili, gli eργα γυναικéν: la tessitura, la preparazione dei cibi cotti, l’allevamento dei figli. La differenziazione dei ruoli tra uomo e donna si ripercuoteva, infatti, anche nella differenziazione tra lavori domestici ed extradomestici. Alle donne spettava la gestione di ciò che era considerato ad esse più congeniale, cioè la cura degli spazi interni dell’οiκος, agli uomini competevano gli spazi esterni: l’aγορά dove esercitavano la ragione, il campo di battaglia dove mettevano alla prova il coraggio. 63 Platone, Repubblica, II, 377, cf Storia delle donne, 58. 55 Indice Per dire fino a che punti gli abitanti del Nilo differissero dai Greci, Erodoto scriveva: «Gli Egiziani hanno costumi e leggi contrari a quelli di tutti gli altri popoli. Presso di loro le donne vanno al mercato e commerciano mentre gli uomini restano a casa e tessono»64. Il fatto che un simile comportamento apparisse inconcepibile agli occhi dello storico greco conferma fino a che punto la destinazione delle donne ai lavori domestici fosse considerata naturale. Senofonte, nell’Economico, fa dire ad Iscomaco - prototipo dell’aνήρ καλός κaγαθός cioè del perfetto capofamiglia, ottimo cittadino e dinamico amministratore delle proprie ricchezze - che la divinità ha dato ai due sessi una uguale capacità di padroneggiare le passioni, ma ha adattato la natura femminile ai lavori e alle cure interne e quella maschile alle attività esterne65. Un corpo meno resistente ed una natura più timorosa legano le femmine ad attività in cui la superiorità virile susciterebbe il riso. Persino Socrate, notoriamente ben disposto verso le donne, in un dialogo riportatoci da Platone, liquida il lavoro femminile come non degno nemmeno di essere considerato: «Dobbiamo dilungarci a parlare della tessitura, della confezione di focacce e degli alimenti cotti, dove sembra distinguersi il sesso femminile e dove anzi è ridicolo che venga sconfitto?»66. 64 Erodoto, Storie, II, 35. 65 Senofonte, Economico, VII. 66 Platone, Repubblica, V, 5, 455 c, cf G. Sissa, Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in Storia delle donne, 72-73. 56 Indice Come a dire che a causa dell’abilità delle donne, queste erano competenze ridicole per gli uomini. Lo sviluppo della πόλις, d’altro canto, aveva prodotto una netta distinzione tra vita pubblica e vita privata, tra l’interazione egalitaria dell’aγορά e il sistema chiuso, intimo e gerarchico dell’οiκος. All’interno della democraticissima Atene l’οiκος era governato monarchicamente dal capofamiglia, colui che era uguale (iσος), il cittadino, mentre le donne e i fanciulli non venivano considerati cittadini ma sudditi; la loro condizione era quella di individui liberi ma governati dal capofamiglia67. La πόλις era un ordinamento essenzialmente militare, un’associazione di uomini liberi, maschi, atti alle armi e dotati di tutti requisiti fisici, di nascita e sacrali richiesti: i requisiti del πολίτης. Di conseguenza ne erano escluse tutte le altre categorie di persone: le donne, gli schiavi, gli stranieri e, per altri versi i poveri. In Atene solo il πολίτης era ‘Aqηναiον; alla donna veniva addirittura negato la qualifica di ateniese per placare, si diceva ricorrendo ad un’immagine mitologica, Posidone irritato contro i voti femminili in favore di Atena quando si scelse il nome della città68. Essa perciò era definita ’Aττική o aστή, termine, quest’ultimo, che serviva ad indicare la sua appartenenza alla città in senso fisico 67 Cf S. Campese, Madre materia. 68 L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in Storia delle donne, 376. 57 Indice (aστυ), ma la sua esclusione dall’organizzazione cittadina. Di nascita ateniese, l’aστή poteva solo dar vita a futuri titolari della cittadinanza o a future spose di cittadini. E proprio in qualità di madre, moglie o figlia di cittadini, essa viveva sotto la protezione della πόλις e godeva dei diritti che le spettavano ex iure familiari. Ma poiché solo chi era cittadino poteva essere titolare di diritti di fronte alla comunità politica, di questi diritti era titolare il κύριος, cioè il potestatario, il quale agiva in ogni caso come rappresentante legale della donna. Le donne senza l’assistenza del loro tutore non potevano far testamento, agire in giudizio e soprattutto non avevano la facoltà di disporre personalmente dei beni di loro proprietà che costituivano la dote e che venivano difatti amministrati e gestiti dal marito. Ma le cittadine ateniesi non potevano nemmeno spendere ingenti quantitativi di denaro. Un’orazione di Iseo69 datata nella prima metà del IV secolo a.C., ci fa conoscere un’antica legge che limitava la competenza contrattuale delle donne ad un medimno di orzo, vale a dire, alla somma sufficiente a provvedere di cibo una famiglia ordinaria per sei giorni. Diverse testimonianze dimostrano che questa prescrizione non era sistematicamente applicata e che, almeno nel IV secolo, l’iniziativa economica femminile raggiungeva importi ben più 69 Iseo, X, 10, cf I. Savalli, La donna, 62. 58 Indice rilevanti, anche se si trattava quasi sempre di donne vedove, di una certa età e con figli piccoli, o di signore molto facoltose. Naturalmente le donne erano estromesse da qualsiasi forma di partecipazione alla vita politica, giudiziaria e militare della πόλις: dibattere e votare nelle assemblee, divenire magistrato o giudice nei tribunali, combattere per difendere la città, erano privilegi esclusivi dei cittadini, da questi gelosamente protetti. La subordinazione di una metà della popolazione libera all’altra metà, in una società che si definiva alla luce dell’eguaglianza e della libertà, costituiva, in ogni caso, un paradosso ideologico che gli Ateniesi cercarono di giustificare attraverso una strategia filosofica e culturale che faceva delle donne esseri deboli, volubili, incapaci di auto controllo, facilmente seducibili da mani estranee e perciò bisognosi di correzioni e restrizioni di ogni tipo. Il cittadino maschio, fondatore dell’ideologia vigente, si attendeva dalla donna una sola performance etica: la “σωφροσu?νη” da interpretarsi come castità, moderazione, silenzio, le uniche virtù che, nella città di Pericle, salvaguardavano l’onorabilità della donna, la legittimità della discendenza e l’integrità dei cittadini70. Pericle stesso, nel celebre epitaffio tucidideo, afferma che la massima fama per una donna virtuosa consiste nel non avere alcuna fama71. 70 71 I. Savalli, La donna, 110. Tucidide, II, 45, 2, cf C. Franco, Senza ritegno, 258. 59 Indice Se una donna si comporta ottimamente non c’è motivo di parlarne: si parla delle donne quando non ottemperano ai loro doveri, quando trasgrediscono la norma dell’ubbidienza, quando deludono il sistema di attese che la cultura maschile ha elaborato. Solo allora esse escono dall’anonimato in cui le avvolge il velo di pudicizia e guadagnano fama, pessima fama, ovviamente. Negli ultimi decenni però l’approfondimento di campi ancora poco esplorati, il fiorire di nuove ricerche antropologiche e la crescente attenzione verso il ruolo femminile nella società, hanno obbligato gli studiosi a “sfumare” il classico schema della donna ateniese totalmente reclusa. Si è visto ad esempio che l’esclusione delle donne dall’aγορά non voleva dire anche esclusione dalla vita religiosa della πόλις. Sappiamo con certezza che le donne prendevano parte a diverse cerimonie sacre, quali feste pubbliche, matrimoni, funerali: esse allora uscivano di casa con elegantissime vesti e con mirabili acconciature e si mostravano in parata mentre la gioventù maschile era tutt’occhi a guardarle. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se proprio in queste occasioni nascevano degli intrighi d’amore: ad una cerimonia funebre, ad esempio, si conobbero la moglie di Eufileto e il suo amante Eratostene72. Sulla trentina di feste celebrate ad Atene quasi la metà presupponeva la partecipazione della popolazione femminile: 72 Lisia, Per l’uccisione di Eratostene. 60 Indice ragazzine e giovinette prendevano parte alle Arreforie, successivamente alle Plinterie e poi, come canefore, cioè portatrici del κανοuν, il cestino contenente l’occorrente per il sacrificio, a varie celebrazioni in onore di Atena, Era e Artemide; le donne sposate intervenivano agli Aloe e alle Tesmoforie di Demetra; quelle in età avanzata alle Antesterie. Il culto più interessante, da questo punto di vista, erano le Panatenaiche: alla grande celebrazione annuale infatti prendevano parte rappresentanti femminili di tutte le età e di tutti gli statuti. Alle Tesmoforie le donne erano addirittura al centro del rituale sacro, al punto che per i tre giorni della ricorrenza, esse s’impadronivano provvisoriamente dello spazio politico abbandonato dagli uomini i quali, per lo stesso periodo di tempo, non sedevano né nei tribunali né nel consiglio73. Le Tesmoforie erano una festa della seminagione che si teneva una volta l’anno, in autunno, in onore di Demetra e di sua figlia Core, per celebrare i misteri della fecondità e della nascita. Demetra Tesmefora, infatti, oltre che detentrice delle leggi familiari (ϑεσμός), era la divinità che vegliava sulla perpetuazione dei cittadini per mezzo della fecondità delle donne, e che assicurava il nutrimento e la prosperità degli uomini favorendo la fertilità del territorio coltivato. Non a caso al rituale erano ammesse solo le spose legittime 73 L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in Storia delle donne, 389. 61 Indice dei cittadini, al punto che la partecipazione ad esse bastava a dimostrare, davanti ai tribunali, la legittimità di una unione. Padrone della nascita e per questo in contatto con le forze più segrete, le donne erano le intermediarie obbligate nella celebrazione dei misteri della fecondità e del rinnovamento della vita. Il culto delle divinità, per la maggior parte femminili, che presiedevano al benessere degli uomini e della città esigeva la loro presenza, anche se questa avveniva sempre all’insegna del controllo e dell’intervento maschile. Le donne erano inoltre escluse dal sacrificio cruento e dalla spartizione delle carni, momenti fondamentali di ogni rituale religioso che rimasero sempre una prerogativa maschile. L’errore delle dottrine tradizionali, troppo propense a procedere per conclusioni e generalizzazioni, sta nell’aver esteso la reclusione e l’esclusione a tutte le donne della πόλις indiscriminatamente, mentre in realtà la loro condizione variava non solo in base all’età, ma soprattutto a seconda della ceto sociale cui appartenevano. A ben vedere, la segregazione rappresentava un “lusso” delle classi più elevate: nelle famiglie povere, che non potevano permettersi di mantenere degli schiavi, anche le donne libere erano costrette ad uscire più volte di casa per le elementari necessità quotidiane, tra cui, prima di tutto, quella di andare a prendere l’acqua alle fontane pubbliche. Le pitture vascolari ci offrono diverse immagini di donne intente 62 Indice alla raccolta e all’approvvigionamento dell’acqua: la fontana appare quindi come un luogo d’incontro tra donne, una sorta di corrispettivo femminile della piazza pubblica per gli uomini74. Quando poi le necessità economiche erano urgenti, le donne praticavano anche attività lavorative che implicavano una vita di relazioni fuori della casa. Demostene racconta che, in seguito ai disagi provocati dalla guerra del Peloponneso, molte cittadine ateniesi furono costrette a divenire nutrici, vendemmiatrici, venditrici di nastri nell’aγορά.75 Le testimonianze epigrafiche mettono in scena una folla variopinta di venditrici: d’incenso, miele, sesamo, sale, abiti, ecc. Di alcune di esse sappiamo con certezza che erano affrancate, per altre rimane il dubbio se fossero meteche o libere, anche se, in genere, il lavoro non era mai ricordato nelle epigrafi delle cittadine. Sappiamo però che esisteva un’άγορά γυναικών, una sezione del mercato in cui personale femminile vendeva articoli di uso femminile ove la presenza di cittadine appare marginale, seppure talvolta attestata76. Va tenuto presente, in ogni caso, che l’etica del tempo non attribuiva al lavoro valori identici a quelli della nostra cultura moderna: in una società schiavista come l’Atene del V secolo il lavoro era persino respinto dai cittadini, la cui sola occupazione 74 75 76 F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, 219. Demostene, LVII, 45, cf I. Savalli, La donna, 80. S. Campese, Madre materia, 76. 63 Indice doveva essere la politica. In base alla morale greca valori che noi percepiamo come positivi quali l’impegno, il lavoro, l’utilità, erano classificati sotto la tabella della schiavitù mentre altri che possono sembrarci negativi, quali l’ozio, l’inerzia, sotto quella della libertà. In una sua commedia Aristofane, volendo denigrare Euripide, sostiene che sua madre era un’erbivendola, una povera στεφηνοπρόκλος (venditrice di corone) vedova di guerra e con tre bocche da sfamare77. Lo svolgimento di certe attività lavorative, correntemente assimilate al lavoro servile, era sufficiente ad ingenerare il sospetto che lo status delle donne che lo praticavano non fosse quello di cittadine ma di straniere o di schiave. Nell’orazione in Eoboulidem, attribuita a Demostene, la madre dell’accusato, un certo Euxitheos, coinvolto in un poco chiaro processo di usurpazione della cittadinanza, è sospettata di essere una meteca perché in passato aveva svolto lavori umili come quello di nutrice. Allora Euxitheos invoca a sua difesa il fatto che dai registri non risulta che essa abbia mai pagato la tassa sul mercato propria dei meteci ed invita i giudici a non considerare i lavoratori come degli stranieri ma, piuttosto i sicofanti come gente disonesta78. 77 78 Aristofane, Thesmoforiazuse, 387. Demostene, LVII, 32, cf I. Savalli, La donna, 87. 64 Indice 2.7. Figure femminili irregolari: sacerdotesse ed etère In una posizione particolare rispetto alle donne spose e madri erano sicuramente le sacerdotesse. Di status cittadino e ben rispettabile, nel periodo arcaico obbligatoriamente di estrazione nobile, esse potevano essere sia sposate (abbiamo notizia di sacerdozi assunti parallelamente da un sacerdote e sua moglie), che παρqένοι, ossia giovinette non ancora maritate. In molti casi, infatti, le più giovani venivano impiegate in culti relativi all’adolescenza e al passaggio nell’età adulta, i quali avevano una durata limitata nel tempo e, in genere terminavano con il matrimonio delle fanciulle. Certi rituali arcaici, come quelli di Eracle a Tespi, in Beozia, esigevano, al contrario, la presenza di sacerdotesse vergini a vita. Per tutta la vita o per un periodo limitato, queste sacerdotesse non sposate andavano, comunque, contro quella incompiutezza così altamente riprovata nelle fanciulle “normali” restie al matrimonio. Esse costituivano, in altre parole, un’eccezione alla famosa regola panellenica secondo la quale per gli uomini e le donne il solo compimento era il matrimonio (τέλος ov γάμος)79. Nell’attribuzione dei sacerdozi le donne non pativano alcuna discriminazione: secondo una prassi generale nel mondo grecoromano le divinità maschili richiedevano per lo più sacerdoti, quelle femminili sacerdotesse. 79 G. Arrigoni, Le donne in Grecia, Roma-Bari 1985, nota introduttiva. 65 Indice Le sacerdotesse rivestivano, al pari dei sacerdoti maschi, una carica pubblica (ereditaria, sorteggiata o comprata) che comportava diverse occasioni di partecipare alla vita sociale, un’innegabile possibilità d’influenza, persino certi poteri giurisdizionali e numerosi altri privilegi. La sacerdotessa di Demetra Camỳne, ad Olimpia, per fare solo un esempio, era l’unica donna autorizzata a partecipare come spettatrice alle Olimpiadi maschili, stando comodamente seduta su un seggio posto di fronte a quelli dei giudici80. Quindi all’ineguaglianza di trattamento di fronte al politico corrispondeva, almeno a prima vista, una ripartizione egualitaria degli onori e delle responsabilità nel campo religioso. Non va dimenticato infatti che erano i cittadini-uomini ad eleggere o estrarre a sorte le sacerdotesse. Quando poi la pratica dell’acquisto dei sacerdozi si generalizzò specie per i santuari dell’Asia Minore, gli uomini potevano acquistare il sacerdozio per sé o per una donna mentre le donne potevano comprare solo per sé. Nei decreti onorifici, inoltre, veniva sempre menzionato il padre, il marito o chiunque fosse il κύριος della sacerdotessa, a dimostrazione che l’assunzione di un ufficio religioso non sospendeva affatto la tutela81. 80 Pausania, VI, 20, 9, cf L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in La storia delle donne, 417. 81 I. Savalli, La donna, 94. 66 Indice Infine, anche se le sacerdotesse ricevevano la loro parte d’onore nella distribuzione che seguiva i sacrifici, il divieto del sangue faceva sì che se nelle loro funzioni dovevano offrire e consacrare un sacrificio cruento, non potevano compiere loro il gesto della messa a morte. Un’altra categoria di donne che in qualche modo si sottraeva alle norme vigenti e condivise da tutti erano le cortigiane di lusso, le c.d. etère. In un celebre passo dell’orazione Contro Neera, tramandata sotto il nome di Demostene, l’autore afferma che l’uomo ateniese poteva avere tre donne: «…le etère per il piacere, le concubine per il servizio quotidiano, le mogli per generare figli in modo legittimo e avere una custode fidata delle nostre proprietà»82. Le etère erano cortigiane non volgari né illetterate che, di solito, venivano ingaggiate per allietare le riunioni simposiali. Il simposio, cioè il bere insieme che generalmente seguiva il pasto vero e proprio, rappresentava un momento di convivialità maschile in cui si ci riuniva tra amici per parlare e stare in allegria, e dal quale erano categoricamente escluse sia le mogli che le concubine. Le etère rappresentavano, quindi, una specie di rimedio organizzato da una società di uomini che, pur avendo segregato le 82 Pseudo Dem., Contro Neera, 122. 67 Indice donne, riteneva tuttavia che la compagnia di alcune di esse potesse rallegrare le attività sociali83. Esse intrattenevano i convitati non solo con passatempi erotici ma anche con la musica, la danza e persino prendendo parte a quelle discussioni che le mogli non dovevano né erano in grado di sostenere. Non vanno perciò confuse con le volgari prostitute che si concedevano per pochi spiccioli nelle case di tolleranza e che venivano comunemente definite con il termine dispregiativo di πόρναι, un derivato del verbo πέρνημι, vendere, per richiamare il commercio che veniva fatto del loro corpo. Questo tipo di prostituzione “a basso costo” pare fosse stato introdotto in Atene da Solone il quale, volendo dissuadere i giovani scapoli dall’intrecciare inopportune relazioni amorose con donne di buona famiglia, specie se sposate, avrebbe fatto comperare numerose ragazze di condizione servile per poi sistemarle in apposite case, sorvegliate e gestite da donne a ciò preposte84. Le cortigiane di un certo rango, al contrario, ricevevano l’eufemistico appellativo di eταίραι, vale a dire “compagne”, termine che poteva essere usato anche in senso onesto per designare l’amicizia tra due donne. Colte, esperte nell’arte della conversazione, sofisticate e 83 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 49. 84 E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti. Femminilità irregolare in Grecia e a Roma, Milano 1999, 17. 68 Indice seducenti, esse vivevano della liberalità dei loro amanti. Per elevarsi nella gerarchia sociale facevano mostra delle loro qualità personali e, non di rado avveniva che intrecciassero relazioni stabili con singoli uomini e ne avessero figli. Talune etère, dotate di bellezza ma anche di spirito e vivacità intellettuali non comuni, divennero famose per i loro legami con personaggi illustri: poeti, filosofi e anche uomini politici. Ricordiamo Aspasia, compagna di Pericle, accusata di empietà dagli avversari dell’illustre uomo politico e appassionatamente difesa proprio da costui; Laide, l’etèra di Corinto, per la cui bellezza leggendaria gli uomini erano disposti a spendere somme esorbitanti; Frine, amante di Iperide, celebre soprattutto per il colpo di scena grazie al quale fu assolta anch’essa da un’accusa di empietà; e molte altre. È importante notare come i due processi che videro accusate Aspasia e Frine, insieme alla già citata orazione “Contro Neera”, siano le uniche testimonianze di procedimenti giudiziari nei confronti di donne greche. Tre sole imputate, dunque, e tutte e tre straniere e cortigiane, a riprova, ancora una volta, del fatto che le donne di nascita libera, soprattutto se di ceto elevato, erano escluse non solo dalla vita pubblica ma da ogni diritto civile e politico, quindi anche della capacità processuale85. 85 E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti, 24. 69 Indice 2.8. Le donne a Sparta Questa era, dunque, per sommi capi, la condizione delle donne nella città di Atene. Ma cosa accadeva presso le altre πόλεις greche? Purtroppo la scarsità di testimonianze non ci permette di valutare a pieno la varietà e la ricchezza dell’esperienza ellenica. Sappiamo però che a Sparta e nelle altre città doriche una diversa struttura sociale, ponendo al centro del sistema l’integrità del gruppo cittadino e non quella del gruppo familiare, non poteva che favorire uno status femminile più libero. In società in cui la proprietà privata era per lo più interdetta e la vita matrimoniale e familiare assai ridotta, veniva a mancare la necessità stessa di quel confinamento domestico che tanto condizionava l’esistenza delle donne ioniche. Pur volendo abbandonare certe standardizzazioni antinomiche estreme tra le due più importanti πόλεις greche (è noto, infatti, che il regime spartano fu dai Greci idealizzato e contrapposto a quello ateniese), va riconosciuto che le Lacedemoni conobbero una condizione giuridica e sociale particolare. Le fonti antiche insistono spesso sull’originalità dell’educazione delle giovani Spartane, che venivano istruite collettivamente dalla città “alla maniera dei ragazzi”86. Ad esse infatti non venivano insegnate le tradizionali attività 86 B. Nadine, Femme et société, 37. 70 Indice femminili - le spartane erano esentate dagli eργα γυναικìν in quanto considerati lavori servili nonché sinonimo di vita sedentaria - ma la loro istruzione verteva soprattutto su due discipline: i canti corali e le prove ginniche. A Sparta l’attività musicale e corale riguardava in egual misura sia le donne che gli uomini. Anche se il contenuto di questi canti rimane poco conosciuto, si può supporre che la loro funzione fosse quella di favorire la coesione del gruppo attraverso l’assimilazione e la ripetizione di concetti legati a valori civici, codici di comportamento, racconti mitici,… Per quanto riguarda l’attività ginnica, numerose testimonianze narrano di spartane che praticavano prove di corsa e di forza, lancio del disco e del giavellotto. Esaltata dai socratici e, più dettagliatamente, da Senofonte, la ginnastica femminile fu però oggetto di severe critiche per la tenuta sportiva delle atlete e per la promisquità con i maschi. Le ragazze più giovani e non sposate, infatti, indossavano una versione mini del tradizionale chitone tipico spartano, il chitone scisso (χιτών σχιστός), che nel camminare scopriva tutta la coscia. Teocrito87 racconta, inoltre, che le compagne della mitica Elena, futura sposa di Menelao, si ungevano d’olio come gli uomini prima di correre, lasciando così intendere che, come i coetanei maschi, anche le femmine in alcune occasioni gareggiavano nude. 87 ne, 72. Teocrito, Idillio 18, Epitalamio di Elena, 22-23, cf G. Arrigoni, Le don71 Indice Messa spesso in parallelo con l’aγωγή maschile, l’educazione femminile spartana è stata per lungo tempo interpretata come un suo adattamento, che serviva a trasformare le fanciulle in una sorta di “ragazzi mancati”. Ma a dispetto delle similitudini la παιδεία femminile va distinta da quella maschile perché gli obiettivi erano diversi: le attività sportive femminili non servivano a preparare le donne al combattimento ma a forgiare belle e vigorose fanciulle che, esibendosi pubblicamente in occasione delle feste, fossero pronte a suscitare il desiderio degli uomini. Assieme alla danza e alle attività corali, la ginnastica femminile rappresentava cioè un momento di socializzazione. A Sparta, oltretutto, vigeva il culto della forza e della volontà e la pratica sportiva femminile serviva ad irrobustire i giovani corpi educando alla resistenza e al coraggio. Stando alle affermazioni di Senofonte, fu Licurgo, mitico legislatore spartano del VII secolo a.C., ad introdurre l’agonistica femminile affinché le donne, esercitando il loro corpo, potessero generare figli più sani e forti e sopportare meglio i dolori del parto88. Non è certo casuale che le ragazze spartane si sposassero non quando erano piccole e immature, ma nel momento della loro ακμή fisica. La ginnastica era considerata pertanto non un passatempo generico ma un dovere funzionale alla πόλις, in quanto serviva a 88 G. Arrigoni, Le donne, 66ss. 72 Indice garantire la continuità e l’eccellenza dei guerrieri spartani. Anche a Sparta, quindi, il principale compito delle donne continuava ad essere quello di mettere al mondo nuovi cittadini in vista della conservazione della comunità. Ma qui l’opera di procreazione, la τεκνοποιία, veniva considerata una sorta di servizio pubblico, che gli Spartani equiparavano solo alla funzione militare del guerriero: le donne che morivano dando vita a un discendente beneficiavano di un riconoscimento pubblico postumo - l’innalzamento di una stele commemorativa - onore che dividevano solo con i cittadini morti in battaglia89. L’importanza accordata dagli Spartani alla procreazione può servire a chiarire certi aneddoti sulla loro presunta consuetudine di dare in prestito le mogli. Plutarco90, ad esempio, sostiene che un uomo anziano con una moglie giovane poteva sceglierle un partner in modo da procurarsi un erede e, nello stesso modo, un uomo la cui moglie fosse sterile, poteva chiedere ad un uomo con figli la moglie per procreare un figlio per se. Secondo Polibio91, poi, la stessa moglie poteva essere condivisa da tre o quattro uomini o anche più, se si trattava di fratelli, e i figli erano comuni. Di certo il ruolo riproduttivo non rendeva le donne spartane 89 90 91 B. Nadine, Femme et société, 128. Plutarco, Licurgo, XV, 6-8, cf I. Savalli, La donna, 52. Polibio, XII, 6, cf B. Nadine, Femme et société, 66. 73 Indice inferiori o sottomesse ma, al contrario, sanciva la loro appartenenza alla comunità pubblica e conferiva loro un potere che, secondo Plutarco, giustificava l’autorità che esse esercitavano sui mariti. Educate fuori casa, abituate a vivere all’esterno e a frequentare stadi e palestre, le Spartane erano considerate dagli altri Greci donne dai costumi sessuali liberi e addirittura sfrenati. Ad esser criticata era soprattutto la loro competitività con i mariti perché «comandavano con potere politico sulla casa e nelle faccende pubbliche, prendendo parte alle decisioni e adottando libertà di parola riguardo alle cose più grandi»92. Anche se non partecipavano al governo della città, non contribuivano alla sua difesa né intervenivano al συσσίτιον, il banchetto comune quotidiano dei cittadini, «qual è in fondo la differenza» notava polemicamente Aristotele «tra un governo esercitato dalle donne e un governo esercitato da uomini governati essi stessi dalle donne?»93. La discordanza delle fonti antiche, divise tra detrattori ed apologisti del regime spartano, non permette di ricostruire con certezza la posizione e il ruolo delle donne nella sfera pubblica. Di sicuro le Spartane erano più attive politicamente di quanto non lo fossero le Ateniesi anche se, quasi certamente, la loro partecipazione alla πολιτεία avveniva in maniera indiretta. 92 93 G. Arrigoni, Le donne, 71. Aristotele, II, 9-1269 b. 74 Indice Sappiamo, ad esempio, che, in occasione della nomina di un geronte, esse non prendevano parte alla decisione vera e propria, ma le loro acclamazioni avevano valore di approvazione ed erano necessarie quindi alla buona riuscita del processo elettivo. Esse rappresentavano cioè una frazione dell’opinione pubblica, il cui compito, quasi certamente, era quello di favorire il rispetto dei valori civici e dei codici di comportamento tradizionali. Ma il più sicuro indizio dell’elevato grado di libertà di cui godevano le donne di Sparta restano le testimonianze relative al loro potere economico. A differenza di quanto accadeva ad Atene, a Sparta le donne avevano diritto all’eredità, totale nel caso dell’ereditiera, o parziale nel caso della comune donna sposata. Le doti, proibite in epoca arcaica da Licurgo e reintrodotte più tardi, divennero col tempo assai ingenti e sempre più spesso costituite da proprietà terriere cosicché, già nel IV secolo, i due quinti della terra appartenevano alle femmine94. Numerosi sono nei testi antichi gli accenni a donne spartane molto ricche. Plutarco95 racconta che nel III secolo a.C. furono proprio le donne ad opporsi ad un progetto di riforma di Agis IV perché non volevano perdere il prestigio e la potenza che procurava loro la ricchezza. 94 95 I. Savalli, La donna, 65. Plutarco, Agis, 7, 5, cf I. Savalli, La donna, 66. 75 Indice Ma lo strapotere economico femminile comportò fatalmente uno squilibrio nella ripartizione delle terre, il che unitamente ad una legge, attribuita ad Epitadeo, la quale annullava l’antico divieto di vendere il κλέρος permettendo ai cittadini di alienare la casa e il terreno tramite dono o testamento, decretò la concentrazione delle proprietà nelle mani di pochi ricchi e, di fatto, la rovina del sistema spartano. 2.9. A Gortina Anche nell’aristocratica Gortina la famiglia rappresentava un elemento trascurabile nella vita dei cittadini i quali, dopo un periodo di formazione militare nelle γέλαι, entravano a far parte di quelle ταιρίαι che fornivano alla πόλις le forze oplitiche necessarie alla sua difesa, o dell’aνδρεον, il tradizionale pasto comune degli uomini a Creta. La struttura sociale di Gortina, come quella spartana, era caratterizzata da una netta separazione tra la vita militare maschile e la vita familiare femminile e ciò assicurava alle donne una larga autonomia nella sfera domestica e, più in generale, in quella economica. Dalla grande epigrafe rinvenuta alla fine del XIX secolo d.C. sappiamo che le donne della città erano titolari di diritti patrimoniali dei quali disponevano liberamente e senza l’assistenza di alcuno. Esse erano, cioè, proprietarie dei beni che avevano ricevuto in 76 Indice dote o in eredità e questo loro diritto era rigorosamente protetto dalla legge contro ogni possibile prevaricazione dei κύριοι: i mariti non potevano vendere o ipotecare le proprietà delle mogli né i figli quelle delle madri; in caso di divorzio, poi, esse conservavano la propria dote, la metà di quando avevano prodotto tessendo, nonché i doni che i mariti avevano fatto loro in presenza di testimoni96. Ogni gruppo domestico fondato in modo legittimo comprendeva perciò dei beni paterni (πατρώια) e dei beni materni (ματρùα), che restavano separati per poi essere destinati ai figli. Le figlie ricevevano la loro quota di eredità o al momento del matrimonio o alla morte dei genitori. Esse avevano diritto alla metà circa della parte che spettava ai maschi, ad esclusione degli immobili, del loro contenuto e del bestiame grosso, che erano sempre riservati ai figli. Solo se il patrimonio familiare era costituito esclusivamente da beni immobili le femmine avevano diritto ad una parte di essi. Quando non v’erano eredi maschi l’ereditiera, detta πατροικος, doveva sposare il più prossimo parente, ma i soli pretendenti (πιβάλλοντες) erano gli zii paterni o, in assenza di questi, i cugini germani. Se però l’eπιβάλλον sceglieva di non sposare la πατροικος, l’intera proprietà apparteneva alla donna. Anche l’ereditiera poteva però rifiutarsi di sposare l’avente diritto e, in tal caso, essa riceveva la 96 B. Nadine, Femme et société, 116. 77 Indice casa mentre il resto della proprietà era divisa tra lei e l’eπιβάλλον. In assenza di eπιβάλλοντες l’ereditiera poteva scegliere di sposare chi voleva entro la tribù paterna; se nessuno della suddetta tribù voleva sposarla, i congiunti materni la proponevano in matrimonio all’interno della propria tribù e, passati trenta giorni dal bando, se nessuno si presentava, la πατροικος era libera di sposare chi poteva.97 Quindi, in definitiva, a Gortina l’ereditiera aveva la possibilità di scegliersi il marito, un privilegio dovuto probabilmente al fatto che nella città l’unità larga della tribù prevaleva su quella della famiglia, facendo venir meno la necessità di assicurare un erede maschio all’eredità paterna. L’ereditiera era, in tal caso, l’effettiva proprietaria dell’eredità insieme ai suoi figli da chiunque li avesse avuti. A Gortina la donna era una cittadina, anche se il suo sesso la escludeva dalle pratiche collettive in cui la politica era immersa (pasti comuni, riunioni nell’αγορά, guerra), e il suo statuto era dovuto alla nascita, non al suo matrimonio o alla sua maternità98. Tuttavia anche qui non mancavano le restrizioni: le donne non avevano, ad esempio, la libertà di fare testamento e la loro proprietà era rigorosamente trasmessa ai figli, non potevano scegliere altri eredi tramite l’adozione e, addirittura, non potevano 97 I. Savalli, La donna, 56-57. 98 C. Leduc, Come darla in matrimonio?La sposa nel mondo greco, secoli IX-IV a.C., in Storia delle donne, 280. 78 Indice usufruire di lasciti testamentari del valore superiore ai cento stateri da parte dei mariti senza che questi avessero ottenuto il consenso preventivo degli eredi99. 2.10. Nell’età ellenistica Una concreta evoluzione nelle condizioni di vita femminili si verificò, per lo meno nel diritto privato, soltanto in epoca ellenistica. A questo punto però il panorama storico e geografico si complica e s’ingrandisce, mentre la documentazione sulle famiglie diventa pressoché nulla per le πόλεις e più abbondante per l’Egeo, l’Asia minore e l’Egitto. Già verso la metà del IV secolo a.C. le fondamenta delle antiche πόλεις greche erano irrimediabilmente minate e gli stessi equilibri fra le singole città-stato risultavano estremamente precari. Il mondo greco si avviava verso nuove forme di governo basate sulla centralizzazione del potere e sull’allontanamento dei singoli cittadini dalla vita politica. La stessa Atene, con le sue tradizioni democratiche, ben poco poté fare contro la potenza militare del regno macedone e contro le mire egemoniche ed imperialistiche del re Filippo II. La fine della libertà ateniese non si verificò tuttavia per opera di Alessandro, bensì dei suoi successori: furono infatti le truppe di 99 U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 495ss. 79 Indice Antipatro a soffocare nel sangue la rivolta antimacedone cui Iperide e Demostene avevano istigato i cittadini ateniesi dopo la morte del re100. Ma è proprio dalla morte di Alessandro Magno, avvenuta nel 323 a.C., che per convenzione si fa iniziare l’età ellenistica, un periodo storico-culturale caratterizzato da profondi cambiamenti nelle visioni politiche, filosofiche e scientifiche, nelle forme dell’espressione artistica e nelle concezioni di vita. Con la fine delle città-stato e la creazione dei grandi regni monarchici lo scenario politico greco subì dei cambiamenti radicali che si ripercossero anche sulla vita privata delle persone. Esclusi dalla partecipazione alla vita dello Stato, dispersi nella vastità di grandi regni o comunque soggetti all’autorità di un potere centrale, i singoli cittadini si ripiegarono progressivamente sulla sfera del privato. Sorsero così nuovi indirizzi filosofici, come lo Stoicismo e l’Epicureismo, che rivolgevano la massima attenzione all’uomo nei suoi risvolti e rapporti quotidiani. Al rigido razzismo e classismo della tradizione classica si sostituirono sentimenti di benevolenza e filantropismo, mentre la letteratura (con le commedie di Menandro, le poesie di Teocrito, i poemetti di Callimaco ecc.) cantava le passioni degli uomini e i piccoli grandi affanni della loro esistenza. 100 E. Cavallini, Le sgualdrine impenitenti, 64. 80 Indice In questo periodo anche le donne videro crescere la stima nei loro confronti, ampliarsi le possibilità di partecipare alla vita sociale ed estendersi sensibilmente il campo delle loro capacità giuridiche. Esse potevano liberamente comprare e vendere mobili ed immobili, costituire ipoteche sui propri beni, concedere ed ottenere prestiti, assumere obblighi di lavoro, fare testamento ecc.101. Solo per l’assunzione di obbligazioni era ancora necessario l’assenso del proprio tutore. In alcuni casi le donne potevano addirittura concludere personalmente il loro contratto di matrimonio; le vedove, poi, esercitavano sui figli una materna potestas assai estesa che non solo le obbligava al loro mantenimento ma consentiva loro di esporre i figli nati postumi, di collocarli come apprendisti e di dare le figlie in moglie. Sebbene l’analfabetismo continuasse ad essere più diffuso tra le donne che tra gli uomini, la cultura femminile era in aumento, soprattutto in certe aree del mediterraneo, né mancavano casi di donne che, in situazioni diverse, esercitavano un potere politico: Olimpiade, la madre di Alessandro Magno, le regine egiziane, ecc. E, se pure persistevano situazioni di sottoposizione al potere maschile (la pratica dell’esposizione riguardava soprattutto le femmine, vigeva ancora il diritto del padre di interrompere il matrimonio della figlia ecc.), l’ormai mutato clima sociale faceva si 101 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 98. 81 Indice che questi abusi fossero visti con sfavore e quindi contestati. Nel complesso si può dire quindi che le donne greche dell’età ellenistica godettero di maggiore libertà e considerazione delle loro antenate e anche se talvolta riaffiorava l’antica misogenia questa non era più espressione di una società che escludeva le donne ma di una società che vedeva vacillare le proprie certezze ed i propri poteri102. 102 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, 105. 82 Indice Capitolo III Il matrimonio in Grecia 3.1. L’importanza del dispositivo matrimoniale quale rivelatore dei meccanismi della società Ogni società umana, nel corso della sua storia, elabora una serie di meccanismi che le permettono di riprodursi attraverso le generazioni, conservando la propria identità e il proprio equilibrio. Le norme che regolano l’istituto matrimoniale e, attraverso di esso, la circolazione delle donne all’interno del gruppo, giocano un ruolo essenziale in questo processo. L’unione legittima tra un uomo e una donna, lungi dall’essere un fatto privato, ha molteplici incidenze sociali ed economiche poiché tocca elementi fondamentali della vita degli individui e del gruppo: la sessualità, l’istinto riproduttivo, i codici comportamentali, i valori riconosciuti, il costume. La scelta delle disposizioni legali e la loro messa in pratica, le tradizioni legate al matrimonio incarnano i valori, la mentalità e la cultura di un popolo. Non a caso tutta la comunità si interessa ad un avvenimento che è in grado di creare legami nuovi tra gruppi, di influire sulla distribuzione dei beni, sugli statuti delle persone, o sulla composizione stessa del corpo civico visto che, generalmente, i 83 Indice concetti di nazionalità e legittimità risultano connessi103. Per tutti questi motivi, lo studio del matrimonio nella Grecia antica rappresenta un’efficace via d’accesso per penetrare nei meccanismi di un sistema complesso come quello ellenico. Proprio nell’ambito delle pratiche matrimoniali, infatti, è possibile misurare meglio l’ampiezza delle trasformazioni apportate dall’avvento delle città-stato. La nascita delle πόλεις e la concomitante scomparsa della regalità, favorì il manifestarsi di comunità rigidamente chiuse che, pur nella varietà di modelli sociopolitici, richiesero una riorganizzazione dell’istituto matrimoniale ereditato dai secoli oscuri. Per i suoi stretti legami con i concetti di alleanza, legittimità e riconoscimento sociale, infatti, il matrimonio metteva in gioco una pluralità di fattori essenziali per la sopravvivenza di tutte le πόλεις elleniche: il perpetuarsi delle famiglie e della collettività, la devoluzione ereditaria, la cittadinanza dei nuovi nati, la coesione del gruppo. 3.2. In età arcaica Secondo Aristotele104 durante l’età arcaica il matrimonio aveva la forma di una compra-vendita della sposa e, a dire il vero, il 103 A.M. Vérilhac-C. Vial, Le mariage grec du VI siècle av.J.-C. à l’epoque d’Auguste, Atene 1998, 9ss. 104 Aristotele, Politica, II, 1268 b, cf U.E. Paoli, voce Matrimonio, in E.I., vol. XXII, 578. 84 Indice confronto con le usanze degli altri popoli indio-europei parrebbe confermarlo. Ma se è possibile supporre l’esistenza del matrimonio per compera nei tempi più remoti, di certo durante età eroica delle antiche consuetudini non rimanevano che poche tracce. Negli ambienti aristocratici raccontati da Omero, l’unione coniugale aveva origine, come in epoca classica, dalla promessa del padre della fanciulla di dare la propria figlia in sposa alla persona da lui prescelta. È vero che in occasione delle nozze lo sposo faceva numerosi doni al padre della sposa, ma questi più che una forma di pagamento, erano parte di un sistema di prestazioni reciproche tra le due famiglie. Le stesse nozze, d’altronde, si inserivano in un circuito di commercio sociale tra grandi famiglie nobili in quanto servivano a suggellare l’alleanza tra due case, attraverso uno scambio di doni all’interno del quale la sposa era solo uno dei valori in circolazione105. La sposa (κουρίδια aλοχος letteralmente legittima compagna di letto), era colei che l’uomo portava nella propria casa affinché condividesse il suo talamo, e la formula più ufficiale per condurre una donna in casa propria era quella di ottenerla dai suoi genitori versando loro, in contraccambio, gli eδνα, regali innumerevoli, e offrendo alla fanciulla i δwρα, doni stupendi. 105 J.P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino 1981, 56. 85 Indice Il padre della ragazza, dal canto suo, dava in sposa la figlia aggiungendo i μείλια, doni che hanno la dolcezza del miele, i quali servivano ad indicare che la fanciulla non era uno scarto e che la sua famiglia non la rifiutava106. Era proprio questo scambio di beni a stabilire una distinzione assoluta tra la sposa, data come dono grazioso, e la concubina comperata, la prigioniera ottenuta come bottino dopo la battaglia, rapita in una razzia o in una impresa piratesca. Solo la donna ottenuta secondo le regole metteva al mondo figli legittimi (γνήσιοι), gli unici che avevano diritto alla successione; i figli illegittimi (νόοι), pur vivendo nella casa del padre, alla sua morte ricevevano la “quota del bastardo”, cioè non una porzione del patrimonio, che veniva diviso in parti uguali tra i figli legittimi, ma uno o più beni determinati. In realtà le infedeltà del marito avevano un ruolo ben preciso nella politica familiare, in quanto evitavano un eccesso di figli legittimi e, quindi, una eccessiva frantumazione del patrimonio. Inoltre la presenza di un figlio naturale poteva tornare utile per sostituire l’erede nel caso in cui questi morisse. Se poi la sposa non riusciva a dare al marito un maschio, questi poteva essere riconosciuto dal padre come suo erede legittimo. La gerarchia delle posizioni femminili presso il padrone di casa, dipendeva in larga misura dalla τιμή, cioè dall’onore che questi 106 C. Leduc, Come darla in matrimonio? La sposa nel mondo greco, secoli IX-IV a.C., in Storia delle donne, 250ss. 86 Indice riconosceva loro: nell’Iliade, Agamennone paragona Criseide, cui va la sua preferenza, alla sua sposa legittima, Clitemnestra107; Euriclea viene comprata, ancora bambina da Laerte, ma per la sua origine e per il prezzo che ha dovuto pagare per lei, questi la onora nella casa come sua sposa108. Ma nonostante la forte concorrenza esercitata dalle παλλακαί, la legittima consorte ricopriva sempre una posizione di primo piano nella casa del marito ed era l’unica ad avere una vita sociale riconosciuta: l’uomo omerico doveva consentire solo alla moglie di comparire al suo fianco nelle poche occasioni pubbliche alle quali le donne erano ammesse. Né poteva trascurarla per la concubina: Laerte che, come si è visto, era oltremodo invaghito di Euriclea, non si unì mai a lei per evitare l’ira della moglie109. Le case omeriche, dunque, si fondavano sul matrimonio legittimo, e si perpetuavano imponendo il matrimonio legittimo. La donna che veniva data da una casa ad un’altra casa come sposa e madre legittima era considerata un essere sociale di grande valore. Procurarsi una sposa di nobile stirpe significava tenerla presso di sé come pegno d’accordo con potenti alleati, acquistare prestigio, qualificare i propri figli e tutta la discendenza. Una volta celebrato il matrimonio, la sposa non diveniva proprietà del marito; questi poteva punirla o ripudiarla ma doveva 107 108 109 Omero, Iliade, I, 114 Omero, Odissea, I, 429 ss. Omero, Odissea, I, 428 ss. 87 Indice stare molto attento a non suscitare la vendetta della sua famiglia di origine, che continuava a proteggerla. Marito e moglie abitavano in appartamenti separati: l’uomo in genere al pian terreno, la donna al primo piano. La camera nuziale era quella dello sposo. Nel palazzo di Ulisse essa si trova al pianterreno, mentre la stanza di Penelope è situata sulla terrazza che ricopre il μέγαρον, la sala d’onore dove si tenevano i banchetti110. I coniugi non mangiavano insieme e le donne non era ammesse ai banchetti nel μέγαρον, ma appena gli uomini avevano finito di mangiare e banchettare, esse li raggiungevano e prendevano parte alla conversazione liberamente. Così fa, ad esempio, Arete che presiede l’assemblea riunita per ascoltare il racconto di Ulisse111. Grazie al suo statuto coniugale la sposa rappresentava la casa del marito e le sue virtù, soprattutto quelle delle dimore reali: suo era il privilegio di perpetuare e trasmettere la sovranità. Nell’Odissea Penelope come padrona di casa rappresenta la continuità del focolare e per questo i Proci tentano di conquistare il trono di Ulisse ottenendo, insieme alla mano della vedova, una sorta di legittimazione al potere su Itaca112. Per quanto riguarda gli usi nuziali, Omero113 ce ne offre una descrizione abbastanza particolareggiata: la cerimonia delle nozze 110 R. Ricchi, Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e nella tragedia attica, Firenze 1987, 20. 111 Omero, Odissea, VII, 145 ss. 112 I. Savalli, La donna, 42. 113 Omero, Iliade, XVIII, 126-131. 88 Indice vera e propria consisteva principalmente nel trasferimento della sposa dalla casa paterna a quella del marito. Il trasferimento era preceduto da un festoso banchetto (εivλαπίνε) offerto dal padre della donna. Sopraggiunta la sera si formava un corteo di familiari e giovani che cantando, danzando e recando fiaccole, accompagnavano il carro su cui aveva preso posto la sposa. L’impiego del matrimonio quale strumento di alleanza proprio degli ambienti aristocratici dell’età eroica sopravvisse anche in epoca successiva, presso quei personaggi eccezionali e un po’ al margine della città che furono i tiranni, quasi a sottolineare l’arcaicità e la distanza di questi individui rispetto ai valori della πόλις democratica. Sappiamo ad esempio che ancora alla fine del V secolo, a Siracusa, Dioniso il Vecchio sposò nello stesso giorno due donne, una di Siracusa stessa, l’altra di Locri, o che Pisistrato, nel VI secolo, prima di unirsi alla figlia di Megacle, prese in moglie Timonassa, una Agiva di nobile nascita114. Ma si trattava comunque di eccezioni all’interno di una compagine sociale profondamente mutata. Con l’apparizione delle πόλεις, infatti, le unioni matrimoniali non ebbero più lo scopo di stabilire relazioni di potere fra le grandi famiglie sovrane, ma la loro funzione principale divenne quella di perpetuare i focolari domestici che costituivano le città e garantirne 114 J. P. Vernant, Mito e società, 68. 89 Indice così la costante riproduzione. Nelle società omeriche ogni casa era un’unità e la coesione del corpo sociale era assicurata dalla casa del re, concepita come un tutto che conteneva le case sottoposte ad essa. Nelle πόλεις, invece, era la sovrapposizione delle case che saldava il gruppo sociale e lo trasformava in un insieme indivisibile115. Aristotele stesso definì la πόλις come una comunità umana saldata dalla vita in comune, da un ideale morale condiviso e dalle alleanze tra famiglie116. Tutto ciò spiga la predilezione dei Greci per la c.d. endogamia civica, vale a dire l’uso di contrarre matrimonio unicamente all’interno della comunità cittadina, dovuto più che a sentimenti di xenofobia o di rivalità tra πόλεις, al desiderio di unificare la comunità moltiplicando i legami tra i suoi membri. 3.3. Nel diritto attico in età classica Il principale fautore dell’endogamia ellenica è da ricercare, tuttavia, nella regola della doppia filiazione adottata dalla maggior parte delle πόλεις greche. Ad Atene, ad esempio, fu soprattutto il decreto di Pericle del 451/450 a.C. a disincentivare i c.d. matrimoni misti limitando la 115 C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 269. 116 Aristotele, Polit., III, 1280 b, cf A.-M. Vérilhac – C. Vial, Le mariage grec du VI siècle av. J.-C. à l’époque d’Auguste, Athèns 1998. 90 Indice cittadinanza ai soli figli di genitori avστόι. Nella seconda metà del IV secolo, poi, questo tipo di unioni coniugali vennero addirittura vietati da una legge che ci è nota attraverso l’orazione Contro Neera, falsamente attribuita a Demostene117. Neera era una ex schiava che dopo aver praticato la prostituzione a Corinto, era stata affrancata da un suo ricco cliente. Una volta giunta ad Atene insieme ai suoi figli, aveva sposato un cittadino ateniese, Stefano. L’accusa principale riguardava, quindi, lo statuto di moglie legittima che la donna non poteva ricoprire in quanto straniera. Ma per provare che Neera era la sposa di Stefano e non una sua amante, l’oratore afferma che Stefano aveva introdotto i figli della donna nella comunità e, cosa ancor più grave, aveva dato in sposa Fano ad un cittadino presentandola come sua figlia. A questo punto lo pseudo-Demostene cita una legge della città che vietava formalmente i c.d. matrimoni misti. In base a questa norma se uno straniero, attraverso uno stratagemma, sposava una donna ateniese, veniva venduto come schiavo, i suoi beni erano confiscati ed un terzo di essi andava all’accusatore. Se era una straniera a convivere come moglie con un Ateniese, costei era soggetta alle stesse pene, mentre l’uomo doveva pagare un’ammenda di mille dracme. 117 Pseudo-Demostene, Contro Neera, 16. 91 Indice Chiunque poi dava una straniera in matrimonio ad un Ateniese, presentandola come sua parente, era condannato all’atimia e alla confisca dei beni, un terzo dei quali andava all’accusatore. Per divenire cittadino ateniese un individuo doveva essere ammesso, tramite determinati riti, prima nell’οiκος paterno, poi nella fratria, infine nella πόλις118. Ma per fare tutto ciò era necessaria la certificazione della legittimità dell’unione matrimoniale dalla quale egli discendeva. Solo un figlio nato da genitori entrambi membri della civitas, uniti in nozze legittime, poteva vantare i requisiti necessari a certificare la sua condizione. Stranamente però l’atto matrimoniale, pur avendo così tante ripercussioni sulla comunità civica, non esigeva né la partecipazione né l’intervento di un rappresentante del potere pubblico, di un magistrato o un sacerdote. Il matrimonio non avveniva né attraverso una cerimonia religiosa (esistevano naturalmente dei riti ma si trattava di riti di passaggio o di fecondità), né per mezzo un atto giuridico, nel senso in cui lo intendiamo ai giorni nostri, cioè di un atto dotato di una forma fissa, compiuto in una cornice determinata e davanti ad un’autorità ufficiale definita dalla legge119. Esso era un atto privato e come tale aveva luogo esclusivamente all’interno della cerchia familiare. I Greci parlavano poco della vita coniugale, lo dimostra il fatto che non avevano un termine corrispondente al nostro “matrimonio”. 118 119 I. Savalli, La donna, 61. A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 229. 92 Indice Aristotele, nella Politica120, si lamenta dell’assenza di un vocabolo specifico per indicare la relazione tra marito e moglie ed è costretto ad utilizzare γαμικός, un aggettivo derivato da γάμος, che però designava la cerimonia delle nozze o al più l’unione sessuale, senza essere peraltro riservato all’unione matrimoniale, tanto che veniva utilizzato anche nel caso di adulterio o di violenza. A dire il vero, nel greco antico non esistevano neanche i termini “marito” e “moglie”: a parte i poetici πόσις e δάμαρ, per designare i coniugi si usavano vocaboli generici indicanti l’uomo (avνήρ) e la donna (γυνή). Iscomaco, ad esempio, nella conversazione che gli attribuisce Senofonte121, non nomina mai la sua sposa e quando è costretto a menzionarla utilizza sempre la parola γυνή. Questo non vuol dire naturalmente che mancasse il concetto di “matrimonio”: l’unione coniugale legittima era uno stato di fatto, foriero di numerose conseguenze, cui si perveniva attraverso il compimento di una serie di atti complementari fino a giungere alla tappa finale della coabitazione degli sposi. In epoca classica il primo di questi atti era l’eγγύη o eγγύησις, uno scambio verbale, accompagnato da gesti precisi, tra colui che disponeva del potere di donare la donna in matrimonio e colui che la riceveva come sposa. 120 121 Aristotele, Politica, 1253 b 9-10. Senofonte, Economico, VII, cf I. Savalli, La donna, 104. 93 Indice Il verbo γγυάω significava letteralmente “mettere nel palmo della mano” (γυή) ed è probabile che, almeno in origine, il padre della sposa poneva la mano di sua figlia in quella del futuro genero122. Le parole che accompagnavano questo semplice gesto ci sono note soprattutto grazie alle commedie di Menandro dove, in più occasioni, l’autore mette in scena la cerimonia dell’eγγυή. Questo, ad esempio, nella Περικειρομένε (La fanciulla tosata) è il dialogo tra il padre dell’eroina e colui che diverrà suo genero: - Pateco (il suocero): «Ti dò mia figlia perché tu la fecondi e abbia da lei dei figli legittimi». - Polemone (il genero): «La prendo». - Pateco: «E come dote tre talenti». Attraverso l’uso del termine avrotos, letteralmente “aratura”, la donna veniva assimilata, secondo un’immagine tradizionale, alla terra coltivata che lo sposo doveva lavorare e seminare. Il riferimento esplicito al rapporto sessuale serviva, invece, a ribadire l’importante funzione che la sposa andava ad assumere (quella di generare figli legittimi) mentre la menzione del valore della dote ci ricorda che il matrimonio era anche una transazione economica tra due famiglie123. 122 123 58. C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 287. N. Bernarde, Femmes et société dans la Grèce classique, Parigi 2003, 94 Indice L’γγύη era, quindi, un vero e proprio contratto verbale, sul cui ruolo però gli studiosi non sono concordi: per alcuni rappresentava l’atto costitutivo del matrimonio;124 per altri invece le nozze si perfezionavano solo se alla promessa seguiva l’κδοσις, ovverosia la consegna della sposa;125 per altri ancora l’vγγύη costituiva soltanto una condizione di legittimità del matrimonio, il cui fondamento vero e proprio risiedeva nel συνοικεν, cioè nella coabitazione materiale della coppia126. Il ventaglio di opinioni riguardo l’atto o gli atti fondativi del matrimonio greco è in realtà molto più ampio e coinvolge la distinzione stessa tra l’eγγύη e l’eκδοσις. Secondo alcuni autori, infatti, questi due sostantivi non indicavano due fasi differenti e successive del processo di perfezionamento del matrimonio, ma si trattava di sinonimi che si distinguevano solo per ragioni di ordine semantico: eγγύη era un termine tecnico che indicava specificatamente l’atto giuridico di dazione della donna da parte dell’uomo che aveva il potere di disporne, mentre il sostantivo κδοσις, derivato dal verbo κδίδωμι (dono, consegno) era un termine generale adoperato sia in riferimento alla donna che alla della dote, sia che la dazione avvenisse da parte del padre che da parte del tribunale, come per l’eπίκλερος. Di certo l’importanza dell’eγγύη è attestata esplicitamente da 124 E. Hruza, Beitrage zur Geschichte des griech. Und romischen Familienrechts I. Die Ehebegrundung nach attische Rechte, cf F. Brindesi, La famiglia attica. Il matrimonio e l’adozione, Firenze 1961, 3. 125 Lipsius, cf F. Brindesi, 3-4. 126 U.E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze 1930, 264 ss. 95 Indice Demostene il quale in un suo discorso cita una legge che definisce gli γνήσιοι, i figli legittimi, come «coloro che sono nati da una donna accordata con γγύη dal padre, dal fratello consanguineo o dal nonno paterno»127. La sposa era generalmente presente alla cerimonia, lo testimonia il fatto che non ne venisse mai specificato il nome, ma la sua era una presenza muta, passiva: data e ricevuta, la donna era oggetto dell’azione, non soggetto. Il suo consenso non era richiesto, ne le venivano rivolte parole: l’alleanza matrimoniale era concordata e conclusa tra uomini. La dazione della sposa non era che un aspetto della posizione di subordinazione che i Greci attribuivano alle donne nei confronti degli uomini e che Aristotele128 definì come posizione di governate (τo aρχόμενον, dal verbo aρχω nella sua forma passiva). Il padre della fanciulla, pertanto, aveva il potere di disporre di sua figlia secondo il suo volere senza che lei avesse alcun diritto di opporsi; il fatto che non fosse richiesto, nemmeno per la forma, suo consenso toglieva alla fanciulla anche il più piccolo spazio teorico di libertà. Ma, d’altronde, il matrimonio greco non fu mai un atto per il quale i due coniugi si univano l’un l’altro in una posizione d’eguaglianza. 127 128 Demosth, Contro Stefano II, 18; 44,49, cf J.P. Vernant, Mito e società, 51. Aristotele, Politica, I, 1259 b, cf A.M. Verilhac- C. Vidal, Le mariage, 265. 96 Indice 3.4. I rituali nuziali Alla dazione della sposa seguiva la cerimonia nuziale (γάμος), un insieme di riti e di festeggiamenti che perfezionavano l’unione e assicuravano la sua visibilità sociale. I riti del matrimonio rappresentavano la più importante delle feste familiari, con cui si celebrava un momento di vita privata che si integrava con la vita della città. In realtà nessuna di queste cerimonie era destinata a consacrare in modo evidente l’unione dei coniugi: ciò a cui si dava risalto era piuttosto la prosperità materiale della famiglia e la fecondità della donna. Non sappiamo esattamente quanti giorni intercorressero tra l’eγγύη e i riti nuziali, ma probabilmente per la celebrazione delle nozze veniva scelto un giorno fausto che, di regola, cadeva durante l’inverno (il gennaio attico si chiamava γαμηλιών, mese delle nozze)129. Evocati in alcuni testi, parzialmente rappresentati dalle immagini, le differenti tappe del γάμος non sono tuttavia precisamente ed integralmente conosciute: la loro ricostruzione pertanto non è esente da lacune o incertezze. Le celebrazioni che normalmente duravano diversi giorni, cominciavano con il compimento di una serie riti di passaggio e propiziatori. 129 U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 579. 97 Indice Il più diffuso era il rito della consacrazione dei capelli: la fanciulla offriva ad una divinità (per lo più Era o Artemide) alcune ciocche dei suoi capelli, a simboleggiare l’abbandono dei valori dell’infanzia legati alla capigliatura lunga e l’ingresso nella condizione adulta. Al largo di Trezene, a Sferia, vi era un santuario dedicato ad Atene Apaturia in cui le fidanzate venivano a dedicare alla dea la loro cintura prima delle nozze. Un epigramma votivo anonimo, dedicato ad Artemide Limnate, nel territorio della Laconia, ci ricorda, infine, che le ragazze al momento di sposarsi, dedicavano alla dea anche i loro giochi di fanciulle130. Queste offerte simboliche servivano a rimarcare il cambiamento di statuto che il matrimonio comportava in particolare per la donna, che da παρqένος, ragazza non maritata, diveniva γυνή, donna sposata. Mentre infatti per i ragazzi erano previsti vari riti di passaggio collettivi che li introducevano nell’età adulta, per le fanciulle l’uscita dall’infanzia avveniva solo con il matrimonio. Oltre a queste offerte venivano eseguiti dal padre della sposa una serie di sacrifici, i προτέλεια γάμον, in onore degli dei protettori del matrimonio (qεoi γαμήλιοι): Zeus Tèleios, Era Tèleia, Artemide, Afrodite e Peito. Artemide rappresentava l’adolescenza che i fidanzati si accingevano a lasciare, Zeus ed Era Tèleioi la maturità adulta 130 L.B. Zaidman, Le figlie di Pandora, 403. 98 Indice raggiunta dagli sposi e, al tempo stesso, l’aspetto legittimo dell’unione consacrata dal matrimonio, Afrodite la sessualità e il potere di fecondazione, Peito la seduzione131. L’ultima cerimonia precedente al giorno del matrimonio era la λουτροφορία, il trasporto dell’acqua per il bagno. Effettuata in corteo notturno, alla luce delle torce e al suono dell’aulos, essa aveva lo scopo di portare nella casa di ciascuno dei futuri sposi l’acqua lustrale destinata al bagno nuziale. L’acqua doveva provenire da una fontana o un fiume sacro affinché possedesse proprietà purificanti e fecondanti. Ad Atene, secondo Tucidide, veniva attinta alla fontana Enneacruno, a sud dell’Acropoli e veniva trasportata dalle donne in vasi dalla forma caratteristica, le lutrofore132. Il bagno nuziale si svolgeva la sera stessa o, più verosimilmente, al mattino seguente, ed era un rito di transazione e insieme propiziatorio, che secondo gli antichi mirava ad ottenere la generazione di bei figli. Un’ultima cerimonia di ricezione dei doni offerti alla sposa (i c.d. προγάμια δéρα), concludeva i riti da eseguire la vigilia delle nozze. Il giorno delle nozze vere e proprie, il γavmoς, si apriva con la preparazione della νύμφη, la sposa. Le donne del suo gruppo d’origine, sorelle, cugine, amiche e giovani vicine, procedevano alla 131 C. Calame, Eros inventore ed organizzatore della società greca antica, in L’amore in grecia, Roma-Bari 2006, intr. 132 N. Bernarde, Femmes et société, 59. 99 Indice vestizione della fanciulla sotto l’autorità della νυμφεύτρια, colei che aveva il compito specifico di assistere la νύμφη per tutta la durata della cerimonia. L’abbigliamento della sposa era costituito da una tunica stretta in vita con una cintura e dall’i^μάτιον, un lungo drappo di stoffa che fungeva da mantello. Il costume nuziale era poi completato da un velo che copriva il capo, una corona in metallo e uno o più gioielli133. Prima di lasciare la casa paterna, decorata per la circostanza da rami di ulivo e di lauro, la ragazza partecipava ad un banchetto offerto dal padre. Il banchetto nuziale (γάμος o qοίνη γαμική) che riuniva le due famiglie non era solo un’occasione di festa ma serviva a rimarcare l’alleanza tra i due gruppi. Spesso i padri, per far mostra della loro ricchezza, affermare il loro prestigio e onorare la famiglia che diveniva loro alleata, offrivano dei ricevimenti molto fastosi, tanto che fu necessario ricorrere a delle leggi apposite per porre dei limiti al numero dei convitati134. Al banchetto partecipavano sia gli uomini che le donne, ma seduti a tavoli separati. Allietati da musiche e canti, gli invitati consumavano dei cibi tradizionali, tra cui dei pani di frumento e un dolce di miele e sesamo, considerato di buon augurio per una discendenza numerosa. 133 134 N. Bernarde, Femmes et société, 59. A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 299. 100 Indice Non mancavano, infatti, neanche in questa occasione gesti rituali e propiziatori: sappiamo ad esempio che un bambino di sesso maschile i cui genitori erano ancora vivi (παiς aμφιqαλής), pegno di prosperità e buon augurio, passava tra i commensali con un canestro (λίκνον) colmo di pane pronunciando una frase rituale: «Hanno fuggito il male, hanno trovato il meglio». La formula si riferiva al cambiamento che la giovane coppia affrontava abbandonando la vita selvaggia dell’infanzia per aderire alla condizione adulta e civilizzata, simboleggiata dal pane frutto del lavoro produttivo e domestico. I cereali e altri oggetti simbolici presenti nella cerimonia, una padella per tostare l’orzo, un setaccio, un pestello da mortaio, designavano il ruolo che spettava alla novella sposa nella continuazione della vita civilizzata che il matrimonio esprimeva135. Secondo alcune fonti al termine del banchetto la sposa, che vi aveva assistito velata, mostrava il suo volto e riceveva dallo sposo, o dagli amici di lui, gli aνακαλυπτήρια, i doni dello svelamento. Il pasto si concludeva infine con le libagioni e con gli auguri che i presenti facevano alla fanciulla. A questo punto si formava il corteo nuziale destinato a condurre la sposa nella sua nuova dimora. Le ceramiche del V secolo rappresentano la sposa attorniata dai suoi familiari, a piedi o su un carro trainato da muli, mentre lo sposo la tiene per il polso, e ha sul 135 L.B. Zaidman, Le filie di Pandora, 406. 101 Indice capo una corona intrecciata con foglie di lauro136. Nel corteo la madre era una delle portatrici di fiaccole, mentre accanto agli sposi procedevano di solito la νυμφεύτρια e il πάροχος, un amico dell’uomo, chiamato così perché prendeva posto di fianco a lui sul carro. Il trasferimento si svolgeva in un’atmosfere di allegria: le luci delle fiaccole, i canti imenei, la musica, i movimenti ritmici delle danze non erano solo espressione di gioia ma avevano anche un significato rituale (esorcizzare gli spiriti malvagi) e servivano a dare all’evento la massima pubblicità, un modo questo di ufficializzare il nuovo legame. Al termine del percorso, la sposa era accolta dai suoceri che compivano per lei nuovi riti di fecondità, d’accoglienza ed integrazione. Vicino al focolare, luogo di radicamento dell’οiκος, le venivano offerti i καταχύσματα, dolciumi e fichi secchi, in segno di accoglienza ed integrazione nel nuovo ambiente. Infine gli sposi si ritiravano nel qάλαμος, la camera nuziale, accompagnati dall’eπιqαλάμος, un canto rituale che serviva ad incoraggiare gli sposi e rassicurare la sposa, invocando su di essi la benedizione delle divinità protettrici137. Le festività terminavano il giorno seguente: al mattino ragazzi e ragazze svegliavano gli sposi con nuovi canti detti eξεγερτικόν, cioè 136 137 F. Lissarrague, Uno sguardo ateniese, in Storia delle donne, 185. A.M. Verilhac-C. Vial, Le mariage, 324. 102 Indice del risveglio. Più tardi aveva luogo il rito degli eπαύλια: una nuova πομπή recava nuovi doni, forse del padre della sposa e, secondo alcune fonti, la dote. Un’ultima incombenza, infine, spettava alla nuova coppia: il rito della γαμηλία. Dopo le nozze lo sposo offriva un sacrificio e dava un banchetto per i membri della sua fratria, al quale però non sappiamo se prendeva parte anche la sposa. Lo scopo della γαμηλία era di stabilire la legittimità del matrimonio di un membro della fratria, la condizione di sua moglie come figlia di un cittadino e la futura accettazione dei figli maschi nati da quel matrimonio138. Una vera e propria di dichiarazione di stato civile, quindi, che conferiva alla donna il riconoscimento di sposa legittima e che, in assenza di documenti scritti, serviva a testimoniare la veridicità del legame. Sia Demostene che Iseo menzionano più volte l’offerta della γαμηλία e la relativa testimonianza dei membri della fratria, come prova per la validità di un matrimonio. Anche se, come si è visto, la definizione stessa del cittadino passava attraverso la certificazione della legittimità dell’unione matrimoniale dalla quale discendeva, nessuna delle procedure nuziali rappresentava una sicura attestazione dell’avvenuto 138 S.G. Cole, Ragazzi e ragazze ad Atene: Koureion e Arkteia, in G. Arrigoni, Le donne in Grecia, 1985, 18. 103 Indice matrimonio. Da qui la difficoltà con cui nelle orazioni giudiziarie si cercava di dimostrare la legittimità delle nozze, affiancando prove relative ai diversi momenti, la testimonianza dei membri della fratria, dei testimoni all’atto dell’eγγύη, la presenza della dote, ecc. 3.5. La dote Il matrimonio greco, come nella maggior parte delle società antiche, era accompagnato da un trasferimento di beni. Nell’età arcaica le prestazioni provenivano da entrambe le parti. Lo sposo, come si è visto, offriva al padre della sposa, gli eδνα, armenti e greggi che venivano fatti sfilare davanti alla casa del futuro suocero. Gli eδνα sono menzionati spesso nei poemi omerici in virtù del prestigio che essi conferivano allo sposo, ma anche alla sposa, nel gioco della competizione con gli altri pretendenti. Oltre a ciò lo sposo offriva alla sposa dei doni, i δéρα, probabilmente oggetti di metallo o indumenti, come il velo splendidamente ornato che Elena regala a Telemaco affinché lo doni alla sua futura sposa139. Il padre della sposa dava la figlia insieme a dei doni, i μείλια. Icaro, padre di Penelope, donò due schiavi a sua figlia quando 139 Omero, Odissea, XV, 125-127. 104 Indice sposò Ulisse140. Si vede bene, dunque, come il dispendio fosse molto più consistente per lo sposo che per il padre della sposa. Nell’età classica la situazione si ribaltò completamente: era il padre della sposa a fornire la prestazione più preziosa, la dote, mentre lo sposo si limitava a fare dei doni alla fanciulla. Quando si sia verificato un simile cambiamento non è facile dirlo. Di certo sappiamo da Plutarco che già nel VI secolo una legge di Solone limitò la dote a tre mantelli e a pochi altri oggetti di scarso valore141. Nel linguaggio giuridico dell’epoca classica vi erano due termini per indicare la dote: προίξ, la cui etimologia indicherebbe, secondo studi recenti, il gesto di tendere la mano per donare o ricevere, e φερνή, dal verbo φέρω (porto con me), utilizzato soprattutto nel diritto bizantino142. Parte del patrimonio paterno, la dote rappresentava in qualche modo un sostituto dell’eredità per le figlie escluse dalla successione in presenza di eredi maschi. Il suo ammontare dipendeva non solo dalla ricchezza del padre, ma anche dal numero di fratelli e sorelle presenti nella famiglia. In un sistema successorio in cui mancava il diritto di primogenitura 140 141 142 Omero, Odissea, IV, 736 e XXIII, 228. Plutarco, Vita di Solone, 20, 6, cf I. Savalli, La donna, 48. A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 135. 105 Indice e, di conseguenza, il patrimonio veniva diviso in parti uguali tra i figli maschi, anche alle figlie femmine spettava una dote uguale per tutte. Dai discorsi degli oratori sappiamo che il valore di una dote per le classi più agiate era piuttosto elevato, tra le 2000 e le 4000 dracme, ma non mancano testimonianze riguardanti somme decisamente superiori. Sappiamo, ad esempio, che la sorella di Demostene ricevette dal padre una somma di 12000 dracme143. Le doti si componevano principalmente di beni mobili: soprattutto denaro, ma anche il corredo della sposa (κόσμος), che comprendeva indumenti (iμάτια), gioielli (χρυσία), mobili, oggetti d’arredo, talvolta anche schiavi. Non mancavano tuttavia beni fondiari e immobili. La composizione e il valore delle doti ricevute dalle ragazze povere, invece, sono più difficili da determinare per la mancanza di testimonianze. Non potendosi sottrarre a quest’obbligo sociale per non compromettere la loro onorabilità, le famiglie modeste erano costrette a grandi sacrifici per costituire una dote conveniente senza mettere in pericolo la parte da devolvere agli eredi maschi. Una legge sull’επίκληρος povera attribuita a Solone144, con la 143 N. Bernarde, Femmes et cociété, 55. 144 Ps. Demostene, Contro Macartatos, 54, cf N. Bernarde, Femmes et cociété, 56. 106 Indice quale il legislatore disponeva l’obbligo del parente più prossimo di dotare convenientemente la fanciulla, testimonia bene questa esigenza. Le ragazze di condizione modesta potevano talvolta contare sull’aiuto di amici o congiunti, o beneficiare di atti di generosità di cittadini ricchi: dotare una fanciulla priva di mezzi era considerato un atto di pietà. Tuttavia non mancavano casi di padri costretti ad indebitarsi per realizzare il matrimonio delle figlie. Di sicuro non vi fu mai una forma di “assistenza statale” per le doti delle ragazze povere. La πόλις interveniva solo in casi particolari: a Rodi, per esempio, nel IV secolo d.C., la città fornì parte della dote alle fanciulle orfane di guerra145. Ma la dote era anche un bene simbolico, segno della generosità del padre e del valore della fanciulla: la morale sociale obbligava il marito ad assicurare alla sua sposa un mantenimento degno della magnanimità del suocero. In diritto attico la costituzione della dote, che normalmente accompagnava l’eγγύη, poteva aver luogo mediante δόσις, cioè l’effettiva consegna dei beni al marito, o mediante oμολογία προικός, una convenzione per effetto della quale, indipendentemente dalla consegna, il marito prometteva al costituente, in caso di cessazione del vincolo coniugale, il pagamento di una certa aestimatio dei beni 145 N. Bernarde, Femmes et cociété, 56. 107 Indice che egli dichiarava di aver ricevuto.146 Per quanto riguarda la sua funzione, va detto che la dote nel mondo greco non era destinata, come nel diritto romano, “ad sustinenda onera matrimonii”, ma si trattava di un “quid feminae additum”147. Non a caso il verbo che ne indicava la consegna era eπιδίδωμι, aggiungo: la sposa veniva data allo sposo insieme a delle ricchezze che non divenivano per questo proprietà del marito, ma rimanevano legate alla giovane come simbolo del proprio valore e del legame con la famiglia di origine. Il suocero, infatti, continuava ad esercitare la propria κυριεία vigilando sull’uso che il genero faceva della dote e, se era il caso, pretendendo delle garanzie giuridiche, per lo più l’aποτίμημα πριοκός un’ipoteca dotale sui beni del genero. Lo sposo, quindi, gestiva la dote e ne utilizzava i redditi per tutta la durata del matrimonio e, in una città marittima quale era Atene, gli investimenti potevano essere molto produttivi. Ma la titolare della dote rimaneva sempre la sposa: se l’uomo moriva senza avere figli, essa ritornava con la dote alla propria famiglia mentre, se v’erano figli, la dote diveniva parte della loro eredità, a patto però che mantenessero la madre. In caso di divorzio, poi, anche se la condotta della sposa non era stata esemplare, il marito era obbligato a restituire la dote al padre della donna, presso il quale rimaneva in qualche modo disponibile, a beneficio 146 147 A. Biscardi, Scritti di diritto greco, Milano 1999, 276. Biscardi-Cantarella, Profilo di diritto greco antico, Milano 1974, 115. 108 Indice di quest’ultima, per un nuovo eventuale matrimonio. Non era raro, infatti, che dopo una vedovanza o un divorzio una donna pervenisse a nuove nozze: a differenza di altre società tradizionali, in Grecia l’esistenza di una precedente unione coniugale non comportava una perdita di valore per la donna. Proprio lo stretto legame tra circolazione delle donne e del denaro faceva si che un’Ateniese, specie se ricca, poteva esser data in matrimonio più volte, a tutto vantaggio degli interessi degli uomini che le avevano sotto tutela. 3.6. I rapporti fra coniugi Contrarre matrimonio per i Greci era un dovere, per cui si ci ammogliava in età posata, di solito dopo i trent’anni. Le donne invece andavano spose molto giovani, quindi, normalmente, la differenza di età tra gli sposi era piuttosto consistente. Il problema dell’età giusta per contrarre matrimonio fu molto discussa dai greci. Secondo Esiodo la donna doveva sposarsi nel quinto anno successivo alla pubertà, e l’uomo a trent’anni148. Per Platone l’età ideale erano i sedici-venti anni per la donna e i venticinque-trenta per l’uomo149. Secondo Aristotele, infine, poiché le donne troppo giovani morivano spesso di parto, era opportuno che le fanciulle fossero 148 149 Esiodo, Opere e giorni, 6-95. Platone, Leggi, VII, 772, d-c. 109 Indice maritate intorno ai diciotto anni150. Nella pratica, però, le cose andavano diversamente e, di regola, l’età della pubertà precedeva di poco quella delle nozze. Sappiamo ad esempio che l’eπίκληρος poteva essere assegnata in matrimonio a quattordici anni, mentre un’epigrafe funeraria giunta sino a noi ricorda una donna che, sposatasi a tredici anni, visse concorde col marito sino a tarda età151. È probabile poi che le figlie minori venissero date in matrimonio un po’ più tardi rispetto alle primogenite, vista la necessità per il padre di costituire una nuova dote. In genere, però, i Greci preferivano indebitarsi piuttosto che ritardare le nozze delle loro figlie. Nessuna legge obbligava un padre o un fratello a sposare una fanciulla posta sotto la loro autorità, ma se la lasciavano invecchiare senza marito, l’opinione pubblica li avrebbe accusati di furto o miseria. Il celibato, perlomeno ad Atene, non era vietato per legge ma la pressione sociale, nonché il legittimo desiderio di avere una discendenza, inducevano la maggior parte degli scapoli, prima o poi, a prender moglie. Per le donne invece il matrimonio era l’evento più importante della loro vita, al punto che se una fanciulla moriva senza essersi 150 Aristotele, Polit.,VIII, 1335 a, cf U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 579. 151 U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 579. 110 Indice ancora sposata, la si diceva “sposa di Ade”152. Anche dopo il matrimonio, però, il destino di una donna non era compiuto in assenza di figli. La sposa che non aveva ancora partorito era detta νύμφη, e solo la nascita del primo bambino le dava il nome riservato alle spose complete, γυνή. La donna nella maternità trovava la sua realizzazione ma anche una sorta di riconoscimento pubblico, corrispondente a quello politico che era prerogativa dell’uomo. Del resto proprio nella procreazione di uno o più discendenti risiedeva la ragion d’essere del matrimonio, e non va dimenticato che la nascita di un bimbo era il modo più sicuro per cementare il legame coniugale. Se era il marito a morire senza lasciare figli, come abbiamo visto, la moglie ritornava nella casa paterna, a meno che non dichiarava di essere incinta e notificava il suo stato all’Arconte. In questo caso essa restava nell’οiκος dello sposo, perchè, se partoriva felicemente, aveva un titolo di appartenenza alla famiglia del marito come madre di un suo erede; se invece il figlio non nasceva o moriva, tornava all’οiκος di origine153. Il matrimonio poneva la donna sotto la tutela del marito, ma la κυριεία di quest’ultimo trovava un limite nella protezione della sua famiglia d’origine154. Nel sistema greco, infatti, la sposa anche se si istallava presso 152 153 154 I. Savalli, La donna, 109. U.E. Paoli, Famiglia (Diritto attico), in N.N.D.I., vol. VII, 37. A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 264. 111 Indice il focolare del marito (residenza virilocale), non cessava di appartenere alla famiglia paterna. I legami che essa manteneva con i familiari erano sia affettivi che istituzionali: suo padre e i suoi parenti continuavano a proteggere lei e la sua dote. Il marito non poteva agire impunemente contro la moglie, né il figlio contro la madre, perché avrebbero interferito con l’οiκος cui apparteneva, quello del padre della donna. A tal proposito Aristotele155 distingueva tra l’autorità del padre su i figli di entrambi i sessi, che definiva come un potere di tipo “regale”, e l’autorità del marito sulla moglie, che era invece simile ad un potere “politico”, cioè un’autorità sottomessa a delle regole e a dei limiti. Protetta dalla sua famiglia di origine la sposa doveva essere rispettata e trattata con dignità: lo sposo accettando la dazione aveva accettato delle obbligazioni precise. Le donne chiamate al matrimonio costituivano un gruppo ristretto, privilegiato: in quanto strumenti di riproduzione del corpo civico esse erano protette ed onorate. La sposa era un bene prezioso, dato a un uomo per la realizzazione di quello che è un bisogno primordiale di tutti gli uomini, avere una discendenza che li perpetui. Essa era simbolo del rango familiare, motivo di scandalo o di rispettabilità della casa. La posizione della sposa nell’οiκος dipendeva da diversi fattori: 155 Aristotele, Politica, I, 1259 b, cf A.M. Verilhac - C. Vial, Le mariage, 265. 112 Indice dall’appoggio della sua famiglia di origine, dall’importanza della sua dote, dalla presenza o meno di eredi maschi. La moglie che godeva della fiducia del marito aveva la direzione della casa; per gli schiavi era la δέσποινα, la padrona. Il marito, preso dalla sua professione e dagli affari politici, preferiva affidare a lei il buon andamento della casa. Naturalmente rimanevano l’assenza di libertà e di diritti, nonché quelle gravi lacune nell’educazione che impedivano qualsiasi comunione spirituale ed intellettuale tra marito e moglie. D’altra parte la grande differenza di età tra gli sposi non contribuiva certo a potenziarne i legami affettivi e spirituali. Le mogli vedevano molto poco i loro mariti al di fuori del letto coniugale, mangiavano raramente insieme, fatta eccezione per alcune ricorrenze familiari, e nella casa abitavano in appartamenti separati. Sia le donne che gli uomini vivevano con persone dello stesso sesso, e questo sovente comportava per le donne problemi di solitudine156. 3.7. Limiti al matrimonio e modalità di scioglimento Le limitazioni che il diritto attico poneva al matrimonio erano poche. Una regola degli a^γραφα νόμοι, le leggi non scritte, vietava 156 R. Ricchi, Femminilità e ribellione, 60. 113 Indice il matrimonio tra ascendenti e discendenti, e tra fratello e sorella della stessa madre, mentre era tollerato quello tra fratello e sorella di madre diversa e tra suocera e genero. Dare la propria figlia in sposa a un fratello consanguineo evitava al padre di sottrarre al patrimonio familiare i beni della dote157. I matrimoni tra altri parenti erano invece piuttosto frequenti. Il legame matrimoniale, soprattutto in mancanza di figli, era un legame precario in quanto entrambi i coniugi avevano la facoltà di interromperlo in qualsiasi momento. I divorzi e il ricorso a nuove nozze erano piuttosto diffusi. Naturalmente il ripudio della donna da parte del marito (aπόπεμψις) era più semplice da ottenere, perché non erano previste formalità né giustificazioni, mentre l’unica conseguenza consisteva nel dover restituire la dote. Per la donna invece l’abbandono del tetto coniugale (aπόπεμψις), era molto più complicato poiché per ufficializzare la procedura bisognava presentare una richiesta formale all’arconte eponimo, cosa che, a causa della sua incapacità giuridica, richiedeva l’appoggio del padre, di un fratello o di un altro membro della famiglia d’origine. Non a caso ci sono noti solo tre casi di divorzi richiesti dalla moglie e tutti piuttosto problematici. Plutarco158 ci racconta la triste vicenda di Ipparete ed Alcibiade. Alcibiade, dopo aver ottenuto in moglie Ipparete insieme ad una ricca dote, si comportò così male nei suoi confronti che la donna si 157 158 U.E. Paoli, Il matrimonio nel mondo classico, 578. Plutarco, Vita di Alcibiade, 8, 4 e ss, cf I. Savalli, La donna, 64. 114 Indice recò dal fratello e decise di domandare il divorzio all’arconte. Ma poiché la procedura richiedeva che la domanda fosse presentata in presenza della donna, Alcibiade, sorpresa la moglie nell’agorà, la costrinse con la forza a rientrare in casa e, così facendo, impedì il seguito dell’azione. Una caratteristica propria dell’istituto matrimoniale attico, che non trova altri riscontri né nel mondo antico né in quello moderno, stava nella possibilità che il vincolo coniugale venisse sciolto per iniziativa di un terzo. Con una particolare procedura, l’aφαίρεσις, il padre della sposa, sulla base di considerazioni sue, per lo più di carattere patrimoniali, poteva in ogni momento, fino alla nascita di un erede, interrompere le nozze e richiamare la figlia nella sua famiglia d’origine. Atto singolare, l’aφαίρεσις, che trova la sua spiegazione oltre che nella permanenza del padre nella qualità di κύριος della sposa, anche nel carattere prevalentemente contrattuale e patrimoniale del matrimonio attico. Ma il padre della sposa non era la sola persona che poteva sciogliere un matrimonio dall’esterno. Anche il parente più prossimo dell’eπίκληρος se al momento della morte del padre l’ereditiera era già sposata ma senza figli, aveva il diritto di interrompere il suo matrimonio, esercitando l’aφαίρεσις al posto del padre morto, e ottenere l’assegnazione giudiziaria della donna159. 159 F. Brindesi, La famiglia attica. Il matrimonio e l’adozione, Firenze 1961, 22 ss. 115 Indice Infine, in due casi particolari, il vincolo coniugale era sciolto per espressa disposizione di legge: quando la moglie risultava essere una forestiera o quando veniva sorpresa in flagrante adulterio con uno straniero. 3.8. Fuori da Atene Per quanto riguarda il matrimonio nelle altre πόλεις greche le informazioni di cui disponiamo sono poche e spesso falsate dai pregiudizi di chi le riporta. Sappiamo che il matrimonio per gli spartani era obbligatorio e poteva avvenire solo con le loro concittadine. I celibi ostinati erano puniti con la perdita parziale dei diritti civili e col divieto di assistere alle esibizioni ginniche delle ragazze. I costumi nuziali spartani erano assolutamente insoliti, riconducibili al modello del matrimonio per ratto. Secondo una notizia di Ermippo160, le fanciulle venivano rinchiuse in una stanza buia insieme ai giovani celibi ed ciascuno sposava la ragazza di cui si fosse impossessato nell’oscurità. Questa versione però si discosta notevolmente da un’altra descrizione che Plutarco161 ci offre del rituale matrimoniale spartano. Secondo l’autore delle Vite parallele, il matrimonio prevedeva 160 161 Ermippo, in Atheneo di Naucrati, Il banchetto dei sapienti, libro XIII, 555 C. Plutarco, Lyc., XV, 3-5. 116 Indice il rapimento della sposa e il suo successivo affidamento ad una donna che le rasava il capo, le faceva indossare degli abiti maschili, e la lasciava coricata sul un giaciglio di paglia, sola, al buio, in attesa del marito. Questi dopo aver partecipato come al solito ai pasti in comune (sissizi) andava incontro alla sposa non ubriaco né svigorito ma perfettamente lucido, la prendeva tra le braccia e la trasportava sul letto. Dopo essere rimasto con lei poco tempo, se ne andava a dormire nel luogo dove era solito farlo insieme con gli altri giovani. Gli sposi continuavano ad avere rapporti occasionali, nel modo sopra descritto, per tutto il periodo durante il quale il giovane spartiata era tenuto a vivere insieme ai coetanei, e cioè fino al compimento dei trent’anni162. E siccome l’età del matrimonio a Sparta, tanto per l’uomo che per la donna era fissata a diciotto anni, ciò vuol dire che tra gli sposi non v’era convivenza per i primi dodici anni di matrimonio. Secondo alcuni studiosi lo scopo di questa sorta di “matrimonio a prova” era quello di saggiare la fecondità dei due sposi, in modo che l’unione, in assenza di figli, potesse essere sciolta senza disonore di alcuno.163 Per altri invece si tratterebbe di pratiche sessuali pre-matrimoniali che poi, nella versione di chi le ha riportate, sono state giustificate 162 M. Lupi, L’ordine delle generazioni. Classi di età e costumi matrimoniali nell’antica Sparta, Bari 2000, 76. 163 Cf I. Savalli, La donna, 52. 117 Indice sotto il manto dell’unione legittima164. Fine del matrimonio era, a Sparta più che altrove, la generazione di nuovi cittadini e l’uso di sposarsi nell’età del pieno vigore fisico trovava il suo fondamento su un’ideologia eugenetica che considerava imperfetti i figli nati da genitori non maturi. Questo tipo di preoccupazioni, unite a certe notizie sulle esperienze extraconiugali delle donne sposate, si spiega con la necessità che gli spartiati avevano di non lasciar diminuire demograficamente il loro gruppo etnico per non alterare il rapporto numerico con gli altri gruppi e per conservare un alto potenziale militare. Il rapimento era presumibilmente un atto rituale che sanciva l’inizio della relazione, ma che non impediva che venissero stipulati accordi familiari. Anche nella città lacedemone il matrimonio era un atto privato, una transazione tra due uomini che mettevano in opera un’alleanza tra due case e si accordavano su una dote: lo si deduce indirettamente da una breve indicazione di Erodoto che fa riferimento ad un accordo su un futuro matrimonio tra Leotichida e Percalo, figlia di Chilone, reso vano dal rapimento della ragazza per opera di un altro uomo165. Il fattore del travestimento, più che un segno del passaggio della ragazza dallo stato di nubile a quello di donna sposata, deve essere inteso come un tentativo di stornare le potenze malefiche emananti 164 165 Cf M. Lupi, L’ordine delle generazioni, 65ss. Erodoto, Storie, VI, 65. 118 Indice dalla femminilità all’inaugurazione del matrimonio, secondo una credenza comune a certe popolazioni primitive. A Sparta, al contrario di quanto accadeva ad Atene, era consentito il matrimonio di due figli della stessa madre ma di padri differenti. Il celibato era combattuto con mezzi singolari: in una certa festa le donne trascinavano i celibi attorno all’altare e li fustigavano, affinché questi per evitare un trattamento tanto umiliante, si accostassero alle nozze a tempo debito166. La vita familiare era organizzata in modo totalmente diverso rispetto al modello attico: poiché gli uomini erano presi da obblighi militari e impegni pubblici, l’amministrazione domestica era tutta nelle mani delle donne, le quali erano anche le sole responsabili di quella parte dell’educazione dei figli che lo stato non si assumeva. Ai banchetti era ammessa la presenza femminile, Anche a Gortina il matrimonio era obbligatorio. L’età minima per sposare un’ereditiera era fissata a dodici anni e di poco maggiore doveva essere quella richiesta normalmente per la sposa novella. Da un celebre frammento dello storico Eforo di Cuma sappiamo che i giovani cretesi erano tenuti a sposarsi collettivamente quando, al compimento dei ventisette anni, uscivano dalle aγέλαι167. Il matrimonio però, come a Sparta, non implicava l’immediata 166 167 Atheneo di Naucrati, 555 d. Ephor. in Strab. X, 4, 16, C 480 ss. 119 Indice coabitazione dei due coniugi, perché la moglie veniva condotta a casa del marito solo quando fosse stata capace di dirigere l’οiκος168. Poiché il codice prevedeva che l’ereditiera (πατροιéκος) potesse non accettare il marito che la legge le destinava, è probabile che, a differenza di quanto accadeva ad Atene, al momento della conclusione del matrimonio fosse richiesto il consenso della sposa169. Di certo sappiamo che le vedove e le divorziate potevano sposarsi di nuovo secondo la loro volontà, senza l’intervento del padre170. Il codice non poneva alcun divieto ai matrimoni misti. Se una donna libera sposava un non libero e viveva in casa di questo, i figli non erano liberi; se invece il marito viveva in casa della moglie, i figli erano liberi: il loro statuto dipendeva cioè dall’essere il matrimonio matrilocale o meno. Il codice non prevedeva il caso dei figli nati da uomo libero e da una serva probabilmente perché i figli nati nella casa del padre erano liberi per definizione. Le cause di divorzio non sono specificate nella grande epigrafe. La sola circostanza considerata è quella del divorzio per colpa del marito, nel qual caso l’uomo, oltre all’ovvia restituzione della dote e dei lavori di tessitura, era tenuto a versare all’ex moglie la somma 168 M. Lupi, L’ordine delle generazioni, 82. 169 U.E. Paoli, L’antico diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 449. 170 C. Leduc, Come darla in matrimonio?, 272. 120 Indice di cinque stateri171. La donna che partoriva dopo il divorzio doveva presentare il figlio all’ex marito, nella sua casa, alla presenza di tre testimoni. Se egli lo rifiutava la madre era libera di tenere o no il bambino, ma se lo esponeva senza aver prima consultato l’ex marito, era soggetta ad una multa di cinquanta stateri, se il figlio era libero, di venticinque se schiavo172. 171 172 Lex Gort., II, 45-54, cf I Savalli, La donna, 58. I. Savalli, La donna, 57. 121 Indice Capitolo IV La μοικεία 4.1. L’infedeltà coniugale nell’antica Grecia Nell’antica Grecia, come si è visto, il controllo della sessualità riproduttiva attraverso le procedure matrimoniali serviva a garantire la persistenza delle famiglie e della città. Ma, se lo scopo principale dell’οiκος consisteva nella procreazione di figli legittimi, la preservazione del letto coniugale da possibili infedeltà era un’esigenza che andava oltre la sfera privata. L’infedeltà femminile era considerata, quindi, un’infrazione molto grave che, precludendo la certezza della prole, offendeva e minacciava non solo l’onore della famiglia ma la stabilità stessa della πόλις. Inoltre, poiché la partecipazione alla vita pubblica e alle istituzioni si basava sul diritto di nascita e sulla legittimità, l’intrusione di elementi estranei nel numero dei cittadini rappresentava, per la mentalità ellenica, un vero e proprio attentato all’integrità del gruppo civico. Ogni usurpazione del diritto di cittadinanza comportava, infine, anche un’infrazione delle norme religiose, perché solo i cittadini potevano prender parte ai culti civici173. Al contrario, dato il regime di libertà sessuale maschile, era del 173 I. Savalli, La donna, 61. 122 Indice tutto assente la nozione di adulterio perpetrato dal marito nei riguardi della moglie. Salvo il divieto di compromettere la sposa o la figlia di un altro cittadino, tutte le altre forme di commercio sessuale erano lecite. La frequentazione di concubine, cortigiane o semplici prostitute, era considerato un fatto normale, socialmente e in parte anche giuridicamente riconosciuto. Certo la morale riprovava le condotte troppo indiscrete o sfacciate, che potevano recar danno alla dignità e all’onore delle spose legittime ma, in genere, gli uomini potevano disporre liberamente della loro vita sessuale174. Ad essere vietati, quindi, non erano le relazioni extraconiugali ma solo i rapporti illeciti con donne poste sotto la tutela di un κύριος. 4.2. L’adulterio nel mondo omerico L’adulterio nella antica Grecia era punito severamente da una serie di leggi collocabili, con un certo grado di attendibilità, in diversi periodi della storia ellenica e giunte fino a noi in quanto citate ad verbum o parafrasate nelle opere di numerosi autori del periodo classico e post-classico. Non è ben chiaro quale fosse la pena prevista per questo tipo di infrazione nel mondo omerico, anche perché i tre casi di 174 N. Bernarde, Femmes et société, 65. 123 Indice adulterio presenti nell’Iliade e nell’Odissea sono tutti, per così dire, eccezionali. Il primo è naturalmente il rapimento di Elena da parte di Paride175, poi c’è il tradimento di Clitemnestra con Egisto176, infine l’episodio della seduzione di Afrodite da parte di Ares177. Omero condanna nettamente la condotta di Clitemnestra, presentata come il prototipo della donna mascolina e ostile all’uomo, mentre appare assai comprensivo nei riguardi di Elena, che egli non ritiene colpevole perché indotta a tradire il marito da Afrodite. Il poeta però non fa alcun cenno a sanzioni giuridiche né a punizioni private. Il racconto dell’adulterio di Afrodite presenta maggiori particolari. Afrodite, moglie di Efesto, aveva una relazione con Ares, il dio della guerra. Efesto, avendolo saputo, perché il Sole aveva fatto la spia, tese una rete invisibile attorno al letto e finse di andare a Lemno. Quando i due amanti entrando nel talamo vi rimasero intrappolati, Efesto chiamò tutti gli dei a testimoni del tradimento dicendo che non li avrebbe liberati finché non gli sarebbero stati restituiti i doni delle nozze. Le sanzioni che colpivano la moglie infedele, quindi, erano il ripudio e la restituzione degli ἔδνα mentre, ancora una volta, non v’è nessun riferimento a punizioni corporali, che pure in quell’epoca 175 176 177 Omero, Iliade, III, 39-57, 156-165. Omero, Odissea, III, 261-275; XXIV, 192-202. Omero, Odissea, VIII, 270-319. 124 Indice erano piuttosto diffuse178. 4.3. Il reato di μοιχεία nel periodo classico Punto di partenza di tutte le discussioni moderne sullo scopo e il significato delle parole μοιχεία e μοιχός nel diritto attico è un noto passo dell’orazione Contro Aristrocrate di Demostene, in cui l’autore riporta il testo di una legge aeropagitica: «Se uno uccide nelle gare involontariamente, o nella strada, o in guerra per errore, o ( colui che sorprende in rapporti carnali ) con la moglie, la madre, la sorella, la figlia o la concubina, che tenga per avere figli liberi, non deve per questi motivi andare in esilio»179. L’autenticità di questa legge e la sua effettiva applicazione ai casi di adulterio è confermata da diverse allusioni presenti in altri testi e dall’applicazione che se ne faceva nelle scuole retoriche. In particolare, nell’orazione in difesa di Eufileto, Lisia fa riferimento ad una legge secondo la quale il tribunale dell’Aeropago non era competente a giudicare colui che avesse ucciso il μοιχός della moglie: «Ascoltate, o cittadini, che a questo stesso tribunale dell’Aeropago chiaramente è stato detto di non dichiarare omicida 178 E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero: contributi alla protostoria del diritto greco, Milano 1979, 173. 179 Demostene, Contro Aristocrate, 53. 125 Indice colui che, avendo sorpreso il μοιχός con la propria moglie, abbia inflitto questa punizione»180. Sebbene l’orazione non riveli l’esatta formulazione dello statuto, l’uso delle parole “ἐπί δάρματι” dimostra chiaramente che si tratta della stessa legge citata da Demostene181. Ma qual è, in realtà, la natura della disposizione cui fa riferimento il celebre oratore greco? Il contesto come pure il linguaggio adoperato da Demostene fanno pensare ad un passo citato dalla famosa legge di Draconte sull’omicidio. Come è noto, negli ultimi decenni del VII secolo a. C., Draconte diede ad Atene le sue prime leggi in materia penale, con le quali, per la prima volta veniva vietava la vendetta privata dei torti subiti. Alcune di queste norme, quelle sui reati di sangue, ripubblicate dagli ἀναγραφεῖς nel 409-408 a.C., rimasero in vigore per tutta l’età classica. Per mezzo di esse l’omicidio divenne un “reato” nel senso moderno del termine, punito con pene previste dalla legge ed applicate solo in seguito ad una pronunzia di colpevolezza emessa dal tribunale competente. Se l’omicidio era volontario la punizione era la morte, se involontario l’esilio. 180 181 Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 30. D. Cohen, The Athenian Law of Adultery, in RIDA, 31(1984), 149. 126 Indice Ma in deroga ai nuovi fondamentali principi che segnavano la nascita del diritto penale, Draconte aveva stabilì una serie di ipotesi in cui l’omicidio era considerato δίκαιος, vale a dire legittimo. E proprio casi di φόνος δίκαιος sono quelli ricordati da Demostene: l’uccisione involontaria durante le gare atletiche, l’uccisione di un commilitone in guerra per errore, l’uccisione di un brigante nel corso di un assalto per strada, infine l’uccisione di un uomo sorpreso in rapporti carnali con la moglie, la madre, la sorella, la figlia o la concubina tenuta per avere figli liberi. Quest’ultimo passaggio è considerato, dagli storici del diritto, di fondamentale importanza per la comprensione della normativa ateniese sull’adulterio in quanto racchiude alcune particolarità che valgono a differenziare nettamente l’adulterio greco sia dal corrispondente reato romano che da quello cristiano. Da esso si evince innanzitutto che i Greci consideravano adulterio non solo la seduzione della moglie, ma anche quella della madre vedova, della figlia non sposata, della sorella o della concubina di un cittadino ateniese. La μοιχεία, quindi, non presupponeva necessariamente l’esistenza di un vincolo di iustae nuptiae ma rientravano in questo tipo di reato anche gli illeciti commerci carnali con donne nubili o con χήραι (donne, cioè, che avevano avuto un marito e che non lo avevano più perché era morto o perché il matrimonio era stato 127 Indice sciolto)182. Inoltre, poiché non solo il marito era direttamente oltraggiato dall’adulterio ma anche il figlio, il fratello, il padre e l’uomo vivente in concubinato, gli eccezionali poteri di repressione consentiti contro l’adultero erano riconosciuti a tutti i maschi dell’οiκος che fossero in possesso del diritto di cittadinanza183. Questo perché attraverso la punizione della μοιχεία gli Ateniesi intendevano tutelare non tanto l’interesse del marito alla fedeltà della moglie, quanto l’interesse del gruppo familiare a che nell’οiκος non venissero immessi figli spuri. In una società in cui la partecipazione alla vita pubblica e alle istituzioni della città si basavano sul diritto di nascita, era di fondamentale importanza assicurarsi che coloro cui veniva conferita la cittadinanza fossero nati legittimamente. Lisia, sempre nella stessa orazione conferma questo timore: «…e non si sa più quali figli sono dei mariti e quali dei μοιχοί…»184. Il rapporto illecito con una donna libera più che una offesa all’onore del suo κύριος era, un oltraggio (uβρις) all’οiκος cui essa apparteneva, perché ne contaminava la purità sacrale e, rendendo 182 E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976, 154. 183 U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, in SDHI, 16(1950), 254. 184 Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 33. 128 Indice equivoca la prole, tendeva a frustrare lo scopo dell’οiκος, che era la procreazione di figli legittimi con la quale assicurare la propagazione della famiglia e il mantenimento dei sacra familiari185. Che l’adulterio rivestisse il carattere di una uβρις risulta chiaramente dal testo della orazione di Lisia in difesa di Eufileto: «…è questo l’oltraggio che tutti ritengono il più grave…»186. «…l’uomo che fa questo oltraggio a te e alla tua moglie è nostro nemico»187. Alcuni studiosi sconsigliano persino di tradurre il termine μοιχεία con quello di adulterio, dal momento che nel nostro sistema giuridico la parola “adulterio” indica un reato differente, circoscritto soltanto all’ambito coniugale. 4.4. La tesi del Cohen Molte sono, nell’antica letteratura, le testimonianze a conferma della suddetta interpretazione “estesa” della μοιχεία: il Paoli ce ne fornisce un’ interessante rassegna, individuando un sicuro riscontro documentale per ciascuna ipotesi di adulterio al di fuori 185 186 187 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 266. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 2. Lisia, Per L’uccisione di Eratostene, 16. 129 Indice del matrimonio188. Tuttavia, negli ultimi tempi, un controverso studio di David Cohen189 ha messo in dubbio questa visione tradizionale, generalmente accettata, suggerendo una diversa lettura del passo D.27,53 sulla base di un più attento esame del linguaggio adoperato dall’oratore ateniese. A ben vedere, osserva il Cohen, la norma menzionata da Demostene non fa alcun riferimento alla μοχεία ma descrive soltanto dei rapporti sessuali eπi δάρματι, eπi μητρi, ecc., e per questo motivo può riferirsi con eguale validità allo stupro, all’adulterio e alla seduzione. Non a caso è proprio in tali termini che il celebre logografo ne discute nel resto dell’orazione, dove si parla di stupro (uβρίζειν)190 e seduzione191, mentre manca qualsiasi accenno alla μοιχεία. Questo perché la disposizione citata non contiene, come comunemente si crede, una definizione della μοιχεία ma, in quanto parte della legge sull’omicidio giustificabile, espone soltanto delle eccezioni al generale divieto di omicidio. Il riferimento alla moglie, alla madre,alla figlia, ecc., non fornisce alcuna base per supporre che si tratti in ogni caso di μοιχεία, ma serve solo ad includere i tre tipi di criminali sessuali nella previsione 188 189 190 191 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 256 ss. D. Cohen, cit., The Athenian Law of Adultery, 147-165. Demostene, Contro Aristocrate, 23-56. Demostene, Contro Aristocrate, 54-55. 130 Indice discolpante, e, in effetti, dal punto di vista della legge sull’omicidio, non fa differenza se l’offensore è un seduttore, uno stupratore o un adultero, ma tutti possono essere uccisi con impunità se sorpresi sul fatto dai membri maschi della famiglia. Il fatto che la μοιχεία fosse un reato diretto esclusivamente contro il matrimonio trova conferma, sempre secondo Cohen, in diversi passaggi nelle fonti classiche, molti dei quali ignorati dalla dottrina tradizionale a causa della supposizione che la norma sull’omicidio giustificabile letta da Demostene concernesse esclusivamente l’adulterio. Come numerosi sarebbero anche i richiami ad un’altra legge che, in realtà, governava l’adulterio nell’Atene classica e che lo studioso tenta di ricostruire, pur se in maniera approssimativa192. Le ipotesi del Cohen hanno suscitato un vivido dibattito nel mondo scientifico, con il merito, tra l’altro, di aver riacceso l’interesse su queste tematiche; tuttavia la maggior parte degli studiosi rimane ancorata alla visione classica della μοιχεία, anche perché la ricostruzione del reato di adulterio alla luce della testimonianza di Demostene sembra godere di un maggior sostegno delle fonti. Inoltre l’idea di una μοιχεία estesa a comprendere la seduzione di qualsiasi donna libera dell’οiκος ben si armonizza con quella che abbiamo visto essere la concezione del matrimonio nella società ellenica. 192 D. Cohen, The Athenian Law of Adultery, 153ss. 131 Indice Queste considerazioni non escludono però che anche per gli Ateniesi l’adulterio considerato normale e tipico fosse quello commesso con donna maritata, tanto che nel parlare comune il μοιχός era colui che aveva sedotto una donna sposata. Tale forma di adulterio, infatti, rivestiva maggiore gravità perché mentre la violenza recata ad una fanciulla, o ad una χήρα, poteva essere riparata con un matrimonio “riparatore”, l’adulterio con donna sposata era oltraggio insanabile193. 4.5. Struttura del reato di μοιχεία Dall’esame del brano di Demostene si evince anche un’altra particolarità propria dell’adulterio greco: perché l’uccisione del μοιχός fosse legittima era necessaria, oltre alla consumazione del reato di μοιχεία, la sorpresa del reo in flagranza di reato. Έπί più il dativo che indica una persona non può avere altro significato che “prendere sul fatto”194. Quindi se l’adultero era colto in flagrante poteva essere ucciso impunemente anche senza necessità di una sua confessione, non avendo egli altra possibilità di negare. Se invece veniva sorpreso in casa dopo aver commesso l’adulterio ma prima di essersi messo al sicuro fuori dalle pareti domestiche della donna, era necessaria una confessione in quanto egli poteva negare l’adulterio adducendo 193 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 265. 194 K. Kapparis, When were the Athenian Adultery Laws Introduced?, in RIDA, 42(1995), 105. 132 Indice un qualsiasi altro motivo, lecito o illecito, del trovarsi in domicilio altrui195. Sia Paoli che Cantarella, basandosi su un noto passaggio di Luciano196, sostengono che l’uccisione dell’adultero fosse consentita dalla legge solo se i due amanti venivano sorpresi nell’atto stesso del coito (aρθρα eν aθροις eχων), mentre altri autori197 sono convinti fosse sufficiente trovare l’uomo con la donna, nella propria casa, in circostanze sospette. Considerando infatti la realtà delle relazioni sociali nell’Atene classica dove gli uomini non potevano nemmeno supporre di far visita a delle donne che non fossero loro consanguinee, anche in presenza del κύριος, per l’amante trovarsi nella casa della donna era un fatto incriminante di per sé. Un’altra caratteristica della normativa ateniese sull’adulterio è data nella mancanza di qualsiasi valutazione soggettiva dietro l’immunità concessa all’uccisore del μοιχός. A differenza del moderno omicidio per causa d’onore, in Grecia l’uccisione dell’adultero restava impunita indipendentemente dalla considerazione del particolare stato d’animo in cui si era trovato 195 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 271. 196 Luciano, Eunuch., 10: εἱ δὲ μὴ ψεύδονται οἱ περὶ αὐτοῦ λέγοντες, καὶ μοιχὸς ἑάλω ποτέ, ὡς ὁ ἄξων φησίν, ἄρθρα ἐν ἄρθροις ἔχων (e se coloro che parlano di questo non mentono, anche il μοιχός, come prescrive la tavola, sia sorpreso mentre ha i genitali nei genitali). 197 L. Foxhall, Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte, in Symposion 1990; K. Kapparis, When were the Athenian Adultery Laws Introduced?, 105ss. 133 Indice l’omicida nel momento in cui aveva scoperto l’illegittima relazione carnale. Posto che per la sua immunità era necessario che egli avesse scoperto il μοιχός in flagranza di reato, non si richiedeva che questa scoperta fosse per lui una sorpresa: egli poteva uccidere impunemente anche nel caso fosse stato da tempo a conoscenza della relazione illecita e anche se si fosse adoperato per sorprendere l’adultero nelle condizioni che gli garantivano l’immunità198. Questo concetto è chiaramente confermato da un’asserzione di Lisia: «E a me, dunque, o cittadini, le leggi non soltanto riconoscono che non ho commesso un illecito, ma ordinano di prendere questa vendetta…»199. L’immunità concessa all’uccisore del μοιχός derivava, quindi, esclusivamente dalla presenza di circostanze di tipo oggettivo. Di queste una, abbiamo visto, era la sorpresa in flagrante del reo, un’altra, non meno importante, era la consumazione della μοιχεία all’interno dell’οiκος cui apparteneva la donna. Anche questa ultima caratteristica trova conferma dalla lettura di Lisia, il quale, nella orazione in difesa di Eufileto, afferma più volte che Eratostene, l’adultero ucciso dal suo assistito, era stato sorpreso in casa di quest’ultimo, e lo ripete con un’insistenza che 198 199 E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, 140. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 34. 134 Indice conferma l’importanza del particolare. Secondo il Paoli la violazione del domicilio della vittima era uno degli elementi costitutivi del reato di μοιχεία, in mancanza del quale il rapporto sessuale illecito dava luogo ad un reato diverso dalla μοιχεία, cioè ad una uvβρις. Il fatto che l’adulterio avesse avuto luogo all’interno dell’οivκος serviva, infatti, a legittimare le sanzioni che i rappresentanti della sovranità familiare potevano infliggere in casa propria all’adultero, perché il luogo cui il reato era stato commesso soggiaceva ad una giurisdizione diversa da quella della πόλις200. Per Cantarella, invece, si aveva μοιχεία ogni qual volta un uomo aveva una relazione sessuale all’infuori di un rapporto di matrimonio o di concubinato, con una donna libera e che non si prostituiva. Il luogo in cui ciò avveniva non aveva alcuna rilevanza, almeno per quanto riguarda la struttura del reato, perché la violazione di domicilio non era un elemento costitutivo del reato ma una delle condizioni richieste affinché l’uccisione del μοιχός fosse legittima. Se infatti l’interesse che si voleva tutelare era la legittimità della prole, la μοιχεία non poteva non aver luogo indipendentemente dalla violazione di domicilio201. A dimostrazione di questa tesi, sempre nell’orazione in difesa di Eufileto, si legge: 200 201 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 268 ss. E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 145-146. 135 Indice «Io ritengo dunque, o cittadini, di aver dimostrato questo, che Eratòstene commise μοιχεία su mia moglie, e oltraggiò me essendosi introdotto in casa mia…»202. Come si vede, Lisia distingueva tra due reati diversi: un primo reato che Eratostene aveva commesso unendosi alla moglie di Eufileto, e che l’oratore qualificava come μοιχεία, e un secondo che consisteva nell’intrusione dell’uomo in casa di altrui. Ma perché allora subordinare la concessione dell’impunità alla circostanza che la μοιχεία fosse stata consumata all’interno dell’οiκος? Per Cantarella il motivo di questa limitazione va ricercata nella plurisecolare evoluzione storica del diritto penale greco. Muovendo dall’originale sistema della vendetta privata, la Grecia aveva conosciuto un momento nel quale la giustizia era assicurata grazie all’attività dei privati, riconosciuta legittima dal potere pubblico. Successivamente, con la legge di Draconte, lo Stato si riservò, in via esclusiva, il diritto di usare la forza, segnando così il passaggio ad una repressione di tipo diverso, che aveva i caratteri di una giuridicità più moderna. La stessa legge, però, come si è visto, prevedeva alcune ipotesi eccezionali in cui il privato poteva continuare a farsi giustizia da sé, e una di queste era proprio la scoperta di un adulterio. Pertanto 202 Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 29. 136 Indice allo scopo di rendere inequivocabile l’eccezionalità della regola, fu stabilito che l’uccisione dell’adultero fosse lecita solo se questi veniva sorpreso in flagrante e all’interno dell’οiκος. Ma perché la permanenza del μοιχός nella casa dove aveva commesso adulterio costituisse flagranza era necessario che tra il fatto compiuto e la permanenza dell’adultero dentro la casa oltraggiata non vi fosse soluzione di continuità: se l’adultero riusciva ad allontanarsi furtivamente dalla casa e vi tornava perché attrattovi dal cittadino che egli aveva offeso, o trascinatovi a forza, anche se confessava non poteva più essere ucciso impunemente203. Nell’orazione di Lisia Per l’uccisione di Eratòstene Eufileto, il marito uccisore dell’adultero, compare come accusato in un processo per omicidio perché, pur essendo indiscusso tra le parti che tra Eratòstene e la moglie di Eufileto esistesse una relazione adulterina, i parenti dell’ucciso sostenevano che questi non era stato sorpreso sul fatto ma attirato in casa con l’inganno. La tesi degli avversari di Eufileto si ricava dalle argomentazioni adoperate da Lisia per difendere il suo assistito: «…mi fanno l’accusa che in quel giorno mandai la mia ancella a chiamare il giovinetto…»204. «…se in quella notte avessi teso insidie a Eratòstene…»205. 203 204 205 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 272. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 37. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 40. 137 Indice Ma i parenti dell’ucciso contestavano la legittimità dell’esecuzione anche per il fatto che Eratòstene si era rifugiato presso l’altare domestico: «…non trascinato in casa dalla strada, ne rifugiatosi presso il focolare…»206. Se, infatti, l’adultero sorpreso in casa, riusciva a mettersi sotto la protezione dell’altare domestico, godeva di uno speciale diritto d’asilo in base al quale l’uomo oltraggiato era obbligato a non usargli violenza. L’altare domestico era il cuore della casa greca, il centro della religiosità familiare, e per questo motivo, uccidere una persona che fosse riuscita a rifugiarsi presso di esso era considerato un sacrilegio. Da un brano di un’altra orazione di Lisia apprendiamo, infatti, che i delinquenti (aδικοuντες o κακοuργοι) inseguiti da magistrati e cittadini, potevano sottrarsi all’arresto cercando riparo nei templi o presso gli altari: «…a voi , a cui si faceva un torto, non giovarono per il modo di procedere di costoro né i templi né gli altari, che pur sono di salvezza anche ai delinquenti»207. 206 207 Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 27. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 98. 138 Indice E poiché, come si vedrà più avanti, il diritto greco poneva sullo stesso piano μοιχός e κακοuργος, lo stesso diritto spettava agli adulteri, sia nei confronti della sovranità della πόλις che della sovranità familiare. Tornando alla struttura del reato, un’ulteriore elemento costitutivo della μοιχεία era dato dalla condizione di donna libera di colei presso la quale l’adultero veniva sorpreso. Il commercio carnale con una schiava, anche se avveniva con violazione di domicilio, non era considerato μοιχεία. Anche questa circostanza è confermata, indirettamente, da un passo di Lisia: «…sedusse delle donne libere e fu colto sul fatto come adultero»208. e dal diritto di Gortina, dove si limita l’ipotesi di adulterio al solo commercio con donna libera: «…se uno è sorpreso in adulterio con donna libera…»209. Secondo il Paoli, inoltre, durante il periodo classico un rapporto illecito era considerato adulterio solo se la donna, oltre che libera, 208 209 Lisia, Contro Agorato, 66. Lex Gort., II, 22-23. 139 Indice era anche cittadina210. Lo studioso deriva questa convinzione, ancora una volta, dall’analisi del passo D.27,53, dove è legittimata l’uccisione dell’adultero sorpreso eπi παλλακh hν aν eπ’eλευqέροις παισiν eχh (presso la concubina tenuta per avere figli liberi). Nel 451-450 a.C. un decreto di Pericle aveva stabilito, come si è visto, che potevano essere cittadini solo gli ἐξ ἀμφοτέρων γεγονότες ἀστῶν, cioè i nati da padre cittadino e madre cittadina, ragion per cui, da allora in poi, i figli nati da donna forestiera non potevano avere diritto di cittadinanza. Ma siccome non era concepibile che un cittadino si procurasse, anche fuori dalle iustae nuptiae, dei figli liberi se questi divenuti adulti non potevano essere cittadini, se ne deduce che per esservi adulterio la παλλακh doveva avere cittadinanza ateniese211. Di parere del tutto opposto si mostra invece Cantarella: proprio perché a partire dall’attuazione del famoso decreto di Pericle, ad Atene vigeva il divieto di contrarre matrimonio con una straniera, il cittadino che voleva vivere con una donna di un altro paese non aveva altra possibilità che tenerla come concubina. Quindi se, come sostiene il Paoli, fosse stata considerata μοιχεία solamente l’unione con donna cittadina, la regola che prevedeva la punizione come μοιχός di colui che si univa con l’altrui παλλακή avrebbe garantito in pochi casi che i figli nati da un rapporto di concubinato fossero 210 211 U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 264. U.E. Paoli, Il reato di adulterio, 265. 140 Indice realmente del convivente della παλλακή212. L’affermazione del Paoli che fino all’epoca di Pericle per avere adulterio bastava che la donna fosse libera, mentre dopo divenne indispensabile che essa fosse cittadina ateniese, va perciò capovolta: anche ammesso che prima di Pericle venisse considerata μοιχεία l’unione con donna libera e cittadina, dopo il 451 divenne reato anche l’unione con donna libera straniera. Non era invece considerato μοιχεία l’atto venereo con donna libera se questo avveniva in una casa in cui si tollerava la prostituzione: «…allega perciò la legge la quale non consente di agire come contro un adultero, se si tratta di donne che siedono in un lupanare, o apertamente si prostituiscono»213. La legge citata da Demostene e attribuita a Solone da Lisia214 e da Plutarco215, permetteva all’uomo accusato di adulterio di negare l’accusa sostenendo che, anche se aveva avuto rapporti sessuali con quella particolare donna, ciò non costituiva adulterio perché essa praticava un qualche tipo di prostituzione. Il marito che uccideva il complice di sua moglie nel caso appena menzionato doveva essere perciò trattato come un assassino ordinario. 212 213 214 215 E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 152. Demostene, Contro Neera, 67. Lisia, 10, 15-19. Plutarco, Solone, 23. 141 Indice 4.6. Sanzioni dirette contro l’adultero Per quanto riguarda la repressione del reato, abbiamo visto come la legislazione di Dragonte, nota per la sua crudeltà, autorizzava il κύριος della donna ad uccidere personalmente il μοιχός sorpreso in casa nell’atto di commettere adulterio, o prima che potesse fuggire, purché, in tal caso, avesse confessato. Questa disposizione rimase in vigore non solo durante il periodo classico ma durò fino in tarda antichità, e non fu applicata nella sola Atene ma divenne comune a molte città greche. Vari indizi presenti nelle fonti portano a supporre che il mezzo più usuale per giustiziare il μοιχός consistesse nell’immobilizzare l’uomo e nel fracassargli il cranio a bastonate216. Con il bastone Eufileto ridusse a mal partito Eratòstene prima di finirlo, ed è probabile che lo uccidesse con lo stesso mezzo: «…ed io avendolo colpito con un randello, lo stendo a terra»217. Ma poiché non tutti gli uomini potevano avere il sangue freddo necessario a giustiziare di propria mano l’adultero, l’uccisione del colpevole non era l’unica possibilità che la legge concedeva all’oltraggiato. In alternativa all’esecuzione immediata, il κύριος della donna poteva mettere in ceppi l’adultero e accordarsi con lui circa il pagamento di una somma di danaro come risarcimento del 216 217 U.E. Paoli, l reato di adulterio, 274. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, 25. 142 Indice danno recato all’onore della famiglia. La remissione della pena dietro compenso pecuniario era una pratica diffusa sin dai tempi antichi, tant’è vero che se ne trova traccia anche in Omero. Nell’ottavo libro dell’Odissea, Demodoco, l’aedo dei Feaci, nel cantare lo scandaloso episodio di Ares e Afrodite, sorpresi in flagrante adulterio da Efesto, racconta di come Poseidone intervenisse in favore di Ares offrendosi come garante del risarcimento che questi doveva all’oltraggiato: «Liberalo, io ti prometto in presenza agli dèi immortali che egli ti pagherà tutto ciò che ti è dovuto, secondo la tua richiesta»218. Ma la diffusione dell’usanza di risarcire l’adulterio è testimoniata con chiarezza anche nel diritto di Gortina. Nella città dorica, infatti, il μοιχός sorpreso in flagranza di reato era condannato a pagare una ποινή che non veniva stabilita di volta in volta dalle parti, ma era determinata preventivamente dallo Stato, il quale valutava la gravità dell’offesa in base alla posizione giuridica e sociale del reo (se libero o schiavo), la posizione della vittima (se donna di un libero, di un απεταίρος, cioè di un uomo che non apparteneva ad alcuna eteria, o di uno schiavo), e alle circostanze nelle quali era stato commesso il reato (dove il rapporto sessuale era stato consumato)219. 218 Omero, Odissea, VIII, 347-348. 219 U.E. Paoli, La legislazione sull’adulterio nel diritto di Gortina, in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976, 509 ss. 143 Indice Anche in epoca classica, quindi, il cittadino oltraggiato che avesse sorpreso l’adultero in casa sua poteva tenerlo prigioniero finché non presentava dei garanti per il pagamento: Efeneto, sorpreso con Fanò, figlia di Neera, ottenne la libertà pagando 30 mine220, mentre Eratòstene, colto sul fatto da Eufileto, tentò inutilmente, di evitare la morte offrendo del denaro221. È probabile, inoltre, che la legge prevedesse dei limiti di tempo all’imprigionamento del μοιχός, ma nelle fonti non ve n’è prova certa. Questa sorta di accomodamento finanziario, tuttavia, non era visto come una scelta di grande valore morale, poiché era ritenuto spregevole accettare un compenso in luogo di una ben più onorabile vendetta; ed è questa, forse, la ragione per cui le informazioni che le fonti ci offrono sull’argomento sono così scarse. Ma accettare un risarcimento in luogo dell’esecuzione presentava innegabili vantaggi anche per il κύριος, visto che l’uccisione del μοιχός poteva sempre portare ad un processo per omicidio, come testimonia la vicenda di Eufileto. Se poi la donna sedotta non era sposata, contrattare un buon risarcimento ed, eventualmente, un opportuno matrimonio, era di sicuro più conveniente. La diffusione di questa pratica è, comunque, dimostrata dall’esistenza di una speciale azione contro il suo abuso, la γραφh aδίκως εiρχqhναι éς μοιχόν. Se un uomo, tenuto prigioniero come 220 221 Demostene, Contro Neera, 65. Lisia, Per la morte di Eratostene, 20. 144 Indice adultero e obbligato a promettere una somma di denaro, dichiarava di non essere colpevole di adulterio e di essere stato illegalmente imprigionato, poteva promuovere questa speciale azione presso il foro dei Tesmoteti, contro la persona che lo aveva sottoposto a quel trattamento. Nel processo che ne scaturiva, quindi, l’accusato non era l’adultero ma colui che lo aveva sorpreso222. Se il presunto adultero veniva giudicato innocente era liberato dalla sua promessa e i garanti dalla sua cauzione; se invece era ritenuto colpevole, allora gli stessi garanti dovevano consegnarlo al convenuto, il quale, innanzi allo stesso tribunale, poteva fare di lui ciò che voleva, ma senza usare armi da taglio223. È questa l’azione esperita da Epeneto contro Stefano di cui parla Demostene nell’orazione “contro Neera”: «Ed Epeneto, uscito di là, e divenuto padrone di se stesso, promuove contro questo Stefano davanti ai Tesmoteti, un’ accusa di essere stato ingiustamente sequestrato da lui, in forza della legge che stabilisce che se uno sequestri illecitamente un altro come μοιχός, il sequestrato iscriva davanti ai Tesmoteti una γραfh aδίκως εiρχθhναι èς μοιχόν, e se dimostri che colui che ha sequestrato è colpevole e risulti che costui abbia tramato ingiustamente, il sequestrato sia libero, e i garanti sciolti dalla garanzia; se invece risulti che il sequestrato è un μοιχός, la legge comanda che i garanti 222 223 U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 275. K. Kapparis, When were the Athenian Adultery Laws Introduced?, 115. 145 Indice lo consegnino a chi lo ha sorpreso in flagrante, e costui dinanzi al tribunale lo sottoponga al trattamento che vuole, in quanto μοιχός, senza usare armi da taglio»224. Malgrado i suoi innegabili vantaggi, la remissione per risarcimento era però praticabile solo se l’adultero versava in buone condizioni finanziarie. Se questi non era in grado o non era disposto a pagare, o se l’uomo insultato era restio ad accettare il denaro e a lasciar cadere la faccenda, v’era un’altra possibilità: l’oltraggiato poteva vendicare il suo orgoglio ferito infliggendo umiliazioni fisiche all’adultero, quali il marchio a fuoco, la ραφανίς, la depilazione violenta o l’ustione di alcune parti del corpo con cenere calda225. La legge che permetteva il maltrattamento dell’adultero fu introdotta probabilmente in epoca classica da Solone, con l’obiettivo di mitigare la durezza della legislazione draconiana, prevedendo punizioni alternative, meno rischiose per il κύριος e meno severe per l’adultero. Un chiaro riferimento a questo statuto si trova, ancora una volta, nell’orazione Per la morte di Eratòstene, di Lisia: «…se uno coglie qualcuno nell’atto di commettere adulterio può trattarlo in qualunque modo vuole»226. 224 Demostene, Contro Neera, 66. 225 K. Kapparis, Humiliating the Adulterer: the Law and the Practice in Classical Athens, in RIDA, 43, (1996), 63 ss. 226 Lys., de caede Eratosth., § 49. 146 Indice Il linguaggio adoperato è lo stesso che si legge nel summenzionato passo di Demostene, dove però, in aggiunta, è espressa la condizione che il κύριος non adoperi armi taglienti. In realtà l’espressione aνευ eγχειριδίου è stata interpretata in diversi modi dagli studiosi. Secondo U.E. Paoli questa restrizione non impedirebbe al κύριος di uccidere l’adultero con altri mezzi, inclusa la tortura227. Per K. Kapparis, invece, essa sta a significare che, a meno che il κύριος non uccideva l’adultero sul posto, non poteva metterlo a morte successivamente, né infliggergli punizioni mortali, specialmente davanti alla corte di giustizia228. Il fine di questi trattamenti crudeli era l’umiliazione più che la tortura o la morte e, giacché l’adulterio era inteso come un’offesa non solo all’autorità e all’onore del singolo uomo, ma anche alle strutture dello Stato, gli abusi servivano sopratutto a punire la boria dell’uomo e il suo essere cittadino e uomo libero. La sospensione di alcuni diritti civili, quali la libertà e la difesa contro gli abusi, era una punizione molto severa che testimonia la gravità del reato agli occhi della legge ateniese. È probabile, ma non se ne ha la certezza, che in aggiunta a queste pene degradanti e dolorose, fosse consentito esporre il μοιχός alla berlina. Infatti, pur mancando, nelle fonti, attestazioni di simili 227 U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 274. 228 K. Kapparis, Humiliating the Adulterer: the Law and the Practice in Classical Athens, 65. 147 Indice procedimenti presso il diritto attico, abbiamo diverse testimonianze riguardanti l’uso di pene ad ludibrium contro l’adultero in altre città greche. Sappiamo da Eliano229 che a Gortina, nell’isola di Creta, il μοιχός veniva condotto dai magistrati e, se non poteva negare la sua colpa, gli venivano posti sulla testa, nella pubblica piazza, dei nastri di lana, per una sorta di incoronazione che aveva lo scopo di umiliare il colpevole paragonandolo ad una donna. Anche in questo caso la riparazione della virilità offesa del κύριος avveniva con un assalto diretto alla mascolinità dell’adultero. A Lepron, secondo una notizia trasmessaci da Eraclite Pontico230, il μοιχός veniva legato e per tre giorni condotto in giro per la città. D’altro canto, la pena aggiuntiva del ludibrio non era affatto estranea all’ordinamento giuridico ateniese: dato che poteva essere inflitta per sentenza al κλέπτης è probabile che venisse applicata anche al μοιχός. 4.7. Punizione dell’adultero uti civis Finora abbiamo visto le sanzioni dirette che, coloro che appartenevano all’οiκος e godevano del diritto di cittadinanza, potevano porre legittimamente in atto allorché sorprendevano l’adultero in flagrante nella propria casa. 229 230 Eliano, Var. Hist. 13,24. Cf E. Cantarella, Studi sull’omicidio, 151. 148 Indice Ma anche in tali circostanze l’oltraggiato poteva rinunciare ad avvalersi direttamente dei poteri che gli spettavano di diritto (perché, ad esempio, gli ripugnava farsi giustizia da sé, o perché temeva eventuali contestazioni sulla legittimità del suo procedere, ecc.) e rimettere la punizione del responsabile agli organi della πόλις. In tal caso costui aveva a disposizione diversi mezzi: 1) La γραφή μοιχείας, una normale azione penale che poteva esser promossa presso il tribunale ordinario in uno speciale giorno - l’ultimo del mese - non solo dal κύριος della donna sedotta ma da qualsiasi cittadino, anche estraneo all’οiκος231. In tal modo lo Stato si garantiva contro l’eventuale inerzia dei poteri familiari nei confronti di un reato che non solo disonorava la famiglia ma turbava altresì l’ordine giuridico della πόλις. Il processo regolare era poi l’unico mezzo per applicare le sanzioni penali quando l’adultero non era stato sorpreso sul fatto o era riuscito a fuggire prima di essere catturato. 2) L’aπαγωγή, una procedura sommaria con cui il colpevole veniva trascinato (aπαγέιν) dinanzi alla magistratura degli Undici per esservi, se reo confesso, messo a morte. In realtà nelle fonti non c’è testimonianza circa l’aπαγωγή dell’adultero, ma l’esperibilità di questa procedura è suffragata 231 E. Baloch, Some notes on adultery and the epikleros, in Studi Albertario, II, 691. 149 Indice dall’esame incrociato di alcuni testi. Sappiamo da Aristotele232 che l’aπαγωγή era consentita contro i κακοuργοι (una categoria di malfattori che comprendeva ladri, rapinatori, ecc.) mentre da altre testimonianze233 risulta chiaramente che la legge ateniese assimilava il μοιχός al κακοuργος. Se ne deduce, quindi, che anche contro l’adultero sorpreso in flagrante, se sussistevano tutte le circostanze che potevano legittimare l’uccisione, era esperibile l’aπαγωγή ad opera di colui che aveva il diritto di ucciderlo. La sola aπαγωγή era consentita, invece, se l’adultero veniva sorpreso in casa ma in circostanze tali da poter negare di aver commesso il fatto, o se questi non negava di aver commesso il reato ma, riuscito a fuggire dalla casa dell’oltraggiato, era stato inseguito e raggiunto234. 3) La δίκη, un’azione privata di risarcimento. Anche in questo caso l’esperibilità dell’azione va dedotta, indirettamente, dall’assimilazione del μοιχός al κακοuργος: in un passo di Demostene235, tra le azioni concesse contro il κλέπτης, viene nominata anche la δίκη, e se, come è probabile, il legislatore attico prevedeva contro il μοιχός la stessa pluralità di azioni consentita nei confronti dei κακοuργοι, è facile immaginare che anche quest’ultima fosse applicabile all’adulterio. 232 233 234 235 Aristotele, Άθηναίων πολιτεία (52, 1). Eschine, c. Tim., 90-91; Platone, Leggi 9, 874 b. U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 281. Demostene, Contro Androzione, 26. 150 Indice Se poi il malfattore aveva usato violenza nel rapporto sessuale, il κύριος della donna poteva promuovere la γραφh uβρεως, se la violenza era avvenuta fuori dalle pareti domestiche, o la δίκη βίαιων, se, nelle stesse circostanze, l’offeso rinunciava all’azione penale e si limitava a chiedere il risarcimento del danno236. 4.8. Posizione della donna Per i Greci la μοιχεία era un reato esclusivamente maschile, che cioè veniva commesso solo dall’uomo, mentre la donna, quale che fosse stata la sua condotta nei confronti del μοιχός era sempre μεμοιχευμένη (colei che ha subito l’adulterio) o eφh aj μοιχoς aλé (presso la quale sia stato sorpreso l’adultero)237. In altre parole essa, anche se consenziente, era ritenuta sedotta o, più precisamente, oltraggiata dall’adultero. Ancora una volta ne troviamo chiara testimonianza in Lisia: «Io allora, o giudici, lo colpisco stendendolo a terra, e dopo avergli piegato indietro le braccia e avergliele legate, gli domando perché sia entrato in casa mia per oltraggiarla»238. In realtà la legge della πόλις non riconosceva alcun valore giuridico alla volontà della donna, e per questo motivo non si 236 237 238 U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 293 ss. U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 289. Lisia, Per la morte di Eratostene, 25. 151 Indice preoccupava di indagare sul ruolo che essa poteva aver avuto nell’adulterio. In altre parole la donna non costituiva parte attiva nella uβρις perpetrata all’οiκος, ma era considerata sempre parte passiva e, per questo motivo la responsabilità legale del reato ricadeva unicamente sull’uomo. Infatti, mentre per l’adultero era prevista la pena di morte, la donna, anche se colpevole, non poteva essere uccisa. Ciò non toglie però che anche nei confronti della donna fossero previste delle misure punitive, anche gravi, ma in misura diversa (con esclusione della morte), e a titolo differente (non per adulterio ma per infrazione della disciplina familiare). È molto probabile, e se ne trova traccia in alcuni epigrammi più tardi, che fino al V secolo le punizioni e le umiliazioni avvenissero all’interno dell’οiκος, senza che la πόλις interferisse in quella che era considerata una questione di giustizia familiare. Ma è solo in epoca classica che il bisogno di garantire la legittimità della prole dei cittadini ateniesi indusse il legislatore ad occuparsi direttamente delle adultere. In tale periodo, infatti, furono l’introdotti il concetto di cittadinanza e tutti i vantaggi ad essa collegati. Pieni diritti civili e cittadinanza erano, tuttavia, riservati solo ai figli legittimi di due cittadini. Se era stato commesso un adulterio non vi poteva più essere certezza sulla paternità dei figli, né si poteva dar fiducia all’adultera per il futuro: l’unica soluzione in questi casi era l’immediata rottura del 152 Indice matrimonio. Ma non tutti gli uomini erano disposti a compiere, di loro volontà, un simile passo, perché, come abbiamo visto, il matrimonio per i Greci aveva una natura essenzialmente economica. Molte donne giungevano alle nozze con una ricca dote, e questa andava restituita per intero in caso di divorzio. Per questo motivo il νόμος μοιχείας, riportato da Demostene nell’orazione “Contro Neera”, puniva con l’aτιμία, cioè con la perdita dei diritti di cittadinanza, il marito che avesse continuato a vivere con la moglie sorpresa in adulterio. «Legge sull’adulterio – Se uno sorprende l’adultero non gli sia consentito tenere la donna come moglie e se lo faccia decada dai diritti civili…»239. La seconda parte del νόμος μοιχεία concerne, invece, direttamente la punizione della donna coinvolta nell’adulterio: «…e alla donna presso la quale l’adultero sia stato sorpreso non sia consentito di presenziare alle cerimonie di culto pubblico e, se vi presenzi, subisca impunemente quel che le capiti, tranne la morte»240. 239 240 Demostene, Contro Neera, 87. Demostene, Contro Neera, 87. 153 Indice La donna, quindi, era colpita da una sorta di aτιμία sacrale, diversa da quella prevista per l’uomo. In senso rigoroso l’aτιμία era la perdita del diritto di cittadinanza e, poiché la donna era aστή e non πολίτις, non era cioè titolare di diritti da esercitare direttamente nei confronti della πόλις, non poteva esser privata di ciò che non aveva. Nondimeno essa era provvista di una personalità sacrale e familiare in quanto collaborava con il marito nell’osservanza dei riti dell’οiκος, rappresentava la famiglia nelle celebrazioni che le donne del δήμος facevano in comune in certe ricorrenze solenni, partecipava ad alcune cerimonie pubbliche, aveva accesso ai templi241. Se veniva sorpresa in adulterio perdeva tutto ciò. Si trattava di un castigo molto severo, perché una donna che non poteva presenziare alle cerimonie religiose non aveva quasi più nessuna ragione per lasciare la casa ed era condannata a trascorrere un’esistenza di isolamento e indegnità. Ulteriori divieti imposti all’adultera sono specificati da Eschine in un suo commento al νόμος μοιχεία : «La legge non consente che la donna che sia stata sorpresa con l’adultero si adorni e partecipi alle cerimonie pubbliche nei sacrari, perché ella non contamini, mescolandosi con esse, le donne incolpevoli; se ella vi entri e si adorni, la legge da diritto a chicchessia di stracciarle le vesti, di strapparle via gli ornamenti e di 241 U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 292-293. 154 Indice percuoterla, purché si astenga da ucciderla o mutilarla, disonorando per tal modo una simile donna e rendendole impossibile la vita»242. Il diritto di punire l’adultera spettava, dunque, a qualsiasi uomo, il quale poteva strapparle i vestiti, toglierle gli ornamenti e picchiarla, non poteva però ucciderla o mutilarla. L’obiettivo del legislatore era chiaramente quello di proteggere i luoghi sacri da ogni contaminazione e, screditando le adultere, esortare le donne ateniesi a condurre sobriamente le proprie vite e ad evitare ogni immoralità.243 Ma le parole con le quali Eschine ricorda ai giudici che alla donna adultera era lecito rendere impossibile la vita, ci fanno supporre che chi l’avesse sorpresa con sul fatto potesse infliggerle anche delle sanzioni ad ludibrium. L’esposizione dell’adultera alla berlina non era, infatti, estranea agli usi greci: Plutarco, ad esempio, riferisce l’uso esistente a Dyme di far salire la donna su una pietra posta nell’αγορά, in vista di tutti, e di farle percorrere le vie della città sul dorso di un asino, per cui l’adultera era detta ὀνοβάτις, cioè “cavalcatrice di asini”244. In conclusione, la normativa greca riguardante l’adulterio era costituita da una serie di statuti severi, introdotti gradualmente nel 242 Eschine, Contro Timarco, 183. 243 E. Baloch, Some notes on adultery…, 694. 244 Plutarco, Quaest. Gr., 2, cf U.E. Paoli, Il reato di adulterio (moikeia) in diritto attico, 292. 155 Indice corso dei secoli per coprire nuove aree e riflettere nuove esigenze. E poiché ciascuna di queste leggi era il prodotto del suo tempo, rifletteva le necessità del momento e trattava differenti aspetti del reato, esse non avevano una grande uniformità di spirito e prassi. Nondimeno alcune caratteristiche erano universali: in tutte l’adulterio era trattato come un reato penale grave ma che concerneva solo la parte maschile. La parte femminile, come abbiamo visto, non venne penalizzata dalla legge prima del periodo classico, quando l’interesse per la legittimità della prole coinvolse anche la donna nelle procedure legali. Ma la più sorprendente caratteristica della legge ateniese, che vale a differenziarla dalle successive legislazioni dei tempi antichi, resta la definizione stessa del reato di adulterio, che non era limitato al rapporto matrimoniale ma si estendeva ad includere qualsiasi donna sotto la protezione legale di un cittadino ateniese. 156 Indice Bibliografia Arrigoni, G., Le donne in Grecia, Roma-Bari 1985 Baloch, E., Some notes on adultery and the epikleros according to ancient athenian law, in Studi Albertario, II, 1953, 681-719 Bernarde, N., Femmes et société dans la Grèce classique, Parigi 2003 Biscardi, A. – Cantarella, E., Profili di diritto greco antico, Milano 1974 Biscardi, A., Scritti di diritto greco, Milano 1999 Brindesi, F., La famiglia attica, Milano 1961 Calame, C., L’amore in Grecia, Roma-Bari 2006 Campese, S., Madre materia: sociologia e biologia della donna greca, Torino 1983 Cantarella, E., L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana, Milano 1995 - Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Milano 1979 - Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976 Casavola, F.P., Diritto romano e diritti dell’ oriente mediterraneo, in Civiltà nel Mediterraneo 2(1992), ora in Sententia Legum, cit. 158 Indice - Laicità tra religione e diritto nell’esperienza del mondo antico, in Studium 90(1990), ora in Id., Sententia Legum tra mondo antico e moderno, Napoli 2001 Cavallini, E., Le sgualdrine impenitenti. Femminilità irregolare in Grecia e a Roma, Milano 1976 Cohen, D., The Athenian Law of Adultery, in RIDA 31(1984), 147165 Cole, S.G., Ragazzi e ragazze ad Atene: Koureion e Arkteia, in Le donne in Grecia, G. Arrigoni (a cura di), Roma-Bari 1985 Franco, C., Senza ritegno. Il cane e la donna, Bologna 2003 Gernet, L., Droit et société dans la Grèce ancienne, Paris 1995 Hansen, M.H., La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Milano 2003 Kapparis, K., Humiliating the Adulterer: the Law and the Practice in Classical Athens, in RIDA 43(1996), 63-77 - When were the AthenianAdultery Laws Introduced?, RIDA 42(1995), 97-122 Leduc, C., Come darla in matrimonio? La sposa nel mondo greco, secoli IX-IV a.C., in Storia delle donne. L’antichità, Duby, G. – Perrot, M. (a cura di), Roma 1990 Lupi, M., L’ordine delle generazioni. Classi di età e costumi matrimoniali nell’antica Sparta, Bari 2000 159 Indice Lyssarrague, F., Uno sguardo ateniese, in Storia delle donne, cit. Paoli, U.E., Diritto greco, in Novissimo Digesto Italiano, vol. V/2, 1968, 864 - Famiglia (diritto attico), in Novissimo Digesto Italiano, vol. VII, 1961 - Il Matrimonio nel mondo classico, in E. I., vol. XXII - Il reato di adulterio (μοιχεία) in diritto attico, in SDHI 16(1950), 253-307 -L’antico diritto di Gortina in Altri studi di diritto greco e romano, Milano 1976 - La donna greca nell’antichità, Firenze 1955 Pomeroy, S. B., La donna in Atene e a Roma, Torino 1974 Ricchi, R., Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e nella tragedia attica, Firenze 1987 Savalli, I., La donna nella società greca antica, Bologna 1983 Schiavone, A., Ius. L’invenzione del diritto in occidente, Torino 2005 Sissa, G., Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in Storia delle donne, cit. Stolfi, E., Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006 Verilhac, A.M. – Vidal, C., Le mariage grec du VI siècle av. J. C. à l’époque d’auguste, Atene 1998 160 Indice Vernant, J.P., Mito e società nell’antica Grecia, trad. it. Di P. Pasquino, Torino 1981 Volterra, E., Diritto romano e diritti orientali, Roma 1991 Wolff, H.J., Preistoria ed origine del concetto di diritto nell’esperienza greca arcaica, in Studi C. Sanfilippo II, Milano 1982 Zaidman, L.B., Le figlie di Pandora. Donne e rituali nelle città, in Storia delle donne, cit. 161 Il testo è stato pubblicato dalla per conto della