ARTE E PERSUASIONE IN CASA FIAT
Se, come abbiamo recentemente visto, a Parigi alla fine dell’Ottocento circolavano
circa centomila carrozze a cavallo, la vera sfida di fronte alla quale si trovarono i vari
Ford, Agnelli ed altri futuri grandi industriali dell’automobile non fu tanto quella di
escogitare un motore affidabile, quanto quella di indurre il pubblico a considerare il
cavallo un mezzo di trasporto scomodo, costoso, talvolta ingovernabile, antigienico e
del tutto inferiore rispetto a quello che essi stessi proponevano. La pubblicità, infatti
nata con l’industria moderna dalla necessità di presentare dei prodotti realizzati in
serie al maggior numero possibile di acquirenti, è nient’altro che un messaggio
lanciato ad un pubblico anonimo per indurlo a nutrire un desiderio che prima non
aveva. Non si trattava di presentare un oggetto usato da sempre, ora prodotto in
grande quantità: si trattava di creare il desiderio di qualcosa di completamente nuovo,
di mai visto, di trasformare i sospettosi osservatori di ogni novità (e quanto sospetto,
e timore, creasse l’automobile ce lo racconta la storia) in potenziali acquirenti. Mica
facile. Certo, a questo serviva partecipare alle Grandi Esposizioni del tempo: quelle
di Parigi, a cui la Fiat prese parte per la prima volta nel 1902, quelle di Torino, di
Londra, di Copenhagen, di Bruxelles, di New York. Ma non bastava. Certo, vi
contribuivano anche la pubblicità sui giornali e sulle riviste e le vittorie nelle
maggiori competizioni internazionali. Ma non bastava ancora. La Fiat non trascurò
nessuno dei mezzi allora a disposizione nella comunicazione, né tralasciò alcuna
tecnica: colse in pieno il significato del ruolo insostituibile della pubblicità, la sua
funzione di sirena del ventesimo secolo. Dalla importante collezione di manifesti
presentata a Torino quest’autunno, ci si accorge facilmente del variare delle tecniche,
dei toni, dei “target”, ossia dei destinatari del messaggio pubblicitario e perciò del
contenuto e della forma del messaggio stesso. Appare però evidente una linea, e non
poteva non essere così, visto che si tratta di una collezione tutta interna ad una marca
sola: la persistenza, con poche eccezioni, di una stessa tonalità di voce, sia pure in
ambiti diversissimi. Paradossalmente, fu proprio il ricorrere della Fiat a tante risorse
esterne, a così tanti artisti diversi nel corso della sua lunga storia, a garantire
l’emergere e il persistere di una stessa linea. Nessun artista, scelto ogni volta con
grande attenzione tra i migliori del tempo (cartellonisti come Carpanetto, Codognato,
Dudovich, Metlicovitz, Romano, Nizzoli; artisti come De Chirico, Sironi, Casorati,
Annigoni) è riuscito a sovrapporre la sua voce al messaggio voluto dall’azienda, pur
utilizzando tecniche e mezzi espressivi assolutamente propri. Ciò che emerge è la
voce, invece, della Fiat, che segnala la disponibilità del suo prodotto, ne raccomanda
l’utilità, ne impone la necessità. Il pubblicitario, o l’artista, è convocato perché
esprima un certo concetto; ma gli viene anche indicato il tono da usare, i sottintesi da
inserire. L’azienda si comporta, come direbbe Francesco Alberoni, come facevano i
principi del Rinascimento quando chiamavano i pittori a corte per farsi fare il ritratto:
allo stesso modo l’industria chiama il pubblicitario (il cartellonista, l’artista) e gli
commissiona analogo, morbido ritratto.
Pensiamo alla missione aziendale che si era posta Fiat: produrre delle ottime vetture,
soprattutto di piccola-media cilindrata, ad un prezzo contenuto e per un consumo di
benzina ridotto. Ad altri marchi, come l’Itala o l’Isotta Fraschini, veniva lasciato il
livello “top” della produzione e, conseguentemente, il livello alto della
comunicazione. Fiat cerca sempre di usare un tono netto, medio, scevro da enfasi
eccessive o da emotività fuori luogo. E’ già il tono di voce di un leader del mercato,
di chi vuole essere, e si pone come, la marca destinata ad essere scelta dalla
maggioranza. Ciò per esempio spiega il mancato utilizzo, come questi manifesti
evidenziano, di artisti futuristi, cosa di cui Depero si lamentò molto, accusando gli
industriali italiani di mancanza di coraggio. Non si rende conto che il discorso
intavolato da Fiat con il suo pubblico è decisamente di tono borghese: e non esiste
nulla di più lontano dal futurismo dei borghesi che la Fiat vuole raggiungere, cosa di
cui sembra più consapevole la Fiat degli stessi futuristi. Viene privilegiato un tono
più ornamentale e descrittivo. E’ dominante lo sforzo di smorzare, tranquillizzare,
rassicurare. L’automobile Fiat è tutt’altro che una rivoluzione (come lo era invece
l’automobile futurista), bensì un indispensabile accessorio per migliorare lo stile di
vita esistente. Non ci sono grandi vertigini, emozioni indicibili, sconvolgenti
sensazioni nei manifesti Fiat.
La strategia della casa torinese è presentare l’automobile come un oggetto
rassicurante nella pubblicità, come un elegante status symbol nelle relazioni esterne,
come un mezzo potente ed invincibile nelle competizioni sportive. Questa strategia
ha tra i suoi cardini la comunicazione pubblicitaria dei manifesti, considerati “il
colore della radio”, unico colpo di colore nelle città di allora, comunicazione visiva
comprensibile anche a chi ha poca dimestichezza con l’alfabeto. Per la loro
semplicità e ripetitività riescono ad essere facilmente riconosciuti e ricordati, e perciò
attribuiti alla stessa azienda (anche se purtroppo mancano quasi completamente i dati
relativi al numero di manifesti stampati per ogni campagna, e gli anni durante i quali
fu utilizzato lo stesso messaggio).
Si possono distinguere varie fasi storiche, nella comunicazione pubblicitaria grafica
della Fiat. Nella prima fase si utilizzano, talvolta accompagnandoli con una grafia
gotica, temi mitologici e classici. Il manifesto è una composizione simbolica dove
figure diverse, superumane, reggono il prodotto del fuoco, delle officine, delle
fonderie, e quale prodotto, l’eccellenza del lavoro umano: l’automobile, appunto. Il
racconto sotteso da queste immagini è naturalmente quello di un’automobile
concepita, realizzata e commercializzata per un’élite. E’ evidente la volotnà di
riallacciarsi ad un passato “alto”, ad una continuità culturale di livello: siamo lontani
dai rivolgimenti che l’automobile non potrà non provocare, sembra piuttosto una
ricerca di alleanze.
Su questa rappresentazione si innesta il nuovo racconto imposto dai modelli del
fascismo, a cui la Fiat si conforma con una certa prontezza. Le immagini di
automobile e Balilla, automobile e Arditi, cioè Ardita, sono richiami politici che
vanno a coincidere con l’idea fascista di progresso, ed è soltanto in questa fase che
compaiono alcune tecniche più vicine al futurismo e al cubismo. Prevale una scrittura
geometrizzata e scatolata, in bilico tra la comunicazione pubblicitaria di un’industria
e la propaganda di un regime. Quello che accade invece nel dopoguerra rende palese
ed evidente un netto mutamento dei destinatari del messaggio pubblicitario, da cui
deriva una netta rivoluzione anche negli stili pubblicitari. Lo si capisce subito dalla
diversa grafia utilizzata: talvolta anche il corsivo, che sottintende un rapporto meno
ingessato e formale, più complice e diretto, con il proprio pubblico. La Fiat deve
compiere uno sforzo enorme per risollevarsi dalla guerra, e contemporaneamente
affrontare un nuovo pubblico, composto anche da giovani, per la prima volta nella
storia consumatori a pieno titolo, e proletari immigrati anch’essi alla ricerca di
affrancamento e riscatto.
Siamo arrivati così agli anni sessanta, sono passate quasi tre generazioni lungo le
quali l’automobile è stata il segno del progresso e il suo manifesto lo strumento per
immaginare, desiderare, avvicinarsi a questo progresso. Per due generazioni e mezzo
l’industrializzazione è passata attraverso l’automobile, e questa è apparsa come il
mito, il punto di riferimento prima di una élite e quindi di una compagine più
allargata, costituita anche dalle famigliole piccolo borghesi. Perde importanza il
linguaggio grafico del manifesto, l’analfabetismo, e quindi la necessità di un
linguaggio semplificato si riduce grandemente. Il manifesto fotografico dilaga in
pochi anni, cancellando quasi completamente il ricorso a quello grafico. Anche se
nei manifesti grafici alberga una verità che quelli fotografici non ci restituiranno mai:
ci mostrano il cuore degli oggetti rappresentati, il loro segreto, la loro anima.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione Museo Nazionale dell’Automobile di Torino