l`età d`oro del rock italiano - Listenin`to you...The Who Italia

Alla mia famiglia e a tutti coloro che non hanno
mai smesso di credere nelle mie possibilità
Ringraziamenti (in rigoroso ordine casuale): Milena Marinò per le correzioni e il districamento
dei periodi ampollosi; Agnese e Mariangela Barbieri per l’ospitalità nei week-end di stesura della
tesi; gli utenti del forum di Pagine 70 per l’aiuto e i suggerimenti bibliografici, Gino Castaldo per
alcune “dritte” ed interpretazioni; Ernesto Assante per avermi permesso di affrontare questo
argomento e per avermi seguito; Nicola Rossi per la consulenza bibliografica; Lavinia Costanzo per
l’artwork della copertina; Valentina Granito per avermi fatto usufruire per oltre tre mesi del suo
account internet; tutti coloro che hanno dovuto sopportare il mio stress da tesi; Patrizio Fariselli ed
Eugenio Finardi che hanno comunque provato ad aiutarmi; Demetrio Stratos, senza il quale questo
lavoro non sarebbe mai esistito.
2
“La musica moderna accoglie nella sua coscienza e
nella sua immagine la contraddizione in cui si trova la
realtà e con questo atteggiamento si affina fino a
diventare conoscenza”
Th. W. Adorno
“La musica è profezia: è in anticipo sul resto della
società perché esplora, in un dato codice, tutto il
campo del possibile più in fretta di quanto possa
farlo la realtà materiale. Fa ascoltare il mondo
nuovo che, a poco a poco diventerà visibile”
J. Attali
3
4
INDICE
Premessa……………….……………………………………………………………………….…...pag. 8
_____________________________________________________________________
Una doverosa introduzione
Tutto ha inizio in America……………………………………………………………..………...pag. 11
Note………………………………………………………………………………..……….……..pag. 14
_____________________________________________________________________
Gli anni sessanta: gli esordi
1.1 L’Italia: dalla ricostruzione al boom, economico……………………….……………..….pag. 15
1.2 Il Rock and Roll sbarca nel ‘Bel Paese’………………………………..……………….....pag. 15
1.3 Influenze esterne: l’Inghilterra tira la ‘volata’…………………………….……………....pag. 17
1.4 Arrivano i Beatles………………………………………………………………………...….pag. 19
1.5 Un beat tricolore………………………………………….……………………………….....pag. 20
1.6 Dagli USA e Inghilterra la musica cambia aspetto e contenuti………………...……..…pag. 23
1.7 La ‘musica’ cambia anche in Italia……………………………………………...……..…...pag. 24
1.8 Cresce il dissenso giovanile……………………….……..……………………………..…..pag. 27
1.9 L’occupazione delle università……………………………………………...…………..….pag. 29
1.10 I valori del Movimento…………………………………………………..…………….......pag. 29
1.11 Il ruolo dei cantautori……………………………………….…………….…………….......pag. 30
Note…………………………………………………………………………………………...……pag. 33
_____________________________________________________________________
1970-1976: l’età d’oro del rock italiano
2.1 L’Italia tra recessione economica, strategia della tensione e tentativi
di involuzione democratica……………………………………………………………….....pag. 36
2.2 Progettualità e connotazioni ideologiche: le sfaccettature del Movimento………...…..pag. 37
2.3 Dall’utopia alla prassi: forme di socialità alternative e ‘totale’ rispetto
ai modelli borghesi…………………………………….………………………………..…..pag. 38
2.4 Il rock approfondisce le sue suggestioni ‘colte’: il progressive rock…………..…..…...pag. 39
5
2.5 Originalità delle esperienza ‘prog’ italiane………………………………..…………..…..pag. 40
2.6 I gruppi ‘prog’ italiani: apertura al nuovo e rivendicazione della propria
identità ‘mediterranea’………………………………………….………………………..…..pag. 42
2.7 Il caso degli Area, ‘International popular group’………………..……...……………..….pag. 43
2.8 Polifonia ed etnomusicologia: la figura di Demetrio Stratos……………....………..…...pag. 46
2.9 ‘Italian Invasion’: la PFM alla conquista degli USA…………………….…….…….……pag. 49
2.10 I nuovi canali di comunicazione e diffusione della cultura e della musica
govanili……………………………………..…………….…………………………….…..….pag. 51
2.11 L’ideologizzazione del rock………………………………………………………….…..….pag. 52
2.12 La nuova musica realizza la socialità: il fenomeno dei raduni……………...………...….pag. 54
2.13 Declino del ‘prog’ e nuove forme di espressione dei cantautori e
del jazz…………………………………………………...……………………………….....…pag. 56
Note……………………………………………………...………………………………………..pag. 59
_____________________________________________________________________
1977-1979: gli anni del disincanto
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
3.6
3.7
3.8
Gli anni della P 38…………………………………….…………………………….…...…..pag. 62
Novità e vitalità del Movimento del ’77………………………..…………………...…..…pag. 64
I nuovi approcci musicali della discomusic e del punk………………………….…....….pag. 66
La fantasia ‘demenziale’ dei nuovi gruppi italiani………..…………..………….…....….pag. 67
Le nuove radio che ‘liberano la mente’……………………………..………………..…....pag. 71
Le nuove etichette indipendenti…………………………..…………..……………...….….pag. 73
La fine del Movimento…………………………………….…….…...……….….…….…....pag. 75
Il fenomeno del riflusso e la fine di un’epoca…………………….………………...….....pag. 76
3.8.1
3.8.2
3.8.3
3.8.4
3.8.5
3.8.6
Le sue manifestazioni storiche, sociali e culturali……………………….………..…..…pag. 76
Il riflusso musicale italiano…………………………………………………….…....…...pag. 77
Il disimpegno di massa: la discomusic……………………………………….....….........pag. 80
L’esperienza di ascolto si atomizza grazie alle nuove tecnologie: il walkman…..……...pag. 81
La massificazione del mercato discografico………………………………………....…..pag. 82
Il concerto per Demetrio…………………………………..…………………..……....…pag. 83
Note………………………………………………………………………………...…..….….…..pag. 85
_____________________________________________________________________
Bibliografia……………………………………………………………………...…………....……..pag. 89
Webgrafia……………………………………………………………………………………..…….pag. 90
6
7
PREMESSA
Nel corso degli anni settanta il nostro paese ha vissuto un’incredibile fase creativa
senza uguali nel corso degli ultimi cinquanta anni. Fu un periodo in cui tutto veniva messo
in discussione giorno per giorno, in cui le varie discipline si fondevano insieme dando così
vita a forme di arte ‘totale’. Un periodo per tanti versi turbolento, fino a diventare, alla fine
del decennio, tragico. Un periodo che ha conosciuto gli estremi opposti dell’ ‘hippismo’
pacifista ad oltranza, delle bombe e degli attentati sanguinari delle Brigate Rosse. Proprio
questa condizione anomala in cui si venne a trovare il nostro paese, stretto nella morsa della
strategia della tensione, del benessere arrivato dopo il boom economico e dei cambiamenti
sociali in atto nel mondo nuovo del post ’68, ha contribuito a delineare una via musicale
tutta originale dell’Italia rispetto agli altri paesi Europei ed agli Stati Uniti. Questi ultimi
erano stati in effetti un faro decisivo: sia nel periodo in cui gli USA venivano invidiati come
i campioni della democrazia e della forza economica, sia quando, dopo i bombardamenti in
Vietnam, l’attenzione all’oltreoceano non veniva meno e l’America veniva presa come
esempio per la rivolta di Berkeley, le lotte per i diritti civili, il ‘Black Power’. E proprio gli
Stati Uniti erano stati la culla del rock’n’roll, di quel nuovo e rivoluzionario prodotto
culturale che in pochi anni avrebbe conquistato il mondo e l’universo giovanile.
In Italia bisognerà aspettare la metà degli anni sessanta affinchè il rock possa assurgersi a
fenomeno di massa e quindi potersi fregiare dell’aggettivo “popolare”, ma anche senza la
forza destabilizzatrice che ebbe negli altri paesi, il rock portò mutamenti fondamentali nel
gusto e nella fruizione musicale dei nostri giovani. Benchè fosse ancora una musica ingenua,
aveva in sé i semi della rivolta, una rivolta tutta ritmica congenita al rock stesso. L’Italia era
anni indietro rispetto all’alfabetizzazione musicale internazionale: noi eravamo ancora fermi
al pop-rock più allegro e spensierato quando dagli USA e dall’Inghilterra la nuova musica
maturava, si riempiva di significati importanti, si contaminava con forme considerate ‘più
alte’, si dotava di contenuti che propugnavano l’amore universale; un concetto, all’epoca,
fortemente sovversivo. Quando nel 1969 si celebrava nelle campagne di Woodstock la
morte del ‘Movement’ americano, le cose cominciarono a muoversi qui da noi. Morto il
beat, ormai del tutto anacronistico e non rappresentativo dell’Italia delle occupazioni
universitarie e delle stragi di Stato, prese piede una nuova generazione di cantautori, meno
accomodanti dei precedenti, più politicizzati ed incitanti alla rivolta. L’avvento dei nuovi
cantautori risulterà decisivo per la crescita del rock degli anni ’70, ma ancor di più lo sarà
l’affermazione del rock progressivo.
Nel frattempo usciva nelle sale cinematografiche il film-documentario di Woodstock: i
giovani italiani vivevano quell’apogeo che realizzavano come attuale e non come morente.
Molti musicisti italiani si recavano nella capitale della musica, Londra, per studiare i nuovi
gruppi, le nuove tendenze, le nuove tecnologie applicate alla musica. Al loro ritorno erano
pronti per provare una loro ‘via progressiva’ al rock italiano, una scelta che si rivelerà
azzeccata e grazie alla quale alcuni gruppi italiani si permetteranno addirittura di disturbare
a casa loro i mostri sacri del rock internazionale. La nuova musica potè contare
sull’appoggio del movimento studentesco; vennero organizzati molti raduni e si cercò (e per
8
alcuni versi si riuscì) a vivere anche in Italia l’epopea dell’ ‘estate dell’amore’ californiana,
seppur con qualche anno di ritardo. L’atmosfera era frenetica, i progetti culturali venivano
organizzati con altissima frequenza, il collettivismo imperante sembrò addirittura minare
quell’ente radicatissimo nella cultura italica quale la famiglia. Se però da una parte il
Movimento dava appoggio e visibilità al nuovo rock, dall’altro ne minava profondamente
l’esistenza. L’eccessiva politicizzazione di quasi tutti i gruppi giovanili giocava un ruolo
determinante sull’influenza artistica dei musicisti. Ecco quindi che chi si discostava dalle
‘linee programmatiche’ del Movimento veniva abiurato dallo stesso e susseguentemente
ostacolato e marginalizzato. Il rock degli anni settanta finì dunque nel legarsi a doppio filo
con il Movimento tanto che, nella seconda metà degli anni settanta, al declino del secondo
seguì contemporaneamente il declino del primo.
Il mondo era cambiato, la crisi delle ideologie aveva portato ad un profondo
ripensamento delle ipotesi iniziali, gli attentati terroristici ebbero infine un peso decisivo ad
allontanare la gente dalla politica. Nello stesso momento il punk dava una sonora spallata
alla filosofia del rock progressivo: con furia nichilista abbattè tutti gli intellettualismi della
musica che era stata protagonista fino a quel momento portando con sé la veemenza
distruttrice di una musica immediata, rozza, fortemente trasgressiva, che rompeva ogni linea
di continuità con il passato. In Italia il punk non attecchì, benchè la breve stagione del punk
nostrano possa essere considerata come il canto del cigno della produzione rock italiana
degli anni settanta.
Iniziò la stagione del riflusso: si rifluiva dall ‘impegno’ e dalla politica; quasi ad
esorcizzare la tragica situazione in cui si trovava l’Italia alla fine degli anni settanta, la gente
si orientò verso un consumo musicale più leggero e disimpegnato, padrone del mercato
tornò la tradizione melodica del festival di Sanremo e la neonata discomusic.
Le prime manifestazioni del fenomeno della globalizzazione determinarono ancora un
invasione indiscriminata del rock straniero a scapito di quello italiano, ormai del tutto
inesistente, e le nuove tecnologie accentuarono il distacco dal periodo precedente
caratterizzato da uno spiccato collettivismo, rinchiudendo il giovane nel suo mondo
“privato” e relegando la fruizione musicale ad un atto puramente individualista.
Gli anni ottanta erano ormai alle porte, pronti ad invadere con lustrini, laser e videoclip un
mercato sempre più globale ed indifferenziato ed a spazzare via il periodo più frenetico ed
esaltante della storia della musica italiana.
9
10
Una doverosa introduzione
Tutto ha inizio in America
Affrontare una trattazione sull’evoluzione e le caratteristiche della musica pop-rock
italiana degli anni ’60 e ’70 senza accennare qualcosa sulle origini di un fenomeno che con
l’Italia non ha proprio nulla da spartire, risulterebbe decontestualizzante e non darebbe una
visione completa del fenomeno medesimo.
E’, infatti, pacificamente e incontrovertibilmente riconosciuto che il rock ‘n’ roll nasce
negli Stati Uniti agli inizi degli anni cinquanta, come commistione di altri generi musicali già
presenti sul territorio americano: la country music e il rhythm‘n’blues. Si può, dunque,
affermare che il rock‘n’roll esistesse già prima della sua nascita in quanto la maggior parte dei
suoi elementi stilistici erano già presenti nella musica afroamericana del dopoguerra: ma fu il
‘plusvalore semantico’ attribuito dai giovani di quella generazione a quella particolare
espressione musicale a trasformarne profondamente l’aspetto ed i contenuti. 1 Il rock’n’roll è
stato, dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, un fenomeno non solo culturale, ma anche sociale ed
economico-sociale; quindi la sua nascita non poteva essere determinata da una semplice
fusione meccanica di due generi musicali preesistenti. Di conseguenza, per capire ed
interpretare correttamente la musica rock, bisogna considerare anche i fattori sociali che la
determinarono.
E’ doveroso, dunque, analizzare alcuni aspetti dell’America dei primi anni ’50, un paese
uscito vittorioso dalla seconda guerra mondiale che, a differenza dei paesi europei, non aveva
subito bombardamenti ed il trauma della violazione del proprio territorio da parte del nemico;
un paese che si è assunto il ruolo di guida del mondo occidentale contrapponendosi al blocco
comunista e che, in seguito alla ripresa industriale, ha vissuto un boom economico senza
precedenti, cancellando i brutti ricordi della depressione e dei razionamenti. Tale ripresa
economica trova la sua ragion d’essere nell’industrializzazione e nella nascita della
produzione in serie, che alzano il livello qualitativo degli standard di vita e portano più
ricchezza nelle tasche delle famiglie americane. A questi fattori si lega l’evoluzione del
concetto di ‘consumo’: la nuova società a capitalismo avanzato ha la necessità di imporre un
consumo di massa non solo di beni durevoli e destinati alle primarie necessità della famiglia,
ma anche di beni ‘superflui’ oggetti destinati ad essere consumati e rimpiazzati, il che
contraddiceva la mentalità che aveva dominato nei secoli precedenti quasi tutte le società
umane (e soprattutto la popolazione americana contraddistinta da sempre da un’etica
protestantistica) secondo cui ogni forma di consumo non necessario era considerata peccato.
Era, quindi, necessario non solo creare il prodotto, ma anche il consumatore del prodotto
stesso. Inoltre lo sviluppo del lavoro meccanizzato provocò un’altra grande rivoluzione
sociale di grande portata: l’età, fino a quel momento considerata un valore in sé, a partire
dall’elaborazione culturale che si può far risalire alla Grecia classica, in quanto portatrice di
saggezza ed esperienza, diventò improvvisamente un ostacolo; la giovinezza cominciò ad
identificarsi con l’energia della produzione: il ruolo dei giovani risultò determinante per gli
ideologi del consumo. A sua volta questa nuova ‘etica dei consumi’ si configurava come
11
‘liberazione’ dai ritmi oppressivi imposti dalla sovrastruttura. 2 I giovani si trovarono di fronte
ad una palese contraddizione: da una parte la famiglia che spingeva verso l’adesione a
modelli tradizionali e dall’altra la società che, configurandoli come potenziali consumatori,
cercava di attrarli verso nuovi lidi a cui erano inevitabilmente associati specifici beni. Ma
l’industria culturale sapeva bene che questa voglia di trasgressione doveva essere ben
stimolata ed allo stesso tempo controllata affinché non distruggesse il mercato diffondendo
valori contrari all’ideologia del consumo. In tale contesto, i giovani sono al tempo stesso
un’opposizione potenziale ed un mercato reale, ma perché continuino ad essere mercato è
necessario che continuino a credersi opposizione, perché possano essere controllati devono
continuare a credere di trasgredire. 3
A dispetto di tanta floridezza economica, gli anni cinquanta americani si caratterizzarono
anche per un conformismo esasperato, nei quali ogni deviazione dalle regole non scritte del
comportamento e del consumo erano guardate con sospetto. Inoltre il capitalismo americano
sembrava non poter più offrire accettabili prospettive professionali per chi usciva dalla scuola:
l’industria chiedeva tecnici specializzati e le possibilità di specializzarsi erano riservate
solamente a chi aveva la disponibilità, soprattutto economica, di accedere ad un’educazione
specialistica assolutamente proibitiva per i meno abbienti. Questa relativa mancanza di
prospettive suggerì ad un’intera generazione la possibilità di non essere ‘conforme’ alle regole
e di ricercarsi una propria individualità, in un paese così fortemente imbevuto di miti
individualisti ed isolazionisti e costretto, invece, ad un unanimismo forzato attorno alla
proiezione imperialista 4 . La ricerca del piacere ed il piacere del consumo diventano il polo
opposto a quello dell’educazione scolastica e della vita familiare; stanchi delle consuetudini
imposte nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle relazioni sociali, i giovani cominciarono
a stabilirne di proprie. 5
Il rock‘n’roll si alimenta in questo contesto traendo il suo humus da queste ed altre
contraddizioni: è la risposta alla nascita dell’inedito soggetto giovanile in un periodo in cui ai
giovani non era attribuita alcuna autonomia culturale. Da questo momento in poi il giovane
diventa un’entità autonoma, persino temibile, al punto di generare una musica che, per la
prima volta nella storia, era rivolta quasi esclusivamente ad un pubblico che rivendicava la
propria identità in aperto conflitto col resto della società 6 . Il rock’n’roll esiste perché esistono
la disperazione, la disaffiliazione o anche l’innocuo non-conformismo gregario degli
adolescenti, tutti criminalizzati dal conservatorismo delle classi dominanti. Elvis Presley,
Chuck Berry, Little Richards e Jerry Lee Lewis sono i nomi di alcune delle personalità più
dirompenti che affollano la scena musicale di quegli anni: spudorati, ribelli, esplicitamente
erotici, portatori di un messaggio profondamente diverso e per molti aspetti antitetico a quello
del pop di consumo. I testi delle loro canzoni raccontano con un linguaggio semplice ma allo
stesso tempo raffinato storie di ragazzi in cerca di libertà e divertimento, gli avvenimenti del
mondo giovanile, le corse in macchina, la scuola 7 . In assoluta rottura con la tradizione,
trovano ampia consacrazione i temi legati al sesso: il sesso è sempre stato un aspetto
importante della musica rock. Sia nel contenuto dei testi che nello stile della comunicazione, il
rock è la forma di musica leggera e di ogni altra forma di arte di massa che tratta il sesso e il
desiderio più spesso e più direttamente; gran parte della rapidità e del fervore con cui il
rock’n’roll fu adottato da milioni di ragazzi che ne fecero la loro musica deve essere stata
dovuta anche dallo sfogo che offriva ad un pubblico sessualmente frustrato e represso. 8
La rivoluzione avviene, anche e soprattutto in senso strettamente musicale; i suoni
realizzati dai neonati strumenti elettrificati sono capaci di assumere timbriche fino ad allora
inedite; le strutture melodiche si semplificano, assestandosi quasi sempre su ritmi di 4/4 con
l’alternanza strofa-ritornello, discostandosi così dai motivi tradizionali. Cambia anche il modo
12
di suonare: la chitarra diviene la regina del rock’n’roll, perde il suo ruolo di
accompagnamento per essere promossa ad unica vera protagonista dell’esibizione; vengono
adottati gli accordi bicordi 9 figli legittimi del blues; la ‘pennata’ diviene portatrice di ritmo;
l’abbandono del contrabbasso per le più pratiche ed economiche chitarre-basso elettriche
rende non solo più agevole la vita del bassista, ma rende giustizia e legittimazione ad uno
strumento ‘soffocato’ dalle big band degli anni ’30 e ‘40 a causa della sua congenita
debolezza di volume. Anche la batteria subisce mutamenti nel suo utilizzo: il charleston, uno
strumento con due cimbali contrapposti azionati da un pedale, viene sempre più
frequentemente suonato anche con le bacchette, rompendo così una consolidata tradizione di
matrice jazzistica. Con la nascita del rock’n’roll si assiste anche alla contrazione dei membri
delle band: per la nuova musica non sono più necessari tanti musicisti, infatti la ‘formazione
tipo’ si assesta sul modello di due chitarre (una ritmica, l’altra solista), un basso, una batteria
ed eventualmente un cantante, quando questi non svolga contemporaneamente anche il ruolo
di strumentista. Questa struttura rimarrà pressoché invariata negli anni a venire fino ai giorni
nostri.
Dal punto di vista scenico i nuovi eroi della nuova musica presentano uno stile ricco di
richiami sessuali in netto contrasto con i loro predecessori, ossessionati dall’idea di
‘rispettabilità’; gli ancheggiamenti di Elvis e le mimiche allusive di Little Richard furono la
miscela esplosiva che portò la gioventù in un terreno inesplorato di nuovi sentimenti e
sensazioni, fuori del controllo degli adulti: il rock’n’roll divenne la terra promessa di un’intera
generazione che cominciava a pensare alla vita in maniera diversa da quella dei propri
genitori. Non più lavoro fisso, bella casa, famiglia numerosa, televisore in camera da pranzo,
ma feste tutta la notte e corse in macchina; non più un futuro programmato, ma la scoperta
quotidiana di una vita tutta reinventare. 10
La nuova musica non nascondeva un carattere confusamente sovversivo alla cui
adesione entusiasta da parte dei giovani non poteva non corrispondere un timore da parte
dell’America adulta e ‘benpensante’: la reazione da parte del pubblico adulto portò ben presto
alla condanna del rock’n’roll come causa di ‘inquinamento’ 11 delle menti dei giovani,
arrivando a redigere campagne di stampa sull’argomento e ad essere persino oggetto di
discussione nei dibattiti parlamentari.
Alla luce di quanto detto, il rock’n’roll può dunque essere configurato come un
fenomeno economico o come un fenomeno culturale e sociale? Un prodotto della società
capitalistica per il sistematico ampliamento del mercato oppure una spontanea reazione alla
schiacciante cultura dominante? Come sovente accade in questi casi in medio stat virtus, la
risposta è nel mezzo, ed è ben sintetizzata dalla metafora della tigre di carta proposta da
Alessandro Portelli:
“[…] io credo che a Elvis Presley e a ciò che lui rappresenta si
addica bene l’immagine maoista della tigre di carta: una tigre
artificiale, ma che può mettere paura lo stesso perché è il
prodotto di fenomeni reali” 12
Il rock è, dunque, da considerare come forza diretta non contro il sistema, ma come uno dei
suoi meccanismi di aggiustamento, dove però si possono leggere in trasparenza i fenomeni
che rendono possibile il suo successo. Una trasgressione immaginaria è già una trasgressione
reale. Chi crede di essere un ribelle, anche se non ha fatto niente di trasgressivo, è già meno
restio ad una trasgressione reale. “Anche con Elvis ridotto ad orsacchiotto di pezza, il
movimento reale che lui nascondeva e che si nascondeva dietro di lui ha continuato a
crescere e svilupparsi per proprio conto e per la propria strada” 13
13
Note:
1
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, dispense del corso di Discipline dello Spettacolo, a.a.2003/2004
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Blues, Jazz, Rock, Pop, il novecento americano, Einaudi 2004, p. 143 e seg
3
Cfr. A. Portelli in Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre); La musica in Italia, Savelli Roma
1978; p. 66
4
Cfr. A. Portelli in Op. cit. p. 75
5
Cfr. E. Assante e G. Castaldo; dispense del corso di Discipline dello Spettacolo, a.a.2003/2004
6
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit. pag. 178
7
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit. pag. 194
8
In assoluta rottura con la tradizione, trovano ampia consacrazione i temi legati al sesso: il sesso è sempre stato
un aspetto importante della musica rock. Sia nel contenuto dei testi che nello stile della comunicazione, il rock è
la forma di musica leggera e di ogni altra forma di arte di massa che tratta il sesso e il desiderio più spesso e più
direttamente; gran parte della rapidità e del fervore con cui il rock’n’roll fu adottato da milioni di ragazzi che ne
fecero la loro musica deve essere stata dovuta anche dallo sfogo che offriva ad un pubblico sessualmente
frustrato e represso
9
Tipo di accordo armonico in cui si suonano solamente la tonica e la relativa quinta.
10
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit. p. 195
11
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit. p. 189
12
Cfr. A. Portelli in Op. cit. pag 67
13
Cfr. A. Portelli in Op. cit. pag. 65 e seg.
2
14
Gli anni sessanta: gli esordi
1.1
La realtà italiana: dalla ricostruzione al boom
economico
L’Italia uscì dalla seconda guerra mondiale dilaniata e colma di macerie. Nonostante
Alcide De Gasperi avesse avuto la possibilità di sedersi a Parigi al tavolo dei vincitori, non si
perdonò al nostro paese l’adesione al fascismo e l’alleanza con la Germania nazista. La
ricostruzione fu, come in tutta Europa, faticosa, ma in Italia ancora più lenta a causa di
carenze strutturali e di un’atavica arretratezza dovuta soprattutto ad un assetto economico
essenzialmente rurale. Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 l’economia italiana conobbe
una fase di grande sviluppo che ebbe effetti dirompenti sulla società e sullo stile di vita di gran
parte della popolazione. Furono gli anni del ‘miracolo economico’, del cosiddetto ‘boom’,
quando l’Italia, che dal censimento del 1951 risultava ancora un paese prevalentemente
agricolo, non solo conobbe una fortissima ripresa industriale, ma entrò addirittura a far parte
della ristretta cerchia dei paesi più industrializzati del mondo. A ciò concorsero sia il quadro
internazionale, caratterizzato da una vigorosa fase di espansione commerciale e da una sempre
maggiore integrazione economica, sia il dinamismo produttivo interno, i cui i settori trainanti
furono quello meccanico e quello petrolchimico. Questa ripresa portò, però, a risultati
contraddittori: infatti ad un generale quanto innegabile innalzamento del tenore di vita si
unirono distorsioni e squilibri. Ciò avvenne, innanzitutto, nella direzione dei consumi, per lo
più orientati verso beni di consumo privati, mentre servizi e beni di prima necessità
continuavano ad essere carenti, ma anche nel diverso impatto della crescita industriale sulle
diverse aree del paese e nell’aggravarsi del dislivello tra nord e sud nel quale si inscriveva il
grande fenomeno dell’emigrazione, soprattutto dalla campagna alla città e dalle regioni del
sud verso il ‘triangolo industriale’ e l’Europa nord-occidentale.
Gli anni del ‘boom’ furono altresì caratterizzati da un grande processo di trasformazione
della società italiana. Sotto la spinta della pubblicità le famiglie si orientarono verso l’acquisto
di beni durevoli in misura impensabile anche solo qualche anno prima; nuovi bisogni,
alimentati dalla modernizzazione in atto, trovarono una crescente possibilità di soddisfazione;
vi fu un’espansione dei consumi che cambiò a fondo, nei suoi molteplici aspetti, l’esistenza
degli italiani. Ciò costituì l’imprescindibile premessa di più ampi rivolgimenti e conflitti che
sarebbero esplosi negli anni successivi. 1
1.2
Il Rock and Roll sbarca nel “Bel Paese”
Quindi anche in Italia, sulla scia di mutate condizioni piuttosto economiche che sociali, si
assiste da parte dei giovani alla ricerca di una nuova identità, che anche in questo caso si
15
prefigura prevalentemente come rifiuto dei modelli tradizionali, come contrapposizione al
mondo degli adulti e, conseguentemente, come scontro con l’istituzione basilare della società
italiana: la famiglia.
Fuori di casa i giovani godono di una maggiore libertà, di nuovi passatempi e spazi per
coltivare nuove ambizioni. I bar, forniti di biliardi e juke-box, e le centinaia di nuove sale da
ballo diventano importanti luoghi d’incontro ed anche il ballo si riempie di nuovi significati.
La nuova musica e tutte le sue successive varianti portano i partners ad essere per la prima
volta del tutto divisi: sono balli individuali e collettivi allo stesso tempo; ogni ballerino si
esprime da solo ma vive contemporaneamente l’esperienza musicale e del movimentoespressione del corpo con tutti gli altri con i quali balla, esaltando ancor di più il senso di
appartenenza a un gruppo ma, allo stesso tempo, l’unicità di ogni esperienza. I nuovi balli non
hanno regole fisse, non hanno passi determinati, ma piuttosto una serie di posizioni base che
possono essere liberamente interpretate da chi balla. E’ un nuovo rapporto con il corpo, la
‘liberazione del movimento’ 2 .
Dal punto di vista musicale, dopo la liberazione e la ricostruzione, in Italia si è diffusa una
vena di rock ‘n’ roll primordiale, originale e diversa dai ritmi d’oltreoceano e d’oltremanica,
sgorgata spontanea verso il ’58, e sopravvissuta per almeno un lustro, prima di venire sepolta
sotto i colpi del rock americano. Essa visse vita ingrata ma dignitosa; la diffusero, ma forse
sarebbe più opportuno dire provarono a diffonderla, intrepidi esploratori come Giorgio Gaber,
Enzo Jannacci, Gianfranco Reverberi, Gino Paoli, Pino Donaggio e lo stesso Luigi Tenco.
Ma il rinascimento musicale italiano guidato dalle case discografiche puntava su Sanremo,
ovvero sulla tradizione melodica italiana che aveva un’egemonia pressoché monopolistica sul
mercato nazionale e sui gusti della gente 3 . L’occupazione americana aveva preparato il
terreno alle sonorità d’oltreoceano, accolte, peraltro, da un entusiasmo generalizzato; ma “i
festival di Sanremo rimettono in riga la canzone: d’ora in poi le bianche colombe e le mamme
straziate saranno i simboli di ben altro biancore che avvolgerà l’Italia […] in pieno regime
democristiano la canzone riscopre il popolaresco, il provinciale, i buoni sentimenti (cristiani),
abbandonando l’ironia e il divertimento, un po’ sopra le righe, dell’ebbrezza ritmica.
Dovevano sembrare assai fuori luogo, del resto, quelle sottili venature erotiche, quel profano
che i soldati americani portavano assieme allo swing ed al jazz, musica profondamente laica,
ad offendere ed infastidire quella nuova coltre di biancofiorito cattolicesimo che andava a
ricorprire il paese” 4 . “Il vecchio continuava a marciare assieme al nuovo, e una prima
sensazione di libertà, di un simbolico volo verso il nuovi paesaggi sociali fu sancita proprio da
una canzone, anzi da quell’urlato “vo-o-lareee, oh-oh!” che Domenico Modugno lanciò
proprio dal palco tradizionalista di Sanremo nel 1958” 5 .
Ma la variante tricolore del rock’n’roll è ancora troppo acerba e/o il mercato discografico
è ancora poco scaltro per capire le potenzialità della nuova musica, anche e soprattutto in
termini di profitti, così da lasciare il campo totalmente libero per l’invasione di prodotti
americani. Il rock’n’roll di matrice statunitense si rovesciò tutto insieme sul nostro paese,
senza preavvisi e senza discriminanti. Ai giovani italiani mancavano gli strumenti per
distinguere all’interno di un rock ormai maturo, che aveva già visto evoluzioni e profondi
mutamenti, i diversi filoni e le diverse tradizioni: non solo era musica del tutto estranea al
nostro retroterra culturale, ma ci perveniva già mescolata e confezionata, impedendoci di
ricostruirne l’evoluzione e la vicenda storica 6 .
Le uniche discriminanti nel modo in cui perveniva il rock in Italia erano quelle delle case
discografiche che assecondavano le presunte preferenze musicali degli italiani prediligendo un
rock’n’roll più edulcorato, educato e meno traumatico per l’alfabetizzazione musicale del
nostro paese: per questi motivi da noi non arrivarono mai Chuck Berry, Little Richards o Roy
16
Orbison, a favore dei molto più accomodanti Pat Boone, Neil Sedaka e Paul Anka, che ebbe
anche la possibilità di incidere dischi in un italiano approssimativo con i quali costituì un buon
‘fondo pensione’ dopo il calo di successo in America. La fascia più ‘hard’ del rock viene
dunque penalizzata a favore di quella più convenzionale; questo spiega, per esempio, il ruolo
fondamentale che ebbero in Italia i Platters: talmente centrale da influenzare praticamente
tutta la musica leggera italiana del periodo con l’introduzione del tempo terzinato su una
struttura melodica assai tradizionale (il repertorio dei Platters era fatto in gran parte di canzoni
popular degli anni ’30 e ’40); le prime imitazioni dei Platters in Italia si limitarono a rivestire
a nuovo successi italiani della stessa epoca, come “Ti dirò” di Tony Dallara 7 . Particolare
menzione merita la ristretta accessibilità ai testi. La comprensione degli stessi era assai
limitata: questo produsse una generale svalutazione dell’importanza del testo nelle canzoni e,
conseguentemente, un’enfasi posta sui caratteri sovrasegmentali della comunicazione
musicale, con la ridicola ed imbarazzante pratica da parte di alcuni complessi italiani (ma
anche di artisti affermati ed idolatrati quali Adriano Celentano) di scimmiottare la parlata
americana farfugliando sillabe senza senso.
Ogni disco era abbastanza nuovo da farsi comprare e abbastanza uguale da confermare
all’ascoltatore che quello era il suo linguaggio, quello del suo gruppo generazionale. In questo
caso non ha importanza di quale linguaggio si tratti ma che si identifichi con chiarezza un
ascoltatore. Così, nell’inchiesta di Roberto Leydi 8 sui gusti musicali dei giovani italiani nel
1964, la scelta di Rita Pavone o Celentano è motivata dal fatto che è la musica “nostra” per
eccellenza, “da difendere contro l’incomprensione degli adulti”; come osserva Umberto Eco,
una generazione non si riconosce semplicemente in una certa produzione musicale, non la usa
soltanto, ma la assume come bandiera. Tutti i fattori sin qui elencati avranno un ruolo decisivo
per l’imprinting della futura musica leggera italiana.
Oggi può far sorridere l’ingenuità del perbenismo culturale e sessuale dei Paul Anka e
Frankie Avalon, ma nell’Italia dei primi anni ’60 i valori proposti dalle canzoni americane
erano comunque irraggiungibili: per il giovane italiano medio prendere la macchina, andare al
cinema con la ragazza, riportarla a casa all’una di notte, tenersi per mano era decisamente
fuori della propria portata, e non certo solo per limiti strutturali. Le scuole non prevedevano
ancora le classi miste, pertanto le feste e quindi la musica, che ne era la colonna sonora,
diventavano l’unico veicolo di comunicazione che aggregava quel minimo di relazioni sociali
che erano possibili. Col solo fatto di esistere, il rock and roll produceva lenti, faticosi, ma non
insignificanti spostamenti nella realtà e proponeva un’utopia bell’e fatta che, è bene
ricordarlo, si chiamava America. Se in America il rock era, come precedentemente
ricordato,in parte ‘norma’ e in parte ‘trasgressione’ normalizzata, in Italia era tutto
‘trasgressione’ rispetto alle norme retrograde della separazione tra i sessi; l’America appariva
più come mitologia che come realtà, una sorta di ‘mondo libero’ che si credeva diverso 9 .
1.3
Influenze
volata”
esterne:
l’Inghilterra
“tira
la
Paradossalmente, e a confermare l’assoluta dipendenza della musica italiana dagli umori e
dalle tendenze provenienti fuori dai propri confini, si assiste al primo timido affrancamento
dai modelli importati, alla nascita ufficiale e all’affermazione di un rock di matrice italiana. Il
paradosso sta proprio nel fatto che a sollecitare questa nuova fase sarà un avvenimento
17
esterno, lo stesso che più o meno contemporaneamente sta interessando gli Stati Uniti in
maniera macroscopica, ma fondamentalmente tutto il globo. Oltreoceano questo avvenimento
prende il nome di ‘British Invasion’; in Italia il fenomeno è, come al solito, più circoscritto,
quindi in questo caso è più corretto limitarlo ad una sola delle articolazioni della British
Invasion, seppur la più importante ed influente, la cosiddetta ‘beatlemania’ 10 . Con la
beatlemania si assiste anche allo spostamento geografico ‘dell’asse portante’ del rock. Fino al
’63 tutta la musica popolare di un certo rilievo era sempre stata generata in America. A partire
dagli anni ’20 con il jazz, per poi passare allo swing, alla musica da ballo, ai crooner e così
via, mai questa egemonia era stata intaccata, e lo stesso rock’n’roll era un’invenzione tutta
americana.
Alla fine degli anni ’50 dall’Inghilterra, e più precisamente dalla provincia di Liverpool,
partirono improvvisamente un nuovo ritmo e un nuovo stile che nel giro di pochi mesi
avrebbero radicalmente stravolto le tradizionali polarità della pop music 11 . Lo skiffle,
antesignano del beat, un genere veloce molto ritmato, suonato con strumenti di fortuna, frutto
della commistione di più generi e tendenze, si andava affermando sulle rive del fiume Mersey
(il fiume che attraversa la città di Liverpool) traendo incredibile successo tra i giovani
proletari che allo stesso tempo stavano iniziando, nel loro tempo libero, a creare modelli
culturali che erano sempre più in contrasto con le istituzioni dominate da uno straordinario
conservatorismo. La poco illuminata classe dirigente dell’epoca, poi, diffidava della cultura di
massa, temendo che, anche soltanto per una questione di supremazia numerica, potesse minare
le radici delle istituzioni britanniche, in un continuo spostamento verso i bisogni e gli stili di
vita della classe lavoratrice. Del resto in Inghilterra la divisione in classi era fortemente
radicata nella percezione dei cittadini delle classi superiori, convinti che le opportunità di
sviluppo della cultura e dello stile di vita della classe lavoratrice avrebbero portato al declino
della nazione. Il rock’n’roll assunse in Inghilterra un significato che non ha mai toccato in
America, diventando simbolo della gioventù della classe lavoratrice; l’arrivo e la crescita del
beat inglese resero evidente un vero e proprio conflitto tra classi, tra la gioventù proletaria, coi
suoi specifici bisogni vitali e culturali, e una società dei ‘consumatori’ imposta dal
capitalismo 12 . Il merseybeat e in genere il rock inglese cominciarono a parlare un linguaggio
nuovo, la cui grammatica musicale mutuava termini americani noti (le forme blues e
rock’n’roll, le dinamiche del rhythm’n’blues) aggiungendone di nuovi (gli intrecci vocali
accattivanti, la pulsazione ritmica ossessiva) 13 .
Il beat venne portato al successo da un quartetto di Liverpool: i Beatles. Portatori di un
nuovo sound, ma anche di un nuovo modo di presentarsi in pubblico, ebbero un successo
planetario e ancor oggi ineguagliato; a loro vennero indirizzati isterismi, comportamenti fino
ad allora inediti da parte dei fans, ed un interesse maniacale da parte dei mezzi di
comunicazione di massa che prende il nome di ‘beatlemania’. I concerti registravano il tutto
esaurito in tutti gli ordini di posti e le urla degli spettatori entusiasti coprivano addirittura la
stessa performance musicale; i quattro, divenuti oggetto di culto da parte dei loro stessi
sostenitori, erano oggetto di una incessante ‘caccia’ e la loro prima apparizione all’Ed
Sullivan Show, popolare varietà televisivo statunitense degli anni ’60, fu seguita da ben 73
milioni di spettatori; la stessa sera le autorità statunitensi registrarono la più bassa incidenza di
furti e crimini mai avvenuta nel paese. I loro visi puliti, la comunione di spirito e di intenti
riflessa nelle loro divise uguali e così lontane dal look ‘selvaggio’ dei primi rocker, una
musica che dedicava una maggior attenzione alle armonie, soprattutto vocali, arricchendo il
rock’n’roll di un patrimonio melodico sconosciuto 14 , trovarono pochi ostacoli in una America
in piena epoca di restaurazione 15 dove i fermenti più ribelli e trasgressivi del primo rock’n’roll
18
avevano lasciato il posto a nuovi idoli pop belli, educati e dai buoni sentimenti, e le porte
completamente spalancate in Italia, quasi del tutto a digiuno di cultura pop-rock.
1.4
Arrivano i Beatles
Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe credere e con buona pace di Piero Scaruffi16 , i
fenomeni culturali, anche di massa, non sono mai integralmente imposti dall’industria, non
hanno mai il marchio, del tutto indubbio, del consumo indotto. In virtù di questo postulato,
neanche il ‘fenomeno Beatles’ in Italia può essere ricondotto ad un puro fenomeno di
imposizione o persuasione subdola da parte delle multinazionali della musica. Se, infatti,
esisteva, come abbiamo detto, un bisogno di violare la norma culturale e musicale imperante
parallelamente al tentativo confuso di rintracciare un’identità autonoma, il ‘fenomeno Beatles’
fu in qualche modo una risposta a bisogni e tentativi proprio in quanto fu vissuto come
esperienza totalizzante: non solamente fatto musicale nuovo, ma fenomeno culturale in senso
assai più vasto. Questo fenomeno va oltre la mera ‘beatlemania’, che presuppone già un
giudizio negativo, di accettazione isterica ed acritica: infatti il ‘fenomeno Beatles’ fu qualcosa
che andò oltre i Beatles e l’adorazione nei loro confronti, per divenire un regolatore del
comportamento delle nuove generazioni.
La rottura operata dai Beatles fu in Italia una rottura in linea con questa tendenza, senza
però essere traumatica; fu, in un certo senso, un progresso nella continuità: da un lato la
musica e le parole dei Beatles non scioccavano tanto, soprattutto perché cadevano su
un’ignoranza talmente diffusa e stratificata da vanificare ogni raffinatezza o originalità, e che
finiva per appiattire tutto in melodia che è la rovina della cultura musicale (l’habitus mentale
di tutti gli ascoltatori di musica in Italia almeno negli anni 1950-1960); dall’altro, la stranezza
del ‘fenomeno Beatles’ nel suo complesso dava garanzia del mutamento, del poderoso passo
in avanti compiuto, della rottura con un passato grigio e standardizzato.
Ecco, dunque, che ad un bisogno concreto di cambiare registro, un bisogno confuso perché
coltivato su un terreno di ignoranza e provincialismo, si offrì un materiale ancora più concreto
in grado apparentemente di soddisfarlo senza però distruggere il passato: mentre i testi delle
canzoni ripetevano (nei primi tempi) cose dette e ridette, i capelli venivano lasciati un po’
crescere sul collo; mentre le melodie fraseggiavano con l’effetto tranquillante delle cose
conosciute e fischiettabili, le chitarre elettriche si incaricavano di fornire il brivido ‘barbarico’
e ‘cosmopolita’ che era necessario.
Il ‘fenomeno Beatles’ non fu un caso di colonizzazione né una geniale invenzione
sopranazionale, ma il coincidere di un bisogno nuovo con il materiale che, in mancanza di
altro, sembrava soddisfarlo. Ed era un bisogno, anche, di intervenire nei fenomeni culturali in
modo non mediato. I giovani italiani dei primi anni ’60 uscivano da una scuola chiusa,
terribilmente selettiva, ignorante e presuntuosa e, inoltre, dalla ‘dominazione’ di una
generazione che aveva monopolizzato, dalla ricostruzione in poi, tutta la cultura.
Su questo terreno culturale, tutto sommato povero e provinciale, si proiettava in modo
incerto una richiesta di mutamento anche negli assetti culturali; il bisogno di partecipazione,
di conduzione in proprio dei fatti culturali si espresse come potè ed il ‘fenomeno Beatles’, il
primo pop, fu un momento di questa espressione. Infatti non si trattava solo di riconoscersi in
una particolare musica: era, altresì, l’illusione di poterla rifare, di esserne autori, oltre che
ascoltatori fanatici: illusione doppia, poiché da una parte il successo di massa decretato ai
19
Beatles faceva in modo che i giovani si riconoscessero come protagonisti passivi di una nuova
forma d’arte, membri di una nuova e potentissima scuola culturale, dall’altra quella musica si
prestava ad essere facilmente ripresa, sia in modo imitativo, sia in modo apparentemente
creativo ed autonomo. E’ quella fase in cui, abbandonati gli studi di pianoforte in famiglia
(molto in voga nella piccola e media borghesia degli anni ’50 e ’60), si presero in mano
chitarre elettriche e batterie, amplificatori e microfoni, bassi elettrici ed organi Hammond 17 in
un’orgia di voglia di fare musica affatto sconosciuta e debitamente castrata nei conservatori di
stile ottocentesco e fascista 18 .
Queste considerazioni si riferiscono agli anni che vanno in Italia dal 1963-64 fino al ’68: anni
in cui boom economico e centro sinistra preparavano, per reazione, la nascita e lo sviluppo di
un’opposizione giovanile che verranno affrontati nella pagine successive in maniera più
dettagliata ed esaustiva.
Storicamente la nascita del pop espresse allo stesso tempo lo scoppio di una
“contraddizione culturale” e il manifestarsi sempre più evidente di una contraddizione sociale,
politica e dunque, in ultima analisi, economica.
1.5
Un beat tricolore
Nel 1963 la EMI, tramite il suo distributore italiano, la Carisch di Milano, pubblica in
Italia il primo 45 giri dei Beatles, “Please, Please Me”. “Era il segnale che mancava, la fanfara
elettrica sulla quale anche i giovani italiani poterono celebrare la loro piccola rivoluzione ma,
soprattutto, riconoscersi in un’identità nuova, collettiva, aliena rispetto al sistema degli adulti
e alle potenti inibizioni operate sulla libertà degli adolescenti. Senza di loro la nuova musica
non aveva alcun senso” 19 .
Al centro di tutto c’era la chitarra, assurta a protagonista assoluta della scena ed assieme
ad essa il 45 giri, nuovo supporto vinilico che nel giro di pochi anni si sarebbe imposto come
il più diffuso veicolo discografico, a scapito dei vecchi formati a 78 giri, per le sue doti di
maneggevolezza, infrangibilità ed economicità di produzione. Per quel che riguarda la
chitarra, in Italia avvenne un fatto che favorì in maniera determinante la diffusione di
strumenti musicali: la Eko 20 antica fabbrica di strumenti musicali sita a Recanati, mise in
distribuzione agli inizi degli anni ’60 una chitarra acustica a prezzo irrisorio, alla portata di
tutti e per la prima volta distribuita ovunque, anche al di fuori dei tradizionali negozi di
strumenti musicali. Improvvisamente la chitarra non fu più, agli occhi dei giovani, un oggetto
distante, prezioso ed irraggiungibile e migliaia di migliaia di adolescenti poterono comprarsi
una chitarra con la quale avvicinarsi alla nuova musica strimpellando gli accordi di base. Fu
questo un passo importante che portò ad una rapida acquisizione di massa della tecnica
elementare della musica pop e folk 21 , rivoluzionario messaggio lanciato dalla musica che
proveniva dall’oltremanica: Beatles, Rolling Stones ed altri avevano dimostrato al mondo che
si poteva creare qualcosa di originale anche in un collettivo di lavoro, dove tutti erano uguali,
andando incontro ad un diffuso senso di ‘comunismo’ che proprio in quegli anni andava
formandosi nella coscienza giovanile 22 .
Il 1964 è l’anno in cui cominciano a formarsi le prime band storiche come l’Equipe 84; a
partire da essi, è pronta a debuttare la valanga del beat italiano. Il beat italiano trae non solo la
sua origine e la sua ragion d’essere da quello inglese ma ne copia spudoratamente i modelli e
gli stilemi: canzoni semplici, classici ritmi in quattro quarti e parole per lo più d’amore e
20
comunque educate. Ma fu elemento sufficiente a rompere la monotonia della canzone italiana
e il dominio incontrastato di ‘quelli di Sanremo’. Fatta di allegria e rivoluzione, stravagante
moda hippie e slanci pacifisti, scampoli di cultura lisergica e poco altro, la canzone beat fu
soprattutto la prima grande rivincita dei giovani che, attraverso quelle ingenue ed innocue
canzoni di protesta e ribellione, affermarono la loro piccola ma inebriante libertà, la possibilità
di uscire per strada in abbigliamento non consono, capelli lunghi, pantaloni a campana e
strillare, seppur ancora in maniera timida ed innocua, la loro disapprovazione per la società 23 .
Tra le varie forme assunte dal beat nel nostro paese, oltre a quella ovviamente più nota di
deriva canzonettistica e commerciale, si distinguono il beat-garage 24 : genere ibrido, derivato
non si sa se dal garage punk americano o dalla pessima qualità degli amplificatori di marca
italiana che distorcevano tutto quello che veniva loro collegato. Il cosiddetto stile garage
prendeva le armonie del rock beat e le trattava con dosi massicce di wah-wah 25 e distorsore 26 ,
con effetti devastanti per le orecchie degli allibiti spettatori dell’epoca (pochi a dire la verità),
e il più conosciuto e diffuso beat d’importazione, sulla scia della British Invasion in America,
alla quale parteciparono solo gli inglesi più puliti ed educati, che cantavano di buoni
sentimenti e romantici amori adolescenziali; grandi favoriti risultarono essere tutti quelli che
avevano capelli lunghi il giusto, rasatura di fresco e occhi azzurri. “Da noi invece arrivò la
‘feccia’ del beat, ‘capelloni con giubbotti di cuoio e stivali da teddy boy’ 27 divise blu a bottoni
dorati avanzate da carnevale, sguardo teneramente corrucciato, aria di sfida ma cuore di panna
e chitarre elettriche a tutto volume perché ‘meno si capisce, meglio è’. Nonostante questo
fummo più fortunati: agli americani toccò fare indigestione di nauseanti banalità, a noi
rimasero gli avanzi, ma tra quelli c’era qualcosa di buono. Vennero per primi i Rokes: fecero
storia e soldi, infilando una serie di successi allora senza precedenti; li seguirono altri gruppi
ed artisti provenienti dalla seconda e dalla terza divisione inglese. Tutti avevano qualcosa da
dire, per lo più di poco importante, e tutti trovarono la loro piccola America neppure troppo
lontano da casa. Sta di fatto che l’Italia era terra vergine per il rock, lontana mille leghe
musicali da Inghilterra e Stati Uniti, legata al rock internazionale solo da tenui fili e lontane
eco, ma soprattutto affamata di rock‘n’roll e di tutto quanto portasse il marchio ‘made in
USA’ o arrivasse dai dintorni di Carnaby Street 28 .
Per quanto riguarda il beat più propriamente italiano, dal 1965 si assiste ad una vera e
propria esplosione ed entrata in scena di nuovi ‘complessi’ (come si usava definirli all’epoca).
Alle formazioni già nate ed in parte affermate, come I Ribelli, l’Equipe 84, I Satelliti, si
aggiungono decine di formazioni: i New Dada, i Giganti, i Kings, i Camaleonti, i Nomadi, i
Dik Dik, i Corvi e molti altri nomi più o meno conosciuti. “Già il semplice elenco di questi
nomi rende bene l’idea di questa necessità di fantasia, bizzarria, pronunciato anticonformismo
che veniva sottolineato dai capelli lunghi, da abbigliamenti vistosi, spesso ridicoli” 29 . Questa
nuova ondata entusiasta e scanzonata produsse una sorta di via parallela al rock
internazionale: i ragazzi di allora sognavano i Beatles ma andavano a vedere l’Equipe 84,
probabilmente la miglior espressione del nostro beat nazionale per la ricerca di sonorità
particolari, arrangiamenti originali ed inventivi che li poneva qualche gradino sopra i loro
colleghi ‘bitters’ dal suono piuttosto rozzo ed acerbo. Altro gruppo fondamentale in questo
primo scorcio di anni sessanta furono i Dik Dik, che proponevano una sorta di folk rock
all’italiana, di gradevole ascolto e notevole potenza commerciale. Una menzione particolare
merita anche Adriano Celentano, denominato il padrino del rock’n’roll in Italia, essendo stato
uno dei primi artisti a fregiarsi delle nuove sonorità. Durante gli anni sessanta, senza dover
rinunciare al suo successo ed alla sua popolarità, abbandonò il rock per abbracciare un facile
pop di consumo; il mondo del beat Adriano lo sfiorò solamente, manifestando sempre un certo
fastidio per tutti quegli aspetti della ribellione giovanile: nel 1967 arrivarono facili proclami
21
antidivorzisti (“Siamo la coppia più bella del mondo”) e frecciate polemiche contro la cultura
beat (“Torno sui miei passi”).
Nonostante il gran numero di formazioni in circolazione,non si poteva ancora parlare di
uno stile italiano: quasi tutte le band, infatti, si limitavano a proporre al pubblico le ‘cover’ 30
delle canzoni più celebri provenienti dagli USA e dall’Inghilterra. Questo fenomeno trova la
sua spiegazione nell’effettiva impossibilità del pubblico di poter accedere allo già allora
sterminato repertorio musicale anglo-americano; erano pochi i dischi che, nella ancor
primitiva promozione e distribuzione discografica degli anni ’60, avevano occasione di venir
pubblicati e diffusi al pubblico italiano. Questa coincidenza spinse i gruppi beat a
saccheggiare selvaggiamente e indiscriminatamente i successi delle classifiche internazionali,
realizzando così un doppio vantaggio: infilare un successo dietro l’altro sulla base della
risposta di pubblico ottenuta dai brani nei paesi di origine senza il minimo sforzo cognitivo e
d’inventiva, e la possibilità di far percepire il loro ‘pezzo’ come originale alle orecchie dei
poco alfabetizzati ascoltatori italiani. Oltretutto queste cover, nella maggior parte dei casi,
gridavano vendetta: erano o mal tradotte o completamente stravolte del senso originario, nel
tentativo di adattarle al gusto e al codice semiologico italiano.
A questo proposito, sovente i direttori artistici dei suddetti gruppi erano incaricati di
trascorrere notti insonni ad ascoltare le trasmissioni di Radio Luxembourg 31 , cercando di
captare i successi stranieri. Tra le vittime illustri di questo ‘scempio provincialotto’ vi furono i
Procol Harum, per cui la loro “A Whiter Shade Of Pale” è ancora, per molti italiani, “Senza
luce” dei Dik Dik; “Pregherò” di Celentano sull’aria della celebre “Stand by me” di King e
l’italianizzazione di “I’m a believer” da parte di Caterina Caselli.
Anche se la ‘rivoluzione’ italiana del beat non ebbe la dirompenza riscontrata in USA e
Inghilterra, riuscì comunque a dare un sonoro scossone all’inamovibile carrozzone sanremese
che, nella sua sedicesima edizione, riservò per la prima volta una sezione della gara ai gruppi
e vide anche la partecipazione degli Yardbirds di Jeff Beck, esibitisi rispettivamente assieme a
Lucio Dalla e Bobby Solo: un goffo tentativo di venire incontro alle esigenze del pubblico
giovanile che richiedeva a gran voce i rappresentanti del vero beat inglese, non
compromettendo il rapporto fiduciario con il tradizionalista pubblico sanremese. “Venne
inoltre promossa una nuova manifestazione canora tagliata su misura del nuovo target
giovanile, il ‘Cantagiro’, che con la sua straordinaria logica di divismo fu un perfetto volano
per le nuove band del beat italiano” 32 .
Anche la radio e le tv di Stato furono coinvolte nello svecchiamento della loro
programmazione a favore della nuova musica: la RAI varò addirittura un programma,
‘Bandiera Gialla’, esclusivamente dedicato al beat ed ai giovani, ottenendo così anche dal
medium ufficiale (nonché monopolistico) la legittimazione della loro esistenza.
La grande popolarità raggiunta dalla nuova musica leggera giovanile non poteva lasciare
indifferenti i discografici che, nel frattempo, si erano dotati di nuovi mezzi e di nuove strategie
commerciali più in sintonia con l’evoluzione di questo nuovo mercato: dal 1965 il beat venne
sapientemente ricondotto senza scossoni sulla melensa e disimpegnata ‘strada maestra’,
perdendo presto i connotati originali ed essenziali fino ad essere completamente assorbito
dalla canzonetta industriale.
22
1.6
Dagli Usa e Inghilterra
aspetto e contenuti
la
musica
cambia
Gli anni 1966 e 1967 furono decisivi sia per la musica rock che per i movimenti giovanili.
In America il cosiddetto ‘Movement’ viveva il suo momento più alto: rifiutava i modelli
imposti dalla società consumistica, predicava povertà, semplicità ed una vita al di fuori
dall’alienazione delle metropoli, “ispirandosi ad una sorta di primitivo e radicale socialismo”.
Al tempo stesso tentava con inedita ed ambiziosa creatività di disegnare nuovi scenari e ed
applicarli nella vita reale: insomma, la cultura hippie lanciava riverberi che arrivavano a tutto
il mondo giovanile 33 , “Fu un ciclone dilagante al centro del quale prese forma la rivolta della
controcultura 34 , con i suoi propositi sovversivi: non c’erano più alto e basso, popolare e colto,
pubblico e privato, in un certo senso non c’erano neanche artisti e pubblico, tutto tendeva
naturalmente a confondersi e trasformarsi con una incredibile velocità.
“Nascevano giornali, riviste, compagnie di danza e di teatro, gruppi letterari, i ragazzi si
trasformavano in poeti, artisti, pittori, agitatori politici, abbandonavano le famiglie e le scuole,
trasformavano le università ed i college, fondavano associazioni, case editrici, etichette
discografiche, organizzavano concerti, manifestazioni, spettacoli, raccolte di fondi, centri
medici alternativi, negozi, andavano a vivere insieme organizzando comuni, uscivano
letteralmente dalla società per provare a fondarne un’altra, mettevano in discussione le
istituzioni, la famiglia, i rapporti interpersonali, il lavoro, il profitto, volevano, come
esplicitamente cantava Jim Morrison dei Doors, ‘il mondo’ e lo volevano subito” 35 .
Dal punto di vista musicale, il biennio ‘66-‘67 è caratterizzato da un radicale cambio di
registro sia per quel che concerne l’introduzione di nuove sonorità, sia per la messa in
discussione e stravolgimento delle strutture canoniche della ‘forma canzone’; due fattori che
influenzeranno e determineranno tutta la produzione a venire. Dall’America e più
precisamente dalla California si diffondono le note dei Jefferson Airplane e Grateful Dead che
propongono una musica che è sincera emanazione dello stile di vita delle due band, con
influenze blues e jazz che si fondevano con suoni allucinati ma anche con ritorni repentini alla
dolcezza folk-rock in “un allucinato scavo psichedelico nei più remoti ed inquietanti labirinti
psichici” 36 . “Le canzoni avevano una struttura molto libera, figlia dell’esperienza lisergica e
della filosofia hippie, inoltre presentavano i caratteri di musica ‘militante’ nell’accezione del
movimento americano; la conduzione del gruppo riprendeva le forme di autogoverno già
collaudate dai collettivi giovanili” 37 .
Dall’Inghilterra ancora una volta i Beatles si muovevano su sentieri nuovi ed inesplorati,
quelli della sperimentazione: nel 1966, a chiudere l’album “Revolver”, vi è una composizione
di John Lennon, “Tomorrow Never Knows” che, ispirandosi ai monocorde mantra indiani, si
sviluppa su un unico accordo accorpando vari loop 38 mixati 39 e un assieme di suoni, rumori e
assoli di chitarra rovesciati 40 ; i testi d’amore adolescenziale lasciano il posto a testi dal
contenuto più minimalista ed orientati verso tematiche di amore universale. Anche il 1967 si
apre nel segno del quartetto di Liverpool che nel giugno dello stesso anno pubblica il
celeberrimo “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band” 41 , un concept album prodotto di un
lavoro curatissimo a livello di produzione, frutto di lunghe, creative e fino ad allora inedite
sperimentazioni in studio. I testi affrontano temi introspettivi, rapporti con i fans, esperienze
‘metafisiche’ ed eventi direttamente vissuti dai protagonisti o riscontrabili nelle cronache
dell'epoca. E' opinione comune, ed empiricamente verificabile, che da allora nulla suonò come
prima; non esisteva l'elettronica applicata alla musica, e trovare suoni nuovi, “far suonare una
chitarra come un piano e un piano come una chitarra” 42 era un' impresa assai ardua. Ad
23
esempio, per creare timbriche di voce più caratteristiche venivano immersi i microfoni dentro
bottiglie piene d’acqua, oppure si cantava in posizioni insolite, così da comprimere la cassa
toracica ed ottenere sfumature della voce più particolari. Fa poi il suo ingresso in pompa
magna l'orchestra applicata al contesto pop/rock, il crescendo di “A day in the life”, il pezzo
che chiude l’album, è stato realizzato da ben 160 elementi. Una produzione, dunque, senza
precedenti che aprirà la strada a tutto ciò che verrà prodotto a partire dal 1967; un'accuratezza
e una precisione nei particolari che non era mai stata vista in un prodotto di intrattenimento
‘popolare’ destinato al consumo di massa. Con “Sgt Pepper's” la musica pop si sdogana
finalmente dal ruolo marginale, accessorio e meramente leggero che l'aveva caratterizzata fino
ad allora ed entra a pieno titolo nelle forme dell'opera d'arte 43 . Ma non solo Beatles: dalla
fucina di Abbey Road 44 lo stesso anno uscì l’opera prima dei Pink Floyd, da molti considerata
il loro autentico capolavoro, “The Piper At The Gates Of Down” 45 , caratterizzata da atmosfere
futuristiche ed elettroniche, suite lunghe in cui prevaleva la musica sul cantato, quest’ultimo
frutto delle visioni e della poetica del suo geniale e sfortunato leader Syd Barrett. Sempre nel
1967, gli Who pubblicano il loro “The Who Sell Out” 46 originale e divertente album in cui si
ironizza sul mondo della pubblicità, inframezzando le canzoni con brevi sequenze di jingle
pubblicitari rivisti e riadattati. Il ‘Cry Baby’ 47 e la ‘chitarra stuprata’ di Hendrix in “Are You
Experienced” 48 riversano nuovi suoni, e rivoluzionano il modo di suonare lo strumento. Oltre
a questi esempi molto eloquenti, il 1967 segnerà anche l’inizio di una musica più raffinata e
d’avanguardia, con i primi vagiti del rock progressive dei Traffic di Steve Winwood, i Genesis
di Peter Gabriel e i Soft Machine di Robert Wyatt.
1.7
La ‘musica’ cambia anche in Italia
Il fenomeno dei Beatles e del rock in generale era stato accolto con benevolenza dalla
società italiana rispetto agli USA o alla stessa Inghilterra, infatti i ‘capelloni’ venivano visti
come fondamentalmente innocui e si riteneva che ben presto, esaurito l’entusiasmo della
novità, tutto sarebbe riconfluito all’interno degli schemi abituali. Dì lì a poco, invece, i ragazzi
italiani e i loro cugini francesi avrebbero superato i loro omologhi americani, spinti da
contingenze sociali e soprattutto politiche che negli Stati Uniti non ebbero mai modo di
verificarsi: anzi, quando il movimento giovanile cominciò a scoppiare in Europa, nel suo
paese di origine iniziò un lento ma inesorabile declino subito dopo la cosiddetta ‘estate
dell’amore’ 49 . Nel biennio ’66-’67, l’Italia del rock e dei giovani è ovviamente ancora molto
in ritardo rispetto ai suoi modelli di riferimento anglosassoni e statunitensi; ma, rispetto a
pochi anni prima, i dischi arrivano con minori difficoltà, i mass media danno maggior risalto
agli avvenimenti che riguardano la musica, le mode ed i fenomeni di costume; è quindi più
facile essere informati. Inoltre la maggiore libertà ottenuta dai giovani consente loro di
viaggiare e di conoscere direttamente le realtà che prima gli era solo concesso immaginare.
Questi fattori risulteranno determinanti per la condizione subalterna vissuta dalla musica
italiana, che negli anni a seguire subirà un processo di veloce riassorbimento del gap,
specialmente nei confronti dell’America.
Si scorgono i segni di una vera e propria ‘controcultura’ giovanile; al Piper 50 di Roma
vengono realizzati i primi happening ed esperimenti di arti visive combinate alla musica sullo
stile degli ‘Acid Tests’ 51 californiani. Tra tutti, il più importante fu sicuramente quello di
Mario Schifano 52 che, seguendo l’esempio di Andy Warhol 53 , patrocinò un concerto poi
24
inciso su disco, intitolato “Le stelle di Mario Schifano”, concretizzando così anche in Italia le
prime ed inedite forme di spettacolo ‘totale’ 54 . Rotto il ghiaccio e gli indugi degli
organizzatori italiani, grazie al coraggioso esempio di Leo Wachter 55 , il processo di
internazionalizzazione si materializza con l’arrivo di numerose band inglesi che cominciano
ad includere anche l’Italia nei loro tours: per gli Who e i Rolling Stones è necessario il
palasport, al Piper si esibiscono i Pink Floyd, i Genesis ed i Soft Machine; sono i primi esempi
di concerti di massa, fino ad allora negati al pubblico italiano, che contribuiranno a lasciare un
segno profondo nell’immaginario giovanile dell’epoca. 56 Le coscienze giovanili cominciano a
muoversi; scuole università e fabbriche sono in fermento; si segue con apprensione il colpo di
stato dei colonnelli in Grecia, la guerra dei sei giorni in Israele e la cattura e l’uccisione di Che
Guevara in Bolivia, il più potente mito giovanile degli anni ’60 e non solo.
In questo contesto si scorgono le prime avvisaglie del mutamento, il beat sta rapidamente
cambiando e maturando, acquisendo finalmente una consapevolezza più originale e soprattutto
più italiana; “i capelli lunghi e le chitarre elettriche erano stati strumenti efficaci per mettere in
scena i sogni ed i desideri di una nuova generazione, armi spettacolari utili per far accendere i
riflettori sull’universo giovanile, con l’inizio della nuova stagione i colori ed i suoni si
modificano e lo fanno in perfetta sintonia con i cambiamenti in corso nel mondo, mentre la
canzonetta tradizionale procede per la sua strada senza accorgersi di nulla” 57 . Alla pratica
riprovevole delle cover tradotte cominciavano a subentrare i nuovi autori ed un nuovo corso:
l’Equipe 84 incide “L’antisociale” scritta da un giovane ed ancora sconosciuto cantautore,
Francesco Guccini che per i Nomadi scrive “Auschwitz”. Il primo è un testo semi-ironico che
polemizza contro la filosofia della cosiddetta ‘gente bene’, la seconda è un grido di dolore per
una delle stragi più vergognose perpetrate dall’uomo sull’uomo; vi è un repentino cambio di
registro, quindi, le tematiche si fanno incredibilmente più serie ed impegnate, le parole
diventano più pesanti ed il testo riacquisisce finalmente dignità e centralità nei confronti della
musica. Irrompono nuove tematiche epocali: la pace, l’uguaglianza, l’antinuclearismo, ma
anche problemi legati al tipico caso italiano quali le denunce contro l’autoritarismo,
l’arrivismo, gli schemi sociali preordinati. Il 1967 è l’anno della svolta, “il rock italiano
comincia a parlare per sé stesso delineando una propria identità, vagheggiando un suo sogno,
stilando nuove regole di comportamento comuni a tutti i gruppi ed ai cantanti che all’epoca
rifiutavano i meccanismi della tradizione melodica italiana” 58 .
Quello che Bob Dylan fece in America (ma se vogliamo, in tutto il mondo), da noi lo
fecero i cantautori e così come i Byrds ricamarono “Mr. Tambourine Man” del colore
musicale delle Rickenbacker 360 59 a dodici corde, così I Nomadi costruirono un
arrangiamento più dinamico alla “Dio è morto” di Guccini. Ma se i Byrds furono il
grimaldello affinché il messaggio dylaniano pervenisse alle orecchie di tutti e in certo modo
‘costringesse’ altri gruppi a seguire quella strada, in Italia i gruppi beat che aderirono al nuovo
corso, in coerenza con il loro passato, si limitarono a ri-arrangiare e dipendere dagli autori
esterni. In pochi si discostarono da questo cliché, ad eccezione dei Giganti che furono,
assieme ai Nomadi ed all’Equipe 84, “il gruppo che espresse nella maniera più completa la
maturazione del beat italiano, il suo bisogno di internazionalismo e allo stesso tempo la
necessità di liberazione dai modelli stranieri” 60 . Questa dipendenza segnerà la fine dei gruppi
beat e, conseguentemente, del beat italiano: l’esperienza di Dylan aveva insegnato che non era
necessario avere un bella voce, una bella presenza o una band dietro le spalle per poter cantare
davanti ad un pubblico; questo insegnamento venne fatto proprio dai vari cantautori che ben
presto rifiutarono il ruolo di autori per lanciarsi in prima persona sul mercato discografico,
primo fra tutti lo stesso Guccini che nel 1967 pubblicherà il suo primo disco “Folk Beat
n°1” 61 continuando così una tradizione che affondava le proprie radici in tempi ben anteriori
25
al beat e togliendo di fatto la materia prima ai vari gruppi, da sempre incapaci di realizzare
produzioni autonome.
A dare il colpo di grazia al beat italiano fu la contrapposizione ideologica acuitasi in seno
al movimento in questo fatidico ’67: ‘quelli della linea gialla’, ovvero Tenco, Dalla,
Reverberi, Bardotti e Vivarelli dalle pagine di uno dei primi giornali della scena giovanile,
‘Big’, si schierarono in favore di una vera e propria rivoluzione musicale e politica. Ne venne
fuori addirittura un manifesto programmatico che propugnava quanto segue:
“ Le persecuzioni non sono e non possono essere viste solo da
un punto di vista politico, perché i bombardamenti
indiscriminati nel Vietnam sono quelli che sono, perché la
censura più assurda esiste ancora e ne abbiamo avuto prova di
recente. E perché, per passare dall’altra parte della barricata, i
liberi intellettuali nell’Urss finiscono in Siberia, il muro di
Berlino è ancora in piedi ed in Cina un certo tipo mentalità
nazista torna di moda grazie alla cosiddetta rivoluzione
culturale. Quanto all’Italia, da Agrigento a Longarone, è tutto
un fiorire di scandali, mentre le persecuzioni della polizia, a
Genova e Roma, contro i ragazzi colpevoli solo di portare i
capelli lunghi, assumono forme sempre più preoccupanti […]
Noi nella pace e nella libertà non vogliamo sperare, ma
preferiamo ora lottare su una trincea fatta di splendide e
significative note, per conservarle o conquistarle. Questo è bene
che si sappia, come è bene che i giovani si guardino dai
mistificatori della musica leggera”. 62
In polemica con la ‘linea gialla’ si contrapponeva la ‘linea verde’, quella di canzoni baciate
dal successo come “Un mondo di amore” di Gianni Morandi o “E’ la pioggia che va” dei
Rokes e che aveva in Mogol 63 il suo maggiore esponente e portavoce, il quale propugnava un
beat più scevro dalle tematiche di natura politica e più orientato verso ideali di fratellanza ed
amicizia. Sempre dalle pagine di ‘Big’ si affermava che:
“Speranza non significa resa, né tantomeno vittoria. Noi non
rinneghiamo la filosofia beat, non neghiamo che da essa
abbiamo attinto coraggio, purezza, e quasi tutti i suoi credo.
Non la consideriamo però un punto di arrivo ma di partenza, la
linea verde è per noi il perfezionamento della filosofia beat, più
amore in senso universale”. 64
I cambiamenti riuscirono a toccare, seppure con i dovuti distinguo, anche ‘l’innocenza’ della
canzonetta di consumo e l’inviolabilità della tradizione sanremese. La logica mercantile
avvertiva l’esigenza di adeguarsi alle mutate condizioni senza però provocare danni: si
accontentava di mimare la rivolta che poteva essere liberamente contemplata proprio perché si
sapeva che non si sarebbe mai realizzata. Pronunciata la battuta, il brivido della trasgressione
era provato 65 , pertanto tutto poteva essere ricondotto all’interno della strada maestra; secondo
quanto espresso da Adorno, quindi, si tratta di “tutti quegli schemi del comportamento che
soddisfano moderatamente la necessità maniacale senza pregiudicare la morale lavorativa e la
sociabilità dominante”. 66
Qui di seguito verranno riportati due esempi significativi di una ‘canzone di protesta che
non protesta’. Nel 1966 Adriano Celentano scopre impegno sociale ed ecologia nella
26
celeberrima “Il ragazzo della via Gluck” 66 nella quale si prendono le distanze dalla vita
atomizzante della metropoli inquinata ed alienante in contrasto con la dimensione più naturale
e rassicurante della vita all’aria aperta. La sigla finale del coro recitava così: “Dai, dai, sorridi
con noi / e non ci far pensar”; è evidente l’intento reazionario di non prendere troppo sul serio
il cantante, proprio quando ha l’aria di abbozzare un pensiero. “Pensare è un’attività
pericolosa, fomite di rivolta e di imprevedibili suggestioni; dunque l’ordine rimane sempre
quello: sorridere e non pensare” 67 . Lo stesso Mogol, avvalorando le tesi dei suoi detrattori,
nell’edizione del 1967 del festival scrisse per le ugole di Gianni Pettinati e Gene Pitney un
testo dall’eloquente titolo, “La rivoluzione”:
Guarda quante facce scure, piene di rancore sono ferme là.
Guarda quei ragazzi uniti tutti colorati stan correndo qua
[…]
E basteranno pochi anni oppure poche ore per fare un
mondo migliore.
Un mondo dove tutti saranno perdonati: “Chi ha vinto e
chi ha perduto vedrai si abbraccerà”.
[…]
E’ finita la rivoluzione, per sempre è finita… e mai più si
farà.
Questo testo nascondeva con estrema difficoltà un malcelato esorcismo dei rumori di rivolta
che si addensavano nei cieli d’America e d’Europa, minacciando lo status quo dei buoni
sentimenti che il festival ha sempre avuto l’onere di rappresentare. E’ manifesta la “sottile
perfidia del testo che contrappone alla rivoluzione (che mai più si farà!) l’amore, mentre le
associa facce scure, piene di rancore.” 68
Il 1967 segna la fine dell’era beat; i compromessi non sembrano più ammessi in quanto i
mutamenti della cultura e della società ed i tempi che stanno arrivando pretendono una presa di
posizione chiara e netta. Chi non vuole o non è capace di interpretare i nuovi bisogni uscirà
rapidamente dallo scenario del nascente movimento giovanile: la maggior parte dei gruppi che
avevano affollato la scena nei primi ’60 pagheranno questo scotto con lo scioglimento o il
‘purgatorio del dimenticatoio’; sopravviveranno solo coloro che sapranno vendersi meglio
riadattandosi alle nuove esigenze di mercato, scendendo al compromesso con la canzonetta
commerciale e rinunciando in modo definitivo a farsi promotori o solo diffusori del ‘nuovo
corso’.
Termina anche, seppur solo temporaneamente, l’epoca dei gruppi per lasciare il posto ai
cantautori: bisognerà aspettare gli anni ’70 per vedere nuovamente sulla scena le band italiane.
1.8
Cresce il dissenso giovanile
Tra il 1962 ed il 1968 i governi di centro-sinistra erano falliti nel rispondere alle molteplici
esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. Dopo aver parlato per tutto il corso dei sessanta
di riforme, lasciarono poi deluse tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti l’inerzia dei vertici fu
sostituita dall’attività della base; quello che seguì fu un periodo di straordinario fermento
sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica. Durante
27
questi anni l’organizzazione e la legittimità stessa della società italiana furono messe in
discussione a quasi tutti i livelli; il movimento di protesta italiano non uguagliò i fatti del
‘maggio francese’, ma fu il più profondo ed il più duraturo in Europa, diffondendosi
inizialmente nelle università e nelle fabbriche e, successivamente, entro tutta la società.
La protesta, come si è detto, iniziò nelle università; nel 1968 le università di Roma, Napoli
e Bari contavano, rispettivamente, 60.000, 50.000 e 30.000 studenti, mentre ognuna era stata
progettata per accogliere non più di 5000 iscritti 69 . Vi erano pochi insegnanti universitari che
raramente erano presenti in facoltà, essendo il più delle volte professionisti impegnati in vari
settori ed avendo un obbligo lavorativo da docente di appena 52 ore l’anno. Non c’erano né
seminari né esercitazioni e mancava quasi del tutto un contatto tra professori e studenti. Inoltre
lo Stato non dava alcun sussidio agli studenti meno abbienti, eccettuata qualche borsa di
studio ai più meritevoli; i genitori benestanti potevano mantenere i loro figli all’università, ma
nel 1968 più della metà degli studenti doveva lavorare per poter continuare gli studi: per loro
spesso era impossibile frequentare le lezioni con una certa continuità, ed in assenza di altri tipi
di insegnamento erano costretti a studiare a casa sui libri di testo, pertanto non vi era da
meravigliarsi se il numero di studenti lavoratori che superava gli esami non fosse
particolarmente alto. Nel 1966 l’81% di quanti avevano un diploma di scuola media superiore
entrava nell’università e solo il 44% riusciva a laurearsi 70 .
Questo senso di rifiuto trovò un terreno fertile di crescita nelle minoranze che
contestavano le due ortodossie dominanti in Italia: quella cattolica e quella comunista. Il
pontificato di Giovanni XXIII aveva prodotto nella chiesa italiana un nuovo fermento di idee
ed iniziative; l’attenzione era rivolta alla necessità di maggiore giustizia sociale e alla
formazione di comunità di base fondate su un forte senso di collettività e solidarietà. Don
Lorenzo Milani, prete cattolico del dissenso, pubblicò nel 1967 un libro che divenne
rapidamente uno dei testi più letti dal movimento studentesco e che documentava i pregiudizi
di classe del sistema educativo e il trionfo dell’individualismo nella ‘nuova Italia’:
“Guai a chi tocca l’individuo. Il libero Sviluppo della
Personalità è il vostro credo supremo. Della società e dei suoi
bisogni non ve ne importa nulla […] Anche sugli uomini ne
sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i
coinquilini. La macchina per ignorare la gente che va in tram. Il
telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa”. 71
Nello stesso periodo si andava manifestando una ripresa del pensiero marxista. Soprattutto
attraverso la rivista “Quaderni Rossi”, si facevano nuovi tentativi per analizzare in termini
marxisti il rapido sviluppo materiale dell’Italia. I giovani ‘intellettuali operaisti’ fautori di
queste indagini si collocavano, per la maggior parte, al di fuori della sinistra istituzionale.
Queste nuove iniziative che maturavano nei campi cattolico e marxista, benché non
omogenee tra loro, contribuirono a formare e diffondere tra i giovani un comune retroterra
ideologico in cui i valori di solidarietà, azione collettiva, lotta all’ingiustizia sociale, si
contrapponevano all’individualismo e al consumismo del capitalismo cosiddetto ‘maturo’.
28
1.9
L’occupazione delle università
Sebbene vi fossero state avvisaglie di disordini già nel 1966, la vera esplosione ebbe luogo,
nelle università italiane, tra l’autunno del 1967 e la primavera del ’68. La prima università ad
essere occupata fu quella di Trento, l’unica in Italia ad avere una facoltà di sociologia e che
avrebbe dovuto preparare una moderna élite cattolica capace di analizzare e dirigere i
complessi processi di trasformazione in atto in Italia. Tuttavia gli studenti rifiutarono
completamente il ruolo loro assegnato, cercando di formulare un’analisi marxista della figura
sociale dello studente, considerato come una merce selezionata e accuratamente formata per
essere venduta sul mercato intellettuale.
Così scriveva nel 1968 Guido Viale, un rappresentante degli studenti:
“L’università funziona come strumento di manipolazione
ideologica e politica teso ad instillare negli studenti uno spirito
di subordinazione rispetto al potere (qualsiasi esso sia) ed a
cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi,
la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di
avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di
carattere competitivo” 72
L’esempio di Trento fu ben presto seguito dall’Università Cattolica di Milano e dall’
Università di Torino. Dal dicembre ’67 al febbraio ’68 il movimento di protesta si diffuse per
tutto il paese, anche nelle più addormentate province del meridione.
L’occupazione dell’Università di Roma nel febbraio 1968 segnò per il movimento un punto
di svolta; la polizia intervenne a sgomberare le facoltà e gli occupanti cacciati si ritrovarono in
Piazza di Spagna e decisero di riconquistare la facoltà di architettura che sorgeva isolata
all’interno del parco di Villa Borghese. La polizia caricò ancora per bloccarli, ma questa volta
decisero di rispondere all’offensiva: macchine e autobus vennero dati alle fiamme e vi furono
molti feriti per entrambi gli schieramenti. Le foto della ‘battaglia di Valle Giulia’ 73 segnarono
un altro punto di svolta per il movimento che fino ad allora era stato prevalentemente pacifico.
1.10
I valori del ‘Movimento’
Il 1968 fu, dunque, molto più di una protesta contro la miseria della condizione
studentesca; fu una rivolta etica, un rilevante tentativo di rovesciare i valori dominanti
dell’epoca. L’obiettivo era di impedire, prima agli studenti e poi all’intera popolazione,
‘l’interiorizzazione’ dei valori della società capitalista 74 . Questa rivolta etica ricevette
ispirazione ed identità anche dalla drammatica congiuntura internazionale contemporanea: la
guerra del Vietnam cambiò il modo di guardare all’America di un’intera generazione di
italiani. Il mito americano degli anni cinquanta fu infranto dai notiziari sui villaggi vietnamiti
bombardati col napalm 75 e dall’esempio della resistenza contadina alla guerra tecnologica
americana. La ‘vera’ America divenne quella dei campus universitari in rivolta contro la
guerra, delle comuni californiane e della controcultura, del Black Power 76 .
29
Altre sollecitazioni esterne giunsero dalla Cina, in cui sembrava sorgere un nuovo modello
di socialismo, dall’esperienza della rivoluzione culturale che propugnava una ricostruzione che
doveva partire dalla base contro le gerarchie costituite e dall’America latina, con la morte del
più potente mito giovanile di quegli anni Ernesto “Che” Guevara.
Il fulcro del ‘Movimento’ studentesco italiano era costituito da un irriverente antiautoritarismo. Nessuna gerarchia o centro di potere si salvava dall’essere messa in ridicolo e,
per la prima volta nella storia della Repubblica, persino la famiglia fu messa sotto accusa;
vennero messi in evidenza i difetti e le contraddizioni dei moderni rapporti familiari, l’accusa
era durissima: oppressione ed alienazione degli individui che ne facevano parte.
Pochi studenti giunsero al punto di rifiutare in toto l’istituzione familiare, ma parecchi
rifiutarono l’idea di rinchiudersi nel proprio guscio, e si impegnarono attivamente nei rapporti
di gruppo con i propri compagni e nel sostegno militante agli ideali collettivistici. Un disprezzo
tutto particolare era riservato ai partiti della sinistra tradizionale: il partito comunista era
respinto dalla maggior parte in quanto ‘opposizione integrata’ incapace di combattere il
sistema; l’espressione giovanile del PCI, la FGCI 77 fece scarsi progressi tra gli studenti e i suoi
rappresentanti venivano spesso derisi durante le assemblee studentesche.
Il movimento propugnava una democrazia diretta per controllare, nei limiti del possibile,
l’esercizio del potere. Ogni decisione doveva essere presa da assemblee di massa, gli studenti
erano invitati a partecipare direttamente alle decisioni, piuttosto che delegare tale funzione ai
loro rappresentanti. Il modello di democrazia a cui si ispirava non era la Costituzione della
Repubblica Italiana, bensì la Comune di Parigi del 1871 78 . Gli studenti decisero di vivere le
proprie vite con lo stesso spirito collettivistico e in tutte le principali città si diffusero le
comuni, regolate da un’ideologia libertaria: nessuna autorità centrale doveva interferire e
controllare le azioni individuali, ogni individuo doveva determinare le proprie scelte e i propri
comportamenti privati. Ciò valeva naturalmente soprattutto per la sfera dei rapporti affettivi e
sentimentali, quindi i tabù che in Italia investivano le pratiche sessuali furono sistematicamente
infranti per la prima volta; la liberazione sessuale divenne allo stesso tempo un obiettivo del
Movimento ed una delle sue regole.
Uno degli aspetti più significativi del movimento studentesco era data dal fatto che per la
prima volta una fetta consistente dei ceti medi (da cui proveniva la maggior parte degli
studenti) si spostava su posizioni ‘di sinistra’. Gli studenti del ’68 ruppero con i loro genitori,
compiaciuti e favoriti dal miracolo economico; il movimento aveva quindi un forte contenuto
eversivo, perché sfidava il modello di modernità che era apparso in Italia negli anni
precedenti 79 .
1.11
Il ruolo dei cantautori
Una realtà così mutata nel corso di pochi mesi metteva in luce la standardizzazione della
musica leggera di quegli anni e manifestava un appiattimento così radicale e così evidente da
scontentare più di qualcuno. Le nuove generazioni rifiutavano la musichetta come negazione
della loro identità autonoma, ribellandosi contro l’ottusità del gusto e ricercando, con i poveri
mezzi a disposizione, forme più alte di musica. In Inghilterra e, soprattutto, negli Stati Uniti i
movimenti giovanili e studenteschi avevano trovato il loro ‘canale rappresentativo’ nella
musica; per molti versi musica e movimento erano cresciuti insieme appoggiandosi l’una
l’altro e scambiandosi linfa e contenuti. Ma rimaneva sostanzialmente, nell’Italia di quegli
30
anni, una grande miseria musicale: e seppure essa fosse, nelle intenzioni, destinata a
rappresentare una nazione pacificata e dunque ‘legittimamente disimpegnata’, nei fatti non
spartiva nulla con le tensioni reali della società 80 .
Con un beat morente che non sembrava capace di rinnovarsi e riadattarsi alle mutate
esigenze musicali reclamate da un sempre più esigente e severo mondo giovanile, gli unici
capaci di raccogliere il testimone di questa nuova sfida erano i cantautori che, nel frattempo, si
erano emancipati dal loro ruolo di ‘autori dietro le quinte’ per i gruppi più affermati e famosi.
Con il loro avvento, per ovvie necessità strutturali proprie della musica folk, avvenne un
profondo mutamento nel modo di fruire la musica; fino ad allora i prodotti musicali per i
giovani avevano avuto un ruolo meramente accessorio, di svago e funzionale alla
socializzazione degli stessi: il ritmo e la musica avevano sempre avuto un ruolo preminente
sui testi dal momento che era musica fatta quasi esclusivamente per ballare. La musica dei
cantautori, invece, usciva dalle balere e dalle sale da concerto per entrare nelle scuole, nelle
università, nelle strade e nei cortei ed era fatta per essere ascoltata e non ballata. Era più
semplice e meno accattivante: i cantautori mettevano da parte batterie, distorsioni e suoni
elettrici in favore di chitarre acustiche e strumenti tradizionali, le strutture melodiche erano
semplici e costruite sugli accordi fondamentali. La musica rimane quindi esperienza di
gruppo, ma adesso il focus si sposta su un’adesione intima al sistema valoriale e su una
coesione maggiore all’interno del gruppo di fruizione che per la prima volta si pone delle
finalità e si auto-organizza, non più secondo la sola (presunta) consonanza di ideali per la
frequentazione degli stessi luoghi e per l’ascolto della stessa musica. E’ una musica per nulla
ecumenica, bensì una musica che divide, schierata, politica, provocatoria.
Il cantautorato in Italia non era un fenomeno nuovo, qualcuno ha sostenuto che nel periodo
del ‘boom’ furono i Paoli, i Tenco, gli Endrigo, i Lauzi, i De Andrè ad assolvere alla funzione
non solo commerciale, ma anche culturale di svecchiare il mercato. Certamente essi riuscirono
a provincializzarlo e grazie a loro la canzone uscì dalle secche della standardizzazione
sanremese. La differenza tra il cantautorato delle origini ed il nuovo corso della fine dei ’60
era sostanzialmente riferibile ai mezzi che gli stessi cantautori usavano rispetto ai loro
omologhi statunitensi o inglesi: in USA e Gran Bretagna si attingeva a piene mani dalla
musica nera e dalla musica popolare mentre i nostri non riuscivano a svincolarsi
completamente dalla logica canzonettistica. Troppe ancora erano le somiglianze con la
canzonetta sanremese; troppo poco violenta, musicalmente, la loro rottura; troppo evidente la
logica gradualista in cui si muovevano, che non era né la logica del rock and roll, né quella dei
Beatles. E non fu, questa, l’ultima ragione per cui in Italia la vera esplosione di una musica
radicalmente diversa avvenne con i Beatles: laddove cioè il mutamento non era stato possibile
dall’interno, per la mancanza, fra l’altro di una tradizione musicale popolare realmente viva,
l’industria si occupava di coprire quello spazio in modo autoritario ed esterno; un bisogno
confuso c’era, i cantautori ne erano espressione evidente, e l’industria lo canalizzò a modo
suo, verso il prodotto che in quel momento sembrava avere tutte le carte per soddisfarlo. 81
Le novità introdotte dai cantautori non erano solo nei testi (sebbene questo fosse un aspetto
determinante), nel mutare di respiro delle storie che le loro canzoni narravano, o magari
nell’impegno ‘civile’ che esse trasmettevano: la novità risiedeva anche nella figura stessa del
cantautore come cantante-autore, come colui, cioè, che non poneva mediazioni fra creazione
ed esecuzione, e dunque sembrava fornire, anche per la semplicità della canzoni stesse, un
materiale che tendesse ad abbattere anche la barriera fra esecutore ed ascoltatore. Per
successive, e a volte puramente ideologiche, mediazioni non si trattava più della canzone
composta da abili ‘tecnici’, cantata da smaliziati ‘interpreti’ e ascoltata da un pubblico
impreparato 82 . Cominciando a rispondere alle domande del proprio pubblico, per la prima
31
volta i giovani iniziarono ad affiancare il culto per i gruppi stranieri a una crescente passione
per le novità italiane.
La ‘politica’ fa dunque il suo ingresso, in maniera rumorosa e vitale, nella scena musicale;
prende inoltre il via una nuova avventura alla scoperta delle radici, della ricerca di un
linguaggio profondamente interno alla nostra storia e finalmente non legato all’imitazione di
modelli stranieri. Questo movimento darà un importantissimo contributo alla conoscenza di
alcune delle manifestazioni della cultura popolare italiana fino ad allora trascurate o
dimenticate. In questo grande scenario di tradizioni popolari e ricerca, di impegno e creatività,
sono stati prodotti lavori decisivi per lo sviluppo della musica italiana e soprattutto del rock
che sarebbe tornato a far stridere le sue chitarre di lì a poco e che deve molto all’opera dei
cantautori per il suo imminente rinascimento. 83
32
Note:
1
Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi; Einaudi, Torino, 1989
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Dispense del corso di Discipline dello Spettacolo, a.a. 2003/2004
3
Cfr. Ricky Gianco, prefazione ad Enciclopedia del Rock Italiano, C. Rizzi (a cura di); Arcana Editrice, Roma
1993
4
Cfr. G. Castaldo, Motivi e ragioni per un jazz italiano, La musica in Italia, Savelli Roma 1978, pag. 126 e seg.
5
Cfr. AA.VV., L’Italia del Rock, a cura di G. Castaldo, Edizioni La Repubblica, Roma 1994
6
Cfr. A. Portelli in Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre), La musica in Italia, Savelli Roma
1978 pag. 60
7
Cfr. A. Portelli in Op.cit. pag 61
8
Citato in U. Eco, prefazione a Straniero, Jona, Liberovici, De Maria, Op. cit., p. 20
9
Cfr. A. Portelli in Op.cit.; p. 63 e seg.
10
Espressione con la quale si identifica un fenomeno di costume e di follia collettiva, alimentato soprattutto dai
media, che investì gli Stati Uniti nel 1964, in concomitanza con lo sbarco in terra americana dei Beatles.
11
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
12
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
13
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
14
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
15
Con questa espressione viene soventemente indicato il periodo che va dalla fine degli anni cinquanta e si
realizza nei primi anni sessanta negli Stati Uniti, dove al declino dei grandi eroi della prima epopea del
rock’n’roll si contrappose l’affermazione di cantanti di grande successo, dalla faccia pulita e meno temuti dagli
adulti, che facevano una musica innocua che della violenta forza espressiva del rock’n’roll non aveva più nulla.
Un tentativo dall’alto di soffocare i gemiti della rivoluzione del costume giovanile e di indirizzare i giovani verso
modelli più edulcorati e sostanzialmente innocui.
16
Piero Scaruffi, poeta, scrittore, ricercatore universitario, politologo, libero pensatore, tuttologo. Noto per le sue
posizioni non allineate a quella della critica specializzata e autore della Storia del Rock edita da Arcana Editrice,
Roma 1989.
17
Organo elettrico inventato nella metà degli anni trenta con lo scopo di sostituire i vecchi organi a mantice,
riproducendone il caratteristico suono.
18
Cfr. G. Pintor in Il pop: i tempi e i luoghi di una moda; La musica in Italia, Savelli Roma 1978; pag. 78 e seg.
19
Cfr. AA.VV., L’italia del Rock, a cura di Gino Castaldo, Edizioni La Repubblica, Roma 1994
20
Sulla scia dei successi di vendita e per la qualità degli strumenti realizzati la Eko otterrà durante gli anni ‘60
dalla Vox, fabbrica inglese di strumenti musicali nota per fornire l’amplificazione alla maggior parte dei gruppi
più blasonati dell’epoca tra cui i Beatles, la licenza di fabbricazione di alcuni modelli di chitarra elettrica. Oggi
questi esemplari di chitarra sono molto ricercati da amatori e collezionisti in quanto la produzione della casa
recanatese si distingueva per qualità e attenzioni dei particolari, contrapponendosi a quella delle casa madre
caratterizzata da minore prestigio e cura nella produzione
21
Cfr. AA.VV., Op. cit.
22
Cfr. AA.VV., Op. cit.
23
Cfr. C. Rizzi, a cura di, Op. cit.
24
Identifica una caratterizzazione più di nicchia del beat: non avendo molte possibilità di poter venire alla luce
come il suo fratello più melodico, è ghettizzato all’interno delle cantine, da qui il termine “garage”
25
Termine onomatopeico con il quale si identifica un congegno elettronico a pedale in grado di “processare”
segnale, modificandone la timbrica e modulandola a piacimento.
26
Congegno elettronico capace di sovraccaricare il segnale di uscita di uno strumento musicale alterandone
l’ampiezza d’onda ed, in questo caso, distorcendo il suono.
27
Espressione con la quale si identifica una moda giovanile degli anni ’50; rappresenta l’adolescente vestito con
giubbotto di pelle, jeans a tubo e ciuffo alla Elvis. Dedito alle scorribande ed al rock’n’roll, il Teddy Boy ha
sempre avuto una connotazione negativa per il suo carattere ribelle ed anticonformista venendo soventemente
identificato come malavitoso e bullo di quartiere.
28
Cfr. C. Rizzi, a cura di, Op. cit.
29
Cfr. AA.VV., Op. cit.
30
Reinterpretazione di una canzone già incisa da un altro artista.
31
Attiva dal 1933, è stata se non la prima, certo la più famosa e seguita radio privata europea. Di proprietà non di
un governo ma di finanziatori francesi, puntava al più interessante bacino di utenza del periodo tra le due guerre,
quello rappresentato dal paese più ricco d'Europa (e del mondo, allora), cioè la Gran Bretagna. Nominalmente
trasmetteva per il piccolo stato del Lussemburgo, ma invece di una stazione in onde medie a bassa potenza
2
33
utilizzava le onde lunghe e trasmettitori di grande potenza, per coprire il territorio inglese. E, ovviamente
trasmetteva in inglese. Fu fondamentale per i giovani inglesi di fine anni ’50 per scoprire il rock’n’roll e i nuovi
ritmi provenienti dall’America fortemente osteggiati dalla programmazione della ipertradizionalista BBC.
Essendo in onde lughe, radio Luxembourg era facilmente ricevibile anche in Italia, ed era quindi la radio più
popolare tra i musicisti italiani dell’epoca che volevano stare al passo con il centro del mondo musicale: gli USA
e l’Inghilterra.
32
Cfr. AA.VV., Op. cit.
33
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
34
Subculture che nascono all’interno di una cultura “dominante”, ma se ne distinguono per valori, linguaggio,
stili di vita e norme di riferimento.
35
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
36
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
37
Cfr. E. Assante e G. Castaldo, Op. cit.
38
Anelli di nastro magnetico registrati che ripetono ‘ad libitum’ lo stesso suono.
39
Mescolazione di più tracce audio in un unico master.
40
In questo caso non si trattava di suonare le note dalla fine all’inizio. Semplicemente veniva suonato l’assolo e
poi mixato facendo suonare il nastro al contrario.
41
The Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band, EMI/Parlophone (1967)
42
John Lennon
43
Cfr. A. Sessa, The Beatles: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, in www.ondarock.it
44
Studio di registrazione sito a Londra, all’epoca di proprietà della EMI Records, nel quale furono realizzate la
stragrande maggioranza delle sessions di Beatles e Pink Floyd.
45
Pink Floyd, The Piper at the gates of down, EMI/Parlophone (1967)
46
The Who, The Who Sell Out, Decca (1967)
47
Particolare effetto per chitarra prodotto dalla statunitense Dunlop consistente in un pedale capace di modularne
il suono (denominato più comunemente wha-wha).
48
Jimi Hendrix and the Experience, Are You Experienced, Polydor (1967)
49
Nell’estate del 1967 una sorta di tam-tam sotterraneo convocò a San Francisco, o meglio ad Haight Ashbury, il
quartiere hippy di San Francisco, decine di migliaia di ragazzi e ragazze, per lo più adolescenti americani della
classe media che al sogno americano di una vita linda, ordinata e senza imprevisti, preferivano un'esistenza sulla
strada e sempre in movimento, privi di certezze economiche ma "accesi" dalle vibrazioni di una stagione
musicale che per qualità e quantità non ha avuto eguali nella pur ricca storia artistica del novecento.
50
Storico locale romano fondato da Alberico Crocetta e Giancarlo Bornigia sullo stile dei club anglosassoni che,
negli anni ’60, divenne il luogo d’incontro dell’universo giovanile e della nuova musica, ospitando i concerti
degli artisti della nuova era.
51
Spettacolo multimediale fatto di immagini e musica: le pareti dei luoghi dove si tenevano gli Acid Tests erano
verniciate con il dayglo, un colore fosforescente che si illumina sotto la luce nera, all’interno del locale venivano
proiettate sotto le luci stroboscopiche immagini, diapositive e televisori a circuito chiuso e naturalmente musica.
Normalmente si partecipava agli Acid Tests sotto l’effetto di LSD.
52
Pittore ed artista, nato ad Homs, in Libia, nel 1934.
53
Artista e maggiore esponente della cosiddetta Pop Art, nel 1967 produsse l’album di esordio (The Velvet
Underground & Nico) di una band newyorkese d’ avanguardia, i Velvet Underground di Lou Reed, disegnando
la copertina dell’ ellepi (la celebre banana). Il disco non ebbe il successo sperato ma nel corso degli anni venne
rivalutato ed è tuttora considerato tra le pietre miliari della musica rock.
54
Spettacoli ed esibizioni che realizzavano nello spettatore la partecipazione sincretica di tutti i sensi: quello
visivo, tattile, uditivo e alle volte anche olfattivo.
55
Organizzatore italiano che prese i contatti con Brian Epstein, manager dei Beatles, al fine di portarli
in Italia per una serie di concerti a Milano, Genova e Roma
56
Cfr. AA.VV., Op. cit.
57
Cfr. AA.VV., Op. cit.
58
Cfr. AA.VV., Op. cit.
59
Particolare modello di chitarra elettrica, rinomata per la timbrica particolarmente squillante.
60
Cfr. AA.VV., Op. cit.
61
Francesco Guccini, Folk Beat n° 1, EMI (1967)
62
Cfr. AA.VV., Op. cit.
63
Pseudonimo di Giulio Rapetti, autore e paroliere.
64
Cfr.AA.VV., Op. cit.
34
65
Cfr. Michele L. Straniero, La musica leggera e il mito del successo. Ovvero canta che ti passa; La musica in
Italia, Savelli Roma 1978; p. 194 e seg.
66
Cfr. Th. W. Adorno, Tipi di comportamento musicale
66
di Berretta/Del Prete
67
Cfr. M. L. Straniero, Op. cit. p. 179 e seg.
68
Cfr. M. L. Straniero, Op. cit. p. 183 e seg.
69
Cfr. Paul Ginsborg; Op. cit
70
Cfr. Paul Ginsborg; Op. cit.
71
Cfr. Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Firenze 1967, pp. 112-116
72
Cfr. G. Viale, Contro l’università, in L. Baranelli e M.G. Cerchi (a cura di), Quaderni piacentini. Antologia,
1962-68, Milano 1977, p. 429
73
Località in cui è sita la facoltà di Architettura dell’Università di Roma.
74
Cfr. P. Ginsborg; Op. cit.
75
Derivato dell'acido naftenico o naftoico e dall'acido palmitico (estratto dalle noci di cocco). E' prodotto dalla
saponificazione tramite alluminio dei due acidi, precipitano saponi di alluminio che vengono usati per prepare un
gel altamente infiammabile, E' usato per costruire bombe, mine e combustibile per i lanciafiamme.
76
Movimento sviluppatosi negli Stati Uniti nel corso degli anni sessanta contro la discriminazione razziale e per
la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione dei cittadini di colore.
77
‘Federazione Giovani Comunisti Italiani’. Espressione giovanile del PCI.
78
Cfr. P. Ginsborg, Op. cit.
79
Cfr. P. Ginsborg, Op. cit.
80
Cfr. G. Pintor in Op. cit. p. 74 e seg.
81
Cfr. G. Pintor in Op. cit. p. 77
82
Cfr. G. Pintor in Op. cit p. 76 e seg.
83
Cfr. AA.VV., Op. cit.
35
1970-1976: l’età d’oro del rock
italiano
2.1
L’Italia tra recessione economica, strategia
della tensione e tentativi di involuzione
democratica
Gli anni settanta si caratterizzarono già al proprio inizio per le sfavorevoli congiunture
nazionali ed internazionali: quasi tutti i paesi a capitalismo avanzato conobbero una forte crisi
economica e l’Italia, appena diventata una delle maggiori potenze industriali al mondo, si
trovò esposta ai freddi venti della recessione. La crisi petrolifera giocò un ruolo decisivo nel
favorire la recessione del 1974, segnando così la fine del lungo periodo di prosperità del
commercio mondiale e l’inizio di un decennio di stagnazione e diffusa disoccupazione.
I referendum per il divorzio (1974) e quello per l’aborto (1976), quest’ultimo impedito
dalle elezioni politiche indette per il giugno dello stesso anno, misero al centro dell’agenda
politica e dei cittadini due temi cruciali per la modernizzazione di uno Stato e videro la
partecipazione massiccia di gruppi di pressione provenienti ‘dal basso’. Banchetti informativi,
raccolta di firme, mobilitazioni e manifestazioni trasformarono i temi referendari in importanti
questioni sui diritti civili.
Ma il maggiore motivo dell’inasprirsi della lotta politica in terreno extra-istituzionale è
da attribuirsi alla cosiddetta ‘strategia della tensione’, impiegata con successo dai colonnelli in
Grecia e dal Generale Pinochet in Cile proprio in quegli anni. Una serie di attentati e stragi
sanguinarie vennero perpetrate in Italia già dalla fine del 1969. Le autorità attribuirono la
paternità di questi eventi ai gruppi anarchici e rivoluzionari insabbiando, quando possibile, la
verità che venne però portata a galla da alcune ottime inchieste giornalistiche che gettavano
una nuova luce sugli accadimenti, convincendo l’opinione pubblica che si stava tramando un
complotto ai danni della democrazia: le stragi, pilotate da gruppi di estrema destra e settori
deviati dei servizi segreti, avevano lo scopo di far dilagare panico e terrore, creando le
premesse per un colpo di Stato, che venne tentato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 da un
ex repubblichino di Salò, il principe Junio Valerio Borghese, ma tale tentativo si risolse in una
farsesca occupazione di poche ore del Ministero dell’Interno da parte di guardie forestali in
bicicletta. La risposta delle istituzioni non fu dura come avrebbe dovuto: la cronaca di quella
notte venne alla luce solo tre mesi dopo, minimizzata dalla classe politica, ed i responsabili
furono prosciolti o leggermente sanzionati.
Un’ altra causa di deterioramento dei rapporti tra società civile e società politica nacque
in seno alla sinistra: nel 1973 Enrico Berlinguer lanciò dalle pagine di “Rinascita” l’idea del
‘compromesso storico’. Il disegno del segretario comunista aveva il malcelato intento di
risolvere l’isolamento del suo partito attraverso “un’alleanza e una strategia comune con i
cattolici al fine di trovare un condiviso codice morale ed etico su cui porre le basi per la
salvezza politica e sociale dell’Italia” 1 e, allo stesso tempo, di acquisire un potere ed un peso
maggiore all’interno dell’arena politica italiana. Agli occhi della Nuova Sinistra un’ alleanza
36
col nemico storico era un compromesso inaccettabile: pertanto, al PCI e alla sua classe
dirigente, oltre alle già energiche denunce di immobilismo, non furono risparmiate accuse di
tradimento e di integrazione nel sistema. Il compromesso storico, sebbene avesse il merito di
allontanare tentazioni autoritarie e salvaguardare la democrazia italiana, fu tra le cause
principali dello scollamento tra società civile e politica; non volendo o non sapendo rispondere
alle richieste ‘della base’, esso incentivò l’organizzazione e la proliferazione di soggetti politici
extra-parlamentari.
2.2
Progettualità e connotazioni
sfaccettature del Movimento
ideologiche:
le
Benché sia difficile identificare in un sol senso un fenomeno sociale di così vaste
proporzioni, è probabilmente corretto connotare il Movimento degli anni ‘70 come
essenzialmente marxista, essendo state in buona sostanza abbandonate le posizioni
sessantottine dei socialisti utopisti, quelle fourierieriste 2 e ‘dell’ immaginazione al potere’.
“L’uomo ad una dimensione” di Herbert Marcuse 3 gli scritti di Mao e i testi del giovane Marx
furono tra i libri maggiormente letti in quel periodo. Gli studenti italiani si preoccuparono,
soprattutto, di tradurre la coscienza in azione, organizzazione e lotta 4 . Contava agire e mettere
in comune le risorse al fine di un’azione collettiva; questa è la linea di pensiero che permeò la
lotta politica per tutti gli anni settanta. L’azione si concretizzò con le lotte operaie del ’68 e
’69: gli studenti abbandonarono le università e cominciarono a picchettare i cancelli delle
fabbriche,cercando di porre le basi per un nuovo partito rivoluzionario che potesse strappare al
PCI il consenso della classe operaia.
D’altronde gli studenti non erano così utopisti da credere che avrebbero cambiato il
mondo da soli, l’Europa aveva visto nascere il socialismo e, a differenza dei ‘cugini
americani’, non pensarono mai di essere la sola classe veramente rivoluzionaria: fin dall’inizio
ebbero chiaro che avrebbero ottenuto il cambiamento da loro invocato solo avendo al proprio
fianco una classe operaia forte e convinta della necessità e percorribilità di tale progetto. Sotto
questo punto di vista, essi si differenziarono notevolmente da gran parte dei movimenti
studenteschi europei e soprattutto da quello tedesco, che riteneva la classe operaia
irrimediabilmente integrata nel sistema, e dalle stesse tesi marcusiane che riconoscevano ai soli
gruppi sociali marginali un carattere fortemente rivoluzionario. Gli studenti italiani si erano
dunque dati il compito di ‘andare verso il popolo’ al fine di realizzare un profondo mutamento
sociale.
Molti militanti italiani dell’estrema sinistra videro negli avvenimenti del ‘maggio
francese’ 5 di pochi anni prima l’inizio di una rivoluzione, subito fallita per mancanza di
coordinamento e di una strategia politica che non fosse quella, ultraprudente, del Partito
Comunista francese. I rivoluzionari italiani non volevano compiere lo stesso errore, e
sottolinearono la necessità di una maggiore organizzazione, il bisogno di ideologia, disciplina e
strategie rivoluzionarie. Un impressionante numero di gruppi vide la luce in questi mesi ed il
leninismo ne divenne il modello organizzativo dominante. C’erano i maoisti di ‘Servire il
Popolo’, i quali si distinguevano per la loro attenzione particolare verso i contadini, la loro
dedizione fanatica e la loro rigida disciplina; ‘Avanguardia Operaia’, localizzata inizialmente a
Milano, un’organizzazione leninista ortodossa, antistalinista ma filomaoista; ‘Lotta Continua’ 6
libertaria, irriverente e caotica, il gruppo più innovatore; ‘Potere Operaio’, che raccoglieva la
37
maggior parte delle adesioni a Torino ed a Porto Marghera, convinto della propria superiorità e
dell’importanza primaria di un’avanguardia esterna di tipo leninista; infine, ‘Il Manifesto’, un
gruppo fondato da alcuni intellettuali non più giovanissimi che avevano rotto da sinistra con il
Partito Comunista e che avrebbero più tardi fondato un quotidiano dal medesimo titolo. 7
L’ultimo dei movimenti collettivi che si sviluppò dei primi anni ’70 fu quello femminista.
Erano per lo più piccoli gruppi che si formavano nelle grandi città ed erano composti da donne
della classe media, influenzati dalla psicanalisi e dalla teoria e letteratura femminista di
tradizione americana, reclamavano non tanto la parità con gli uomini ma la definizione di una
vera e propria sfera dei diritti delle donne. Proposero anche una più generale idea politica che
si fondava nella rivoluzione dei rapporti quotidiani e ‘del privato’ in antitesi alla pratica dei
gruppi rivoluzionari, dove le relazioni interpersonali erano subordinate al più importante
obiettivo di una rivoluzione finale. L’enfasi posta dai movimenti femministi sulla non violenza
e su forme organizzative antiautoritarie fu un fenomeno straordinariamente nuovo ed in netto
contrasto con i vecchi modelli sia della sinistra tradizionale, sia dei gruppi extraparlamentari.
Presi nel loro insieme, i gruppi rivoluzionari italiani costituivano la più numerosa forza di
Nuova Sinistra a livello europeo. Seppero mobilitare decine di migliaia di militanti in un
attivismo frenetico e ossessionante, con l’obiettivo di creare una vasta coscienza
anticapitalistica e rivoluzionaria tra la classe operaia e studentesca italiani.
2.3
Dall’utopia alla prassi: forme di socialità
alternativa e ‘totale’ rispetto ai modelli
borghesi
Gli anni ’70 vedono tradursi in pratica le suggestioni e le idee che si erano profilate
appena pochi anni prima. In controtendenza con i loro colleghi della ‘New Left’ americana
che, nello stesso periodo, vedevano il loro movimento fortemente ridimensionato quando non
del tutto estinto, i giovani italiani sperimentano le comuni, i modelli di vita comunitaria, il
lavoro di gruppo, la sperimentazione di forme d’arte, cosiddette, ‘totali’ perché caratterizzate
dalla partecipazioni di molteplici soggetti. A spingerli verso queste inedite forme di
convivenza e coabitazione contribuiscono in maniera determinante le condizioni sociali
dell’Italia di quel periodo ed in particolar modo la diffusa disoccupazione giovanile, un costo
degli affitti proibitivo per un singolo individuo di reddito medio-basso, un sistema di
istruzione lento e fallace nei suoi intenti formativi e l’emancipazione da un’istituzione
familiare rigida e chiusa.
La famiglia in Italia, come precedentemente accennato, era assai poco orientata verso
valori liberali (in senso americano) e questo per tutta una serie di motivi legati allo sviluppo
del capitalismo e della società civile dopo l’unificazione. Prevaleva il tipo di famiglia
tradizionalistica, incapace di accettare del tutto senza riserve i modelli di prestazione e
consumo capitalistici, o quello della famiglia orientata senza resistenze allo stile di vita
proposto dalla società dei consumi di massa. Un fatto rilevante nella socializzazione proveniva
anche dalla sempre più prolungata dipendenza economica dalla famiglia, con l’estendersi della
scolarità e la coabitazione del giovane coi genitori anche oltre l’adolescenza. La dipendenza
materiale e psicologica dalla famiglia produceva situazioni fortemente frustranti e bloccanti in
cui il conflitto era talmente privatizzato da condurre più ad esplosioni di rabbia impotente che
ad una traduzione del senso e dei contenuti di quel conflitto in motivi d’interesse politico.
38
Infine la scuola non riusciva a trasmettere nulla in termini di valori e contenuti culturali,
puntando principalmente a produrre apatia, conformismo ed adattamento passivo negli allievi.
Come afferma Carlo Donolo, “Lo sfasciamento della scuola, esistente quando avviene non
come risultato di processi politici consapevoli e programmati, ma come risposta strategica dei
detentori del potere per assorbire i colpi ella contestazione, non facilita affatto una
politicizzazione delle masse studentesche adeguata al livello delle contraddizioni da loro
subite; contribuisce anzi in modo rilevante a creare quel potenziale di frustrazioni e
deformazioni psicologiche che poi ostacolano un lavoro politico di gruppo creativo ed
emancipativo” 8 .
Con queste premesse il giovane italiano cerca la solidarietà negata dalla famiglia nel
gruppo dei pari e specialmente in quello politico. Una fonte primaria di soddisfazione
nell’impegno radicale deriva da un senso di contemporaneità, di sentirsi in moto insieme ad
altri e di adesione a un’ondata di radicalismo mobile e crescente. Impegnarsi nel Movimento
vuol dire stare in compagnia con altri, non essere soli, far parte di un gruppo significativo.
Essendo il radicale un membro di una piccola minoranza politica, di continuo egli ricorda, e
gli vien fatto ricordare dagli altri, di non essere solo 9 .
Un’altra caratteristica significativa è il rifiuto della vita borghese convenzionale e il
desiderio di delineare un’alternativa, non necessariamente connotata in senso ideologico, al
capitalismo e all’economia di mercato. Un’alternativa alla vita professionale è un lavoro
organizzativo di qualche genere, sia che si tratti di creare comunità locali o di dar vita a
strutture di attività sociale. I giovani inseriti all’interno dei gruppi del Movimento riescono a
tollerare l’incertezza e l’ambiguità del futuro, mostrano pochissima ansia e apprensione per
quel che faranno un domani, sicurezza senz’altro riferibile all’adesione pressoché totale ad un
processo sociale, politico e storico di cui si intendono autori ed attori.
I giovani che sperimentano nuove forme di socialità, quindi, in ultima istanza, cercano
nuove forme di vita adulta, in cui l’intransigente dedizione al miglioramento della società
possa continuare in un lavoro adulto che non esiga una cieca acquiescenza al sistema
costituito, ma permetta un continuo impegno nella trasformazione della società; un nuovo
orientamento per il futuro che eviti dei compiti fissi e le vite definite del passato a favore
dell’apertura, della fluidità e dell’incertezza; nuove strade di sviluppo personale in cui possano
mantenere per tutta la vita l’apertura giovanile, la sua fluidità, maturazione e cambiamento;
nuovi valori di vita che riempiano il vuoto spirituale creato dal benessere materiale; nuovi stili
di interazione tra gli uomini, contro la disumanizzazione e l’impersonalità dei rapporti tra
questi; nuovi tipi di organizzazione sociale che cerchino di attivizzare, umanizzare e rafforzare
i rapporti tra le persone; ed infine tattiche di azione politica, che accrescano la consapevolezza
di quelli che vi partecipano e di quelli che ne sono influenzati 10 .
2.4 Il rock approfondisce le sue suggestioni ‘colte’:
il progressive rock
Ancora una volta l’Italia deve andare a ricercare i suoi modelli di ispirazione nella
musica di oltre confine, ma ‘l’asse portante’ del rock muta ancora la sua collocazione,
portandosi nuovamente nel vecchio continente: in America i fasti della California psichedelica
e del Movimento stavano lasciando il posto ad un vuoto desolato e malinconico mentre il
ruolo di primo attore in ambito musicale tornava nuovamente all’Inghilterra che proponeva
39
una seconda ‘British Invasion’ di prodotti anglosassoni. Morto il beat, morta la psichedelica, il
genere che caratterizzerà buona parte del decennio è un fenomeno generalmente europeo ed in
particolare inglese: il ‘progressive’. Il nuovo genere riuniva in sè arte, letteratura, conoscenza
dei classici e impegno intellettuale. Non era certamente musica di facile ascolto, nè tantomeno
d'immediato effetto e necessitava, per essere apprezzata, di reiterate sedute d'ascolto e di una
spiccata sensibilità musicale, essendo indirizzata ad un pubblico d'intenditori musicofili
d'estrazione intellettuale 11 . I principali esponenti di questa avanguardia musicale rispondevano
ai nomi di Nice, Moody Blues, Yes, Gentle Giant, Emerson Lake & Palmer, King Crimson,
Genesis, Jethro Tull, Van Der Graaf Generator.
Gli elementi di fondo del progressive erano due: l'introduzione di moduli presi dalla
musica cosiddetta classica (suite, overture, etc.) e la scoperta della nuova strumentazione
elettronica (moog 12 , sintetizzatori e similari) che per la prima volta mettevano in crisi il
dominio della chitarra elettrica a favore delle tastiere permettendo, peraltro, un'espansione
orchestrale del classico gruppo rock. Il progressive era dunque un’evoluzione del rock
psichedelico di fine anni sessanta; proprio da quest’ultimo, infatti, ereditava il rifiuto
programmatico della ‘forma canzone’, della riduzione delle forme espressive del rock
nell'ambito della rigidità strutturale del ritornello come fulcro dell'invenzione musicale
lasciandosi aperta la possibilità di prevedere, nell'ambito del dispiegarsi di tale invenzione, la
creazione di pezzi molto lunghi, anche suddivisi in sottosezioni, con l'alternarsi nello stesso
brano di situazioni musicali molto diverse.
In antitesi con il passato, si superava (seppur solo temporaneamente) la classica
triangolazione chitarra-basso-batteria con l’utilizzo di strumentazioni molto allargate, con il
massiccio utilizzo dei nuovi mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia quali, oltre
al già citato sintetizzatore, il mellotron 13 e strumenti tradizionali a fiato, sezioni di archi,
quando non proprio vere e proprie orchestre. La strutturazione delle canzoni (anche se questo
termine mal si presta a definire questo genere) era ritmicamente e melodicamente complessa
con marcato sfruttamento di situazioni armoniche mutuate dalla musica classica ma spesso
anche dal jazz, con il superamento parziale delle radici blues, fino ad allora, imprescindibili
nel rock. 14
2.5
Originalità delle esperienze “prog” italiane
“All'inizio degli anni '70, la musica italiana avrebbe manifestato una maturita' senza
precedenti, auto-promuovendosi da una fascia ideologicamente e indicativamente
‘adolescenziale’ a una piu' matura, articolata e ‘progressista’. “Per la prima volta il ‘Bel
Paese’ avrebbe vantato una propria ‘specie’ figlia di un ecosistema socio-musical-politico
dalla sorprendente (e meritata) popolarità, una generazione di alchimisti prestati alla musica in
grado perfettamente di competere, in termini di originalità e ardite composizioni
contraddistinte da elevata statura qualitativa, con i piu' mass-mediatizzati, iper-celebrati
‘colleghi’ d'oltre Manica dove tutto e il contrario di tutto era lecito, per cui il rapporto sincero
che tali innovatori ebbero verso il concetto estremo di improvvisazione e scomposizione di
melodie in favore di suite dalla bibliche proporzioni appariva piu' che giustificato e legittimo,
in considerazione di una nazione solitamente repressa, musicalmente, dall'egemonia,
schiavizzante e indigeribile, del mercato anglo-americano (come il fenomeno delle cover degli
anni sessanta aveva portato alla luce)” 15 .
40
Il rock, in Italia, si caratterizzò da una diversa funzione, ma anche da un diverso
linguaggio, una diversa nascita, una diversa vita e un diverso sviluppo rispetto ai modelli
internazionali. Il nuovo rock fu in Italia musica di massa e non musica popolare, esso infatti
nasceva altrove e non nelle masse popolari, arrivando ad esse come prodotto da consumare.
Ma era proprio nella masse che esso riacquisiva una funzione che è propria della musica
popolare: la funzione rituale. Intendendo, con il termine rituale, che il suo significato culturale
è tutt’uno con il modo in cui è vissuto: questo è, in sintesi, il valore socializzante del rock.
Paradossalmente in Italia la nuova musica riacquistò, grazie alla sua funzione rituale, il
carattere popolare che aveva perso e che nello stesso periodo non aveva più in Usa o in Gran
Bretagna dov’era ormai stato assimilato a puro fenomeno di consumo. 16
Il messaggio di amore e pace della west coast non corrispondeva più al nostro: la pace
qui da noi doveva essere ancora conquistata perché negata continuamente. In quei brani non
c’era ombra di questa lotta: pace e amore erano posti come dati di fatto inseriti in un reale
‘torpore’ melodico ed armonico 17 . Le peculiarità sopra accennate del rock progressivo si
incastravano meravigliosamente nella concezione della musica che stava prendendo piede in
Italia, ed anche la fruizione della stessa stava rapidamente cambiando. Il 45 giri vedeva
finalmente minacciata la sua incontrastata leadership di vendite nel mercato discografico
italiano: infatti gli album di rock progressivo non avevano quasi mai estratti dei singoli da
pubblicare come 45 giri in quanto la lunghezza dei pezzi e delle suite superavano spesso i
dieci minuti, troppi da contenere nel supporto che aveva rivoluzionato la musica leggera in
tutto il mondo appena dieci anni prima. Essere costretti ad acquistare l’intero lp 18 comportava
un ascolto integrale del lavoro, non si subiva più la selezione effettuata dai professionisti della
discografia secondo parametri di successo e vendite. Questo spiega facilmente perché la
sensibilità musicale e l’alfabetizzazione rock in Italia subirono un ritardo non indifferente:
molti dei cosiddetti capolavori dei ‘sixties’ vennero conosciuti per la prima volta solo
all’inizio degli anni settanta. Il nostro paese si trovò ad affrontare un ‘overload’ musicale
senza precedenti: alla tardiva scoperta dei capolavori del pop-rock e della psichedelia si
sovrapponeva l’invasione del progressive inglese; tutto questo ebbe non poche ripercussioni
sulla nuova corrente musicale in via di compimento.
E dal punto di vista dei musicisti? Si passò dal suonare il sabato sera nelle balere a prove
in cantina di 12 ore al giorno, il folklore del beat e dei ‘senz’arte’ lasciava il posto a musicisti
preparati ed in continua evoluzione, molti dei quali provenienti dalle accademie; non era più
ammesso improvvisarsi, l’era del ‘flower power’ era terminata anche da noi, abiti sgargianti e
presenze sceniche non potevano più bastare ad un pubblico esigente e sempre più erudito. “La
grande voglia di pinne fucili ed occhiali, di sapori di mare e granelli di sabbia aveva ceduto il
posto a fantasie e tensioni cariche di scintille rivoluzionarie. I musicisti inseguivano l’utopia
di un rock italiano che potesse inserirsi a buon diritto nel panorama musicale mondiale.
L’Italia, considerata una specie di periferia dell’impero, era fortemente influenzata da modelli
d’importazione, la melodica tradizione della nostra canzone faceva a pugni con l’onda nuova.
Tutto ciò rendeva difficile la nascita della ‘cosa rock’ e la sua esportazione persino proibitiva
per questioni di lingua oltre che di linguaggio musicale. Ma ovunque si respirava la
sensazione che i tempi fossero maturi per provarci e ciò era ben più forte delle disillusioni” 19 .
Inoltre la fruizione musicale per la prima volta abbandonava le balere per trovare la sua
più naturale collocazione nella dimensione del concerto: le sale da ballo avevano un giro di
band locali che rallegravano le serate eseguendo per lo più i successi delle hit parade e una
serie di classici per tutte le stagioni. Tre ‘veloci’ e tre ‘lenti’ erano lo schema classico per non
far perdere al locale le consumazioni al bar. Fare del rock era considerato tabù dai gestori dei
locali perché non dava sufficienti garanzie ai clienti dediti al ballo. Per un gruppo che si
41
considerava ‘progressivo’ era veramente difficile lavorare; al primo accenno virtuosistico che
disturbava i ballerini sulla pista, la band veniva richiamata all’ordine e rischiava di essere
protestata. Nei concerti invece gli assolo cominciarono a dilatarsi ed i brani a diventare più
lunghi e creativi, dando il via alla moda delle performances soliste. Il pubblico poteva vivere
in quegli ‘interminabili’ minuti una emozionante esperienza carica di immaginazione. 20
2.6 I gruppi “prog” italiani: apertura al nuovo e
rivendicazione
della
propria
identità
‘mediterranea’
Sotto queste influenze le band italiane cominciarono ad affrancarsi definitivamente dal
beat, cercando di trovare uno spazio di autonomia dai modelli imperanti del rock
d’oltremanica e scendendo nuovamente in strada con una musica fatta di impegno, elettricità,
avanguardia musicale, ricerca e controinformazione. Si assistette ad una brusca e radicale
apertura della musica verso le più diverse direzioni e ad una maggiore e più diffuso desiderio
di cercare nuove strade, nuovi suoni, perfino nuove parole per esprimere il cambiamento.
Inoltre la musica italiana si distaccò in modo netto ed inequivocabile dalla canzone
commerciale: diventava un enorme laboratorio dove regnava la fantasia e la ricerca di
diversificazione 21 .
I concerti, i festival sempre più frequenti e frequentati, la condizione di ‘autarchia
musicale italiana’ che verranno meglio affrontati nei paragrafi successivi e le pressioni esterne
della società ebbero il merito di dare spazio a queste nuove formazioni, diventando una
palestra per decine di gruppi: il nuovo rock arricchiva il suo lessico base di significati e
tematiche che erano parte del patrimonio del movimento giovanile. La stretta adesione tra
musica e politica sarà però un’arma a doppio taglio; se da un lato questa agevolerà in maniera
determinante la socializzazione tra Movimento e musica, dall’altra ne segnerà la fine
trascinandola con sé nell’oblio del fallimento.
Se è opportuno dare una data per la nascita di un vero rock italiano, allora questa
potrebbe essere il 1971, quando Le Orme pubblicano “Collage”. Il disco risente molto del rock
classicheggiante inglese dei vari Yes e EL&P 22 tanto che l’organista Toni Pagliuca si recò
personalmente a Londra per conoscere i migliori tastieristi inglesi del momento 23 e tornando
con moltissime idee. L’album, accolto con un grandissimo favore di pubblico proponeva un
sound che tentava di fondere scuola anglosassone con melodia mediterranea, una vera e
propria novità per l’Italia. “Collage” sarà il capostipite di uno stile musicale a cui si rifaranno
molti altri gruppi italiani dopo il 1971; il conseguente successo commerciale aprirà la strada
dei contratti con le grandi case discografiche a tutta la nuova generazione delle band del rock
italiano.
E’ nel 1972 però che si assiste all’esplosione del ‘nuovo rock’: benché fosse già sulle
scene da un paio d’anni, sale alla ribalta Il Banco del Mutuo Soccorso che pubblica l’album
omonimo. Elemento caratterizzante di questo lavoro è la scelta di un linguaggio aulico e
letterario e l’esplicitazione dei caratteri salienti della musica della band romana con un
alternarsi di ritmi a volte selvaggi (ma con ascendenti non nell’hard rock, bensì in alcuni
momenti illuminati della musica classica del ‘900) e momenti di lirismo ben resi dalla
particolare voce di Francesco Di Giacomo, uso ampio di tastiere - grazie alla presenza di una
42
coppia perfettamente complementare di tastieristi: i fratelli Nocenzi - dalla ricchezza di timbri
e di dinamica musicale. Le tematiche affrontate sono riferibili al contesto letterario con un
recitativo iniziale che evoca l’Ariosto (avvicinandoli alle visioni favoleggianti degli inglesi
Genesis) ma anche a questioni più attuali e scottanti quali la condanna della guerra. Sempre
nel 1972 vede la luce un album importantissimo per tutto il pop-rock italiano, “Arbeit Macht
Frei” 24 disco d’esordio degli Area, gruppo formatosi nell’éntourage milanese che, data la sua
rilevanza, sarà approfondito successivamente assieme alla figura del suo leggendario
frontman, Demetrio Stratos. “Arbeit Macht Frei” è un album che suona indubbiamente
progressivo, la voce araba che apre il disco vuole immediatamente fugare ogni dubbio e
caratterizzarsi come produzione autonoma, a sé stante, indipendente e slegata da qualsiasi
modello importato. Anzi, vuole sancire la sua appartenenza al contesto mediterraneo e
mediorientale (il cantante Demetrio Stratos era greco ma nato ad Alessandria d’Egitto). Il
progetto Area che aveva in mente Stratos era una risposta non autarchica ma culturalmente
autonoma a questa operazione di colonialismo culturale che proveniva dall’estero e che veniva
alimentata e aiutata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla critica e dall’industria italiana.
Ancora nello stesso anno si assistette all’esordio di un altro gruppo che segnerà
profondamente la musica degli anni ’70 ed anche, con alterne fortune, dei decenni succesivi,
la Premiata Forneria Marconi, probabilmente il gruppo italiano più ‘internazionale’ (intesa
come capacità di interessare e farsi apprezzare anche da un pubblico non italiano) che
esordisce con l’album “Storia di un minuto”. Il disco ricalca su vinile la grande capacità
esecutiva e tecnica dei singoli membri, verrà definito come ‘un rock con venature classiche
condito da influenze mediterranee’ o, più semplicemente, ‘spaghetti rock’ 25 . Nel giro di pochi
mesi il gruppo raggiungerà una vastissima popolarità che lo porterà a tentare la scalata al
gotha del rock inglese e americano.
Intorno al 1973 e per i due anni successivi la musica rock italiana giunse al suo massimo
fulgore, raggiungendo la più ampia autonomia dai modelli angloamericani. Oltre ai già citati
gruppi, degni di menzione furono anche gli Acqua Fragile dai raffinati impasti vocali, le
influenze hendrixiane dei Garybaldi, i New Trolls protagonisti di uno dei migliori esempi
assoluti di contaminazione tra musica classica e moderna (Concerto Grosso n°1), il folk-rock
politico degli Stormy Six, il jazz rock degli Arti e Mestieri, il rock quasi hard del Balletto di
Bronzo, il jazz di Il Perigeo, la teatralità degli Osanna ed ancora i Napoli Centrale, Museo
Rosenbach, Formula 3, Delirium e molti altri.
Nessuno ormai nutriva più alcun dubbio sull’identità di questa corrente musicale di
ricerca e sperimentazione. I gruppi stranieri erano ovviamente molto seguiti, ma non era più
riscontrabile quell’abissale sproporzione di appena pochi anni prima. L’Italia giovanile aveva
finalmente la propria musica e si rispecchiava completamente in essa. 26
2.7
Il caso degli Area, “international popular group”
Gli Area sono stati la formazione più importante del rock italiano dei ’70. Hanno
rappresentato non solo uno straordinario ed irripetibile fenomeno musicale e sociale ma anche
la massima espressione e incarnazione di utopie e desideri della generazione della
contestazione fino agli anni di piombo. Il nucleo originario prese forma quando Giulio
Capiozzo, già batterista nel gruppo di Demetrio Stratos, incontrò il tastierista Leandro
Gaetano e il bassista Patrick Djivas, entrambi al servizio di Lucio Dalla. Per qualche tempo i
43
tre accompagnarono Stratos in un repertorio di canzoni rock classiche gettando nel contempo
le basi per lo sviluppo di nuove espressioni sonore e coinvolgendo presto altri musicisti.
Entrati in contatto con il geniale talent scout Gianni Sassi (ribattezzato il sesto Area e vero e
proprio deus ex machina del gruppo), il quale si assunse l’onere di curare l’immagine degli
stessi nonché di scrivere molti dei testi sotto lo pseudonimo di Frankenstein, il gruppo si
ritrovò in un cascinale della passa padana per registrare il primo album, “Arbeit Macht Frei”,
realizzato da una formazione che comprendeva Stratos alla voce, organo hammond e steel
drum, Capiozzo alla batteria e percussioni, il flautista Victor Eduard Busnello, Patrizio
Fariselli al pianoforte, tastiere e sintetizzatori A.R.P., Djivas al basso e Johnny Lambizzi alla
chitarra: quest’ultimo, però, lasciò subito il posto a Paolo Tofani, veterano della scena beat
italiana, appena rientrato dall’Inghilterra con un sintetizzatore VCS 3 e con idee rivoluzionarie
di elettronica applicate alla musica. Il nome Area prese lo spunto da una definizione di
Ginsberg: “Allargare l’area della coscienza”.
“Arbeit Macht Frei” è stato un album storico per il rock italiano, rimasto troppo a lungo
ancorato a certe forme-canzone piuttosto canoniche e tradizionali. Sin dalle prime tracce la
formula si rivelò esplosiva e di alto potenziale: una voce recitante in arabo (“rubata in un
museo del Cairo” spiegano le note) introduceva quello che sarebbe stato il ‘pezzo forte’ del
gruppo, “Luglio, agosto, settembre (nero)”, la cui originale stesura andava al di là di un rock
nervoso e graffiante per proporsi come manifesto della realtà politica e sociale del post ’68
italiano, e della contestazione, anche violenta, delle giovani leve studentesche. Lo stile
musicale si rifaceva ad un certo jazz rock d’assalto per abbracciare improvvisazione e
sperimentazione; quello politico si collocava nell’area della protesta extraparlamentare, senza
nascondere simpatie per certo ‘folklore’ filoarabo e per la protesta armata. A questo proposito,
il numero 1 di ‘Gong’ del 1975 riportava una dichiarazione di Capiozzo: “Visto che la
rivoluzione non è poi troppo lontana,vorremmo dare il nostro contributo alla rivoluzione”.
Benché a posteriori ritenuto un caposaldo della discografia italiana, il primo album fu
accolto freddamente dalla critica, episodio, questo, assai chiarificatore del clima che si viveva
all’epoca: se da parte del giornalismo istituzionale era facilmente prevedibile la stroncatura
per una musica fortemente trasgressiva e poco rispettosa della struttura convenzionale, il
giornalismo di estrazione ‘movimentista’, accecato dalla luce della canzone di lotta, plaudeva
all’impegno politico esplicitato dal gruppo ma rimaneva scettico sui mezzi utilizzati nella
trasmissione del messaggio. La band, idolatrata nei raduni da migliaia di persone, incassava
una risicata sufficienza dalle colonne di ‘Muzak’ di Giaime Pintor 27 : ciò era il segno tangibile
della profonda scollatura tra base e ‘dirigenza’ che avrebbe segnato la fine del Movimento. Il
problema riguardava unicamente il linguaggio, sia dei testi sia musicale, ritenuti troppo
d’avanguardia per una corretta comprensione da parte delle masse proletarie. L’estrema abilità
nello scomporre e analizzare minuziosamente la musica da parte di questi rigidi cronisti
musicali, prese con gli Area un ‘buco’ colossale, lasciando così trapelare non solo la fallacità
di certe recensioni, ma soprattutto la pretestuosità di talune argomentazioni. La canzone che
chiude “Arbeit Macht Frei”, “L’abbattimento dello Zeppelin”, critica e parafrasi del modello
americano e allo stesso tempo del gruppo rock americano, passò, difatti, completamente
inosservata. Il testo di questa canzone era intessuto programmaticamente di parole
onomatopeiche per arrivare a un suono che ricordasse, nella sua esplicitazione, il concetto
della parola. Nel mettere a punto queste parole, Gianni Sassi (autore delle stesse) e gli Area
cominciarono ad entrare in una problematica in cui l’onomatopea si rivelava come l’aspetto
più banale: si cominciò a capire che la scomposizione della parola e l’uso articolato del suono
all’interno della stessa ne modificavano anche il significato, in alcuni casi, e che comunque
tale indagine ‘fonetica’ poteva aprire dei vastissimi e suggestivi orizzonti. 28
44
Le straordinarie potenzialità espressive di quella musica, senza precedenti nel panorama
musicale italiano di sempre, trovarono una collocazione ancora più riuscita tra i solchi di
“Radiation Caution Area” (1974), i cui brani mettevano in risalto le ambizioni dei cinque
componenti: avanguardia e sperimentazione erano portati ai limiti estremi in un pezzo
sconcertante come “Lobotomia”, polemica allegoria sulle quotidiane operazioni al cervello
alle quali siamo involontariamente sottoposti e che, trasferita sul palcoscenico, era l’occasione
per un curioso coinvolgimento del pubblico così come avvenne durante l’esibizione al Festival
del Proletariato Giovanile organizzato da Re Nudo a Parco Lambro nel 1976: Patrizio Fariselli
scese tra il pubblico con dei cavi scoperti collegati al sintetizzatore, gli spettatori toccarono i
cavi e si presero per mano chiudendo un circuito che faceva aumentare l'ampiezza dell'onda
sonora emessa dal sintetizzatore. Quando il suono assunse la caratteristica di quello che oggi
si chiama un loop, gli Area entrarono con la musica suonando su quel tappeto sonoro generato
dall'interazione del pubblico. In repertorio anche il free-jazz di “ZYG (crescita zero)”, gli
sperimentalismi di “Mirage? Mirage!” ed anche un pezzo dai toni più orecchiabili, “Cometa
Rossa”. Su tutto, ovviamente, la splendida ed emozionante voce di Demetrio Stratos.
Nel frattempo l’organico subì due importanti defezioni: Eddie Busnello per gravi
problemi di tossicodipendenza e Patrick Djivas, attirato dalle sirene del successo
internazionale della PFM. Avvenne così l’ingresso di Ares Tavolazzi come bassista (ma si
cimentò anche con il trombone) che contribuì alla definitiva formazione del quintetto,
formazione classica che resterà immutata fino al termine della loro storica avventura.
“Crac!”, del 1975, concluse degnamente la prima fase della loro carriera: esso fu
certamente l’album più facile ed immediato di tutta la discografia, con la felice ballata “Gioia
e Rivoluzione”, la carica rock dal sapore orientaleggiante di “L’elefante bianco”, i riferimenti
politici di “La mela di Odessa”, ma non mancarono gli accenni di musica contemporanea (a
firma di Juan Hidalgo e Walter Marchetti, entrambi consulenti artistici della scuderia
Cramps), di “Area 5” e la musica totale di “Nervi Scoperti”. Sonorità ed elementi del folklore
mediterraneo e balcanico furono sempre una componente importante del suono ‘Area’: essi
affiorano anche in “Gerontocrazia”, brano di punta di “Maledetti” (1976), che inaugurava una
nuova fase stilistica nella quale gli Area si proponevano come formazione aperta a contributi
esterni (in quell’occasione, il sassofonista Steve Lacy e il percussionista Paul Lytton, noti
esponenti del jazz creativo europeo). Con quella stesura di organico, priva momentaneamente
di Tavolazzi e Capiozzo, la band suonò nel novembre del 1976 all’università statale di Milano,
tempio della contestazione giovanile: le canzoni vennero poi raccolte con il titolo di “Event
’76” e pubblicate nel 1979.
Nel 1977 presentarono al pubblico, con un concerto al Teatro Uomo di Milano, il loro
disco “Anto/logicamente” e nello stesso anno si assistette alla defezione di Paolo Tofani.
Nel 1978 gli Area abbandonarono la scena indipendente e la Cramps Records per
passare all’etichetta ‘Ascolto’ della CGD; intanto la defezione di Tofani e la scarsa
motivazione di Demetrio Stratos, sempre più impegnato nei suoi progetti solisti, anticiparono
una crisi imminente. Nonostante i problemi, il nuovo disco “1978, gli dei se ne vanno gli
arrabbiati restano” concluse magnificamente la storia del gruppo, con poche canzoni e molti
interventi virtuosistici dei singoli, capaci di raggiungere una sorprendente coesione sonora;
ancora una volta non si era abbandonato il campo della ricerca e di un contenuto politicamente
avanzato. Fu un prodotto artistico estremamente raffinato che spaziava dalla letteratura
dadaista alla cronaca giudiziaria presa come bandiera intellettuale, come nel caso di
“Hommage a Violette Nozières”.
45
Il 1979 fu l’anno dello studio e della ricerca. Demetrio Stratos lasciò il gruppo e di fatto
sancì la fine del nucleo originario e storico degli Area, che continuarono con formazioni
rimaneggiate ed alterne fortune fino al 1999, quando il gruppo si sciolse definitivamente.
L’attività dal vivo degli Area fu mastodontica e documentata dall’album live del 1975
“Are(A)zione”: raccolta dei brani più celebri con in chiusura la celebre rielaborazione in
chiave jazz-rock dell’Internazionale Socialista, che fece inorridire l’allora leader rumeno
Ceausescu che non tollerò un così grave mancanza di rispetto per l’inno dei lavoratori.
All’inzio della loro carriera gli Area furono impegnati in una tournèe di spalla ai Nucleus e
una di fianco ai Gentle Giant; alla fine del 1973 tennero una serie di concerti di solidarietà per
il Cile e furono invitati all’ottava biennale di Parigi in rappresentanza dell’Italia. Nel 1974
tennero un concerto ‘terapeutico’ all’ospedale psichiatrico di Trieste, poi ancora al Vigorelli di
Milano in una serata in favore del Vietnam con Joan Baez 29 ; per tre anni consecutivi
parteciparono alla festa di ‘Re Nudo’ al Parco Lambro. Nel 1976 gli Area si recarono a Parigi
per la ‘Fête de l'Humanité’ e in Portogallo in cui tennero concerti a Lisbona, Coimbra ed
Oporto. In luglio vennero invitati al ‘Festival Mondiale della Gioventù’ a Cuba e suonarono
per due volte a l'Avana. In totale fecero più di mille concerti, un traguardo forse ineguagliabile
e dettato probabilmente dal desidero di essere il più possibile vicino alla gente, di essere
insomma un vero ‘International Popular Group’. 30
“La musica degli Area fu creativa e libera, impegnata e passionale, scientifica ed affascinante.
Una musica che già al suo nascere si pose al di fuori dei generi codificati. Non era solo rock
quello degli Area, non lo fu mai in termini sonori, eppure fu il migliore rock che in Italia si
fosse mai realizzato, perché del rock possedeva lo spirito ribelle ed iconoclasta, la capacità di
mescolare arte e commercio, cultura alta e provocazione, ricerca e divertimento. Gli Area
rappresentarono il punto più alto della ‘liberazione’ del rock nostrano, un rock estremista,
violento, politicizzato, che riusciva ad essere canzone e avanguardia. Gli Area non
predicavano la ‘rivoluzione’ ma la praticavano quotidianamente nel loro lavoro, prefigurando
molti degli scenari della ‘contaminazione’ che hanno poi occupato le strade del rock negli
anni a venire” 31 .
2.8
Polifonia ed etnomusicologia:
Demetrio Stratos
la
figura
di
Figura carismatica e centrale negli Area, Demetrio Stratos ha avuto un’importanza
fondamentale anche nella personale ricerca musicale individuale, fino a diventare il più grande
artista musicale italiano di tutti i tempi, lui che italiano non era. Efstratios Demetriou è difatti
nato nel 1945 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci. E’ lì che Demetrio trascorse i primi
tredici e fondamentali anni della sua vita, frequentando il Conservatoire National d’Athènes,
dove studiò fisarmonica e pianoforte. Come sosterrà lui stesso in seguito, il fatto di essere nato
ad Alessandria lo farà sentire una specie di ‘portiere’ privilegiato, destinato a vivere
l’esperienza del passaggio dei popoli e ad assistere al vero ‘traffico’ della cultura
mediterranea, con le sue diverse etnie e le intense pratiche musicali. Appartenendo ad una
famiglia greco ortodossa, Stratos ebbe modo di ascoltare durante l’infanzia i canti religiosi
bizantini, così come la musica araba tradizionale e solo successivamente (e quindi in
controtendenza con il percorso musicale di un individuo della sua generazione) entrò a
contatto con i primi accordi del rock’n’roll, sonorità che lo influenzarono per tutta la vita.
46
Dopo un breve soggiorno a Cipro, durante il quale terminò gli studi medio superiori, si trasferì
nel 1962 in Italia per iscriversi alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano. Già
nell’anno successivo formò un gruppo musicale studentesco che, muovendo dalle feste della
casa dello studente, iniziò presto ad esibirsi in locali da ballo. Prima ancora che come
cantante, Demetrio si fece notare nell’éntourage milanese per il suo modo di suonare l’organo
hammond: in pochi avevano un approccio allo strumento come il suo, specialmente nell’era
dei primi vagiti del movimento beat, in cui l’approssimazione e il dilettantismo la facevano da
padroni. Fu per caso che, dovendo sostituire il cantante del gruppo bloccato da un banale
incidente d’auto, da organista Stratos iniziò a cantare, continuando comunque la sua opera di
turnista in diversi studi di registrazione e per diversi artisti. Nel 1967 si unì al gruppo beat I
Ribelli affiliati al Clan di Celentano in qualità di organista e cantante. Con I Ribelli, Stratos
divenne famoso al grande pubblico in particolare per la sua inedita, per l’epoca,
interpretazione vocale di “Pugni Chiusi”, una canzone simbolo della seconda metà degli anni
sessanta scritta per lui da Ricky Gianco. Nel 1970 lasciò I Ribelli, si sposò ed ebbe una figlia,
Anastassia, grazie alla quale cominciò a dedicarsi alla ricerca musicale e vocale in particolare.
Lo spunto gli venne dall’osservazione della ‘fase di lallazione’, ovvero si accorse che la
bambina inizialmente giocava e sperimentava con la propria voce, ma poi la ricchezza delle
sonorità vocali andavano perdute con l’acquisizione del linguaggio: “il bambino perde il
suono per organizzare la parola”. Questa osservazione di Stratos sarà il filo rosso che
attraverserà per intero il suo percorso artistico.
Nel 1972, dopo una fugacissima collaborazione con la Numero Uno di Mogol per la
quale incise il singolo “Daddy’s Dream”, unico episodio di produzione musicale di tipo
commerciale, si lanciò nell’avventura degli Area. Nell’ambito della ricerca di quegli anni del
rock progressivo e sperimentale della band milanese, si liberò dai codici e dagli stereotipi
improvvisando e di fatto contrapponendosi alla vocalità vuota e ripetitiva della pop star. Nel
1974 Stratos si avvicinò al pensiero ed all’opera del compositore statunitense John Cage 32 ,
interpretando i suoi “Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham” per voce non
accompagnata da microfono, parzialmente inclusi nel disco dedicato alla musica di Cage dalla
Cramps Records che inaugurava la collana ‘Nova Musicha’. Fu il primo contatto tra il
musicista pop e la musica colta. Il contatto con Cage lo spinse ad approfondire gli studi sulla
vocalità, contaminandoli di quella critica marxista che l’esperienza con gli Area ed il contatto
con la tumultuosa realtà italiana del periodo avevano evidentemente sollecitato.
Tra il 1976 ed il 1979 si intensificarono i suoi studi sulla voce: pubblicò “Metrodora”, il
suo primo disco solista di sperimentazioni vocali; tenne corsi e seminari di semiologia della
musica contemporanea in scuole ed università e venne invitato presso il Centro di Musica
Sperimentale dell’Università di San Diego, in California. Grazie ai suoi studi di
etnomusicologia, soprattutto sul ruolo della voce presso alcune culture extraeuropee, egli capì
che dalla nostra voce si potevano ottenere più suoni contemporaneamente. Applicando
particolari metodologie intuì e dimostrò personalmente che si potevano ottenere anche delle
‘triplofonie’ e con un certo studio addirittura ‘quadrifonie’, realizzate fino a quel momento
solo dai monaci tibetani e da alcuni cavalieri nomadi della Mongolia 33 . Tutte le sue
teorizzazioni e la rilevanza dei contributi dati dal cantante nell’ambito del rock, della
fonologia, della linguistica, della psicanalisi, dell’antropologia e della musica sperimentale
ebbero come laboratorio il suo stesso corpo.
Demetrio introdusse il concetto di voce-musica: una voce considerata nella sua
individualità e non vincolata unicamente ed esclusivamente alla parola e al suo discorso di
significato verbale. Si ribellava alla ‘voce bell’e pronta’ dei giorni nostri, combattendola con
una strategia ed una pratica liberatorie. Come egli stesso sosteneva nel suo saggio ‘Diplofonie
47
ed altro’: “La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla”.
Affermava con decisione che si stesse vivendo un periodo di appiattimento, di distanziamento
e indifferenza rispetto al senso della voce umana: la voce come veicolo della parola rubava
spazio alla voce-musica, privandola delle sue sfumature istintive, grezze, rumorose, man mano
che ci si avvicinava all’età adulta e ad una vocalità dominata dai meccanismi culturali di
controllo e dagli imperativi della società di mercato 34 . La voce era, d’altronde, da secoli
subordinata agli imperativi della ‘buona tecnica’: considerata come uno strumento, una
macchina perfettamente addomesticabile al servizio di un’estetica armoniosa e in nessun
momento anarchica. Il rumore e la stonatura dovevano essere banditi da un mondo che aveva
stabilito una particolare ‘morale’ della voce. Demetrio Stratos arrivò a scardinare questi ben
oliati meccanismi con la sua voce pronta ad essere emessa nella sua materialità, nella sua
esecrabile sgradevolezza e rivoluzionaria indecorosità, portando avanti una sua personale
critica, in un contesto rivoluzionario come quello di allora in cui la vocalità assumeva un
profondo ruolo contestatore 35 . La voce soffocata nella musica rappresentava per lui il
proletariato sfruttato che cercava la sua forza liberatrice, con la voce egli sapeva fare cose
inimmaginabili al punto che giustamente è stato definito artista/strumento umano irripetibile.
Liberare la naturalità nascosta della sua gola e delle sue corde vocali, per lui significava
elaborare ed esprimere pensieri contro il potere, deridendo e intrattenendo, insegnando ed
imparando sempre dalle emozioni del pubblico. Si dice che il termine esatto delle situazioni
di avanguardia presentate da Demetrio Stratos fosse ‘performance’, perché con questo termine
si intendeva dare una corporeità plurale alle arti che innescava nei suoi spettacoli: fusione di
mimo e voce, canto e recitazione, recitazione di un corpo in grado di dare dimensioni
difficilmente collocabili nelle normali geografie artistiche. 36
Desideroso di scoprire anche la condizioni meccaniche per mezzo delle quali si realizza
un suono, Demetrio Stratos entrò in contatto nel 1977 con Franco Ferrero, noto studioso di
foniatria e ricercatore presso il C.N.R. dell’Università di Padova. Egli aveva l’assoluta
esigenza personale di scoprire come venivano realizzati determinati vocalizzi, poco usuali
nella nostra cultura occidentale. Gli esperimenti tenuti da lui e da Ferrero misero in luce le
straordinarie capacità vocali di Stratos. Egli emetteva suoni che, realizzati attraverso
vibrazione delle corde vocali, in diverse posizioni articolatorie riuscivano a creare risonanze
che sembravano bitonali. Con le corde vocali poteva ottenere vibrazioni acustiche simili a
quelle dello scacciapensieri, ma senza alcuno strumento e senza alcuna variazione di
frequenza. Riusciva inoltre, con la bocca aperta e con grande sforzo, ad emettere fischi senza
far vibrare le corde vocali: la frequenza rilevata era molto elevata, Demetrio raggiunse i 6000
Hz, quando in media le corde vocali non riescono a superare la frequenza di 1000-1200 Hz.
Come afferma lo stesso Ferrero in una recente intervista, Stratos riuscì a raggiungere un tale
grado di sviluppo vocale perché aveva una gran voglia di capirsi e controllare determinate
strutture che noi utilizziamo automaticamente. 37 Nonostante l’abbandono degli Area, la
pubblicazione nel 1978 di un nuovo disco solista sperimentale, “Cantare la voce”, e
l’interpetazione nell’anno successivo di “Le Milleluna”, con testo di Nanni Balestrini,
Demetrio non dimenticò il rock’n’roll. Proprio nel 1979 progettò con grande divertimento
assieme a Paolo Tofani, il polistrumentista Mauro Pagani ed altri lo spettacolo, poi trasposto
su disco, “Rock’n’roll Exhibition” 38 , per riportare alla luce i grandi musicisti americani dal
1955 al 1961. Questo a dimostrare il dualismo musicale di Demetrio: un cuore semplice per
accordi di tutti i giorni e un’attenzione nascosta per la novità e la ricerca. Era un conflitto in
cui le due culture a cui apparteneva tentavano di convivere con la sua vita: due mondi, quello
occidentale e quello orientale, sollecitavano continuamente cittadinanza nei suoi
comportamenti artistici. 39
48
Il tour del Rock’n’roll Exhibition dovette però interrompersi presto. Lunedì 2 aprile
1979 Demetrio Stratos venne ricoverato nel reparto ematologico dell’Istituto Granelli del
Policlinico di Milano per un’aplasia midollare di cui non si conoscevano le cause. Mercoledì
25 aprile la situazione fisica sembrò precipitare al punto da rendere necessario il trasferimento
al Memorial Hospital di New York, unico posto attrezzato per affrontare le cure della malattia.
Venne organizzato a Milano un grande concerto al fine di raccogliere fondi per la costosa
degenza newyorkese 40 , il giorno prima del concerto, il 13 giugno 1979, Demetrio morì
stroncato da un collasso cardiocircolatorio.
Il suo decesso ebbe un’eco fortissima tanto che dovettero occuparsi di lui anche i media
istituzionali, da Arbore in ‘L’altra domenica’ a Mario Luzzatto Fegiz 41 sul Corriere della Sera.
Venne a mancare da un momento all’altro la ‘bandiera’ del rock e della sperimentazione
italiani, gettando nello sgomento tutta quella schiera di musicisti, tra cui l’addolorato Eugenio
Finardi, che vedevano in Stratos un modello e una sorta di faro artistico.
Rimase però la purezza del lavoro di Demetrio, la sua fantastica volontà di dividere il
suo sapere in ogni modo, di stimolare chiunque a non fermarsi e a proseguire nella ricerca di
mezzi espressivi originali ed autentici. Un esempio perfetto di quanto oggi si sarebbe potuto
fare (e in pochi hanno fatto) per non lasciarsi travolgere dalla banalità della società dello
spettacolo e del puro consumo. 42
2.9 ‘Italian Invasion’: la PFM alla conquista degli
USA
A confermare la validità del rock italiano fu un avvenimento di straordinaria importanza
e rilievo: il nostro progressive, avendo creato un ‘suo’ suono ed essendosi distinto dalla
produzione massificante anglo-americana, riuscì a ritagliarsi un (purtroppo) breve momento di
gloria, riuscendo ad imporre su di sé l’attenzione dell’aristocrazia musicale internazionale,
varcando così per la prima volta i confini nazionali. Il nostro modo di intendere il progressive
fu apprezzato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dove certo non ci si aspettava che dei gruppi
provenienti dall'Italia potessero fare del rock a quei livelli.
La sorpresa fu talmente grande e positiva che Greg Lake 43 offrì l'opportunità sia al
Banco sia alla Premiata Forneria Marconi di incidere per la propria etichetta discografica, la
‘Manticore’, alcuni album in lingua inglese espressamente per quel mercato: il risultato fu
decisamente lusinghiero 44 . Al gruppo Le Orme venne addirittura offerta l'occasione di
collaborare con uno dei più geniali musicisti fuoriusciti dal panorama rock anglosassone: il
leader dei Van Der Graaf Generator, Peter Hammill, il quale, attratto dalla bellezza del
concept “Felona e Sorona”, prese accordi con la formazione italiana per tradurre in lingua
inglese il lavoro che venne pubblicato nel 1973 con etichetta ‘Charisma’. Il discreto successo
di critica e di vendite spinse Le Orme ad intraprendere una fortunata tournèe in Gran Bretagna
dove il gruppo si rese protagonista di uno splendido concerto al leggendario ‘Marquee’ 45 di
Londra.
Fu però la Premiata Forneria Marconi ad ottenere il successo maggiore. Alla fine della
tournée del '72 la band si era convinta di avere trovato un suono personale e italiano in grado
di poter finalmente competere con quello dei grandi gruppi stranieri. Fu con questa
consapevolezza che tornarono in sala d’incisione per registrare il secondo lp. La loro
intenzione era quella di tentare il grande salto verso l’Europa. Non era una semplice
49
presunzione, ma un'opinione ben motivata e confortata dal parere dei grandi manager che
accompagnavano in Italia i gruppi stranieri 46 . Furono soprattutto loro ad incoraggiare il
gruppo a fare il grande passo. Il secondo lp, “Per un amico”, fu accolto bene dal pubblico ma
tiepidamente dalla critica, che all’epoca era troppo esterofila. L’album era volutamente
diverso dal primo perché, per principio, non volevano clonare il successo precedente. Aveva
un respiro più internazionale e i fatti lo confermarono. Durante la tappa bolognese del tour di
Emerson Lake & Palmer, venne consegnato al trio inglese un nastro contenente un mix tra
cover di brani pop e canzoni tratte da “Storia di un minuto” 47 , Greg Lake tornò a Londra e
pochi giorni dopo informò che sarebbe venuto in Italia per conoscere la band e sentirla dal
vivo. E difatti il 20 Dicembre del ‘72, al Palaeur di Roma, assistette al concerto di
presentazione di “Per un amico” 48 . Ne rimase talmente entusiasta da esibirsi in un bis insieme
a loro ed invitandoli a seguirlo a Londra, dove la band riuscirà ad esibirsi e farsi conoscere al
pubblico anglosassone anche attraverso alcune partecipazioni televisive 49 . Il nome venne
accorciato, su suggerimento di Pete Sinfield, paroliere dei King Crimson e produttore dei
primi tre lp internazionali della band milanese, in PFM, più facilmente pronunciabile dal suo
nuovo pubblico internazionale. Nel 1973 pubblicarono l’album “Photos of Ghosts”, versione
inglese dei migliori pezzi dei primi due lavori. L'idea di andare in America nacque
sostanzialmente dal grande successo internazionale di “Photos of Ghosts”. L’album entrò
subito nelle classifiche americane di ‘Billboard’, ricevette il premio della critica giapponese
che lo decretò il miglior album dell’anno e ottenne incoraggianti risultati dal pop pool di
‘Melody Maker’ 50 , dove la PFM conquistò il secondo posto nelle ‘Brightest Hopes’, davanti a
gruppi come Supertramps e Eagles. Questo successo convinse la ‘Manticore’ al grande passo
e nel luglio del '74 la band fece il suo primo volo transatlantico. La prima tournée americana
diede un grosso riscontro di pubblico. La band funzionava meglio dal vivo che sul disco, fu
così che il loro manager americano consigliò loro di registrare un disco live, proposta a cui,
ovviamente, aderirono con sommo entusiasmo. Si fecero seguire da uno studio mobile e
registrarono quattro concerti 51 . Due erano solo di prova, mentre i due successivi, al Central
Park di New York e a Toronto, fornirono il materiale per "Cook", che in Italia si chiamò "Live
in USA". I tour che seguirono, benché non certo avidi di soddisfazioni, portarono la PFM ad
abbandonare la loro scalata alle classifiche americane. Dissidi interni al gruppo, fatica a
sostenere il pesante ritmo dello showbiz statunitense e nostalgia dell’Italia convinsero la band
a tornare in patria e perdere così l’occasione di proseguire la loro marcia trionfale. Un’altra
motivazione, esogena al gruppo, riprendeva il caso tipico italiano della politicizzazione della
musica dalla quale la PFM, dato il suo carattere transnazionale, era rimasta piuttosto slegata.
Una partecipazione ad un concerto in favore dell’OLP 52 suscitò le ire della comunità ebraica
americana che fece pressioni sull’industria discografica affinché la PFM venisse boicottata. In
effetti l’album “Chocolate Kings” 53 venne accolto molto più freddamente e gli stessi manager
che fino a pochi mesi prima avevano fortemente caldeggiato e promosso le loro tournèe
statunitensi si trovarono a dover chiuder loro le porte in faccia.
Su ammissione dello stesso Di Cioccio, batterista del gruppo e Franco Mussida,
chitarrista, la musica della PFM potè imporsi all’estero in virtù della sua “miscela di rock,
improvvisazione, tradizione italiana, in cui persino la tarantella, in ‘Celebration’, poteva
sposarsi con il rock. La PFM è sempre stata amata all'estero proprio per questa sua originalità
musicale”. “[…] volevamo portare all'estero la nostra musica. Non è vero che volessimo
copiare i vari Yes, Genesis, King Crimson: la musica era farina della PFM era farina del nostro
sacco, pur filtrata attraverso un patrimonio acquisito. La PFM ha sempre avuto un suo DNA,
arricchito dalle diverse personalità”. 54
50
2.10
I nuovi canali di comunicazione e diffusione
della cultura e della musica giovanili
Il servizio pubblico radiotelevisivo nazionale era, come ovunque in Europa, un
monopolio di Stato. In Italia, prima della riforma del 1975, era controllato dalla Democrazia
Cristiana e pesantemente influenzato dalla Chiesa. All’interno della gestione del servizio era
sotteso, quando non del tutto esplicitato, un rigido codice di condotta: i programmi non
dovevano “recare discredito o insidie all’istituto della famiglia”, né raffigurare “atteggiamenti,
pose o particolari che sollecitassero bassi istinti” 55 . Era la Rai di Ettore Bernabei 56 bigotta,
democristiana e monopolista, uno degli obiettivi più bersagliati dalla Nuova Sinistra.
Venne realizzato, da parte dei centri di potere, un sapiente e sistematico boicottaggio nei
confronti del rock in genere perché ritenuto politicamente spostato a sinistra o comunque
deviante e pericoloso. La RAI non adottò mai una politica di programmazione orientata ai
giovani sul modello di Radio 1 57 della BBC. Le trasmissioni dedicate alla musica in genere, e
ancor meno a quella giovanile, erano pochissime e comunque edulcorate di tutti quegli
elementi ritenuti non idonei al pubblico italiano. Così, come è ovvio ritenere, non solo non
trovavano posto gli esponenti del nuovo rock, ma nemmeno i classici del rock inglese e
americano. I media a stampa non erano da meno; se si eccettuavano i quotidiani della Nuova
Sinistra come ‘Lotta Continua’ e ‘Il Manifesto’, il mondo giovanile era pressoché ignorato.
La nuova cultura giovanile quindi, se voleva diffondersi e sopravvivere, doveva dar vita
ad un circuito alternativo: il rock, ma anche la canzone cantautorale di protesta, non potevano
passare per la radio e televisione di Stato, ma dovevano vivere nel tam tam delle comunità
giovanili, nella comunicazione di bocca in bocca, nelle centinaia di esibizioni che venivano
organizzate da collettivi, associazioni, locali ma soprattutto dalla stessa sinistra
extraparlamentare, con i suoi giornali, le sue edizioni, le sue etichette indipendenti 58 .
Determinanti furono gli esempi provenienti dalla Gran Bretagna con la nascita di
etichette discografiche cosiddette ‘alternative’ come la ‘Vertigo’, la ‘Chrysalis’, la ‘Virgin’, la
‘Island’ che reclutarono giovani artisti che suonavano un rock per niente facile, non allineato,
ovvero una musica poco commerciale chiamata in seguito progressive ed impropriamente pop.
In Italia quest’esempio di nuova discografia fece pochi proseliti ma qualcosa si mosse. La
‘Numero Uno’, fondata da Mogol e Lucio Battisti, fu la prima del genere e, almeno all’inizio,
partì proprio come un’etichetta di frontiera. Ancora una volta la voglia e la capacità
tipicamente anglosassone di staccarsi dal giogo del business americano era stata la molla che
aveva dato il via al neo panorama emergente. Un grande esempio di autarchia musicale. 59
Attorno al gruppo degli Stormy Six e a molti altri musicisti dell’area milanese nacquero
alcuni degli esperimenti più interessanti di produzione indipendente, slegata dalle grandi case
discografiche, come l’etichetta autogestita ‘L’Orchestra’ per la quale incisero molti gruppi
della prima ondata. L’etichetta indipendente più importante fu la ‘Cramps Records’, la stessa
che aveva realizzato quasi tutti i dischi degli Area, alcuni lavori solisti di Demetrio Stratos e
aveva pubblicato in Italia i lavori di John Cage. Fu la più audace etichetta indipendente,
l’unica in grado di creare un catalogo che andava dalla sperimentazione colta al rock, il cui
variegato melange era già di per sé un provocatorio manifesto ideologico 60 . Il suo fondatore si
chiamava Gianni Sassi, art director di fama internazionale, ideologo, discografico,
collaboratore ed ispiratore di artisti italiani. Fu una figura intellettuale di primissimo piano del
panorama italiano e non, riconosciuto come l’ideatore dei progetti culturali più geniali degli
anni ’60-’90. Oltre l’esperienza discografica si impegnò anche in campo editoriale,
51
coinvolgendo il meglio degli intellettuali di sinistra dell’epoca, come Umberto Eco e Nanni
Balestrini, per dare vita alla rivista ‘Alfabeta’ e successivamente al periodico ‘La Gola’ 61 .
Determinante fu quindi l’apporto delle piccole etichette al diffondersi del nuovo rock almeno
fin quando gli affaristi del disco furono così colti di sorpresa dalla risposta di pubblico che
queste piccole produzioni ottenevano e soltanto a quel punto decisero che era forse opportuno
mettere sotto contratto i nuovi gruppi.
Ma è nella carta stampata che la controcultura ottenne i migliori risultati, ergendosi a
canale di informazione attivissimo e dinamico. A Milano si stampava ‘Re Nudo’ che
organizzò gli eventi ed i raduni musicali più importanti: era un giornale nato con precisi
intenti ‘under’, trasformatosi poi sempre più rapidamente in un vero e proprio movimento
politico senza linea coerente, senza strutture, ma con un discorso proprio 62 . A Roma cercò di
farsi largo ‘Roma High Roma Sotto’, una testata di controinformazione orientata verso la
musica ed il mondo giovanile. Ma molte altre iniziative si disperdevano nelle città e nei
quartieri: nascevano giornali, fogli volanti, manifesti, informazioni ciclostilate che venivano
diffusi in ogni dove. Inizialmente l’unico periodico musicale a grande diffusione era ‘Ciao
2001’, ma in pochi anni, passando per riviste ‘militanti’ quale la leggendaria ‘Freak’ di
Riccardo Bertoncelli 63 e ‘Gong’ si giunse, nel 1974, alla fondazione della rivista ‘Muzak’ un
progetto editoriale che, in linea coi tempi, si autorganizzava ed autogestiva accostando, alle
tematiche musicali, tutti gli aspetti più tipici della cultura giovanile, politica compresa. Grazie
a queste riviste, finalmente, si cominciò a discutere attorno alla musica, perno centrale ed
espressivo della rivoluzione giovanile. 64
2.11
L’ideologizzazione del rock
La musica, come qualsiasi altra espressione culturale, divenne in quegli anni il grande
teatro della controcultura giovanile, in modo talmente radicale da spiazzare completamente le
istituzioni tradizionali; furono anni di inaudita vitalità ma anche di forti contraddizioni 65 .
La musica aveva bisogno dell’appoggio del Movimento poiché non godeva di una diffusione
capillare a causa dell’isolamento in cui la relegavano i media di massa, d’altro canto anche la
politica aveva bisogno di canali privilegiati e più propriamente empatici per poter diffondere il
proprio messaggio, per farsi veicolo di denuncia e di protesta espresse a livello di massa.
Quasi tutta la musica pop italiana di quel periodo si assumerà l’onere di farsi portavoce del
Movimento, ma sarà quella che pagherà il prezzo più alto in seguito al suo fallimento; se la
politicizzazione, ‘l’impegno’ e la stretta aderenza tra musica e Movimento saranno l’humus
fondamentale dal quale potrà nascere e prosperare la via tutta italiana al rock, questi saranno, a
breve-medio termine, la cagione del proprio inesorabile declino.
Il disimpegno venne etichettato aprioristicamente come reazionario e gli artisti, chi per
intima convinzione, chi per cavalcare l’onda, si adeguavano ai nuovi standard. In realtà non
furono molti i musicisti che dichiararono la loro appartenenza politica ma quei pochi
bastarono a far sì che la musica alternativa divenisse facile preda di una esasperata
strumentalizzazione volta a far coincidere a tutti i costi la politica con la musica.
Chi non si conformava era bollato come ‘fascista’, senza possibilità di appello; il movimento
era, in accordo con il suo retroterra leninista, rigido e severo, non ammetteva defezioni.
52
Vittima illustre di contestazioni di questo genere fu Francesco De Gregori, il quale venne
duramente sottoposto ad un violento attacco ideologico durante un concerto al Palalido di
Milano da un gruppo di spettatori appartenenti ad un gruppo extraparlamentare della sinistra, i
quali accusavano il cantautore romano di servirsi, nelle sue canzoni, di temi politici per
arricchirsi.
Atteggiamento simile era riscontrabile anche nella stampa musicale specializzata. I
critici musicali svolgevano un serioso lavoro di controllo che spesso e volentieri esulava dall’
ambito musicale per perdersi nei meandri della critica marxista sull’industria culturale. Rigidi
e duri nel giudizio, inesorabili nei confronti del successo commerciale, anche quando
quest’ultimo non era indotto volontariamente. Mai come in quegli anni le recensioni musicali
erano colme di parole inusuali del lessico giornalistico musicale: ‘proletariato’, ‘reazionario’,
‘fascista’, ‘mistificazione’, ‘massa’, ‘manipolazione del consenso’, ‘struttura di classe’ etc.
Il carattere più eclatante assunto della politicizzazione della musica fu però quello
‘dell’autoriduzione’, perpetrato da migliaia di ragazzi che, definendosi ‘proletariato
giovanile’ 66 al grido dello slogan ‘riprendiamoci la musica’, reclamavano il cosiddetto ‘prezzo
politico’ dei biglietti dei concerti (lo stesso fenomeno interessò anche le sale
cinematografiche), quando non addirittura l’assoluta gratuicità della musica. L'equivoco
nasceva dal fatto per cui la libertà di aggregazione, di espressione, di partecipazione ai
concerti dovesse per forza di cose coincidere con il diritto di assistere gratuitamente alle
rappresentazioni. Scriveva Marcello Baraghini in uno dei libri pubblicati all’epoca da Stampa
Alternativa e dalle Edizioni Savelli:
“La lotta contro i padroni della musica, i loro servi e i
provocatori, è lotta anticapitalista, per bloccare una delle più
vergognose forme di sfruttamento, quella sull’intelligenza e sulla
voglia di vivere, di lottare, di essere felici dei compagni”.
Con l’affermarsi della ‘cultura del 33 giri’, la discografia italiana cominciò a pubblicare con
regolarità i dischi dei gruppi angloamericani, anche quelli che pochi anni prima erano stati
bocciati poiché ritenuti di un bacino d’utenza limitato quando non del tutto inadeguati al
pubblico italiano. A differenza degli anni ’60, nei quali la discesa a queste latitudini di artisti
quali Beatles, Rolling Stones, Who, Hendrix e pochi altri era affidata a coraggiose quanto
isolate iniziative di promoter indipendenti, già dal 1970 l’Italia entrò nel giro delle grandi
tournèe internazionali. Aprirono le danze i Rolling Stones con due spettacoli a Roma ed uno a
Milano, poi di seguito i Jethro Tull, con i prezzi dei biglietti che variavano tra le 1000 e le
2000 lire. Assieme a questi però arrivarono anche i primi disordini: in maggio ai concerti di
Carlos Santana ed in giugno a quello dei Chicago. Il primo grande scontro avvenne in
coincidenza della performance dei Led Zeppelin, che partecipavano come ospiti stranieri ad
una tappa dal ‘Cantagiro’ 67 . L’esibizione, che si tenne al velodromo Vigorelli di Milano, vide
lo scontro aperto di gruppi di rockettari, hippies, freak e forze dell’ordine; “fu una serata di
guerriglia urbana a ritmo di rock” 68 . A protestare erano i ragazzi dell’area alternativa del
movimento che si battevano contro i ‘padroni del rock’, ovvero gli organizzatori dell’epoca,
accusati di speculare sulla musica sulla pelle dei suoi maggiori fruitori, appunto, i giovani. E
poi ancora: PFM a cagliari, tumulti e lacrimogeni; i Traffic a Roma, scontri con la polizia; a
Torino con i Genesis 21 arresti e 100 fermi; a Napoli con John Mayall 8 arresti. Gli incidenti
seguitarono negli anni successivi fino al 1975, quando la ‘guerra dei palasport’ raggiunse il
suo culmine: non c’era concerto in ogni parte d’Italia che non si risolvesse con l’intervento
delle autorità. La situazione si fece sempre più critica per i gruppi stranieri, preoccupati di non
mettere a repentaglio le loro apparecchiature e la loro strumentazione, quando non proprio la
53
loro stessa incolumità fisica. Dopo gli scontri a Roma per il concerto di Lou Reed e le
molotov 69 lanciate sul palco di Santana a Milano, le frontiere si chiusero ed iniziò un lungo
periodo in cui quasi nessun artista rock internazionale ebbe più coraggio di mettere piede in
Italia per esibirsi dal vivo. Il mercato dei concerti crollò sotto i colpi della contestazione,
annegato tra i gas dei lacrimogeni. 70
Questa condizione di isolamento forzato fini però per giovare alla musica italiana,
soprattutto perché coincise con un periodo di profonda stagnazione della musica
internazionale. Una ‘via italiana’ era sempre maggiormente e facilmente percorribile
specialmente in un momento in cui i ‘modelli imperanti’ erano stati forzatamente messi ai
margini. Infine l’assenza di grandi eventi ‘dal vivo’ stimolò la nascita dei grandi raduni pop,
dove i giovani potevano mettere in scena la loro ansia di trasformazione e il diffuso bisogno di
vita collettiva 71
2.12
La nuova musica realizza
fenomeno dei raduni
la
socialità:
il
Ancora in piena asincronicità con l’America, culla del rock e del movimento giovanile,
l’Italia scoprì i raduni ed i festival musicali. Woodstock, il più grande e leggendario evento
rock mai avvenuto nella storia, aveva visto la luce nel luglio del 1969 ed aveva segnato il
punto più alto ed allo stesso tempo la fine del movimento giovanile americano. Quella che
sembrava “una prova generale del mondo liberato, fu invece un glorioso sipario, un atto finale
di eroica potenza prima dell’inesorabile ripiegamento. Poco dopo lo scenario era già
profondamente mutato. Alcuni dei più carismatici musicisti che vi parteciparono morirono
tragicamente, la repressione fu dura e sistematica, e, soprattutto, il Movimento stesso non fu in
grado di creare il necessario, coerente sbocco politico ai propri sogni alternativi” 72 .
Gli europei ‘lessero’ Woodstock in maniera differente: non come la fine di un sogno ma
come l’inizio di una radiosa era. L’anno seguente in Inghilterra, e più precisamente nell’Isola
di Wight, venne realizzato il più grande e famoso festival mai realizzato in Europa a cui
parteciparono anche molti ‘reduci’ di Woodstock, ma anche in Italia, come al solito alla
‘periferia dell’impero’, qualcosa cominciava a muoversi.
Tra il ’70 e il ’71 il rock italiano trovò improvvisamente una forma di rappresentazione
collettiva con la nascita dei raduni pop. I primi vennero organizzati a Caracalla e Villa
Pamphili a Roma, a Ballabio (organizzato da “Re Nudo”), ed il Be-In (Napoli). Ogni festival
cercava di riprodurre in piccolo l’atmosfera di Woodstock, che nel frattempo era stata resa
nota dall’omonimo film: un clima fatto di “pace, amore e musica” 73 con tanto di bagni nel
fango, balli e cerimoniali tribali, tende e campeggi. I figli dei fiori, che oramai non esistevano
più in America, ritornavano in vita in Italia che, nel periodo di massimo fulgore dell’hippismo,
aveva a mala pena conosciuto i Beatles. Inizialmente i raduni erano caratterizzati da uno
spirito goliardico e scherzoso probabilmente, senza volerlo, ricalcando l’atmosfera del
backstage 74 di Woodstock, in cui i mostri sacri del rock di tutti i tempi si scaldavano nella
umida notte americana bruciando assi di legno. Così in Italia la gente schiamazzava in ogni
modo, prendeva in giro i musicisti, lanciava sul palco zolle di terra 75 , in un clima informale in
cui sarebbe stato quasi impossibile credere che da lì a pochi anni il musicista sarebbe
diventato distante e oggetto di venerazione maniacale.
54
Al nord i raduni erano segnati da motivazioni più fortemente politiche. Come recitava il
comunicato di un circolo comunista milanese:
“E le feste sono anche un momento di scontro sul terreno del
personale, perché oggi sono un momento di sperimentazione di
rapporti umani, di comportamenti, di cultura dei giovani.Oggi
nelle feste noi esprimiamo il nostro bisogno di nuovo; le feste
sono un importante momento di accumulazione di forza:
usiamola. I padroni ci hanno relegato nel ghetto del tempo
libero: noi invece vogliamo impossessarci del tempo libero per
stravolgerlo contro e nel tempo occupato”. 76
Nonostante l’inevitabile politicizzazione dei festival e dei raduni anche se era sempre la musica
ad avere un ruolo dominante. Ad ogni appuntamento i musicisti accorrevano in massa e le
autostrade cominciavano a riempirsi di furgoncini variopinti, per lo più disastrati e stracolmi di
strumenti. Era il popolo alternativo che viaggiava da un festival all’altro, per seguire questi
primi, ingenui raduni che avevano ancora l’aspetto delle fiere paesane. Ricorda Franz Di
Cioccio: “I primi raduni pop, come il festival d’avanguardia o nuove tendenze di Viareggio o
le ‘Contro-Canzonissima’ organizzate dal settimanale romano ‘Ciao 2001’, fecero registrare un
notevole successo di presenze, cogliendo di sorpresa tutti detrattori. Non vi erano ferree regole
organizzative o la necessità di ottenere il placet e/o l’intermediazione della casa discografica
d’appartenenza, qualunque artista possedesse un mezzo di trasporto che gli consentisse di
caricare strumenti e la voglia sana di trasgressione e quella di suonare era sempre il benvenuto
perché esibirsi dal vivo costituiva la regola e non l’eccezione” 77 . Ad ogni ‘festival pop’ c’era
un pubblico entusiasta, ed entusiasmante, pronto ad ascoltare anche solo per il fatto che ci si
ritrovava numerosi. Su quei palchi era tutta un’altra musica: il luogo ideale dove poter tirare
fuori le unghie e grinta suonando liberamente senza limiti o costrizioni di genere musicale e di
durata delle canzoni. I mezzi di comunicazione di massa continuavano a diffondere musica di
consumo, ma la vera musica italiana la si ascoltava all’aperto; c’era nell’aria qualcosa di
indefinibile, che invogliava la gente ad incontrarsi, a stare insieme e respirare la stessa aria 78 .
Il 1975 fu l’anno dei due più celebri e meglio riusciti raduni della nuova sinistra: quello
di Parco Lambro, messo in piedi da ‘Re Nudo’ e dalle organizzazioni della sinistra sull’onda
del raduno dell’anno precedente che aveva raccolto più di cinquantamila persone, e quello di
Licola, nei pressi di Napoli, pianificato da Lotta Continua, Pdup 79 e Avanguardia Operaia, uno
straordinario evento musicale e sociale, forse il più incredibile esperimento di socializzazione
che la nuova sinistra sia riuscita ad organizzare. A Licola si diedero appuntamento oltre
settantamila persone che per tre giorni discussero di politica, si inventarono mille modi diversi
per vivere insieme senza tensioni e scontri di alcun genere, provando, allo stesso tempo, a
sperimentare stili di vita completamente diversi da quello quotidiano. Queste due
manifestazioni segnarono il punto più alto di fusione tra musica ed impegno, inseguendo il
sogno “dell’immaginazione e della creatività al potere” 80 . Gli artisti che vi parteciparono
coprivano l’intero panorama musicale alternativo italiano, quello rock di Banco, Area, PFM e
quello dei cantautori con Dalla, De Gregori, Venditti, Battiato “in un coloratissimo
caleidoscopio di suoni, sentimenti, sensazioni, realtà ed emozioni che rispecchiava la realtà di
un movimento giovanile che sembrava aver occupato ogni possibile spazio vitale”. 81
Le feste di musica alternativa si protrassero fino al 1976, quando le contraddizioni e i
dissidi esplosi in seno al Movimento decretarono la fine di questa euforia collettiva. Anche
l’Italia conobbe la sua Woodstock, l’ultimo festival di Parco Lambro aveva il sapore della
sconfitta, della smobilitazione: il palco fu spesso ‘espropriato’ in una vera e propria battaglia
55
tra musicisti e pubblico. Le cose stavano cambiando velocemente, le ‘isole felici’ dei raduni si
trasformarono in campi di battaglia, con i candelotti lacrimogeni che volavano in mezzo agli
alberi e la minaccia di un’irruzione della polizia per far sgomberare il parco. Il disorientamento
si traformò in aggressività e quest’ultima si espresse contro gli organizzatori, contro i cantanti e
contro i polli, utilizzati per sfamarsi, per giocarci, per essere lanciati selvaggiamente sul palco.
C’è chi accuso i gruppi di Autonomia Operaia; in ogni caso chiunque fomentò la rivolta non
ebbe difficoltà a fare proseliti, perché la violenza era già dentro molti giovani. Si concludeva
l’era della serenità collettiva, del pacifismo e delle religioni orientali, in una parola, si
concludeva il sogno di una generazione. Il ’77 era alle porte, con tutto il suo carico di
‘piombo’.
2.13
Declino del “prog” e nuove forme di espressione
dei cantautori e del jazz
La fase aurea del rock italiano durò abbastanza poco. Esplosa in tutto il suo fragore nel
1972, già dopo poco meno di tre anni cominciò a fare i conti con un’inesorabile fase calante. “I
gruppi, pian piano, iniziarono a scomparire, tornando a nascondersi nelle cantine e
abbandonando le piazze che fino ad allora avevano gloriosamente occupato” 82 . Si trattava di
una crisi generalizzata che colpiva tutto il mondo del rock, anche di quello oltre frontiera. La
musica progressiva si era evoluta ulteriormente, divenendo sempre più autoreferenziale ed
incapace di parlare ad una società in rapido mutamento. La critica nei confronti del progressive
si fece sempre più serrata, le accuse erano di ‘sovrastrutturazione’ e abbandono
all’autocompiacimento, vissuti come onanismo intellettuale, pretenziosità vissuta come
freddezza: si assisteva, in sostanza, ad un sostanziale rifiuto della forma, vista come assenza di
sostanza 83 . Le cause della fine furono molteplici: la mancanza di un’adeguata promozione in
primis ma, soprattutto, la pretesa di far coincidere a tutti i costi la politica con la musica. Agli
artisti si chiedeva prima di ogni altra cosa l’impegno politico e la totale disponibilità a suonare
per poche lire, altrimenti si veniva etichettati come ‘fascisti’. Le contestazioni non si
esaurivano nelle piazze ma continuavano sui palcoscenici causando disordini e provocando
l’immancabile intervento delle forze dell’ordine.
Anche secondo Franz Di Cioccio la maggiore imputazione del declino del rock italiano
era imputabile alla grande mistificazione che accompagnò gran parte degli anni ’70 rallentando
non poco lo sviluppo creativo: la musica gratis. “La musica si prende, il biglietto non si paga”
fu uno degli slogan più deleteri. “La rabbia di chi voleva trasferire ai concerti gli umori della
piazza spesso rese difficile lo svolgimento delle esibizioni. Ma la musica gratis era l’unica
utopia non condivisa dai musicisti, chi voleva esibirsi sapeva di doverlo fare tra mille difficoltà
strutturali. Palchi a volte troppo piccoli, organizzazione pressappochista, la paura di disordini,
l’odore acre dei lacrimogeni e, in ultimo, il prezzo politico dei biglietti, il quale alle volte non
permetteva nemmeno di coprire i costi di un concerto cosiddetto militante” 84 .
Come è stato già affrontato nei paragrafi precedenti, il rock aveva sì assunto una
dimensione rituale, ma i suoi caratteri specifici non si erano per questo modificati, o meglio,
sostituiti con altri che oltre al carattere rituale avessero in comune con la musica popolare
anche le origini e i contenuti specifici 85 . Forse è questa una delle chiavi di lettura più corrette
per cercare spiegare il veloce declino del rock in Italia. Troppo poco tempo aveva decantato nel
‘calice’ del pop italiano per sedimentarsi nelle coscienze. Troppo esigua la tradizione rock nel
56
nostro paese per sviluppare radici forti. Qui da noi il rock era sulle bocca di tutti da appena una
decade, non era espressione del nostro contesto socio-culturale, era troppo acerbo per poter
attecchire in profondità. Esaurite le mode e gli entusiasmi riacquisì importanza e centralità (se
mai l’avesse perduta) la figura del cantautore, una figura che con qualche sforzo e licenza
possiamo ricondurre addirittura ad Omero, quindi facente parte della cultura classica, il nostro
patrimonio condiviso. Nonostante le spinte da parte dei giovani allo svecchiamento e quelle
della discografia alla ricerca di ampliamenti di mercato, la musica italiana non riuscì a
distogliere un’attenzione tutta particolare al cantautorato. Anche la stampa, quella militante,
ebbe in questo frangente un ruolo - per utilizzare un’espressione ad essa molto cara - per certi
versi reazionario, tenendo sempre in particolare conto le produzioni che utilizzassero un
linguaggio popolare fortemente legato al territorio e guardando con circospezione e una certa
diffidenza ad alcune forme di sperimentazione e di avanguardia.
Come già accadde dieci anni prima, la parola passò nuovamente ai cantautori, l’unica
categoria in grado di attraversare indenne tutte le fasi più critiche della storia musicale italiana.
Si affacciava una terza generazione di cantautori, meno arrabbiati e più propensi all’intimismo,
più rappresentativi dell’Italia che stava cambiando: Francesco De Gregori, Lucio Dalla,
Antonello Venditti, Eugenio Finardi, Claudio Lolli, Ivano Fossati, Edoardo Bennato.
L’esperienza del rock aveva però determinato delle differenze sostanziali rispetto alla fine
degli anni ’60: l’abbattimento delle categorie e dei generi aveva coinvolto anche il loro campo
d’azione e lo dimostrava anche il folksinger per eccellenza Bob Dylan, impegnato con la Band
di Robbie Robertson a forme nuove e diverse di ricerca, abbandonando le realizzazione per
sola voce e chitarra acustica in favore di sonorità particolari, elettriche ed anche elettroniche. 86
Il non sopito desiderio di suonare in gruppo venne però soddisfatto da un altro fenomeno: la
riscoperta del jazz e la creazione di importanti strutture ovvero le scuole popolari di musica.
La nascita e la diffusione delle scuole popolari di musica, nelle quali insegnavano i
migliori jazzisti italiani, furono decisive per indicare il cammino da seguire. Il jazz italiano
che si studiava nelle scuole popolari aveva un carattere fortemente sovversivo ed in pratica
segnava una linea di continuità con il morente rock: “era mosso da precise esigenze da nuovi
modi di rapportarsi in modo antagonista e polemico, sentiva la necessità di rispecchiare fino in
fondo nella musica le tensioni esterne al di là di ogni standardizzazione delle formule,
rimettendo continuamente in discussione, all’interno del fare musica stesso, l’organizzazione
del discorso musicale. Non era musica accademica ma concreta, perché aveva il coraggio di
‘sporcarsi’ di impegno concreto, di esprimere e non riportare, di elaborare, di inventare, di
comunicare” 87 .
Tra il 1976 ed il 1978 nell’immaginario collettivo dei giovani, a causa dell’assenza dei
grandi gruppi stranieri e la fine della stagione dei raduni nostrani, si sostituì il festival
itinerante, completamente gratuito, di ‘Umbria Jazz’. La manifestazione conobbe un’affluenza
massiccia ed inaspettata: oltre diecimila persone, armate di sacco a pelo, invasero
pacificamente le piazze delle diverse città in cui si potevano seguire musicisti di indubbio
livello internazionale: Keith Jarrett, Sonny Stitt, Don Pullen, Charles Mingus, oltre ad una
folta rappresentanza di italiani.
Anche il jazz era in piena sintonia con il clima quegli anni e con le aspettative del
pubblico: se rock era trasgressione, fare jazz significava violare fino in fondo la norma
estremizzando, in un clima di creatività totale, tutti i rapporti che si creavano nell’atto
musicale eliminando ogni divisione tra i vari momenti della creazione musicale, compreso il
momento della sua esecuzione 88 . Il fenomeno rock rifluì, ma non le istanze che lo avevano
generato (almeno non ancora) ed il jazz lo sostituì nel suo ruolo di codice di massa e
catalizzatore unificante di energie collettive. Esso era in sé una musica pura, di creatività e
57
quindi impegnativa, magari strumentalizzata ma rigorosamente fuori delle logiche mercantili;
il rock invece, anche quello sperimentale, ne era dentro fino al collo. 89
58
Note:
1
Cfr. P. Gisnborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi; Einaudi, Torino, 1989
Da Charles Fourier (1772-1837). Ostile al mondo della grande industria, legato al mondo agricolo ed
artigianale, egli auspicava la creazione e la moltiplicazione di falansterii, comunità volontarie di lavoro e di vita
associata, formate di 1600-1800 persone, che potevano scegliere una vita comunitaria (parzialmente) oppure una
vita domestica familiare; produzione e reddito erano socializzati. I falansterii, moltiplicandosi nella società,
l'avrebbero svuotata e disintegrata dall'interno, eliminando la necessità dello stato, delle banche, della
concorrenza, delle guerre, dei conflitti di classe; la teoria ricordava alcune immagini del primo cristianesimo
antico, ed infatti Fourier trova una concordanza fra esso e le sue convinzioni.
3
Filosofo tedesco. Sotto lo stimolo della psicanalisi e del marxismo condusse una serrata analisi critica della
società industriale e della sua natura oppressiva.
4
Cfr. P. Ginsborg, Op. cit
5
Nel maggio del ‘68, in Francia trovarono origine tutti i movimenti e tentativi rivoluzionari che nel periodo
successivo si diffusero in Europa.
6
Fu il gruppo più importante ed attivo. Nacque il 1 novembre del 1969 sull’onda dello stragismo, ebbe un ruolo
importantissimo nella contro-informazione quotidiana e fu fucina di molti giornalisti. Il gruppo è uno dei più
antichi della sinistra extra-parlamentare, molto diffuso sia fra gli studenti che fra gli operai. Si sciolse
definitivamente durante congresso di Rimini nel novembre del 76.
7
Cfr. P. Ginsborg, Op. cit.
8
Cfr. C. Donolo; prefazione in Giovani all’opposizione, K. Keniston, Einaudi Paperbacks, Torino 1972
9
Cfr. K. Keniston; Op. cit. p. 32 e seg.
10
Cfr. K. Keniston; Op. cit. pag. 275 e seg.
11
Cfr. L. Alberelli; Progressive rock, www.progressiverock-online.com
12
Dal nome dell’inventore del sintetizzatore, Robert Moog, che realizzò nel 1964 il primo esemplare
interfacciato con una tastiera.
13
Antesignano dei futuri campionatori, era un apparato costituito da una serie di nastri in loop, intercambiabili,
uno per ogni tasto dello strumento. Permetteva di riprodurre il suono di un ensemble d’orchestra; a questo
proposito furono molto utilizzati i suoni degli archi, i flauti e i cori.
14
Cfr. M. Chiusi; Storia del rock: Il progressive, www.ondarock.it
15
Cfr. A. Tasselli; Italian Prog Rock, in www.drivemagazine.net
16
Cfr. G. Pintor in G. Castaldo, S. Dessì, B. Mariani, G. Pintor, A. Portelli, Muzak, Savelli Roma 1978 p. 133
17
Cfr. B. Mariani in Op. cit.p. 113
18
Formato long playing, ovvero il 33 e 1/3 rpm.
19
Cfr. Franz Di Cioccio, prefazione ad Enciclopedia del Rock Italiano, C. Rizzi (a cura di); Arcana Editrice,
Roma 1993
20
Cfr. C. Rizzi (a cura di), Op. cit.
21
Cfr. AA.VV.; L’italia del Rock, (a cura di) G. Castaldo, Edizioni La Repubblica, Roma 1994
22
Emerson, Lake & Palmer
23
Cfr. P. Barotto, Il Ritorno del Pop Italiano, produzione indipendente
24
Area, Arbeit Macht Frei, Cramps (1972)
25
Cfr. P. Barotto, Op. cit.
26
Cfr. AA.VV., Op. cit.
27
Cfr. G. Pintor in Op cit. p. 33
28
Cfr. M. Giusti, Demetrio Stratos,Tascabili Mursia Milano 1979, p. 44
29
Acclamata folksinger statunitense
30
Cfr. C. Rizzi (a cura di), Op. cit.
31
Cfr. AA.VV., Op. cit.
32
Geniale compositore contemporaneo, erede della rottura della scuola di Darmstadt.
33
Cfr. Il piccolo Hans - rivista di analisi materialistica, n. 24 ottobre/dicembre 1979, Dedalo libri
34
Cfr. J. El Haouli, Demetrio Stratos - alla ricerca della voce-musica, Auditorium, Milano 2003, pp. 50-53
35
Cfr. J. El Haouli, Op cit. pp. 79-83
36
Cfr. M. Giusti, Op. cit. p. 13
37
Cfr. Intervista a Franco Ferrero, J. El Haouli, in Op cit. p. 119
38
Al progetto parteciparono Demetrio Stratos, Walter Calloni, Paolo Donnarumma, Stefano Cerri, Mauro Pagani,
Paolo tofani e con la supervisione di Gianni Sassi.
39
Cfr. M. Giusti, Op. cit. p. 23
2
59
40
Rifiutando da sempre la logica dello show business e nonostante la sua fama, Demetrio non navigò mai in
buone acque finanziarie. Gli oltre 100 milioni ricavati del concerto furono donati dagli organizzatori alla vedova
Daniela Ronconi e alla figlia Anastassia.
41
Critico musicale.
42
Cfr. Massimo Villa, Pensando a Demetrio Stratos in J. El Haouli, Op cit. p. 149
43
Bassista di Emerson Lake & Palmer.
44
Cfr. M. Lenzi, Breve cronaca del rock progressivo italiano, da www.sezionamusica.it
45
Storico locale londinese in cui si sono esibiti i più importanti gruppi rock della scena ’60 e ’70.
46
Cfr. Biografia ’70; www.pfmpfm.it
47
Primo album della Premiata Forneria Marconi, pubblicato nel 1972 per l’etichetta Numero Uno.
48
Premiata Forneria Marconi, Per un amico, Numero Uno (1972)
49
Cfr. Biografia ’70, Op. cit.
50
Rivista musicale inglese.
51
Cfr. Biografia ’70, Op. cit.
52
Organizzazione per la liberazione della Palestina
53
Premiata Forneria Marconi, Chocolate Kings, Numero Uno (1975)
54
Cfr. P. Battifora, intervista a Franz Di Cioccio, Il secolo XIX, 10 gennaio 2003
55
S. Gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e consumismo nell’Italia degli anni cinquanta, in
“Quaderni storici”, XXI (1986), n.62, pag. 574-575
56
Presidente della RAI dal 1961 al 1974.
57
Realizzata nel 1967, aveva una programmazione prettamente musicale e di taglio giovanilistico che si
discostava dalla tradizionale austerità della BBC. Fu una mossa per mettere fuori gioco le molteplici radio private
(ed indipendenti) che trasmettevano sul suolo inglese, senza generare scontenti negli ascoltatori delle stesse che
poterono usufruire di una programmazione in linea di principio analoga, ma più controllata ed edulcorata.
58
Cfr. AA.VV, Op. cit.
59
Cfr. C. Rizzi (a cura di), Op. cit.
60
Cfr. AA.VV., Op. cit.
61
Cfr. www.giannisassi.org
62
Cfr. G. Pintor in Op. cit. pp. 73-74
63
Celebre critico musicale italiano
64
Cfr. AA.VV., Op. cit.
65
Cfr. AA.VV., Op. cit.
66
Espressione coniata dal periodico “Re Nudo” per indicare i giovani sradicati ed alienati.
67
Manifestazione musicale realizzata dalla tv italiana.
68
Cfr. AA.VV., Op. cit.
69
Bottiglia incendiaria inventata dai sovietici durante la seconda guerra mondiale. Molotov era il braccio destro
di Stalin ed in suo onore venne messo il suo nome. In Italia nel, 1967, per la prima volta venne pubblicata su una
le istruzioni di fabbricazione. Venne usata molto durante la rivolta nera in America dell’estate del’ 67. Poi in
Europa. Il meccanismo, già molto semplice, venne perfezionato dai militanti dei servizi d’ordine del movimento
rivoluzionario nel ’77.
70
Cfr. AA.VV., Op. cit.
71
Cfr. AA.VV., Op. cit.
72
Cfr. E. Assante e G. Castaldo; Op. cit. pp. 441-442
73
Dallo slogan utilizzato per i manifesti di Woodstock.
74
Dietro le quinte.
75
Cfr. AA.VV., Op. cit.
76
Cfr. AA.VV., Sarà un risotto che vi seppellirà, Squilibri, Milano 1977, p. 62
77
Cfr. Franz Di Cioccio, prefazione ad Enciclopedia del Rock Italiano, Cesare Rizzi (a cura di); Arcana Editrice,
Roma 1993
78
Cfr. G. Casiraghi; Enciclopedia del Rock Italiano, C. Rizzi (a cura di); Arcana Editrice, Roma 1993
79
Partito di unità proletaria.
80
Cfr. AA.VV., Op. cit.
81
Cfr. AA.VV., Op. cit
82
Cfr. AA.VV., Op. cit.
83
A questo proposito cfr. il saggio di G. Pintor “Emerson Lake & Palmer, tanta tecnica…e la musica?” in Op.
cit.
60
84
Cfr. Franz Di Cioccio, prefazione ad Enciclopedia del Rock Italiano, C. Rizzi (a cura di); Arcana Editrice,
Roma 1993
85
Cfr. G. Pintor in Op. cit.p. 113. Riguardo questa affermazione bisogna dire che solo nel 1979 si assisterà ad
una perfetta sinergia tra rock e musica d’autore con il doppio album Fabrizio De Andrè in concerto in cui la PFM
ne curò gli arrangiamenti. Lo splendido risultato ottenuto da questa collaborazione rimarrà purtroppo episodico e
interrogherà sulle potenzialità della sinergia tra cantautori e rock.
86
E’ quest’ultimo il caso di Franco Battiato, raffinatissimo cantautore che già nei primi anni settanta diede alla
luce due dischi in cui trionfava l’elettronica: ‘Fetus’ (1971) e ‘Pollution’(1972).
87
Cfr. G. Castaldo, Op. cit. pp. 113-121
88
Cfr. G. Castaldo, Op. cit. pp. 136-141
89
Cfr. M. Giusti, Op. cit. p. 58
61
1977-1979: gli anni del disincanto
3.1 Gli anni della P 38
Possono essere ricondotti a tre i fattori che contribuirono in misura considerevole
all’escalation terrorista che segnò la seconda metà del decennio. Il primo fu la crisi dei gruppi
rivoluzionari in seguito ai risultati elettorali rivelatisi per loro un vero disastro 1 e la
conseguente delusione sia dei dirigenti sia dei loro seguaci. Ben presto quei gruppi si
disgregarono uno ad uno sotto il peso dell’autocritica e della demoralizzazione. I gruppi
rivoluzionari avevano compiuto molti errori, ma si erano almeno proposti di costruire un
movimento di massa che escludesse azioni terroristiche ed individuali. Con la loro scomparsa,
i vecchi quadri e la nuova generazione fortemente politicizzata dei tardi anni ’70 trovarono
improvvisamente un vuoto politico alla sinistra del PCI, vuoto che tentò di occupare
Autonomia Operaia 2 , un’indefinita federazione di collettivi di base noti soprattutto per la loro
violenza: dietro di essa, infatti, si nascondevano le bande terroriste. Il secondo fattore è da
ricercarsi nella frattura che venne a crearsi tra PCI e quel ceto giovanile urbano ed
universitario che gli aveva dato un appoggio cruciale nelle elezioni del giugno ’76. Più il
partito si avvicinava al governo rafforzando la sua alleanza con la DC, più cercava di ribadire
con forza le proprie credenziali di partito responsabile. Durante questi anni il partito
comunista di Berlinguer divenne il più zelante difensore delle tradizionali misure di legge e di
ordine, anziché farsi campione delle campagne per i diritti civili. Un esempio emblematico di
tale atteggiamento fu l’appoggio acritico dato al governo per il rinnovo della legge Reale 3
sull’ordine pubblico, contro la quale aveva votato nel 1975. Come terzo ed ultimo fattore, è
possibile individuare un’inspiegabile fiacchezza delle forze dell’ordine. L’anno 1976 registrò
un rafforzamento in termini numerici ed organizzativi delle bande terroriste, in stridente
contrasto con il declino dei gruppi similari negli altri paesi europei interessati al fenomeno 4 .
Le ‘Brigate Rosse’ 5 all’inizio del 1976 erano destinate a scomparire, ma fu permesso a loro e
ad altri gruppi terroristici come ‘Prima Linea’ 6 , di crescere nuovamente nei diciotto mesi
successivi. Non si sa perché la polizia allentò la vigilanza: forse perché essa riteneva di aver
già vinto la battaglia; o forse perché, seguendo un’interpretazione più inquietante, al
terrorismo fu nuovamente permesso di espandersi per condizionare in modo ancora più
rilevante il già infuocato clima politico 7 e la paventata entrata nel governo del Partito
Comunista, perpetuando così una nuova fase della strategia della tensione.
Le ragioni della profonda frattura che si stava aprendo tra sinistra istituzionale e una
parte della gioventù italiana non erano solo politiche, ma investivano anche cause di ordine
sociale ed economico: ricordiamo, a proposito, che la crisi generalizzata della fine degli anni
settanta si traduceva in disoccupazione crescente, sia nel settore manuale che in quello
intellettuale. Furono principalmente questi fattori, dunque, a favorire la ‘tendenza militarista’
di una parte dello sfaccettato movimento giovanile; questa tendenza intendeva valorizzare la
cultura della violenza e organizzare nuovi soggetti sociali per la lotta contro lo Stato.
Gli incidenti con le forze dell’ordine divennero sempre più frequenti, premeditati e
sistematici; le città divenivano quasi ogni giorno teatro di scene di guerriglia urbana di
62
inaudita violenza in cui, tra auto date alle fiamme, vetrine di negozi infrante, saccheggi,
fumogeni, lanci di pietre, facevano la loro comparsa le armi da fuoco nelle mani dei
contestatori: le famigerate P 38. A questo proposito Umberto Eco ricorda come a Roma, nel
1977, gli scontri con la polizia avvenissero puntualmente ed in maniera sistematica ogni
sabato pomeriggio, in un lasso di tempo che andava dalle 5 alle 7 di sera. 8
Nel marzo 1977, un’assemblea di Comunione e Liberazione all’Università di Bologna
venne interrotta da studenti di sinistra, quindi scoppiarono incidenti e scontri nella zona
universitaria. Il rettore chiamò i carabinieri i quali, come era spesso successo in passato,
aprirono il fuoco senza necessità: Francesco Lorusso, simpatizzante di Lotta Continua, fu
ferito a morte. Ne seguirono scontri furiosi tra giovani e polizia; la notizia della tragica morte
fu data attraverso il circuito della radio alternative e quasi immediatamente la rivolta scoppiò
anche nelle altre città. A Bologna la situazione divenne così preoccupante da giustificare, da
parte della questura locale, l’intervento e il pattugliamento delle strade da parte di mezzi
blindati.
Le Brigate Rosse tentarono di cavalcare i disordini del ’77 con la speranza che il
terrorismo potesse diventare un fenomeno di massa, tant’è vero che in questo periodo si
intensificarono le loro azioni. “Questa nuova fase delle BR fu detta ‘strategia di
annientamento’: venivano annunciate azioni indiscriminate, miranti a colpire professionisti e
‘servi dello stato’, con l’obiettivo di terrorizzare interi settori delle classi dominanti e dei loro
fautori, in modo da impedire il regolare funzionamento della macchina statale” 9 . I nemici
delle BR erano molteplici, la DC restava il principale bersaglio ma ravvisavano un pericolo
anche nel ‘PCI traditore’. Oltre a poliziotti e magistrati entrarono nel mirino del terrorismo
anche i giornalisti: nel giugno ’77 fu ferito alle gambe Indro Montanelli, allora direttore del
‘Giornale Nuovo’ e nel novembre dello stesso anno fu colpito a morte Carlo Casalegno, vice
direttore di ‘La Stampa’. In un biennio le BR assassinarono quindici persone e ne ferirono
oltre sessanta.
La parabola delle BR vide il culmine e l’inizio di un veloce declino nel 1978, dopo l’azione
più eclatante mai intrapresa dal gruppo terroristico e parimenti la più critica e destabilizzante
della storia d’Italia repubblicana: il rapimento di Aldo Moro, che all’epoca rivestiva la carica
di presidente della Democrazia Cristiana. Il 16 marzo del 1978 un commando di terroristi a
volto coperto tese un’imboscata alla macchina dell’onorevole Moro e alla sua scorta: i suoi
uomini vennero assassinati assieme all’autista, mente quest’ultimo, incolume, fu sequestrato.
Per 54 giorni le BR tennero Moro prigioniero in un nascondiglio segreto e l’intera opinione
pubblica e la classe politica italiana si interrogò sull’atroce dilemma se salvare un uomo
scendendo a patti coi terroristi o perseguire la via della fermezza salvando così l’integrità della
Repubblica. Seppur con riluttanza, la DC guidata da Giulio Andreotti decise di non trattare:
Aldo Moro fu ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978; i suoi assassini abbandonarono
il cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma, nei
pressi sia della sede del PCI che della DC.
L’assassinio di Moro fu l’inizio di una parabola discendente sia per motivi endogeni alle
stesse BR, in quanto la decisione di uccidere il presidente della Democrazia Cristiana creò non
pochi dissensi all’interno del gruppo terrorista sia per motivi esogeni, per i quali si diffuse un
profondo risentimento di ripulsa da parte della società civile ad azioni di questo genere e i
terroristi non furono mai capaci di convincere più di qualche centinaio di persone sull’utilità
della lotta armata. Questi ultimi furono sempre più isolati ed aumentarono le defezioni nelle
loro fila, vennero inoltre approvate leggi ad hoc che permettevano notevoli riduzioni di pena
per i terroristi pentiti che avessero collaborato con le autorità al fine di smascherare le
organizzazioni clandestine. In molti aderirono a questo programma, contribuendo così a
63
smantellare le colonne delle BR e a permettere allo Stato democratico di avere la meglio sulla
minaccia terrorista.
Gli anni di piombo produssero un mutamento profondo nell’atteggiamento di un’intera
generazione nei confronti della violenza. Man mano che si susseguivano gli omicidi, i fautori
della violenza rivoluzionaria rimasero isolati tra gli stessi giovani. “Alla fine del decennio i
problemi più gravi dello Stato Italiano non erano stati risolti, ma si era abbandonata l’idea di
risolverli con la forza”. 10
3.2
Novità e vitalità del movimento del ‘77
“Il ’77 è stato l’altrove rispetto al cielo della politica, il luogo in cui anche solo per un
istante si è sperato di poter liberare l’esistenza dall’invadenza del razionale, di poter partire dai
proprio bisogni per rimodellare la realtà, per recuperare spazi di vita senza sottomettersi ad
alcun potere” 11 . Nelle città italiane, durante il ’77, si sviluppò un diverso movimento
giovanile. Disillusi dalla politica tradizionale, spesso incapaci o restii a trovare
un’occupazione che non fosse puramente marginale o precaria, animati soprattutto da un
desiderio di diffusa socialità e di divertimento, i giovani del movimento del ‘settantasette’
differivano radicalmente dai loro idealisti e ideologizzati omologhi del ’68. Il valore della
‘vita’ dell’uomo assunse un ruolo primario assieme al bisogno ed al piacere della socialità e
della solidarietà. In termini generali, è possibile differenziare il movimento del ‘77 in due
tendenze, anche se spesso si intrecciarono. La prima era ‘spontanea’ e ‘creativa’, sensibile al
discorso femminista, ironica e irriverente, fautrice di un linguaggio apparentemente dissociato
e dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa 12 , incline a creare strutture alternative
piuttosto che a sfidare il potere. Gli ‘indiani metropolitani’ 13 , con il loro abbigliamento e la
faccia dipinta, simbolo giocoso del rifiuto della società industriale, ne furono i rappresentanti
più vivaci; con essi “finì l'idea leninista secondo la quale il potere si sconfiggeva solo
“prendendo il Palazzo d'Inverno, quindi sostituendosi ad esso” 14 . La seconda tendenza,
‘autonoma’ e militarista, intendeva valorizzare la cultura della violenza degli anni precedenti e
organizzare i ‘nuovi soggetti sociali’ per una battaglia contro lo Stato. 15
Il movimento del ’77 si differenziava da quello del ’68 per la ricerca deliberata, da parte
di alcuni settori, dello scontro violento. Esemplificando, si potrebbe dire che il movimento del
'68 fu originariamente ‘buono’, non tanto nei suoi intenti e propositi che erano invece
antisistemici, sovversivi e rivoluzionari, quanto negli strumenti che utilizzava per perseguirli:
occupazioni, proteste pacifiche, non violenza, resistenza passiva agli sgomberi, il tutto in
piena filosofia ‘flower power’. Fu il contesto in cui si trovò ad operare (repressioni
poliziesche, campagne diffamatorie dei giornali, strage di Milano del 12 dicembre 1969) che
lo rese ‘cattivo’, costringendolo a cercare risposte che fossero adeguate a quelle messe in atto
dagli apparati repressivi, legali e non, dello Stato a alla minaccia delle aggressioni fasciste. Il
clima in cui nacque e si sviluppò il movimento del '77, invece, era del tutto diverso, già
incattivito all'origine. Ogni parvenza di presunta imparzialità delle istituzioni statali nella lotta
di classe era stata spazzata via dagli intrighi e dalla scoperta dei servizi segreti deviati. La
repressione occulta, subdola e disgregante, condotta dai servizi segreti, si accompagnava
all'introduzione di nuove e più severe leggi di polizia, volte principalmente a colpire le
manifestazioni di piazza e le proteste. L'approvazione della famosa ‘legge Reale’, sull'ordine
pubblico, ne fu un chiaro esempio. 16
64
Un’altra differenza sostanziale del ‘nuovo Movimento’ rispetto a quello dei suoi fratelli
minori era data dal carattere smaccatamente borghese della maggior parte dei contestatori
sessantottini. La crisi dei partiti della nuova sinistra, a seguito della sconfitta elettorale del
1976, provocò un profondo rimescolamento sociale che mise in contatto gruppi di giovani
disoccupati, sottoccupati, marginalizzati nelle periferie degradate delle città, con studenti
universitari e medi, precari, fuori sede, operai in cassa integrazione o licenziati, freaks,
militanti in crisi delle organizzazioni della nuova sinistra, femministe, appartenenti alla
frastagliata area dell'autonomia operaia. Una massa consistente di giovani e giovanissimi si
configuravano come nuovi soggetti politici venuti fuori dalle sacche del proletariato, dal
profondo Sud trapiantato nei quartieri-dormitorio delle metropoli industriali. Questi soggetti
politici emergenti, che erano tali anche se non avevano - e non potevano avere - una cultura e
una ideologia politica limpida, rappresentavano il prodotto della crisi economica, della
disoccupazione e sottoccupazione galoppante, dello sfacelo delle istituzioni, dello scollamento
sempre piú drammatico fra civiltá contadina e civiltá industriale, tra Nord e Sud. 17
I nuovi circoli proletari giovanili occupavano edifici e case sfitte per creare luoghi di
socializzazione, isole liberate in cui riunirsi, similmente a quanto era avvenuto negli anni
precedenti dentro le scuole superiori più politicizzate e dentro le Università. Si riversavano,
poi, nel centro delle città per riappropriarsi del valore d'uso delle merci, secondo il sofisticato
linguaggio di allora, praticando le cosiddette ‘spese proletarie’, l'autoriduzione dei biglietti
cinematografici e teatrali, scontrandosi con la polizia per entrare gratis ai concerti. Con
linguaggio efficace, Toni Negri descriveva questo nuovo fenomeno sociale, così come si era
manifestato al festival di Re nudo al Parco Lambro di Milano nel 1976:
“[…] il primo giorno... fu tranquillo, già al secondo ci fu
l'esproprio proletario dei camion dei viveri degli organizzatori,
il terzo giorno sparse squadre vennero fuori dal Parco a cercare
supermercati da svaligiare - colpi d'arma da fuoco risuonarono
- era apparsa la polizia” 18
Spinte spontanee e soggettive, bisogni e desideri si incanalavano in parte nella gestualità
della violenza diffusa. La nuova parola d'ordine ‘riprendiamoci la vita’, cresciuta nei gruppi
di autocoscienza femministi, diventava patrimonio comune di questi giovani, coniugandosi
con quella vecchia di alcuni anni ‘per il comunismo e la libertà’, come reclamava la canzone
di Lotta Continua, scritta per sorreggere la sua iniziativa politica nei primissimi anni Settanta.
A differenza del '68 e della più volte ricordata ed emblematica contestazione della Scala a
Milano, questa volta “non si contestava ideologicamente la ricchezza, piuttosto essa era un
bene negato” 19 . Il movimento del ’77 vide trasferire il suo centro di gravità dalle metropoli
sotto assedio dal fuoco terrorista come Roma e Milano a Bologna, città che conosceva in quel
periodo una grande esplosione artistica. A contribuire notevolmente a questa nuova centralità
di Bologna fu senz’altro la presenza del Dams 20 , un nuovo corso di laurea che rompeva con i
tradizionali studi accademici e che convogliava nel capoluogo emiliano giovani da tutta
Italia. Era il luogo dove si praticava una cultura diversa, ci si confrontava con gli insegnanti
in maniera alternativa e non codificata e si poteva approfondire qualsiasi argomento.
Il Dams fu una delle culle del Movimento che cercava la strada per migliorare la vita,
per liberare l’essere umano dall’obbligo del lavoro, trasformando quest’ultimo in qualcosa
non solo di accettabile ma anche di desiderabile. L’idea era quella di fare dei propri interessi
un lavoro. 21
65
3.3
I nuovi approcci musicali della discomusic e del
punk
Il clima di quegli anni si respirava anche nella musica. Il ‘prog rock’, arrivato per
seppellire i fasti di una psichedelia che non trovava più riscontro nel suo pubblico, si trovò
anch’esso nella condizione di non saper parlare più la stessa lingua dei suoi fruitori. Era una
crisi generalizzata che non investiva, come abbiamo visto, solo l’Italia, ma anche tutto il
mercato internazionale. Non era più il tempo per i mega-concerti oceanici dei Led Zeppelin e
per l’eccessiva autoreferenzialità che aveva interessato il rock progressivo degli ultimi anni. I
gruppi storici che avevano cavalcato i sessanta e i settanta si sciolsero uno dietro l’altro.
La conseguenza più significativa di questo stato di cose fu l’avvento, in pompa magna e
con grossi favori di pubblico, della discomusic: una musica che per la prima volta non era fatta
per essere suonata dal vivo ma esclusivamente su disco, che riprendeva dal ‘prog’ gli
arrangiamenti enfatici e magniloquenti con la presenza di sezioni orchestrali ma se ne
discostava per la vacuità dei testi e per l’importanza riservata esclusivamente alla melodia e al
ritmo. Si trattava, evidentemente, di musica facile e disimpegnata, simbolo di un atteggiamento
evasivo e individualistico. La discomusic faceva alzare dai prati fangosi dei festival quei
ragazzi che pochi anni prima avevano ascoltato, assorti e quasi in meditazione, i voli pindarici
dei sintetizzatori di Keith Emerson e delle chitarre ‘processate’ di Robert Fripp 22 , li ripuliva, li
vestiva alla moda e infine li faceva ballare sulle piste da ballo, tornando indietro di 20 anni e
riportando la musica più a contatto con il corpo e la dimensione fisica rispetto a quella
cerebrale. Il successo pressoché unanime riscontrato dalla discomusic è indicativo di quanto vi
fosse un rifiuto pressoché generalizzato di qualsiasi forma di impegno. La ritrovata centralità
del ballo fu confermata anche dalla nascita delle discoteche rock, luogo di incontro e di sfogo
per tutti coloro che, non riconoscendoci nel nuovo fenomeno discomusic, amavano ballare i
ritmi della neonata new wave.
La più grande rivoluzione musicale della seconda metà del decennio nacque, però, nelle
cantine newyorkesi e trovò terreno fertile per crescere ed esplodere in Inghilterra. Il nuovo
slogan era ‘No future’ 23 : “nessun futuro, nessuna speranza, nessun desiderio, il manifesto di
una generazione che non era cresciuta con i sogni del decennio precedente ma con la fine di
quei sogni” 24 . Anche il mondo musicale si trovava a fare i conti con una generazione che non
voleva più cambiare il mondo poiché sapeva che questo non poteva essere cambiato e quindi
gridava tutta la sua disperazione e la sua rabbia. La risposta a queste nuove esigenze fu il punk.
Questo venne a scardinare la convinzione secondo cui il rock si era ormai ridotto ad esercizi di
pura perizia tecnica che lo allontanavano sempre di più dalla sua spontaneità primordiale. Il
punk, con furia iconoclasta, azzerò tutto, rimettendo in discussione l'approccio sociale,
culturale e artistico della musica rock: rozza, veloce, rumorosa e dal vivo assordante dai testi
ironici, oltraggiosi e taglienti. La melodia lasciava il posto all’urlo selvaggio, ritmo e armonia
si riducevano a martellamenti ossessivi; l’invenzione era bandita, quasi a dimostrare
l’impotenza della fantasia, in un mondo giovanile che, pochi anni prima, aveva reclamato
‘l’immaginazione al potere’. Per suonare il punk non era necessario essere grandi musicisti,
alle volte non era necessario nemmeno essere musicisti: Sid Vicious, leggendario bassista dei
Sex Pistols, soleva suonare il suo strumento su una corda sola e non certo per scelta tecnica o
stilistica. In pieno contrasto con i virtuosismi del rock che lo aveva preceduto, il punk
propugnava un ritorno alle origini, ad un suono elementare depurato da tutti i barocchismi. Uno
dei meriti riconosciutogli fu quello di incentivare nuovamente la formazione di gruppi musicali
giovanili, le cui ali erano state tarpate dagli eccessivi tecnicismi del rock progressivo che
66
scoraggiavano i musicisti alle prime armi ma, d’altro canto, questa nuova filosofia, per la quale
bastava solo ‘collegare la chitarra all’amplificatore e suonare’, comporterà un impoverimento
del discorso musicale che, a fasi alterne, si farà sentire fino ai giorni nostri.
Il punk non fu solo un genere musicale, ma divenne ben presto uno stile, una moda, un
fenomeno di costume. Il carattere globalizzante ma allo stesso tempo contradditorio del punk è
riscontrabile proprio nel fatto che per la prima volta venne chiesto ai suoi seguaci di aderire
non solo alla musica ma anche a tutto il cosiddetto ‘epitesto pubblico’: pertanto i capelli corti e
colorati, le creste, le spille da balia, i jeans e i giubbotti di pelle strappati divennero la divisa
ufficiale di una generazione senza sogni che non voleva accettare le regole e le imposizioni
dell’establishment, voleva provocare deliberatamente lo sdegno della società e viverne ai
margini ma, nel contempo, impediva di scegliere una forma alternativa e originale di
rappresentazione personale che si discostasse troppo dal modello condiviso. Mentre i
movimenti degli anni ’60 e primi ’70 predicavano e incoraggiavano un’interpretazione
personale ed originale, quella del punk odorava di ribellione mascherata; utilizzando il
‘linguaggio sinistrese’ di pochi anni prima: insomma, si può affermare che instillasse una falsa
coscienza. Benché i tempi ancora non fossero maturi per analisi di questo genere, le regole del
mercato globalizzato cominciavano a farsi sentire in maniera sempre più pressante e
richiedevano un’adesione totale ed incondizionata.
3.4
La fantasia “demenziale” dei nuovi gruppi
italiani
Nel 1977, a pochi mesi dagli ultimi festival, il panorama musicale italiano si presentava
assai desolante. L’edizione del 1976 del Parco Lambro fu definita direttamente dagli stessi
organizzatori ‘l’apocalisse del pop’. Ma fu proprio lì, dallo sfacelo del mito di un certo modo
di stare insieme fatto di pace, amore e misticismo collettivo che nacque la necessità di trovare
altre strade, altri modi. E vennero infatti altre feste: raduni senza orchestre e divi pop-rock,
senza danze collettive e girotondi di corpi nudi sotto la pioggia. Si tagliò radicalmente il
cordone ombelicale con tutto il retroterra del sessantotto.
Il generalizzato rifiuto del progressive si fece sentire anche in Italia, con l’appendice tutta
tricolore dell’accusa di commercializzazione. Alla nostra band più rappresentativa in campo
internazionale, la PFM - descritta come un grosso carrozzone vestito a festa e costruito pezzo
per pezzo per la meraviglia dell’ascoltatore - non vennero risparmiate durissime accuse:
“[…] Questo coloratissimo filmone, può dunque interpretare la
complessità dei comportamenti, delle idee, della violenza di tutti
i giorni? Cosa si può dire di attuale confermando un diagramma
di organizzazione del suono tanto rigido quanto prevedibile?”. 25
La costruzione dei pezzi della band milanese era vista come processo di addizione dei singoli
strumenti e non da un loro momento di espansione di ricerca estemporanea o predefinita. “I
brani della PFM, fitti di arpeggi, contrappunti ed unisoni tecnicamente complessi e
perfettamente intrecciati, non avevano però il valore di un’intuizione essenziale che scavalchi il
‘già detto’ della forma, appoggiandosi generalmente agli stessi schemi della strofetta cantata, la
loro collocazione espressiva è la stessa” 26 . Questa affermazione la dice lunga sul perché gli
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Area potettero godere, da parte di tale critica severa ed intransigente, di una condizione di
favore fino alla fine della loro carriera, sebbene anche loro non siano stati esenti da valutazioni
negative, soprattutto da parte dei circoli proletari, più pragmatici e meno intellettualmente
raffinati, espressione di una realtà profondamente mutata rispetto ad appena pochi anni prima,
così come dimostra lo stralcio che segue:
“[…] Tre ore di spettacolo in cui la maggior parte dei giovani
non capiva cosa quella musica volesse esprimere. Senza mettere
in discussione le indubbie capacità degli Area, noi crediamo che
non è quel tipo di musica che ha la funzione di sensibilizzare i
giovani, di far capire come si fa a dire una cosa giusta anche in
modo allegro. Gli Area non rappresentano a nostro giudizio
un’alternativa di fronte alla musica di Orietta Berti. Perché
stare a fianco del proletariato giovanile non vuol dire
certamente tirare fuori tra un pezzo e l’altro delle false
espressioni di sinistra”. 27
Critiche di questo tenore vennero riservate anche alle altre band storiche quali Le Orme e il
Banco, accusate di perdita d’identità e di conformazione agli stilemi della canzonetta leggera.
In realtà questi gruppi non facevano altro che adattarsi alle mutate condizioni ambientali;
quello che prima di tutto mancò al rock progressivo, orfano dei festival e dei raduni, fu il
pubblico degli anni precedenti. Di qui all’oblio, il passo è breve.
Anche il cantautorato dimostrava un’evidente inversione di rotta rispetto al lustro
precedente. Nel generale ripensamento della ‘cosa politica’, si assisteva alla fuga dalla
militanza, anche da parte dei più politicizzati ed intransigenti come Francesco Guccini, che
nell’ironica e tagliente “L’Avvelenata” 28 si tolse qualche sassolino dalla scarpa soprattutto nei
confronti della severa critica musicale italiana 29 . La poetica dei cantautori divenne più ermetica
e intimista, troppo arretrata per quel delicato momento storico e dunque incapace di
rispecchiare tensioni, di farsi portatrice di valori positivi, men che meno rivoluzionari.
La musica, quella suonata nelle scuole, nei club, nelle mille realtà del movimento, ma
anche quella dei sempreverdi cantautori, sembrò quindi non riuscire più ad interpretare questa
nuova realtà e non entrò in sintonia con il movimento del ’77, con le sua ansie ed i suoi giochi,
con la sua violenza e la sua immediatezza. Erano passati appena pochi mesi dagli ultimi raduni
oceanici di Licola e Parco Lambro, ma la realtà correva a passo di carica e rendeva obsolete
esperienze che si credevano appena assimilate. Dalle parole di Giorgio Lavagna, leader e
fondatore dei Gaznevada, appare chiaro il mutamento repentino dei gusti e delle aspettative
insediate nella musica:
“Di Bologna ricordo vagamente che c’era il Movimento e che
l’atmosfera musicale era pessima: cantautori, canzoni di lotta,
jazz, musica sudamericana. Il peggio del peggio insomma. Per
fortuna nel 1976 uscirono i Ramones. Odiavo profondamente
tutto ciò che all’epoca costituiva la cultura musicale del
Movimento. Sognavo una scena come quella di Londra o New
York”.
Il movimento chiedeva una nuova musica, un linguaggio più irriverente e fantasioso ma allo
stesso tempo fortemente legato alla realtà. Questo linguaggio, almeno per un breve ed
intensissimo momento, fu trovato in un’improvvisa rinascita del rock, l’ultima degli anni
settanta, nel fiorire improvviso e generalizzato di nuove band, in un linguaggio intriso di punk,
68
ma armato soprattutto di ironia: il linguaggio di un rock che non ebbe timori a definirsi
‘demenziale’ 30 . Le band che nacquero sotto la spinta del punk seppero mantenere vivo quel
genuino ‘spirito rock’ che tutti i loro predecessori dei ’60 e ’70 – con la sola esclusione di
Nomadi ed Area – avevano prima o poi abiurato con tristi svolte commerciali e relative,
umilianti presenze nelle varie vetrine canzonettistiche 31 . Così Pier Vittorio Tondelli 32 definiva
questa nuova inclinazione:
“C’era una metropoli o una megalopoli in cui si diffonde
rapidamente e ossessivamente un contagio, e questo contagio è il
rock, ma forse, più precisamente, questa contaminazione è il
modo di tirarsi fuori e riciclare un po’ di storia fra una
popolazione giovanile e ardente, e naturalmente demente. Il
suono quindi si diffonde dalle cantine agli studios, ai capannoni,
arriva ad intravedere i confini della megalopoli, ritorna al
centro fra un continuo rimestamento di atteggiamenti, pose,
modelli e comportamenti di varie riconoscibilità”. 33
Questa versione nostrana del punk era mitigata da un nichilismo gioioso ed irrisorio,
parente stretto dell’ironia degli ‘indiani metropolitani’, ben lontano sia dall’oscurità dolorosa di
un certo punk newyorkese che da quello britannico, rabbioso e demolitore. La musica italiana
non poteva e non voleva indulgere all’angoscia e all’ansia degli attentati terroristici, delle
bombe, delle gambizzazioni: lo stesso termine ‘demenziale’ definiva bene una volontà di
rovesciamento totale del valore che era stato dato alla musica dal movimento del ’68 e dei
primi ’70 tranne che nel cercare uno specifico tutto italiano, ben distinto dalle analoghe
posizioni anglosassoni. Il punk-rock-demenziale era una musica che parlava una lingua
gergale, un sottocodice del linguaggio giovanile, conosciuto solo dagli stessi creatori e,
pertanto, fortemente autoreferenziale. Il rock di fine anni ’70 perdeva una volta per tutte il suo
carattere universalistico, accettando di non poter divenire lingua comprensibile a tutti e
rinchiudendosi, di fatto, in un ghetto. Era lontano da ogni possibile confusione o
contaminazione con altri generi e stili, suonato con energica elettricità sugli strumenti di base,
chitarra basso e batteria; strumenti utilizzati, comunque, con una perizia tecnica approssimativa
se non addirittura del tutto inesistente, in omaggio alla logica distruttiva del punk, come segno
di radicale rifiuto di tutto ciò che poteva apparire formalistico, virtuosistico, lezioso. Talvolta
la mancanza di tecnica veniva addirittura letta come un vanto, tanto per rispondere alla
necessità di dare una sonora spallata al rock progressivo ed alla canzone d’autore incapaci di
leggere la nuova realtà in atto. Anche nel nostro paese il punk significò ‘rifiuto’. Ma se in
Inghilterra si rifiutava l’establishment, in Italia lo status quo era già stato violentemente
attaccato e sbeffeggiato negli anni precedenti; la rabbia punk si rivolse non alle istituzioni, ma
agli stessi ‘gruppi rivoluzionari’ che per quasi un decennio avevano ‘governato’ il popolo del
Movimento con una solerzia non così difforme dalla tradizionale disciplina di partito. Il punk
rifiutava le gerarchie del movimento, le sue ipocrisie e la sua rigidità, non si riconosceva e non
si identificava in nessuna corrente e ideologia, era anarchico e lasciava ampi margini di
autonomia all’individuo.
Il nuovo rock vedeva la luce nella Bologna invasa dai blindati dell’esercito,
dell’assassinio di Francesco Lorusso e del convegno sulla repressione nella società italiana al
quale parteciparono 30000 studenti 34 . Nel clima reso acre dall’odore dei fumogeni, piccole
formazioni si lanciavano sulla scena, facevano rumore, criticavano uno stato di cose divenuto
paradossalmente insopportabile ridendoci su, prendendo in giro la stessa realtà politicizzata,
violenta, nervosa e cupa di una parte del movimento. “Questi gruppi giocavano con la
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‘demenza’ in maniera rivoluzionaria, facendosi beffe delle nuove maniere e di testi impegnati e
mettendo l’accento su un bisogno di libertà a tutto tondo, anche dai dogmi del movimento,
dalle sue regole non scritte, da tutto quello che poteva essere gerarchia, potere, comunicazione
univoca. La ‘demenza’ era, insomma, un’arma capace di scardinare le consuetudini. Era un
fucile spianato contro la logica e il senso comune, era l’imprevisto, la scheggia impazzita,
l’esercito degli irregolari della musica italiana che pretendeva spazio ed attenzione, perché
portatore di una nuova realtà fatta spesso di disperazione, di emarginazione, droga, quartieri
dormitorio da quali i giovani cercavano di uscire, per la prima volta da molti anni, in maniera
creativa e rumorosa”. 35
I maggiori esponenti della corrente ‘demenziale’ furono i bolognesi Skiantos: nel 1977
incisero un lavoro sperimentale intitolato ‘Inascoltable’, un rozzissimo cocktail di rock’n’roll e
liriche in rima indubbiamente dotato di notevole forza trasgressiva, frutto della fertile fantasia e
del delirio immaginativo del suo frontman e cantante, Roberto “Freak” Antoni. Gli Skiantos
erano degli antagonisti per eccellenza, registrarono il loro primo disco con musicisti che non si
conoscevano e di assai modesta maestria tecnica. Essi volevano entrare ed uscire dai ruoli, non
volevano diventare dei professionisti; giocando seriamente. come fanno i bambini e ricalcando
in pieno lo spirito dei settanta, in cui la vita era interessante poiché tutto poteva cambiare da un
giorno all’altro, senza la necessità di “monetizzare e capitalizzare ad ogni costo” 36 . Dopo
l’incisione da parte di Cramps Records nel 1978 del loro primo vero disco e manifesto artistico
“Mono Tono”, a far acquisire alla band notevole notorietà furono soprattutto gli happening ed i
concerti dal vivo all’insegna dell’ironia e del divertimento, caratterizzati da scambi di ingiurie
e lanci di ortaggi tra membri del complesso e pubblico. Memorabile, in tal senso, fu la
performance dell’aprile ’79 al Festival ‘Bologna Rock’ durante il quale il gruppo oltrepassò
ogni limite approntando addirittura una spaghettata sul palco sotto lo sguardo incredulo degli
spettatori.
Accanto alla demenzialità degli Skiantos e dei Windopen, gruppo che più di ogni altro
sembrava aver raccolto il testimone del movimento punk italiano, fece la sua comparsa la
sperimentazione elettronica che poi caratterizzerà quasi tutto il decennio a venire; elettronica
che non corrispondeva al senso moderno del termine, ovverossia musica composta attraverso
strumenti elettronici. “Fare musica elettronica alla fine degli anni settanta significava fare
sperimentazione pura: Stockhausen, la scuola di Darmstadt, Ligeti, Nono, Boulez, Berio e
pescare a piene mani dal dadaismo, nel futurismo, nella pop-art, in tutte le avanguardie
culturali con un’ottica decisamente situazionista” 37 . La scena bolognese divenne l’epicentro di
un improvviso movimento musicale composto da Gaznevada, direttamente ispirati dalla new
wave newyorkese e tra i primi ad introdurre in studio l’uso dell’elettronica nel rock;
Confusional Jazz Rock Quartet, una band senza vocalist, che mescolava Marinetti con
Josephine Baker; i Marconi Connection ,che realizzarono un mix classicamente ‘dance’ con le
voci delle BR durante il sequestro Moro; gli Hi-Fi Bros che strapazzarono ‘The Voice’ Frank
Sinatra; gli Stupid Set, che elaboravano le sigle pubblicitarie più in voga e sperimentavano le
tecniche di cut up del nastro; i Noia, che realizzarono uno dei primi rap mai prodotti in Italia.
“Sembrava di essere in California, dove tutti i generi, oltre che fronteggiarsi, convivevano e si
spalleggiavano a vicenda” 38 .
Alcune di queste band, primi tra tutti i Gaznevada, conobbero in seguito un momento di
grande fortuna commerciale soprattutto quando, ad anni ’80 già iniziati, seppero cavalcare
l’onda della nascente ‘dance’, abbandonando del tutto le radici rock e la sperimentazione.
Tutte le altre rimasero ai margini del rock autoctono, avendo avuto la sfortuna di nascere in un
periodo in cui i festival musicali non potevano più essere organizzati per motivi di ordine
pubblico ma soprattutto, trattandosi di esperienze al crepuscolo della stagione del movimento
70
che di lì a pochi mesi avrebbe registrato la sua sconfitta, trascinando con il riflusso tutti coloro
che vi si erano identificati.
La fase del punk e del nuovo rock italiano durò poco più di una stagione e ben presto si
trasformò anch’essa in moda e business. Inoltre non ebbe mai la capacità di assurgere a
fenomeno di massa, rimanendo prevalentemente un fenomeno underground che interessò una
ristretta cerchia di amatori anche spazialmente determinati, poiché concentrati principalmente a
Bologna e, in genere, nel nord Italia.
3.5
Le nuove radio che “liberano la mente”
La radio in Italia, così come la tv, era rigidamente controllata dal governo. Una
commissione d’ascolto vagliava le canzoni da trasmettere affinché queste non affrontassero
temi che potessero essere offensivi della morale o poco rispettosi dell’ordine costituito. Dalla
fine degli anni sessanta il sistema radiotelevisivo di Stato si era accorto della presenza dei
giovani e cominciò a confezionare specifiche programmazioni rivolte ad essi: le prime furono
‘Bandiera Gialla’ e ‘Per voi giovani’, entrambe partorite dalla fantasia di Renzo Arbore,
considerato all’epoca una vera e propria autorità nel campo della musica leggera, e Gianni
Boncompagni. Con una terminologia più attuale, potrebbero essere definiti ‘programmi
contenitore’ in cui si parlava di musica ma anche di temi che interessavano le nuove
generazioni, di informazione, di viaggi e che ospitavano addirittura dei corsi di inglese o altre
amenità considerate interessanti per i giovani. Queste trasmissioni ebbero, sì, il merito di
diffondere la musica che proveniva dall’estero alla quale alla maggior parte dei ragazzi
dell’epoca era negata la fruizione per via del limitato denaro presente nelle loro tasche, ma
anche la responsabilità di escludere dalle programmazioni tutta quella musica strana, irregolare
e poco melodica che si stava riversando nell’Europa dei primi anni settanta e che poteva
risultare lesiva dell’autorevolezza e della rispettabilità della radio di Stato. La selezione era,
inoltre, affidata agli stessi autori dei programmi che, oltretutto, influenzavano pesantemente
l’agenda setting musicale degli ascoltatori con l’inevitabile influenza dei loro gusti personali.
Era così possibile che, durante gli anni ’70, fosse più consueto ascoltare alla radio canzoni del
1964 piuttosto che quelle attuali. Le canzoni precedenti al 1970 difficilmente si spingevano
oltre i 4 minuti di durata mentre le ‘suite progressive’ potevano superare la mezz’ora, quando
non era del tutto fuorviante estrapolarle dal loro contesto di riferimento: è evidente che il
‘nuovo formato’ poco si adattasse alla rigida programmazione radiofonica 39 . Un altro fattore
che influenzava la programmazione era il presunto gusto del pubblico: un assolo composto da
feedback 40 sovraincisi uno sull’altro di un pezzo dei Pink Floyd poteva essere scambiato come
rumore prodotto dal malfunzionamento dell’apparecchio radiofonico o della stessa trasmittente
e, pertanto, poteva arrecare disturbo, se non danno 41 ; questa era la risposta dei dirigenti Rai sul
perché certi artisti venissero esclusi o comunque sacrificati nelle programmazioni dell’epoca. E
questa filosofia di cercare di non infastidire mai l’ascoltatore tradizionalista segnerà buona
parte della programmazione musicale italiana fino agli inizi degli anni ’80. Quando non
sopravvenivano esigenze di palinsesto a determinare la selezione della musica da trasmettere,
intervenivano motivazioni di carattere ideologico. Sembra infatti pleonastico sottolineare
l’assoluto silenzio sotto cui passò la nuova ondata di rock italiano della prima metà degli anni
’70. Troppo sporchi, brutti, politicizzati e poco rassicuranti per poter essere trasmessi dalla Rai
di Bernabei.
71
Alla fine però il rock italiano deve moltissimo alla radio, sia a quella ufficiale ‘di Stato’
in via indiretta, che a quelle per niente ufficiali che nasceranno come funghi dal 1975. Il
silenzio di quella ufficiale accentuò, infatti, l’isolamento della corrente alternativa che fu così
costretta a trovare altri canali di comunicazione e a cercare una via tutta italiana al rock, quella
che precedentemente è stata definita come ‘autarchia musicale’. Anche l’isolamento dalla
musica straniera sarà determinante, creando così una barriera protezionistica dalla massificante
produzione anglo-americana, sollecitando involontariamente ad un percorso originale le nostre
band.
E’ evidente che una programmazione così edulcorata e severamente monitorata non
potesse rispondere alle esigenze di un universo giovanile sempre più pretenzioso e
difficilmente generalizzabile. La risposta di una radio che sapesse interpretare i nuovi bisogni
arrivò nella metà degli anni settanta. Tutti i ‘paletti’ tecnici e giuridici caddero tra il 1975 ed il
1976: per aprire una radio libera bastava un trasmettitore, anche di pochi watt, una frequenza
libera (cioè non ancora occupata da un'altra radio), un'antenna e, soprattutto, un gruppo di
amici disposti a coprire le ventiquattrore della giornata, o perlomeno la maggior parte di esse,
perché la prima differenza con la radio ufficiale era che la radio libera era sempre disponibile e
sempre pronta a farti compagnia, anche perchè, se la frequenza era lasciata libera anche per
mezz'ora, veniva occupata da qualche altra radio o veniva coperta da una sovramodulazione.
Nel frattempo il pretore di Milano, in ottemperanza con l’articolo 21 della Costituzione
ratificato l’anno successivo da una sentenza della Consulta, definì legittima “l'attività di
trasmissioni radiofoniche fino a quando non si determinassero interferenze che potessero
nuocere o disturbare le emittenti di Stato”. La sentenza della liberazione spianò la strada alle
radio private in tutta Italia: ovunque sorsero radio libere, molte delle quali divenute oggi
importanti network anche a diffusione nazionale, ma moltissime furono le radio messe in piedi
da studenti durante le vacanze estive e durate poco più di qualche settimana. Nel giro di pochi
mesi la banda dell’ FM, fino a pochi mesi prima occupata dalle sole tre reti Rai, Radio
Vaticana e un paio di radio straniere, si riempì di nuove stazioni. Inoltre la modulazione di
frequenza permetteva una trasmissione stereofonica laddove la radio nazionale trasmetteva
ancora in mono e questo giovò naturalmente alla musica, che aveva un ruolo fondamentale
nella maggior parte delle nuove radio. Finalmente fu possibile ascoltare interi album, musica
considerata ‘poco radiofonica’, approfondire discorsi musicali, affrontare monografie di artisti,
insomma creare una radio fatta per i giovani, dai giovani, senza intermediazione alcuna da
parte di organismi di controllo e senza obblighi commerciali e di palinsesto da rispettare. Le
radio libere coprivano l’intero arco delle 24 ore, principalmente con la musica, quella relegata
dall’emittente statale a pochi appuntamenti settimanali, ma anche con trasmissioni
autoprodotte, inchieste giornalistiche e, soprattutto, il dialogo con gli ascoltatori attraverso la
diretta telefonica - temuta poiché difficilmente controllabile e pertanto mai utilizzata fino ad
allora - in cui mittenti e destinatari cambiavano ruolo e si confondevano in un continuum senza
gerarchie, organigrammi, trasmissioni, pubblicità 42 . Una canzone di Eugenio Finardi del 1976,
intitolata ‘La Radio’ 43 , e divenuta il jingle ed il manifesto di molte emittenti dell’epoca,
fotografava fedelmente la nuova realtà: “Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle
case e ci parla direttamente, se una radio è libera ma libera veramente, piace ancor di più
perché libera la mente”. Con le radio libere si dava finalmente voce, senza filtri, alla gente
comune.
L’esperienza più significativa tra tutte le radio libere fu quella di Radio Alice, non a caso
nata anch’essa a Bologna in quel turbolento fine decennio ed autogestita dal collettivo
‘A/traverso’. Trasmetteva dal 1976 ed era l’emittente del Movimento; funzionò come momento
di autoriconoscimento e di aggregazione per il proletariato giovanile e rese possibile la rottura
72
dell’unanimità istituzionale sul piano della comunicazione. A Radio Alice si faceva
controinformazione, si leggevano poesie, brandelli di libri, comunicazioni sindacali, poesie, si
tenevano lezioni yoga, analisi politiche, si ascoltavano assoli di sax, dichiarazioni di amore,
ricette e liste della spesa: tutto andava bene, tutto meritava di essere trasmesso. “Radio Alice
rappresentava un gruppo di grande sofisticatezza culturale, che usava come proprio materiale
di discorso la realtà dell’emarginazione giovanile […] elaborava una proposta ideologica per la
nuova realtà della rivolta giovanile” 44 . La libertà confusa ed esaltante della comunicazione
alternativa fu il linguaggio, morbido e violentissimo, lacerante ed esaltante nei sentimenti e
nelle idee, di quella comunicazione. Senza mediazioni, occultamenti, travisamenti tradizionali
della verità, l'informazione si presentò in diretta nuda e cruda, col fascino tormentato e
verginale della giovinezza; riuscì ad attirare anche il pubblico di altre parti politiche,
sostituendosi alla latitanza, in ogni senso, delle comunicazioni ufficiali, incerte, sorprese e in
qualche modo impaurite 45 . Accusata dall’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga di
associazione sovversiva, dopo i fatti dell’11 marzo la sede di Radio Alice fu raggiunta dai
Carabinieri: le fasi dello sgombero furono diffuse con una drammatica diretta che decretò la
fine delle trasmissioni della radio del Movimento.
L’ economia ha le sue leggi, che nel nostro mondo sono difficili da eludere, e nel breve
volgere di qualche anno il volontariato si esaurì o si ridusse di molto, ed i costi di gestione,
seppur bassi, misero in crisi le prime radio, costringendole a diventare imprese commerciali 46 .
Qualcuna tentò di resistere chiedendo agli ascoltatori una sorta di canone. Ma una legge
economica dice che se un bene o servizio viene dato gratis, in seguito è difficile, se non
impossibile, farlo pagare. Quindi queste iniziative si rivelarono palliativi e le radio
sopravvissute furono o quelle poche realmente basate sul volontariato, come Radio Onda Rossa
o Radio Maria, o quelle diventate imprese commerciali, orientate quindi a vendere gli
ascoltatori agli inserzionisti pubblicitari diventando, così, apripista della ben più consistente
esplosione della TV commerciale, anch'essa figlia di quella stagione di libertà. 47
In ogni caso le radio libere rappresentarono, in tutta Italia, il veicolo più importante per
l’affermazione di una cultura musicale di massa: è vero che quasi tutte le programmazioni
manifestavano una quasi vergognosa sudditanza nei confronti della musica anglosassone, ma è
altresì inconfutabile che gli sforzi per affermare un rinnovamento culturale portarono
all’affermazione, attraverso un accesissimo dibattito, di operatori culturali di tipo nuovo che
contribuirono notevolmente allo sviluppo musicale del nostro paese. 48
3.6
Le nuove etichette indipendenti
In America ed Inghilterra i neonati punk e new wave 49 ebbero il merito di autorganizzarsi
fuori dalle grandi case discografiche e di diffondersi attraverso canali svincolati dal mercato
discografico delle major. Su questo esempio, (ed a maggior ragione in un paese come l’Italia
dove le possibilità di poter pubblicare una ‘musica sgraziata’ che potesse ledere la reputazione
della casa di produzione erano assai esigue data la cecità e l’assoluta mancanza di lungimiranza
da parte dei discografici di rilievo), nacquero le prime etichette indipendenti che avevano già
fatto la loro timida comparsa pochi anni prima con la ‘Numero Uno’ di Mogol, ‘L’Orchestra’
legata agli Stormy Six, ‘L’Ultima Spiaggia’ di Nanni Ricordi, ultimo discendente della storica
famiglia, e la Cramps di Gianni Sassi di cui si è già esaustivamente trattato 50 : etichette tutte
pronte a scommettere sulla possibilità di fare musica al di fuori delle abituali logiche
73
commerciali. Senza più l’appoggio dei grandi festival che facevano da cassa da risonanza per i
musicisti e con il disinteresse delle major discografiche, dalla fine degli anni settanta il rock
italiano del post ’77 e di buona parte degli anni ’80 deve la sua discografia al sacrificio degli
artisti disposti a sobbarcarsi gli ingenti oneri dell’autoproduzione o alla buona volontà di un
certo numero di operatori propensi ad investire sui talenti underground che bussavano alle loro
porte.
La maggior parte delle case discografiche che videro la luce in questi anni erano piccole
o piccolissime, animate più dalla buona volontà di chi vi lavorava che da vero professionismo;
ben poche poterono vantare una vita superiore ai 5 anni ed un catalogo con più di 10 titoli: gli
atavici problemi di distribuzione, l’impossibilità di ottenere appoggio dai mass media non
specializzati, il disinteresse del pubblico e il conseguente deficit accumulato disco dopo disco
sottrassero a queste piccole imprese ogni prospettiva di crescita a livello davvero professionale
o di fatturati idonei a garantirne quantomeno la sopravvivenza. 51
Tutti coloro che non riuscirono a farsi produrre nemmeno da un’etichetta indipendente
ebbero, però, la possibilità di poter usufruire di nuove tecnologie che, con costi minimi,
permettevano di diffondere la ‘musica fatta in casa’: la piastra e la cassetta a nastro. Ad
aprire la strada fu inizialmente la Philips che all’inizio degli anni settanta mise in commercio
le musicassette (o MC o compact-cassette) dando inizio all'era della registrazione di massa. I
nuovi nastri erano alti la metà del formato allora più piccolo e la loro velocità era ridotta
della metà rispetto alla minima ammessa (4,5"/sec anziché 9"/sec) ma, soprattutto, il nastro
era inserito in una comoda cassetta di plastica, portatile e protettiva, al posto delle delicate ed
ingombranti bobine da mezzo pollice o superiori. La svolta definitiva avvenne pochi anni
dopo, quando la Technics inventò la piastra, un registratore di qualità superiore ma da un
prezzo decisamente contenuto che aprì l’era della ‘duplicazione dell’arte’. Il primo disco
degli Skiantos, “Inascoltable” fu autoprodotto e diffuso attraverso le musicassette, così come
avvenne per la stragrande maggioranza delle nuove leve musicali del periodo.
Nella seconda metà degli anni settanta nacquero a Bologna la ‘Harpo’s Bazaar’, poi
‘Italian Records’, a Firenze l’ ‘Ira’ di Alberto Pirelli 52 e la ‘Materiali Sonori’, le uniche
etichette che permisero all’acerbo ed irriverente punk-rock italiano di mettere fuori la testa e di
confrontarsi con il pubblico, di raccontare nuove storie, poi rilanciate in tutto il paese
attraverso la fitta rete di radio collegate con il Movimento. Le nuove etichette avevano un
approccio che identificava nella creatività ‘tout court’ l’elemento decisivo per insinuarsi nel
mercato e provare a disturbarne i ben oliati meccanismi, con tutte le sue regole e limitazioni.
Furono il detonatore indispensabile per sprigionare energie latenti, accelerare processi, dare
spazio e visibilità a quante più realtà musicali possibili, applicando criteri di selezione basati
sull’espressività e sulla personalità piuttosto che sulla tecnica e sulla commerciabilità. Il
discorso di partenza era il rifiuto sistematico dell’ovvio e del banale ma, al contempo, il
recupero di tutto quello che non rientrasse nel mainstream del momento; il senso di
collaborazione con tutti e tra tutti i musicisti che appartenevano a band diverse ma appartenenti
alla stessa etichetta fu una delle peculiarità del periodo: la ‘Harpo’s Bazaar’ era un lavoro di
gruppo allargato a tutte le realtà di cui era composta con spirito di collaborazione totale,
guidato dalla volontà di non rimanere chiusi in sé stessi, di confrontarsi e misurarsi in sempre
nuove direzioni 53 . Tutta, o quasi, la nuova musica italiana, iniziò a coagularsi intorno alle
piccole etichette in un complesso quadro che andava dalla canzone d’autore fino al folk ed al
rock duro, tendenza che fu recepita anche da esponenti autorevoli della canzone italiana come
Enzo Jannacci, che passò all’ ‘Ultima Spiaggia’. 54
74
3.7
La fine del Movimento
Dopo il sequestro Moro tutto il Movimento venne in parte criminalizzato ed iniziò a
sgonfiarsi. Esso perse fiato e vitalità dando inizio alla cosiddetta fase del ‘riflusso’, che si
estenderà fino ai primi anni ottanta. Le strade e le assemblee pubbliche si svuotarono: ognuno
tornò a ripensare, dentro casa propria, quello che era giusto e quello che era sbagliato. Già dal
1976 era in atto un confronto e la messa in discussione di alcuni aspetti del movimento, un
confronto del tutto sano e pacifico. Il punto di rottura si ebbe l’11 marzo del 1977 con
l’uccisione di Francesco Lorusso: molti giovani accettarono lo scontro armato con le autorità, e
da quel momento si iniziò ad isolare e disperdere tutti quegli altri che volevano continuare la
lotta pacifica; insieme ad essi si ridimensionò l’originaria componente creativa fino a
scomparire del tutto. In pochi fecero la scelta suicida della lotta armata, tutti gli altri si
ritirarono. Quasi contemporaneamente alla crisi del Movimento, cominciarono ad arrivare in
Italia grossi quantitativi di eroina, un altro fattore fondamentale per la crisi del medesimo,
poiché trovo nei giovani senza più ‘arte né parte’ un terreno molto fertile in cui insediarsi. La
‘sorella eroina’, rea di aver falcidiato un’intera generazione, e non più la socializzazione, la
musica o la politica, era ormai l’unico sedativo che riusciva a placare il disagio giovanile.
Il fallimento del movimento è, però, da imputarsi anche a motivazioni interne allo stesso,
percepibili già nei suoi albori del 1968. A spiegare, infatti, la deriva militarista contribuì
l’incapacità del movimento di incanalare propositivamente la protesta per ottenere dei
cambiamenti. La sua visione del mondo era incompleta, variabile e difficile da definire. La sua
ferma adesione ai principi originari, di fronte a fatti sociali e storici che sembravano richiedere
per forza il compromesso, lo fece sembrare poco realista. Mancò in esso un programma
dettagliato, un manifesto programmatico; d’altra parte, era quanto meno paradossale e
romantica la sua fiducia in tutto ciò che fosse personale, soggettivo ed immediato, la sua
ricerca di un’efficienza politica ed al contempo la riluttanza di fronte all’esercizio del potere. 55
La natura stessa della critica degli studenti e della loro organizzazione - radicale, anticentralistica, utopistica - non favoriva una possibile trasformazione del movimento in efficace
gruppo di pressione per ottenere riforme. Nel caso dell’università, come si è visto 56 ,
necessitavano borse di studio, nuove strutture, innovazioni della didattica; ma si trattava di un
orizzonte troppo ristretto ed economicistico per un movimento che pensava in grandi termini:
era il sistema a dover essere cambiato, non solo una sua parte. Inoltre i gruppi di cui era
composto erano molto spesso ferocemente settari, soprattutto sul piano ideologico, e divennero
rapidamente delle versioni in piccolo dei principali partiti politici, con le loro gerarchie quasi
esclusivamente maschili e con le loro assemblee che non erano il modello di democrazia diretta
che avrebbero dovuto essere, essendo molte volte interrotti o non permessi gli interventi
contrari al punto di vista della maggioranza. Ma, probabilmente, la deficienza più grave del
Movimento studentesco fu di non riuscire a prendere una posizione chiara e netta contro il
terrorismo. A questo proposito è illuminante la replica di Umberto Eco ad alcuni studenti del
Movimento che si lamentavano di tutti quegli intellettuali che non avevano sostenuto le istanze
della contestazione per paura di essere tacciati di essere sostenitori di chi spara alla gambe:
“Siete sicuri di non aver contribuito a costruire le premesse per
questo ricatto? Guardate questo muro dell’università: da un lato
vedo scritto ‘Mao dada’ e ‘Alice libera’. Dall’altro trovo
‘Carabiniere bastardo ti spareremo in bocca’. So benissimo che
75
non è la stessa mano che ha scritto le due cose. Ma la difesa
globale della creatività selvaggia che si è manifestata durante
l’occupazione è vostra. Ora pretendete che l’opinione pubblica
che già non riesce a distinguere tra gruppo e gruppo
extraparlamentare, riesca a porre distinzioni così sottili?
L’opinione pubblica non legge secondo le regole della scrittura
trasversale d’avanguardia. Legge in modo ottocentesco, così
come legge l’orario ferroviario”. 57
Il rapimento Moro e l’escalation terrorista segnarono la fine di un’epoca, “il movimento
era come un fantasma, assente, ripiegato su sé stesso, rintanato nei suoi ghetti; la scena adesso
era occupata dallo stillicidio di azioni armate clandestine che si facevano concorrenza” 58 . Il
terrorismo tolse qualsiasi spazio politico alla protesta sociale, rendendo possibile la sola scelta
tra l’accettazione dello status quo e le bande armate 59 . “La fine del movimento coincideva con
la comparsa massiccia dell' eroina sul mercato della droga e col passaggio di alcuni ex
settantasettini alle formazioni armate clandestine, che conobbero allora una fase di relativa
espansione. Scelte opposte ma dettate dalla stessa disperazione. Dopo aver vissuto un periodo
esaltante, dopo aver provato a cambiare il mondo e la vita, era difficile accettare di tornare a
vivere in una società che si era rifiutata perché mediocre, ipocrita, falsa e violenta” 60
3.8
Il fenomeno del riflusso e la fine di un’epoca
3.8.1
Le sue manifestazioni storiche sociali e culturali
Il riflusso fu un fenomeno globale che interessò non solo l’Italia: emergevano in tutto il mondo
nuovi modelli di vita improntati a valori individualistici, modelli che viaggiavano molto più
velocemente di prima, rimbalzando prepotentemente per il globo grazie alle nuove tecnologie e
all’affermazione delle tv commerciali. Dal punto di vista politico internazionale, l’onda lunga
del 1968 si era definitivamente esaurita e la politica di sinistra era arrivata ad un cul de sac.
Con l’affermazione di Margaret Thatcher 61 in Gran Bretagna nel 1979 e di Ronald Reagan 62
negli Stati Uniti nel 1980, l’agenda internazionale si trovò dominata da nuove e baldanzose
politiche destrorse: fiducia nel libero mercato, scetticismo nei confronti dell’intervento statale,
riaffermazione dell’individualismo a scapito della solidarietà sociale, furono tutti fattori che
contribuirono a ridefinire i valori della società e gli obiettivi della politica. L’Italia si avviava a
rifarsi il trucco con una facciata scintillante tutta moda, viaggi e telecomunicazioni ma in cui
pulsava sempre un un cuore antico, pervaso dall’attaccamento alla famiglia, dalle gerarchie
clientelari e dalla corruzione dilagante. La classe operaia, che il Partito Comunista vedeva
come portatrice di nuovi valori e futura classe dirigente, subì un irrimediabile declino né si
intravedevano,per i giovani, nuovi punti di riferimento e prospettive diverse. 63
Scoppiò in parallelo la moda dello jogging, la corsa in tuta per le strade della città, le
palestre affollate, la cura del corpo, il boom dei prodotti di bellezza per uomini; si scoprì
l'importanza della moda, che nel '78 segna il suo primo anno di grande successo, e del vestirsi
bene, con gran lusso, grande sperpero, in ogni ceto sociale, quasi a volersi disfare dei soldi in
fretta, prima che essi perdessero valore 64 . Umberto Eco indicò come il termine chiave degli
anni del riflusso non fosse più ‘rivoluzione’ o ‘lotta di classe’, ma ‘desiderio’. Per reagire alla
76
crisi delle ideologie - sia quella materialistico-storica, che voleva costruire una società perfetta
per mezzo dell’intervento rivoluzionario, sia quella positivistico-tecnologica, che voleva
costruire un mondo migliore con l’ausilio della scienza 65 - al desiderio di riflusso seguì la
scoperta o riscoperta del privato, dei bisogni, della libertà delle pulsioni, della rabbia. Fu un
periodo di crisi della ragione. E se la ragione era in crisi non rimaneva che la celebrazione
degli impulsi, in politica, in letteratura, nella musica, nel consumismo esasperato,
nell’assunzione di droghe pesanti. Ma siccome la celebrazione degli impulsi non dà mai i
risultati sperati, ecco che sopraggiunse la rabbia ed il desiderio si orientò in direzioni oscure,
diventando voglia di morte 66 . Anche il tenore dei materiali scritti dai circoli proletari era
cambiato: abbandonati i toni trionfalistici e creativi, aveva lasciato il posto ad un crudo
realismo che odorava anch’esso di morte:
“[…] Al bar si muore di noia, per questo si era scesi nelle
piazza, nei giardini. E’ un periodo in cui i giardini di Milano
brulicano di giovani, peccato che tanti di questi finiscono il
galera per furti o scippi per procurarsi eroina o soldi, perché le
condizioni di lavoro offerte dai padroni sono inesistenti o troppo
pesanti.
[…] Se sei operaio, è l’unica cosa che ti fa star bene per qualche
ora nella merda più totale di una giornata lavorativa di un
quartiere dormitorio. Se sei senza lavoro l’eroina ti dà un ruolo,
quello di tossicomane. Se hai vissuto internamente la crisi dei
valori borghesi, l’eroina ti rappresenta l’autodistruzione, il
suicidio collettivo, l’esaltazione non dell’individualità ma
dell’individualismo.
[…]L’eroina
è
la
realizzazione
individualistica opposta alla realizzazione collettiva”. 67
I giovani non avevano più posti d’incontro; terminato il periodo delle feste e degli
happening, essi preferivano incontrarsi per strada piuttosto che nelle sedi di Lotta Continua che
non sentivano più proprie. Abbandonata l’attività politica e non più preoccupato del fatto
sociale, lo studente del riflusso poteva definirsi un alienato culturalmente: di gran lunga troppo
pessimista e troppo fermamente contrario al ‘sistema’ per voler dimostrare la sua
disapprovazione in nessun modo organizzato pubblicamente. Il suo dissenso era puramente
privato ed ostentato per lo più attraverso l’anticonformismo nel comportamento e nel vestire.
Attraverso sperimentazioni personali, e attraverso sforzi di intensificazione della sua
esperienza soggettiva, egli dimostrava il suo disgusto ed il suo disinteresse per la politica e per
la società. Se l’attivista cercava di cambiare il mondo che lo circondava, lo studente alienato
era persuaso che fosse impossibile ogni cambiamento significativo della situazione sociale e
politica; al contrario, egli considerava che la sua unica scelta possibile fosse quella di uscire dal
gioco. 68
3.8.2
Il riflusso musicale italiano
Il fenomeno del riflusso non fu una di quelle manifestazioni che vengono riconosciute a
posteriori una volta interiorizzate e assimilate. Fu, al contrario, immediatamente evidente a
tutti e istituzionalizzato dalla voce di Mike Bongiorno, presentatore del Festival di Sanremo
77
del 1979, che affermò attraverso le telecamere che quell’edizione della rassegna canora
poteva considerarsi ‘il festival del riflusso’ dato che i giovani stavano recuperando i vecchi
valori che si credevano perduti negli anni passati 69 .
Assieme al punk-rock si assisteva al definitivo declino dell’epopea del rock italiano e i
gruppi che avevano esportato il rock italico oltre frontiera conoscevano una fase di crisi
irreversibile. Del variegato scenario di pochi anni prima era rimasto ben poco: c’era ancora la
PFM, benché sempre più interessata a conquistare i mercati esteri (stavolta quello
giapponese); c’era il Banco del Mutuo Soccorso, impegnato in una fase di profondo
ripensamento delle sue ipotesi iniziali 70 . e c’erano ancora gli Area, l’unico gruppo che era
rimasto, tutto sommato, fedele ai suoi principi originari ma che nel 1978 si scioglieva dopo
aver dato alla luce il suo ultimo lavoro dal titolo assai eloquente: “1978, Gli Dei se ne vanno
gli arrabbiati restano”.
La musica che aveva portato nelle strade e nelle piazze milioni di giovani sembrò seguire
le sorti del movimento, non riuscendo ad emanciparsene e pagando un prezzo tutto sommato
troppo alto. Dopo la grande onda iniziò la stagione del riflusso anche per la musica, dapprima
in sordina, segnalato soltanto dagli abbandoni delle presenze sempre meno numerose alle
altrettanto più sporadiche manifestazioni. Poi più ampio, crescente, continuo, fino a diventare,
nel pieno degli anni ottanta, pressoché assoluto. Ci si defletteva dall’impegno e dalla politica
per non essere travolti dalla sconfitta, si rifluiva per prendere le distanze dalla cupa e
minacciosa ombra del terrorismo, ma anche per cercare nuovi spazi, alternativi a quelli
sperimentati prima del 1977. Si rifluiva per sopravvivere e per non rimanere schiacciati dalla
logica degli anni di piombo 71 . Si registrò, inoltre, un radicale mutamento di gusti del pubblico:
l’Italia fu un caso unico in tutto il mondo per l’altissimo grado di intensità con il quale la
musica rock si intrecciò con la politica. Se si rifluiva da essa, però, non ci si allontanava solo
dalla militanza ma anche da una visione integrata di politica e vita, pertanto si rifiutava anche
la musica che di questa fase della storia italiana era stata la colonna sonora. Il riflusso generò
una vera e propria rimozione di massa che interruppe drasticamente la rigogliosa ricerca
esplosa nella prima metà degli anni settanta. “Nulla che potesse apparire solo alla lontana come
impegnato era più tollerato: si rifuggiva il folk, il rock progressivo, si aborriva la
sperimentazione. La stessa parola ‘impegno’ cominciava a provocare reazioni inconsulte e, in
questa mutazione, furono abbandonate anche molte avventure musicali che stavano tracciando
impensabili e prolifiche direzioni per la musica italiana” 72 .
Per la canzone di impegno sociale e civile suonarono le campane a lutto dell’industria
discografica. Furono, infatti, proprio i discografici ad accorgersi che qualcosa stava
cambiando, inaugurando così una colossale operazione di retromarcia. Essi reagirono
immediatamente al calo di popolarità, preparando una nuova stagione all’insegna del
disimpegno. Per incoraggiare questa nuova tendenza, tutte le maggiori case di produzione si
impegnarono nel lancio di giovani autori dal verso facile e romanticheggiante. Dalle pagine di
un numero di ‘Muzak’ del 1977 si sentenziava:
“Il caso più clamoroso è Umberto Tozzi, 24 anni, capelli rossi,
torinese, al primo posto nelle classifiche dei 45 giri grazie ad
una canzone che ripete venti volte l’invocazione ‘Ti amo’ […]
Stanno tornando i tempi in cui a determinare le mode musicali
era il perbenismo dei festival di Sanremo o si tratta di un
fenomeno passeggero?” 73
A rispondere indirettamente alla domanda del periodico musicale fu Gastone Razzi,
responsabile dell’ufficio stampa della CGD, il quale affermava:
78
“La musica è sempre stata soprattutto un sottofondo o un
pretesto. A comprare i dischi sono soprattutto le ragazzine ed i
ragazzini che vogliono ricordare con una canzone una storia
d’amore o una vacanza, oppure stare insieme e baciarsi con
colonna sonora” 74
La riflessione di Razzi aiuta molto a capire come la discografia italiana che si era ‘sbilanciata’
nel produrre i maggiori lavori di rock progressivo italiano, l’aveva fatto animata
esclusivamente dai favori di pubblico e susseguentemente dai relativi profitti, senza alcun tipo
di progetto artistico alle spalle di medio o lungo termine. Aveva rischiato con il rock e ne era
uscita vincitrice, ma non seppe mai, e forse non volle, coltivare questo nuovo mercato. Una
volta esaurita l’onda lunga del rock, e non essendo nel frattempo cresciuta e maturata una
visione più moderna e adeguata ai tempi della musica giovanile, essa tornò sulla strada sicura
e ben battuta della tradizione melodica italiana, più evoluta e ‘trasgressiva’ rispetto al
ventennio precedente, ma sempre zampillante di sentimentalismi e romanticherie. Lontana dai
modelli inglesi e americani in cui la concorrenza spietata esigeva continuamente di
diversificare il prodotto e quindi di sperimentare nuove strade, la discografia italiana era ancora
in mano a vecchi mastodonti ansiosi di rimasticare e furiosamente proiettati nel passato. Questa
paura di mettersi in gioco e di tentare di interpretare un seppur difficile passaggio, come è stato
quello tra i settanta e gli ottanta, contribuì decisamente ad aprire la porte ad una nuova
invasione di prodotti stranieri, relegando ad un silenzio quasi assoluto il rock italiano, che
tornerà ad alzare timidamente la testa solo nella seconda metà degli anni ’80. Di conseguenza,
tra le vecchie istituzioni,venne recuperata anche quella del Festival di Sanremo. Un curioso
episodio che la dice lunga su come le cose fossero cambiate è dato dal concerto tenuto nel 1978
da Adriano Celentano, il quale radunò a Novara migliaia di persone, fece pagare loro il
biglietto e poi li utilizzò come comparse per il suo film. Una ‘strumentalizzazione’ che fino a
pochi mesi prima non solo non sarebbe passata inosservata, ma probabilmente sarebbe stata
anche accompagnata da episodi di guerriglia urbana, adesso veniva lasciata correre: migliaia di
persone riuscirono a stare buone per tutta la durata dell’esibizione 75 .
Il rock vero e proprio scomparve, rintanandosi nelle cantine e nei ‘laboratori’ delle
etichette indipendenti, e divenendo fenomeno underground dal momento che la vita, soprattutto
nelle grandi città, militarizzate per combattere il terrorismo, non si svolgeva più di notte. Non
vi erano più club o circoli; il vecchio circuito alternativo, che aveva reso possibile
l’organizzazione di manifestazioni e concerti si sfaldò, quando non provò, addirittura, a
mettersi in competizione sul mercato abbandonando qualsiasi logica di tipo ‘sociale’. Per i
gruppi rock non vi fu più spazio, anche e soprattutto perché l’industria discografica italiana
decise che per esso non esisteva mercato e invertì repentinamente la rotta: se fino a cinque anni
prima le case di produzione vollero investire nel nuovo rock italiano, dando la possibilità a
decine e decine di gruppi di crescere e sviluppare un linguaggio autonomo e spesso
interessantissimo, in questo scorcio di fine decennio e, successivamente, per buona parte degli
anni ottanta, le major discografiche rifiutarono sistematicamente di dare spazio alle nuove
formazioni, aprendo, così, la scena e concedendo campo libero al rock americano e
anglosassone che, nonostante la crisi, era riuscito a reinventarsi e adeguarsi ai tempi ed alle
mutate esigenze.
Nel frattempo si erano riaperte le frontiere del rock internazionale, e si accoglievano in
maniera trionfale i tour delle band della nuova leva inglese e americana, come Patti Smith, i
Talking Heads, i Clash, i B 52’s, Bob Marley. Si rinnovava l’interesse per il prodotto straniero
data l’assoluta assenza di una controparte italiana.
79
In effetti, anche questa volta, l’unico genere che sembrava non pagare eccessivamente il
confronto con la musica anglo-americana era quello dei cantautori. La massa si riconosceva
nelle loro parole, provando a scoprire, quasi come fosse una trasgressione, il piacere proibito
dell’abbandono e dell’edonismo, dunque del disimpegno e dell’evasione collettiva 76 . Ai
‘voltagabbana’ come Alan Sorrenti e Antonello Venditti, che si lasciarono alle spalle la
‘militanza’ per abbracciare un pop di consumo di facile successo, si opposero altri cantautori
che, abbandonando anch’essi una visione radicale e rivoluzionaria della musica, seppero
fotografare, senza perdere in qualità, le contraddizioni di una società in rapido cambiamento.
Illuminante è l’esempio di Franco Battiato che, abbandonate le sperimentazioni di avanguardia
degli anni precedenti registrava un disco totalmente innovativo che seppur strizzava l’occhio
alle nuove tendenze, ne faceva in realtà una critica sottile ma non per questo meno feroce. Il
disco, “La voce del padrone” 77 , fu un lavoro perfetto generato da un felice connubio tra
piacevolezza delle musica e contenuto/originalità dei testi. Una proposta affascinante che non
mancò di colpire il grande pubblico, accompagnata per di più da una attenzione particolare per
l’ immagine, volutamente colorata ed eccessiva, tributo e sarcastica messa in scena dei costumi
degli anni ottanta appena iniziati.
3.8.3
Il disimpegno di massa: la discomusic
Se però le sonorità della new wave tardavano ad affacciarsi nella nostra penisola, non prorogò
il suo fragoroso ingresso la discomusic, che trovò terreno fertile nella deserta steppa musicale
italiana. Il costume musicale del '78 in Italia era scialbo, piatto, molto deludente. In alcuni
luoghi si ritornava al vecchio e al tradizionale. Sulla costa romagnola rispuntò addirittura
il liscio. L’avvento della discomusic è sintomatico di quanto stesse accadendo: essa era
portatrice di valori individualistici che il rock aveva in qualche modo bandito, preferendo
mettere in scena sentimenti collettivi, grandi sogni e grandi speranze. Musicalmente, poi, era
l’esatto contrario di quanto il progressive aveva predicato sino ad allora: “musica d’uso e non
d’ascolto, musica per ballare, musica per il corpo, da vivere senza pensarci troppo su” 78 . Come
affermava Vittorio Nocenzi, tastierista del Banco Del Mutuo Soccorso: “La cultura del riflusso
ha determinato l'affermazione della discomusic e della figura del disk jockey e
l'imbarbarimento della musica, ridotta ad un prodotto da vendere alla stregua di un
elettrodomestico”. 79
Il fenomeno della disco venne ribattezzato dai mass media ‘travoltismo’ in onore di John
Travolta, protagonista del film “La febbre del sabato sera” 80 , che celebrava la rinata passione
per il ballo e la discoteca. Quest’ultima, lontana dagli ormai sepolti idealismi degli anni passati,
aveva alla base solo una grande operazione commerciale che trascinò in discoteca contestatori
e conservatori, democristiani e comunisti, terroristi e chierichetti. Tutti a ballare, a muoversi, a
liberarsi, nella massima espressione dell'edonismo. La SIAE 81 censì nel 1978 in Italia 5000
locali da ballo e, in base al numero di locali aperti e di biglietti venduti nel corso di dodici
mesi, registrò aumenti pari al 50% del precedente anno. Qualcuno la definì ‘musica del
rimbecillimento di massa’, mentre altri sentenziarono che fosse ‘il trionfo dell'espressività
gestuale’. Certo, vedere per la prima volta dei singoli corpi muoversi in uno spazio a tempo di
musica senza un partner sconvolse non poco gli amanti del ballo tradizionale, compreso quelli
del rock, in cui il corpo si era già distaccato, ma conservava il partner, come in una reciproca e
frenetica danza propiziatoria.
80
Distante anni luce dai tempi dispari e dai complessi intrecci armonici del rock
progressivo, la discomusic, con la sua linearità e le sue armonie immediatamente orecchiabili,
fece immediatamente presa. Unì giovanissimi e non più giovani, le due generazioni emergenti,
come nella danza di un sabba 82 : convegni notturni liberatori per celebrare il rito dell'evasione
di massa, ove tassativamente era vietato iniziare ‘prima di mezzanotte’. Scomparsi del tutto gli
autori impegnati, contestati, fischiati, boicottati, messi nell'ombra, fatti scendere perfino dal
palco e presi a sassate: insomma, la discomusic fu la tomba dell'impegno politico giovanile un
ritorno al maschilismo, un rinchiudersi nel privato che sancì il passaggio dalla cultura e dalla
partecipazione al qualunquismo e all'individualismo. E non pochi si chiesero, tenendo discorsi
ampollosi, se questo ballo e questa moda non fossero anch’esse espressioni di fascismo. 83
3.8.4
L’esperienza di ascolto si atomizza grazie alle
tecnologie: il walkman
nuove
Simbolicamente, anche la tecnologia contribuì ad affermare questo generalizzato senso di
individualismo di fine anni settanta. Il 21 giugno del 1979 Sony Corporation lanciò sul mercato
quello che si rivelerà un rivoluzionario modo di ascoltare musica in qualità stereofonica: il
Walkman 84 .
La Sony di fatto inventò la musica portatile, consentì di poter ascoltare musica ovunque
ci si trovasse con un apparecchio leggero, di modeste dimensioni e usufruendo di quello che
ormai era diventato un supporto pratico ed universale: la musicassetta. Il carattere
individualista riscontrabile nel sociale di questi anni s'intrecciò, quindi, con la successiva
innovazione dei supporti per cassette: cambiò radicalmente e probabilmente per sempre il
modo di fruire della musica. Dagli ascolti di gruppo imposti dapprima dalla scarsezza di risorse
materiali (le grandi radio a valvole ed i primi dancing) si arrivò alla fruizione collettiva animata
dalla necessità di condividere con gli altri la propria esperienza, una sorta di celebrazione, di
rito pagano per una generazione che viveva l’atomizzazione ad ogni livello e per cui il concerto
o il festival erano momenti in cui, apparentemente o per il tempo della sua durata,
l’atomizzazione era superata. I giovani che partecipavano ai raduni avevano affinità elettive,
stabilivano delle comunanze.
Nell’era del riflusso il walkman sembrò giungere a sancire la vittoria dell’atomizzazione
ed a sublimare il bisogno di astrazione dell’individuo dal suo contesto sociale di riferimento.
Quello che era stato fino a quel momento soprattutto un fenomeno sociale diventò, di
conseguenza, un evento individuale. Se prima il rapporto con la musica era sempre mediato
dagli altri fruitori, adesso il rapporto con la medesima diveniva intimo e personale. Se prima la
fruizione musicale portava ad una socializzazione pressochè forzata, per la generazione che
stava per varcare il traguardo degli ottanta questa equazione non fu più così scontata. “La
condivisione sociale, che dava quel plusvalore di senso al vinile, suonato a casa con gli amici o
‘gettonato’ al juke-box del bar, perdeva ora gran parte del suo mordente diventando influenza
obliqua, traversa alla funzione che assume direttamente la musica per il soggetto” 85 .
In quell’ultima estate degli anni settanta iniziò ,quindi, a delinearsi una nuova maturità
dell'esperienza sonora che tagliava prepotentemente i legami con il sociale e pertanto con tutte
le esperienze precedenti.
81
3.8.5
La massificazione del mercato discografico
Come si è detto, il rock inglese ed americano - o forse è più corretto di parlare di
industria del rock – seppe reinventarsi e conseguentemente continuare ad alimentare un
mercato in difficoltà. Nel frattempo l’industria discografica conobbe, durante la fine degli anni
settanta, una forte crisi denominata ‘crac della Gioconda’, in relazione al nome di un grande
progetto abbandonato nel 1979 da parte della RCA. In risposta a questa crisi, le sempre più
smaliziate etichette major accentuarono la tendenza a fondersi in multinazionali
dell’intrattenimento, in cui aspetti discografici si integravano con le concentrazioni audiovisive
e rafforzavano gli investimenti per incidere, promuovere e vendere dischi 86 .
Poco o niente sembrava sopravvivere delle eroiche iniziative personali di singoli
individui che, investendo in proprio e senza strategie di marketing alle spalle, lanciavano sul
mercato le loro proposte musicali. Essendo diventato industria, la macchina del ‘rock business’
doveva per forza di cose guardare alla massimizzazione del profitto: ‘più marketing e meno
progetti artistici’, questo il nuovo ‘credo’ delle major discografiche. Il risultato di questa
strategia fu una riduzione del numero delle proposte in favore di un numero piuttosto esiguo di
grandi nomi di prestigio internazionale. L’ago della bilancia cominciò dunque gradualmente a
slittare verso l’elemento merce; nel corso delle due decadi precedenti l’industria aveva
imparato quali fossero le regole più efficaci da mettere in atto per sfruttare la musica dei
giovani. Il rock, fino a pochi anni prima libera espressione della cultura giovanile, era ora in
crisi di identità ed ingabbiato tra interessi commerciali e industria in trasformazione. Decaduta
la retorica dell’incontro e dell’aggregazione giovanile, manifestazione di una cultura realmente
alternativa poco comunicante con quella istituzionale, il rock mostrava ormai senza pudori la
sua perfetta integrazione nell’establishment. 87
Un altro cambiamento importante venne proprio dalle radio: se esse contribuirono
all’affermazione di una cultura musicale alternativa a quella proposta dai mezzi istituzionali,
esse, per la prima volta, imposero una fruizione musicale indotta dai processi di selezione di
chi stava dietro la radio. Il giovane non era piu’ libero come prima di fare scelte autonome
nella fruizione della stessa, ma veniva pesantemente condizionato ed ‘istruito’ dalla
programmazione radiofonica. Inoltre l’esperienza delle radio completamente autogestite era
ormai al tramonto; la necessità di ‘sopravvivere’ finanziariamente imponeva alle stesse di
aumentare il loro bacino d’utenza per aumentare i proventi delle sponsorizzazioni, ma allo
stesso tempo questo comportava un livellamento della proposta che escludesse tutto ciò che
fosse difficilmente ‘digeribile’ dall’ascoltatore medio. 88
Anche la tv giocò un ruolo decisivo nelle nuove strategie discografiche. Benché MTV e
l’originale esperienza tutta italiana di Video Music 89 fossero ancora lontane dall’essere
partorite, la neonata tv commerciale e la maggiore importanza dedicata ai giovani anche dal
sistema televisivo di Stato contribuirono notevolmente all’affermazione di un nuovo genere
musicale: il videoclip. La rotazione dei videoclip divenne presto il più efficace spot
pubblicitario di ogni produzione musicale. Se fino a pochi anni prima le nuove uscite
discografiche si passavano di bocca in bocca o attraverso le radio libere, adesso il mercato si
era attrezzato nel dare un supporto visivo alla musica, un supporto straordinariamente potente.
E’ evidente che la realizzazione dei videoclip, nonché la possibilità di farli trasmettere dai
mezzi di comunicazione di massa, era un’operazione molto costosa: questo fu uno dei motivi
per cui, visti gli ingenti costi di produzione, vennero sacrificati molti artisti in favore di quelli
82
più ‘vendibili’ che avrebbero sicuramente, e nel minor tempo possibile, ripagato l’investimento
iniziale.
Il nostro mercato discografico nazionale, mal gestito e perennemente in crisi, non riuscì
ad adeguarsi a questi nuovi standard e, non volendo o potendo investire in costose produzioni,
si assistette ad una nuova invasione di prodotti anglo-americani che soffocarono tra lustrini,
laser e spettacolarizzazioni varie, l’ormai impoverito panorama musicale italiano. Si assisteva
alla massificazione dell’offerta e, di lì a poco, all’acquisizione da parte delle grandi major delle
etichette locali impossibilitate a competere sul mercato internazionale, insomma a quel
processo oggi definito come ‘globalizzazione’. A controllare il processo globale saranno grandi
gruppi concentrati in Nord America, in Europa e in Giappone, i quali saranno capaci di
indirizzare il ‘gusto’ dei consumatori verso un unico modello condiviso e non più come “ai
tempi di quando decideva la gente...” 90
3.8.6
Il concerto per Demetrio
La fine della stagione del rock italiano ha una data ed un evento simbolico, una sorta di
grande cerimonia collettiva in cui, idealmente, si chiuse definitivamente e consapevolmente
un’epoca. Il 25 aprile del 1979, Demetrio Stratos venne ricoverato d’urgenza al Memorial
Hospital di New York in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute; ben presto si
mobilitò un vastissimo numero di persone al fine di organizzare un grande concerto i cui fondi
sarebbero serviti a pagare le costose spese di degenza.
Decine e decine di musicisti aderirono al concerto,inconsapevoli ancora della grandiosità
che lo stesso avrebbe assunto: vi parteciparono Branduardi, Banco del Mutuo Soccorso,
Venditti, Vecchioni, Guccini, PFM, Battiato, Arti & Mestieri, Skiantos, Claudio Lolli e molti
altri. Si stava delineando un grande evento, si prevedette un afflusso superiore alle 30.000
persone e la stessa RAI si interessò a quanto stesse accadendo. Demetrio morì il giorno
precedente il concerto, ma questo fu tenuto lo stesso e si trasformò in un gigantesco tributo a
quello che probabilmente era stato il musicista più rappresentativo di quegli straordinari anni.
L’arena Civica di Milano venne invasa da 60.000 persone, almeno 10.000 rimasero fuori
poiché era praticamente impossibile entrare. Il concerto fu a tratti commovente per il ricordo
che molti musicisti dedicarono pubblicamente a Demetrio ed il pubblico fu estremamente
civile. L’esibizione fu conclusa dagli Area orfani del loro cantante, che regalarono
un’emozionante versione di ‘L’internazionale’ 91 , con la quale erano soliti terminare i loro
concerti.
Il successo della manifestazione e l’estrema maturità del pubblico presente portarono nei
giorni successivi a ridimensionare il cosiddetto fenomeno del riflusso: in alcuni articoli e
comunicati si sottolineava entusiasticamente l’inizio di un nuovo periodo di partecipazione e
lotte e il riflusso veniva descritto come una teorizzazione pretestuosa della sovrastruttura
dominante. Invece non fu così: quel concerto rimase un episodio isolato, magnifico nella sua
realizzazione ma irripetibile.
La morte di Demetrio significò, in quella fine di decennio, “il definitivo epitaffio di una
generazione e delle sue folli ma tremendamente passionali lotte, unite alle speranze di poter
vivere un mondo migliore, quel mondo che ben presto, con l'avvento degli insulsi iperconsumistici-reaganiani anni ottanta, avrebbe risucchiato tutti quegli ideali profusi e quelle
83
voci di rivolta che avevano costituito un elemento di splendida, inarrivabile ‘scomoda
anarchia’ anti-istituzionale”. 92
84
Note:
1
Le elezioni del 20 giugno 1976 conobbero un consistente avanzamento del PCI, che raggiunse alle elezioni
politiche il suo massimo storico (34,4% alla Camera e 33,8% al Senato), in relazione all'aggravarsi della
situazione italiana (terrorismo, inflazione, debito con l'estero), e scegliendo la via di dare al Paese un governo di
stabilità, astenendosi dal voto di fronte al governo monocolore DC, presieduto da Giulio Andreotti. Nel
contempo usciva fortemente ed inaspettatamente sconfitto il cartello elettorale della sinistra rivoluzionaria, che
oltre al PdUP comprendeva Ao, Mls, IV Internazionale, Lega dei comunisti ed altri gruppi minori.
2
Movimento politico sorto dalle ceneri di Lotta Continua nel 1976. Di ispirazione marxista propagandava
l'autogestione nelle fabbriche e nelle scuole. Occupava case, interveniva nei quartieri contro gli spacciatori di
droga. I suoi leaders: Negri, Scalzone, Piperno, Pifano, Miliucci, furono tutti arrestati il 7 aprile del ‘79 per
insurrezione contro lo Stato. Molto radicati fra i giovani , i gruppi più forti erano a Roma in via dei Volsci , nel
Veneto, ma anche in tutto il meridione. Autonomia Operaia non era un partito nè un'organizzazione sul tipo dei
gruppi nati dopo il ‘68, ma più propriamente un "area" all'interno della quale si riconoscevano vari collettivi di
lotta.
3
Dal nome del primo firmatario, il deputato repubblicano Oronzo Reale, reintroduceva il fermo di polizia,
raddoppiava i termini di carcerazione preventiva, ampliava la possibilità della polizia di sparare, fornendo agli
agenti una vera e propria “licenza di uccidere”: infatti nei primi dieci anni di applicazione della legge Reale, le
forze dell’ordine uccisero 350 persone (più che altro cittadini che non si fermavano ai posti di blocco). Questa
legge segnò una involuzione autoritaria della legislazione ed un restringimento delle libertà civili. La sua gravità
è anche maggiore di quella delle stragi, perché con il terrore stragista settori dello stato volevano combattere la
sinistra, mentre con la legge Reale è lo Stato che legalmente voleva non tanto combattere il terrorismo, che allora
ancora quasi non esisteva, ma le pratiche di insubordinazione in fabbrica e nella società.
4
Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1989
5
Gruppo armato rivoluzionario che nacque negli anni ‘70 e durò fino al 1981, anno in cui i capi del gruppo
dichiararono finita la lotta armata in Italia. Numerosi furono gli attentati a persone e a cose avvenuti ad opera di
questo gruppo di ispirazione rigidamente comunista. I capi dell'organizzazione tuttora in carcere o in semilibertà
sono Curcio, Gallinari, Ferrari, Seghetti, Senzani, Moretti, Azzolini, Iannelli. Ma ancora sono numerosi gli
appartenenti al gruppo nelle carceri italiane.
6
Gruppo guerrigliero nato nel ’76 in 4 città italiane: Milano, Torino, Firenze e Napoli. Propugnava la guerriglia
urbana interna ai quartieri. Contrari all’organizzazione clandestina totale come la intendevano le BR, Prima
Linea sosteneva una clandestinità di massa nei quartieri e nelle fabbriche. La data di scioglimento del gruppo
risale al 1980 dopo numerosi arresti e pentimenti.
7
Cfr. P. Ginsborg, Op cit.
8
Cfr. U. Eco, Sette anni di desiderio; Bompiani Milano 1983
9
Cfr. P. Ginsborg, Op cit.
10
Cfr. P., Op cit.
11
P. Echaurren, Parole Ribelli, ed. Stampa Alternativa 1997
12
Cfr. U. Eco, Op cit.
13
Formazione propriamente romana che trova però le sue radici nei circoli proletari giovanili dell'hinterland
milanese. Caratterizarono la prima fase delle lotte del ‘77, con metodi di lotta e prassi ironiche e fantasiose. Gli
indiani metropolitani amavano pitturarsi il viso, tingersi i capelli e dedicarsi a provocazioni varie comprese
quelle contro lo stesso movimento al quale appartenevano.
14
Cfr. A. Crespi, Intervista a Guido Chiesa , L’Unità 16 dicembre 2003
15
Cfr. P. Ginsborg, Op cit.
16
Cfr. D. Giochetti, da "Sul '77" - Per il Sessantotto n° 11-12/97, anno VII
17
Cfr. A. Valcarenghi, Non contate su di noi, Arcana Editrice, Roma 1977
18
Cfr. T. Negri, Pipe line, Einaudi, Torino, 1983, p. 166
19
Cfr. F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, Rubbettino, Sovaria Mannelli (CZ), 1993, p. 817
20
Dipartimento Arti Musica e Spettacolo.
21
Citazione anonima in Non disperdetevi (a cura di) O. Rubini e A. Tinti, Arcana Editrice, Roma 2003 p. 14
22
Chitarrista e membro fondatore del gruppo prog-rock inglese King Crimson.
23
Tratto dal verso di una canzone dei Sex Pistols, God Save The Queen, Never Mind The Bullocks, Here’s The
Sex Pistols, Virgin (1977)
24
Cfr. E. Assante e G. Castaldo; Blues, Jazz, Rock, Pop, il novecento americano. Einaudi 2004; p. 594
25
Cfr. B. Mariani in G. Castaldo, S. Dessì, B. Mariani, G. Pintor, A. Portelli, Muzak, Savelli Roma 1978 p. 131
26
Cfr. B. Mariani in Op cit. p. 131
27
Cfr. AA.VV., Sarà un risotto che vi seppellirà, Squilibri, Milano 1977, pp. 120-121
85
28
Francesco Guccini, Via Paolo Fabbri 43, EMI (1976)
Riccardo Bertoncelli nel 1975 era un giovanissimo collaboratore della rivista "Gong", sulle cui pagine fu
chiamato a scrivere una recensione di Stanze di vita quotidiana, disco del 1974 di Guccini. Fu una stroncatura
senza appello e lo stesso Bertoncelli, oltre vent'anni dopo, in proposito dirà «era un viziaccio dell'epoca insegnare
agli artisti cosa dovevano fare, anzi, chi dovevano essere, e io c'ero cascato con lo zelo leninista di una Guardia
Rossa».
30
Cfr. AA.VV., L’italia del Rock, a cura di G. Castaldo, Edizioni La Repubblica, Roma 1994
31
Cfr. Piero Pelù, prefazione in C. Rizzi (a cura di), Enciclopedia del Rock Italiano, Arcana Editrice, Roma 1993
32
Scrittore (1955-1991)
33
Cfr. Giorgio “Andrew Nevada” Lavagna, O. Rubini e Andrea. (a cura di) Op cit. p. 186
34
Nel settembre 1977 fu organizzato a Bologna un convegno sulla repressione nella società italiana, con enfasi
particolare sul ruolo svolto dal PCI. Circa 30mila giovani invasero la città per tre giorni. Fu un momento
estremamente delicato. Anche perché Berlinguer scelse proprio quei giorni per definire i seguaci del movimento
dei “poveri untorelli”. Il PCI bolognese rispose alla sfida con un esempio mirabile di “tolleranza repressiva”:
cibo,alloggi, spazi incontro, le piazze principale della città, furono rese disponibili dalla giunta comunale, ben
consapevole del fatto che sarebbe stata comunque posta sul banco degli accusati.
35
Cfr. AA.VV., Op cit.
36
Cfr. Roberto “Freak” Antoni, O. Rubini e A. Tinti (a cura di) Op cit. pp. 12-16
37
Cfr. O. Rubini, (a cura di) O. Rubini e A. Tinti, Op cit. p. 91
38
Cfr. Claudio Lolli, (a cura di) O. Rubini e A. Tinti, Op cit. p. 66
39
Anche oggi è estremamente difficile riuscire a trovare radio che programmino pezzi musicali che superino i 4
minuti.
40
Effetto in genere indesiderato, ma in questo caso deliberato: ritorno di parte del suono originale alla sua fonte,
ad esempio un microfono, che crea rientro acustico.
41
Episodio analogo accadde nel 1964 alla EMI Records per il 45 giri I Feel Fine dei Beatles. La canzone
presentava al suo inizio una nota di basso portata alla distorsione. Immediatamente fu lanciato un comunicato
stampa nel quale si dichiarava che la distorsione presente sul disco era dovuta ad un errore tecnico e la canzone
fu sospesa temporaneamente dalla programmazione della BBC. In realtà quel feedback era stato deliberatamente
cercato dal quartetto di Liverpool.
42
Cfr. G. Chiesa, Alice è in paradiso, www.fandango.it
43
Eugenio Finardi, Sugo, Universal/Polygram (1976)
44
Cfr. U. Eco, Op cit. pp. 60-61
45
Cfr. www.radioalice.org
46
Lo stesso collettivo di Radio Alice propose un listino per la vendita di spazi pubblicitari, la decisione venne
accolta con non poche polemiche. Il listino è visionabile al seguente indirizzo: www.radioalice.org/chisiamo.html
47
Cfr. Alberto Truffi, Musica & Memoria, radio pirata e radio libere in www.musicaememoria.altervista.org
48
Cfr. M. Giusti, Demetrio Stratos,Tascabili Mursia Milano 1979 p. 36
49
Movimento culturale e musicale estremamente sfaccettato, non fu un genere ben preciso e determinato, ma si
affollò di mille rivoli che avevano come unico comune denominatore la diretta derivazione dal punk e dalla sua
caratteristica fondamentale: la semplificazione sintetica dell'approccio musicale. Sviluppatosi soprattutto in
Inghilterra dal 1977 in poi, interesserà il nostro paese solamente nei primi anni ’80.
50
Cfr. Ivi, cap II par. 2.10
51
Cfr. C. Rizzi (a cura di), Enciclopedia del Rock Italiano, Arcana Editrice, Roma 1993
52
Alberto Pirelli rivestirà anche il ruolo di produttore per la maggior parte dei dischi dei Litfiba tra gli anni
ottanta ed i novanta.
53
Cfr. Oderso Rubini, (a cura di) O. Rubini e A. Tinti. Op cit. pp. 88-93
54
Cfr. AA.VV., Op cit.
55
Cfr. K. Kenistion, Giovani all’opposizione, Einaudi Paperbacks 1972 pp. 274-276
56
Cfr. Ivi, cap. I par. 1.8 e 1.9
57
Cfr. U. Eco, Op cit. p. 80
58
Cfr. N. Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano, 1987, pp. 26-27
59
Cfr. P. Ginsborg, Op cit.
60
Cfr. Diego Giochetti, da "Sul '77" - Per il Sessantotto n° 11-12/97, anno VII
61
Esponente del Partito Conservatore, sostenitrice di un liberismo radicale, è stata primo ministro del Regno
Unito dal 1979 al 1990.
62
Esponente del Partito Repubblicano, di tendenze fortemente conservatrici. E’ stato il quarantesimo presidente
degli Stati Uniti, eletto per due legislature consecutive.
29
86
63
Cfr. P. Ginsborg, Op cit.
Cfr. anno 1978, www.cronologia.it
65
Cfr. U. Eco, Op cit. p. 18
66
Cfr. U. Eco, Op cit. pp. 5-6
67
Cfr. AA.VV., Sarà un risotto che vi seppellirà, Squilibri, Milano 1977, p. 12
68
Cfr. K. Keniston, Op cit. pp. 291-292
69
Cfr. www.sanremostory.it
70
In quel periodo tutte le band di rock progressivo si trovarono ad un bivio: o continuare a suonare della musica
ormai priva di potenziale comunicativo oppure modificare il proprio sound abbandonando il brano lungo e la
suite a favore della forma canzone e cercando nel contempo di rimanere ancora se stessi indirizzando ad esempio
sui testi, anziché sulle musiche, la propria naturale propensione per la ricerca. Così il Banco analogamente a
molte altre bands, inclusi gli stessi Genesis nel periodo di leadership di Phil Collins, scelsero questa seconda via.
Certo, è stata una decisione contestata dagli appassionati più intransigenti.
71
Cfr. AA.VV., Op cit.
72
Cfr. AA.VV., Op cit.
73
Cfr. M. L. Straniero in La musica leggera ed il mito del successo; La musica in Italia, Savelli Roma 1978; p.
205
74
Cfr. “Panorama”, n. 592, p. 60
75
Cfr. M. Giusti, Op cit. p. 84
76
Cfr. AA.VV., Op cit.
77
Franco Battiato, La voce del padrone, EMI (1980)
78
Cfr. AA.VV., Op cit.
79
Cfr. Intervista a Vittorio Nocenzi, www.liverock.it
80
Titolo originale “Saturday Night Fever”, 1977, regia di Bill Badham. La colonna sonora era composta da brani
originali dei protagonisti della discomusic mondiale: Bee Gees, Trammps, Tavares, Kool & The Gang, K.C. &
The Sunshine Band ed altri.
81
Società Italiana Autori ed Editori.
82
Antico rituale medievale germanico in cui si invoca il maligno.
83
Cfr. anno 1978, www.cronologia.it
84
Nato dall’intuizione di Masuru Ikanu e Akio Morita, l'apparecchio consentiva di portare "a spasso" la musica
allargando così l'ascolto in ogni luogo possibile. Il successo dell'innovazione consentì alla Sony di vendere 50
milioni d'esemplari lungo la decade successiva, portando al fenomeno noto ai sociologi come soundabout,
parafrasato dal termine walkabout, ovvero, l'abitudine nomadica degli aborigeni australiani di cantare al fine di
orientarsi nel territorio.
85
Cfr. E. Bridda, SentireAscoltare, www.neuroingegneria.com
86
P. Magaudda, La Produzione indipendente di musica elettronica, www.paomag.net
87
E. Assante e G. Castaldo, Blues, Jazz, Rock, Pop, il novecento americano. Einaudi 2004; pp. 630-635
88
Mario Giusti, Op. cit. pp 80-81
89
Canale televisivo tematico musicale nato agli inizi degli anni ’80 in Italia. Perse la sua funzione di
intrattenimento musicale all’inizio degli anni ’90 quando venne acquisito dal gruppo TMC. Oggi le sue frequenze
sono occupate dall’emittente satellitare MTV Italia, che trasmette in chiaro su tutto il territorio nazionale.
90
Cfr.Valter Poles, Intervista ad Aldo Tagliapietra, www.arlequins.it
91
Il concerto fu registrato, inciso su disco e pubblicato con il titolo di “1979, Il concerto” Cramps (1979)
92
A. Tasselli, Italian Prog Rock, www.drivemagazine.net
64
87
88
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