234 os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio con il patrocinio di La n Rassegna Stampa 29 novembre 2015 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 20/11/2015 Anatema del Papa: maledetto chi opera per guerra e armi L'omelia più dolente di Bergoglio a Santa Marta Duro con i cinici che amano la pace solo a parole di GRAZIA MARIA COLETTI «Questo mondo non riconosce lastrada della pace ma vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla». «Coloro che operano per la guerra e fanno le guerre sono maledetti, sono delinquenti». E ancora: «Una guerra si può "giustificare", sia detto fra virgolette, con tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, una guerra mondiale a pezzi, dappertutto, non c'è giustificazione». Anatema contro le guerre e i sepolcri imbiancati nell'omelia di Papa Francesco, ieri mattina, nella messa celebrata a Santa Marta, la sua omelia «più dolente» così l'ha definita Radio Vaticana. «Anche oggi Gesù piange - ha detto il Pontefice .Perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell'odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale - ha ricordato mentre in piazza San Pietro veniva issato il maestoso abete a due punte proveniente dalla Bavierra - ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi...tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra, a fare le guerre. Il mondo non ha compreso la strada della pace». «Cosa rimane dopo una guerra? » , si è domandato Bergoglio ricordando poi le recenti commemorazioni sulla seconda Guerra mondiale e sulle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki e richiamando il giudizio già espresso da Papa Benedetto nel definirle «stragi inutili». «Rovine - è stata la sua risposta - migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti!, e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi». Poile parole di Gesù. «Una volta, Gesù ha detto: "Non si può servire due padroni: o Dio, ole ricchezze". La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: "Facciamo armi, così l'economia si bilancia un po', e andiamo avanti con il nostro interesse". C'è una parola brutta del Signore: "Maledetti!". Perché Lui ha detto: "Benedetti gli operatori di pace!". Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 guerra si può giustificare - fra virgolettecontante, tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!: è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto..., non c'è giustificazione. E Dio piange. Gesù piange». «E mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro - ha proseguito Papa Francesco - ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un'altra, un'altra, un'altra, danno la vita». E ieri sugli attacchi di Parigi e la massima allerta sul nostro Paese in vista dell'Anno Santo della Misericordia ha parlato il segretario della Cei, Nunzio Galantino. «Di certo il Giubileo non sarà una nuova occasione per chi colpisce attraverso la violenza, altrimenti scriverei una lettera già stasera a Papa Francesco» ha detto Galantino. «Il problema - ha continuato - non è il Giubileo così come non lo si rivolve non andando più al ristorante o vietando i concerti. Bisogna capi recosa sta nella testa e nel cuo re di questi uomini che non hanno bisogno di una occasione per colpire», ha aggiunto. «Abbiamo visto lo sconquasso avvenuto a Parigi ma 24 ore dopo sono stati uccisi 140 ragazzi in una scuola in Nigeria e non so se la notizia sia stata data - ha continuato - Bisogna alzare il livello di conoscenza e prevenzione e l'Italia sta dimostrando di fare». E papa Francesco non indosserà il giubbetto antiproiettile nel suo viaggio in Africa dal 25al 30 novembre. In tutte le tappe del suo viaggio in Africa, compresa quella di Bangui, capitale del Centrafrica dove è in atto una guerra civile, «Papa Francesco utilizzerà delle jeep bianche scoperte, non le papa-mobili blindate» ha precisato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, conversando con i giornalisti. Quanto all'ipotesi che Bergoglio possa essere convinto ad indossare un giubbotto antiproiettile, Lombardi ha aggiunto: «è la prima volta che sento tale ipotesi. Sarebbe curioso andare su un mezzo non protetto e poi indossare il giubbotto. Non l'ho mai sentita e non ci credo». pagina 2 19/11/2015 24/11/2015 LA GIUSTIZIA NON È MAI FURIA DI VENDETTA In nome della tolleranza, per via di una travisata forma di rispetto, l'Italia sta rinunciando ai suoi simboli culturali legati alla tradizione cattolica di LORENZO DELLAI (*) L'esempio della lettera di uno sposo e padre parigino Caro direttore, «Non avrete il mio odio e neppure quello di mio figlio». Lo ha scritto Antoine Leiris, rivolgendosi ai terroristi che venerdì scorso a Parigi gli hanno ucciso la moglie, lasciandolo solo con il figlioletto di 17 mesi e col suo dolore. Dovremmo tutti leggerla, questa lettera straordinaria. Dovrebbero leggerla e meditarla soprattutto quei politici che sparano paroloni, quelli che - più che alla rabbia della gente - danno voce alla propria incapacità di leggere quello che sta succedendo e di reagire come compete ad una vera classe dirigente. Serve la forza implacabile della giustizia, non la furia indiscriminata della vendetta. Servono lucidità e nervi saldi, per distinguere i nemici dagli amici; le reazioni doverose e risolutive da quelle isteriche e inconcludenti. Ma prima di tutto serve capire bene quello che sta succedendo. Non siamo affatto di fronte a uno scontro tra civiltà. Semmai viviamo un attacco ai valori universali della civiltà umana. E in modo più particolare assistiamo a uno scontro mortale dentro il mondo islamico: le drammatiche azioni terroristiche che insanguinano l'Europa sono funzionali alla affermazione di un dominio assoluto del cosiddetto Stato Islamico nell'area corrispondente all'antica Mesopotamia. Questo dominio utilizza le parole d'ordine della religione per interessi politici e di potere; si nutre degli errori dell'Occidente (che ha spianato ad esso la strada con azioni militari prive di strategia politica, che hanno demolito o indebolito i regimi precedenti senza avere disegni alternativi); si alimenta con aiuti finanziari e logistici da parte di nazioni arabe formalmente alleate dell'Occidente; fa leva sulla fragilità psicologica di migliaia di giovani e giovanissimi che vivono nelle periferie fisiche ed esistenziali in Occidente e in Medio Oriente, troppo a lungo lasciate a se stesse. Quelle periferie dalle quali, non a caso, ci esorta sempre a ripartire papa Francesco. Guai se la democrazia è imbelle. Ma guai anche se rinuncia a capire, a discernere, a usare la forza secondo ragione e giustizia. Sarebbe la vittoria finale altrimenti impossibile, nonostante le dure prove che abbiamo superato e dovremo superare - dei profeti di morte che usano il nome del loro Dio, bestemmiandolo, mandando a morire - e a uccidere - giovani burattini disperati che odiano se stessi e l'intera umanità. *Presidente dei deputati Per l'Italia-Centro Democratico RIPRODUZIONE RISERVATA L'altra istruzione. Se il Corano non vuole Peppa Pig, Natale e il Crocifisso L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 di LUCA ROCCA Il presepe a scuola? Offende l'Islam. La carne di maiale servita agli alunni? Maometto non vuole. L'amata Peppa Pig? Sempre di porcellino si tratta, perciò via anche quella. Magari un po' di musica? Macché, per il Corano è peccato. Almeno possiamo lasciare il Crocifisso? Ovviamente no, disturba gli islamici. Insomma, per via di una travisata forma di rispetto, un'idea di tolleranza che tale non è, anche l'Italia sta rinunciando ai suoi simboli culturali, inevitabilmente legati alla tradizione cristiana. Proprio ieri il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha reso noto che «in una scuola in provincia di Bergamo la dirigenza ha chiesto alla banda di non suonare «Adeste Fideles perché troppo cristiana» e nel bresciano «vorrebbero che, per lo stesso motivo, non si festeggiasse Santa Lucia». Ed è di pochi giorni fa la protesta, a Torino, di due famiglie musulmane contro un progetto musicale scolastico che offenderebbe il Corano. In una scuola materna alla periferia di Milano a farne le spese è stata Peppa Pig, messa da parte dagli insegnanti per le pressioni esercitate da alcune famiglie islamiche, mentre nell'aprile scorso, per via della presenza di alunni musulmani, la preside di una scuola di Decimoputzu (Cagliari) ha vietato al parroco di benedire le aule. Stesso episodio due anni prima in un istituto elementare di Varese. Anni fa, in una scuola materna di Bolzano, persino una canzoncina contenente un verso su Gesù è stata eliminata per «non offendere la sensibilità degli alunni islamici», mentre all'istituto scolastico di Monticelli d'Ongina di Piacenza, in quello De Amicis di Bergamo e in una scuola di Leinì, nel torinese, a soccombere è stato il presepe, vietato perché esplicito riferimento a temi religiosi. L'anno scorso nelle mense scolastiche delle scuole materne ed elementari di Pescara sono state vietate le bistecche di maiale, mentre in un istituto del distretto Pianura Est del bolognese ad alcuni alunni non musulmani sono state imposte lezioni di Islam. Quanto al crocifisso, tutto è iniziato con Adel Smith, ex presidente dell'Unione musulmani morto di recente, che nel 2003 avviò la sua battaglia contro la presenza di simboli sacri in scuole, aule giudiziarie, ospedali e seggi elettorali. Una «guerra ideologica» che ha fatto proseliti. Niente Cristo in croce, ad esempio, per rispetto della multiculturalità e per via della presenza di bambini di confessioni religiose diverse, nelle aule della scuola Bombicci di Bologna. E pochi giorni fa, infine, i ragazzi della scuola primaria «Matteotti» di Firenze sono stati persino costretti a rinunciare alla mostra «Bellezza divina». Motivo? Fra i dipinti esposti c'era anche la «Crocifissione bianca» di Chagall. «Non volevamo urtare la sensibilità dei non cattolici», hanno spiegato, convinti di essere nel giusto, i membri del consiglio interclasse. pagina 3 24/11/2015 LO STERMINIO DEI CRISTIANI. COME REAGIRE A UNA TRAGEDIA MODERNA Il fondamentalismo di matrice islamista ha accresciuto le dimensioni di un'emergenza planetaria. È il momento della lotta senza quartiere. Il capo dello stato scrive al Foglio di Sergio Mattarella grave ed esteso di quello dei primi anni del Cristianesimo. È una denuncia che non può lasciare indifferenti. La comunità internazionale, dopo anni di È un momento tragico per l'Europa e il mondo. Un fanatismo barbaro e disattenzione e di silenzi, sta finalmente cominciando a prendere coscienza disumano ha colpito Parigi, nel cuore del nostro continente e della nostra della gravità del fenomeno che è una minaccia non solo alla libertà religiosa civiltà. Quella del terrorismo fondamentalista è una minaccia ai valori di dei singoli, ma come ci insegnano i due attentati di Parigi alla democrazia e libertà, democrazia, solidarietà e convivenza civile. La strategia, folle e alla convivenza per tutta la comunità internazionale. La pace religiosa, la lucida allo stesso tempo, dell'estremismo è chiara: cercare di insinuare tolleranza, la collaborazione tra le diverse fedi è, di converso, un fattore nella nostra società sentimenti come la paura, la disgregazione, la determinante di benessere, di equilibrio sociale e di sviluppo economico. tentazione di chiudersi, l'odio. E la strage dei ragazzi di Parigi ha posto in Sono appena tornato da un viaggio in oriente, che mi ha portato anche in modo brutale l'opinione pubblica davanti alla questione, drammatica e Indonesia. In quel paese, che sta conoscendo una grande crescita cruciale, della violenza a sfondo integralista che mira a cancellare la nostra economica e d'influenza politica, vige fin dalla sua fondazione una cultura, la nostra storia, i nostri valori. Il problema, in realtà, è purtroppo Costituzione democratica che riconosce l'eguaglianza, il rispetto, la libertà molto più antico. E riguarda strettamente il rispetto, nella comunità per tutte le religioni. L'Indonesia, con 205 milioni di fedeli musulmani, è il internazionale, dei diritti universali dell'uomo, oscurati, oltraggiati e negati più grande stato del mondo a maggioranza islamica. In quel paese, il cui in tante parti del globo. La persecuzione a carattere religioso, infatti, non è modello dovrebbe essere conosciuto e promosso, gli esponenti delle mai a se stante, ma è parte della violazione, feroce e sistematica, delle diverse religioni non solo collaborano tra loro, contribuendo allo sviluppo libertà fondamentali dell'uomo, di cui il diritto a professare, a predicare, sociale, culturale ed economico dello stato, ma hanno rapporti di vera e persino a cambiare la propria fede religiosa, senza dover subire fraterna amicizia. I leader delle comunità musulmane che ho incontrato discriminazioni o addirittura violenze, è elemento fondamentale. La strage hanno sempre tenuto a sottolineare la natura liberale e moderata dell'islam di Parigi, sarebbe irragionevole non ammetterlo, è il diretto risultato della indonesiano e la ferma condanna dell'estremismo e della violenza religiosa. predicazione dell'odio contro il diverso e delle persecuzioni che le Nel considerare ogni uomo come figlio di Dio, si riconosce in lui la comune minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, soffrono nel mondo. Certo, radice e, per questo, diventa portatore di uguali diritti e di pari dignità. non sono solo i cristiani, nelle loro diverse articolazioni, a patire Sono, questi, princìpi universali, gli unici che possono condurre la comunità oppressione e soprusi, ma tanti altri gruppi religiosi, culturali ed etnici. internazionale verso un futuro di pace, sviluppo e benessere. Per questo va Vittime di pregiudizi, di ostilità, di discriminazioni, di vere e proprie violenze, respinta con decisione la sfida del terrorismo fondamentalista che spesso da parte di gruppi terroristici, maggioranze aggressive o di stati e maschera con pretesti religiosi la sua voglia di dominio e di sopraffazione. legislazioni totalitari. Ma il fondamentalismo e il radicalismo di matrice Scendere sul loro terreno, che è quello dello scontro di civiltà o di religione, islamista, esplosi di recente e alimentati all'interno di vaste regioni sarebbe un grave errore, dalle conseguenze difficilmente valutabili. Quella dell'Africa e del medioriente, hanno tragicamente accresciuto le dimensioni contro il terrorismo fondamentalista che rappresenta oggi e probabilmente di questa vera e propria emergenza planetaria. E spicca, tra tutti, il dato negli anni a venire la più grave minaccia alla pace del mondo sarà una lotta numerico che riguarda le comunità cristiane, in termini assoluti le più impegnativa e complessa che va condotta in ogni luogo e senza quartiere perseguitate e con il maggior numero di vittime. Comunità fiorenti, antiche e non solo con le necessarie azioni di forza e con il rafforzamento della radicate, abituate alla convivenza, al dialogo e alla pace, sono state sicurezza, a cui ogni cittadino ha diritto, ma anche con le armi della cultura, completamente cancellate in diverse aree del mondo o ridotte a sparuti del dialogo, del diritto. E con un dispiego d'intelligenza e di lungimiranza che gruppi, minacciati e vessati. Cristiani in ogni latitudine decapitati, crocefissi, devono essere almeno pari alla indispensabile intransigenza. Molti errori di bruciati vivi, interpellano la coscienza di ogni uomo. Papa Francesco ha valutazione sono stati compiuti nel nostro recente passato. Ora non si può lanciato alto il suo grido di dolore, parlando di un martirio enormemente più più sbagliare. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 4 24/11/2015 A TAVOLA! Per essere più umani di ENZO BIANCHI «Il desco è il luogo del faccia a faccia, della comunione; cenando insieme s'impara ad ascoltare e a intervenire in libertà e nella convivialità Invece oggi ciascuno guarda il suo tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti...» La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale 'passiamo', non da soli ma con altri, va abitata. A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre stata percepita come l'emblema dell'umanizzazione, il luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia. Anche in queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola, magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola. Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a tavola si sperimenta anche l'uguaglianza, un'uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella convivialità. La tavola ha un magistero decisivo per noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne siamo consapevoli? Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti... La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l'assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell'ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla, è un'arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell'amato/a, del fratello/sorella, dell'amico/ a, dell'altro/a che mangiando con me vive un'azione di comunione L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni. La condivisione del cibo è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia: le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l'urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che si ha davanti. Qui si mostra l'ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Solo se c'è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione! Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l'amore, per rallegrarsi con un amico ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesú, quando voleva consegnare un'immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva all'immagine della tavola e del banchetto. Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un'immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l'anticamera dell'amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l'umanità, la possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela. Mettiamoci alla loro scuola. RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 5 25/11/2015 La conferenza di Parigi sul clima Sì all'interesse comune No a logiche nazionali di Ban Ki-moon Nei miei ormai nove anni di mandato come Segretario generale, visitando i luoghi nel mondo che sono tra i più esposti al cambiamento climatico, ho segnalato continuamente a governanti mondiali, imprenditori, comuni cittadini la necessità di un'urgente risposta globale. Perché questo tema mi sta tanto a cuore? Innanzitutto, come qualunque nonno, voglio che i miei nipoti si godano la bellezza di un pianeta in salute. E come qualsiasi essere umano, mi duole dover constatare che inondazioni, siccità, incendi facciano sempre più danni, che stati insulari stiano scomparendo e che un incalcolabile numero di specie sia destinato a estinguersi. Come Sua Santità papa Francesco e altri leader religiosi ci hanno ricordato, abbiamo il dovere morale di agire in solidarietà con i poveri e i più vulnerabili, che , pur tra i minori responsabili delle cause del cambiamento climatico, saranno però i più esposti ai suoi effetti deleteri. In secondo luogo, come Segretario generale delle Nazioni Unite, ho dato priorità al cambiamento climatico, consapevole che nessun Paese possa affrontare questa sfida da solo. Il cambiamento climatico non ha passaporto; le emissioni nocive non conoscono confini, e concorrono a peggiorare il problema dovunque. L'esistenza, così come interi sistemi di vita, sono minacciati dovunque. Una minaccia che riguarda anche stabilità economica e sicurezza delle nazioni. Il processo negoziale, per quanto lento e complicato, ha dato alcuni risultati. In risposta all'appello dell'Onu, più di 166 Paesi, che in totale rappresentano più del 90% delle emissioni globali, hanno ora presentato piani climatici nazionali con obiettivi precisi. Se attuati con successo, questi piani potranno ridurre la curva delle emissioni a un aumento globale della temperatura che si attesterebbe intorno ai tre gradi Celsius entro la fine del secolo. Progresso significativo. Ma non sufficiente. La sfida è ora di muoversi in fretta e spingersi oltre per ridurre le emissioni globali in modo da poter mantenere l'innalzamento della temperatura globale sotto due gradi Celsius. Al tempo stesso, occorre aiutare gli Stati a adattarsi alle conseguenze inevitabili, che peraltro già incombono su di noi. Prima si agisce, prima se ne vedranno i benefici, per tutti: stabilità e sicurezza accresciute; una crescita economica più forte e sostenibile; una maggiore capacità di adattamento a possibili eventi traumatici; aria e acqua più pulite; migliori condizioni di salute. Non ci arriveremo subito. La conferenza di Parigi non è il punto di arrivo. Il suo obiettivo è quello di definire le condizioni di base, non l'apice delle nostre ambizioni. Essa deve rappresentare il punto di svolta verso un futuro a basse emissioni e climaticamente sostenibile. L'atmosfera generale è propizia. Città, mondo imprenditoriale, investitori, leader religiosi e cittadini stanno agendo per ridurre le emissioni. Sta ora ai governi la responsabilità di raggiungere a Parigi un accordo significativo L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 e vincolante, che identifichi regole chiare per un cammino che rafforzi le ambizioni globali. Per questo, i negoziatori hanno bisogno di linee guida chiare dai responsabili politici. Credo che ciò possa avvenire. I leader del G20, che ho incontrato di recente a Antalya in Turchia, hanno mostrato grande impegno ad agire sulla questione. Inoltre, più di 120 capi di Stato e di governo hanno confermato la loro partecipazione a Parigi, malgrado le accresciute preoccupazioni in materia di sicurezza dopo gli attacchi terroristici. Quattro sono a mio avviso gli elementi essenziali per fare di Parigi un successo: durata, flessibilità, solidarietà e credibilità. Il primo attiene alla necessità che Parigi esprima una visione di lungo termine compatibile con l'obiettivo di meno di due gradi di innalzamento e che mandi ai mercati il chiaro segnale che la trasformazione dell'economia globale in questo senso sia inevitabile, positiva e che sia anzi già avviata. L'accordo deve poi garantire flessibilità, in modo da non dover essere continuamente rinegoziato. Deve cioè poter incorporare i cambiamenti che avvengono nell'economia globale e stabilire un compromesso tra il ruolo guida dei Paesi industrializzati e le crescenti responsabilità dei Paesi in via di sviluppo. In terzo luogo, l'accordo deve dimostrare solidarietà, per esempio attraverso la finanza e il trasferimento di tecnologia in favore dei Paesi in via di sviluppo. I Paesi industrializzati devono rispettare l'impegno a stanziare cento miliardi di dollari all'anno di qui al 2020 per finanziare spese di adattamento e mitigazione. Infine, l'accordo deve fare mostra di credibilità nel rispondere al rapido prodursi degli effetti del cambiamento climatico. Deve quindi includere un ciclo regolare quinquennale di valutazione da parte dei governi, che possano eventualmente rafforzare i propri piani nazionali in linea con le esigenze indicate dalla scienza. Parigi deve inoltre includere meccanismi solidi e trasparenti di misurazione, monitoraggio e analisi dei progressi compiuti. Le Nazioni Unite sono pronte a sostenere i Paesi nell'attuazione di un tale accordo. Un accordo a Parigi sul clima che sia davvero significativo sarà la premessa per un miglior presente, e un miglior futuro. Ci aiuterà a porre fine alla povertà. A pulire la nostra aria e proteggere i nostri oceani. A creare nuovi posti di lavoro e catalizzare l'innovazione verde. Ad accelerare il progresso verso il conseguimento di tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Ecco perché il cambiamento climatico mi sta tanto a cuore. Il mio messaggio ai leader mondiali è chiaro: il successo a Parigi dipende da voi. Ora è tempo di buon senso, compromesso e consenso. È ora di guardare al di là degli orizzonti nazionali e di mettere l'interesse comune davanti a ogni altra cosa. I popoli del mondo e le generazioni future contano sul fatto che voi abbiate la visione e il coraggio di cogliere questa occasione storica. pagina 6 25/11/2015 UN GIORNO LUNGO UN ANNO PER IL CORAGGIO DELLE DONNE di MICHELA MARZANO Da quando, nel 1999, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito la "Giornata internazionale per l'eliminazione della violenze contro le donne", ogni 25 novembre le iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica nei confronti di questo dramma sono moltissime. Incontri, convegni, concerti ed eventi di ogni sorta sono organizzati in tutto il mondo. Tutti sembrano unanimi nel condannare questo fenomeno che continua a mietere vittime innocenti - quasi sette milioni secondo gli ultimi dati Istat. Tutti sembrano disposti a impegnarsi e a moltiplicare gli sforzi per contrastare e ridurre le violenze di genere e le discriminazioni. Come però ha recentemente dichiarato Michelle Bachelet, vice segretario generale e direttore esecutivo di "UN Women", finché ci si limiterà a punire i colpevoli senza impegnarsi anche in serie politiche di prevenzione, non si riuscirà ad affrontare il problema con i dovuti strumenti. «Occorrono cambiamenti culturali per smettere di guardare alle donne come cittadine di seconda classe», ha ricordato Michelle Bachelet, insistendo anche sull'importanza dei modelli femminili proposti alle più giovani e ai più giovani. Ma come si fa a insegnare il rispetto di tutte e di tutti quando si continua a vivere in una società in cui le differenze vengono ancora percepite come difetti e in cui ci si illude che la dignità di ognuno dipenda da quello che si realizza o meno nella vita e non da quello che si è, ossia "persone", tutte uguali e tutte degne indipendentemente dal sesso, dal genere e dall'orientamento sessuale? Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell'accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata? Il problema delle violenze di genere non è solo un'urgenza, qualcosa di cui ricordarsi solo quando si è di fronte all'ennesimo dramma o in occasione del 25 novembre. È anche e soprattutto un fenomeno strutturale, la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d'oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche e soprattutto le relazioni intersoggettive. Per cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano ancora di potersi comportare come "padroni" e L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 non sopportano che le donne, "oggetti di possesso", possano diventare autonome; in parte insicuri e incapaci di sapere "chi sono", le accusano di mettere in discussione la propria superiorità; in parte narcisisticamente fratturati, pretendono che le donne li aiutino a riparare le proprie ferite. Un problema identitario, quindi, che si trasforma poi in un problema relazionale e che, ancora troppo spesso, sfocia nell'odio e nella violenza. Un odio e una violenza che non si potranno combattere efficacemente fino a quando non si capirà che il problema comincia nelle famiglie e nelle scuole e che, per affrontarlo seriamente, si deve ripartire dall'educazione dei più piccoli. Le donne non sono "inferiori", "sottomesse" e "irrazionali" per natura, esattamente come gli uomini non sono "superiori", "padroni" o "razionali". Le donne e gli uomini sono certo diversi, ma la diversità non è mai sinonimo di disuguaglianza. Anzi. È sempre e solo nella diversità che l'uguaglianza e il rispetto reciproco possono essere promossi. Ormai siamo consapevoli che l'aggressività e il senso del possesso sono parte della natura umana. Sappiamo che nessuno di noi è immune dall'odio e dall'invidia e che non si potrà mai definitivamente eliminare l'ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Ma abbiamo anche capito che la violenza, se non la si può cancellare, la si può almeno contenere e prevenire. Avendo il coraggio di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse e le banalità di cui, ancora oggi, sono impastati i rapporti tra gli uomini e le donne. Decostruendo e ricostruendo la grammatica delle relazioni affettive. Distinguendo l'amore - che regala ad ognuno di noi la libertà di essere noi stessi dalla gelosia possessiva che obbliga l'altra persona ad occupare esattamente quel posto lì, quello che le abbiamo preparato, quello che non può disertare, nemmeno quando ha deciso di andarsene via. È solo imparando a convivere con la frustrazione e la mancanza che si potrà poi insegnare ai più piccoli che le donne non sono né "oggetti" a disposizione per colmare il proprio vuoto né "cose" di cui ci si possa impossessare e talvolta distruggere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 7 PAPA FRANCESCO ANGELUS Roma - Piazza San Pietro 22 novembre 2015 Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In questa ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo Re. E il Vangelo di oggi ci fa contemplare Gesù mentre si presenta a Pilato come re di un regno che «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Questo non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo, eppure è re in questo mondo. Si tratta di una contrapposizione tra due logiche. La logica mondana poggia sull’ambizione, sulla competizione, combatte con le armi della paura, del ricatto e della manipolazione delle coscienze. La logica del Vangelo, cioè la logica di Gesù, invece si esprime nell’umiltà e nella gratuità, si afferma silenziosamente ma efficacemente con la forza della verità. I regni di questo mondo a volte si reggono su prepotenze, rivalità, oppressioni; il regno di Cristo è un «regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio). Gesù si è rivelato re quando? Nell’evento della Croce! Chi guarda la Croce di Cristo non può non vedere la sorprendente gratuità dell’amore. Qualcuno di voi può dire: “Ma, Padre, questo è stato un fallimento!”. E’ proprio nel fallimento del peccato - il peccato è un fallimento - nel fallimento delle ambizioni umane, lì c’è il trionfo della Croce, c’è la gratuità dell’amore. Nel fallimento della Croce si vede l’amore, questo amore che è gratuito, che Gesù ci dà. Parlare di potenza e di forza, per il cristiano, significa fare riferimento alla potenza della Croce e alla forza dell’amore di Gesù: un amore che rimane saldo e integro, anche di fronte al rifiuto, e che appare come il compimento di una vita spesa nella totale offerta di sé in favore dell’umanità. Sul Calvario, i passanti e i capi deridono Gesù inchiodato alla croce, e gli lanciano la sfida: «Salva te stesso scendendo dalla croce!» (Mc 15,30). L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 8 “Salva te stesso!”. Ma paradossalmente la verità di Gesù è proprio quella che in tono di scherno gli scagliano addosso i suoi avversari: «Non può salvare sé stesso!» (v. 31). Se Gesù fosse sceso dalla croce, avrebbe ceduto alla tentazione del principe di questo mondo; invece Lui non può salvare sé stesso proprio per poter salvare gli altri, proprio perché ha dato la sua vita per noi, per ognuno di noi. Dire: “Gesù ha dato la vita per il mondo” è vero, ma è più bello dire: “Gesù ha dato la sua vita per me”. E oggi in piazza, ognuno di noi, dica nel suo cuore: “Ha dato la sua vita per me”, per poter salvare ognuno di noi dai nostri peccati. E questo chi lo ha capito? Lo ha capito bene uno dei due malfattori che sono crocifissi con Lui, detto il “buon ladrone”, che Lo supplica: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Ma questo era un malfattore, era un corrotto ed era lì condannato a morte proprio per tutte le brutalità che aveva fatto nella sua vita. Ma ha visto nell’atteggiamento di Gesù, nella mitezza di Gesù l’amore. E questa è la forza del regno di Cristo: è l’amore. Per questo la regalità di Gesù non ci opprime, ma ci libera dalle nostre debolezze e miserie, incoraggiandoci a percorrere le strade del bene, della riconciliazione e del perdono. Guardiamo la Croce di Gesù, guardiamo il buon ladrone e diciamo tutti insieme quello che ha detto il buon ladrone: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Tutti insieme: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Chiedere a Gesù, quando noi ci vediamo deboli, peccatori, sconfitti, di guardarci e dire: “Tu sei lì. Non ti dimenticare di me!”. Di fronte alle tante lacerazioni nel mondo e alle troppe ferite nella carne degli uomini, chiediamo alla Vergine Maria di sostenerci nel nostro impegno di imitare Gesù, nostro re, rendendo presente il suo regno con gesti di tenerezza, di comprensione e di misericordia. © Copyright 2015 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 9 quaderno 3970 28 novembre 2015 LA DOTTRINA SCIITA DELL'IMAMATO E DELLO STATO ISLAMICO INTEGRALE Giovanni Sale S.I. Il «risveglio sciita» è uno degli aspetti più importanti della politica internazionale della seconda metà del Novecento; ancora oggi questa tendenza continua a occupare lo scenario politico in diversi Paesi del Medio Oriente. Tutto iniziò con la rivoluzione iraniana del 1979, che «risvegliò» il mondo sciita, che fino agli inizi del XX secolo aveva professato in materia politica dottrine quietiste. E ciò in riferimento alla tradizionale dottrina sull'imamato Sciita (anche se del ramo «dissidente» degli alauiti) è, dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, la dirigenza siriana e, dopo la seconda guerra del Golfo (2003), lo è anche gran parte della leadership irachena. Di confessione sciita è anche il «partito di Dio», nato in Libano negli anni Ottanta, cioè l'Hezbollah, che ha avuto un ruolo non secondario nello sviluppo della dottrina martiriale anche nel mondo sunnita. Gli sciiti sono, insieme ai sunniti, una delle principali ramificazioni dell'islam «ortodosso». Al loro interno si suddividono in diverse osservanze: gli imamiti (o duodecimani), che sono la maggioranza, e gli ismailiti (o settimani), a loro volta divisi in drusi, alauiti e nizari, per citare solo i gruppi principali. Queste ramificazioni, pur professando dottrine religiose in parte differenti, sono tutte concordi su alcuni punti sostanziali: 1) nel sostenere il diritto della famiglia del profeta alla guida religiosa e politica della comunità; 2) nell'attesa di un imam escatologico, generalmente indicato come mahdì (messia), alla fine dei tempi. Oltre ad alcune differenze di ordine dottrinale, ciò che maggiormente distingue i due gruppi religiosi è la dottrina sull'imamato, che ha un influsso rilevante anche sul piano politico. In questo articolo si tratterà nella prima parte di tale dottrina in riferimento sia agli imamiti sia agli ismailiti, nella seconda della teoria dello Stato islamico sciita. La dottrina sciita dell'imamato Per quanto riguarda la dottrina sull'imamato in generale, possiamo dire che lo sciismo, a differenza del sunnismo, ritiene che esista un'autorità suprema, stabilita da Dio, responsabile delle questioni religiose e temporali. Durante la sua vita, questo compito fu svolto da Maometto; dopo la sua morte, essendo venuto meno l'ultimo interprete del messaggio divino, nella comunità dei credenti si avvertì la necessità di trovare un'altra guida «autorizzata». La mente umana, infatti, è fallibile, spesso non si orienta secondo la volontà di Dio e non opera secondo il giusto. «Non è sufficiente scrive Paul Walker - che gli uomini si limitino a riscoprire o recuperare l'esatta forma e l'esatto contenuto dell'insegnamento del profeta in ogni circostanza specifica. Deve anche mantenersi, per sanzione divina, almeno un anello della catena che lega dalle origini l'uomo a Dio. In altre parole, in ogni epoca deve esistere un individuo profeticamente ispirato», appartenente alla famiglia del profeta e quindi successore del L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 10 quaderno 3970 28 novembre 2015 primo imam Alì. Da ciò segue che la designazione e la successione degli imam sono frutto di una precisa volontà divina e riguardano tutti gli aspetti - religiosi e temporali della vita della comunità dei credenti. La dottrina sull'imamato degli sciiti duodecimani è stata messa a punto, in un lungo arco di tempo, da due grandi statisti e giuristi, cioè dallo sceicco al-Mufid, morto nel 1022, e da Hasan Ibn al-Mutahhar al-Hilli, morto nel 1325. Definendo questa dottrina, il primo scrisse: «La denominazione di "imamiti" si applica a coloro che professano la necessità dell'imamato, che affermano la sua esistenza in ogni epoca della storia, che considerano necessaria per ogni imam una designazione testuale chiara, l'impeccabilità e la perfezione, e che limitano l'imamato alla discendenza di Hussein, figlio di Alì e fanno passare questa linea perAlì Ibn Musa al-Rida». Questa sentenza, breve ma precisa, indica i quattro requisiti fondamentali che i duodecimani pongono per l'imamato: 1) necessità della sua esistenza storica; 2) designazione ispirata della sua carica; 3) perfezione morale della sua persona e dei suoi atti; 4) sua discendenza dalla famiglia del profeta. «Gli imamiti - continua al-Mufid sono dell'opinione che gli imam perfetti siano i migliori fra tutti i loro contemporanei nelle rispettive epoche, e in tutti i campi della loro attività, nella conoscenza e nelle capacità intellettuali. Essi non conoscono l'ignoto, ma conoscono le intenzioni degli uomini a causa di un'ispirazione elargita da Dio». In particolare, mentre nella dottrina sunnita il califfo è frutto della libera scelta della comunità (ikhtiyar), sulla base del principio di consultazione, l'imam sciita è scelto sulla base di una precisa «designazione testuale» (nass), cioè attraverso un testo sacro o attraverso la decisione del precedente imam. Inoltre, mentre il primo è sostanzialmente un uomo fallibile, anche se dotato di alcune qualità morali, il secondo, essendo mediatore tra Dio e gli uomini e appartenendo alla sacra famiglia del profeta, è dotato di infallibilità nelle questioni sia spirituali sia temporali, e di «impeccabilità». Secondo la tradizione imamita, dopo l'epoca dei profeti, che si è conclusa con Maometto, gli imam continuano la loro missione profetica, ma senza portare una nuova scrittura. Questa tradizione, inoltre, pone una chiara distinzione tra il ruolo di Maometto e quello dell'imam: il primo è il portavoce della rivelazione divina, il secondo è l'esecutore del messaggio, colui che, interpretandolo, deve metterlo in pratica. La comunità, da parte sua, è obbligata a seguire le decisioni della sua guida carismatica: disobbedire all'imam è come disobbedire al profeta. Queste teorie furono mantenute e ampliate da al-Hilli, detto il «sapientissimo», il quale, sviluppando il pensiero del suo maestro al-Tusi, pose i capisaldi della dottrina sciita attuale. Circa l'interpretazione dei testi sacri, ritenne che ogni studioso abbia la facoltà di «speculare su quelle questioni della legge che sono soggette a congetture», ampliando così lo spazio di autonomia riconosciuto al giurista. Questo principio ha posto le basi, nel mondo sciita, per lo sviluppo di un «clero» capace di intervenire con autorevolezza, attraverso il criterio della libera interpretazione della legge, nelle questioni religiose o politiche. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 11 quaderno 3970 28 novembre 2015 Una sentenza successiva afferma che nessun mujtahid di per sé è infallibile, ma i loro responsi, presi nel loro insieme, certamente lo sono. A tale riguardo, lo studioso Heinz Halm afferma che al-Hilli «fornì un supporto teoretico al principio sino allora indisputato per cui il ragionamento legale è basato sullo sforzo intellettuale individuale. Con l'applicazione di questo principio, che ritiene l'intelletto raziocinante del giurista in grado di formulare giudizi anche su questioni religiose, egli preparò la strada al successivo ruolo - anche politico - degli studiosi sciiti, i mullah e gli ayatollah». Sulla base di questi presupposti, nelle correnti più estremiste, la figura dell'imam si andò «sacralizzando», diventando una sorta di messaggero celeste, secondo soltanto a Maometto e ad Alì. In alcune tradizioni ismailite egli addirittura fu considerato alla stregua di Maometto o anche di più. In questi casi lo sciismo andò acquistando una dimensione cosmica: «L'imam, infatti, superò le qualifiche puramente umane di sostituto del Profeta, e venne collocato al centro di un complesso sistema in cui tutte le manifestazioni del mondo sono teofania e le vicende della profezia e dell'imamato diventano ierostoria». Le vicende dell'ultimo imam riconosciuto - sia esso il settimo, il dodicesimo, o un altro ancora, all'interno della tradizione sciita - determinarono lungo i secoli insanabili scissioni. Ogni volta che la successione imamale, per vari motivi, si arrestava (wuquf), si riteneva che l'imam scomparso fosse entrato in «occultamento». Ciò creava nella comunità un vuoto, spirituale e temporale, che doveva essere in qualche modo riempito. «Certo, l'ultimo imam - si affermava - ritornerà come Messia, come Mahdi, a ristabilire il regno di Dio sulla terra». La sua assenza generava insieme attesa e incertezza. Nel frattempo ogni altro potere costituito era considerato per sua natura illegittimo, e chi lo esercitava veniva considerato come un usurpatore. In questo tempo di attesa, che poteva essere anche molto lungo, si poneva però la necessità di guidare la comunità e di indirizzarla verso il bene e la giustizia. A tale proposito, i duodecimani svilupparono la dottrina secondo la quale, nell'assenza dell'imam, il potere di guidare la comunità sarebbe spettato ai suoi vicari o rappresentanti, scelti tra i più saggi, pii e influenti del loro tempo. Secondo una tradizione antica, questa autorità sarebbe stata trasferita dall'imam Ga'far al-Sadiq ai giuristi, che, in assenza dell'imam, ricevevano l'autorità dall'«imam nascosto» o dal Mahdi. Secondo il giurista Hasan al-Tusi, morto nel 1067, l'imam poteva autorizzare gli ulema del suo partito a rappresentarlo durante la sua assenza. In questo modo nella dottrina sciita veniva prefigurata la cosiddetta «autorità del giusrisperito» (velayat-e faqih), a cui nei tempi moderni l'ayatollah Khomeini ha fatto riferimento per legittimare il suo potere. «Si stabiliva una nuova catena di trasmissione del sapere e del potere formata da Profeta-imam-rappresentanti dell'imam. Emerge così nel corso della storia sciita una nuova gerarchia dell'autorità religiosa, un clero formato da ulema e mujtahid che va occupando il vuoto causato dall'occultamento dell'ultimo imam». La tesi dell'imam nascosto ma spiritualmente presente nella comunità è seguita dagli L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 12 quaderno 3970 28 novembre 2015 sciiti duodecimani. Secondo loro, il tempo dell'assenza si divide in due parti: il periodo del cosiddetto «occultamento minore» (al-Ghayha al-Sughra), durato fino al 941, e quello dell'«occultamento maggiore» (al-Ghayba al-Kubra), che continua ancora. Durante il primo periodo l'imam era in contatto con la comunità attraverso quattro successivi agenti (le cosiddette «quattro porte») che fungevano da mediatori qualificati. Il dodicesimo imam è anche il Mahdi, che uscirà dall'occultamento nel tempo in cui l'oppressione e l'ingiustizia del mondo saranno al culmine. Egli, in quanto Messia, distruggerà il male e stabilirà il regno della giustizia secondo la legge divina, e rivelerà l'unità sostanziale delle religioni monoteiste. Il Mahdi preparerà la seconda venuta del profeta Cristo, che porrà fine alla storia dell'umanità. Tutti gli sciiti pregano per la seconda venuta di Cristo. Questa dottrina escatologico-apocalittica sulla fine dei tempi è in parte condivisa anche dai sunniti, ma dagli interpreti della legge è considerata soltanto facoltativa. Per gli sciiti, questa dottrina dell'attesa dell'imam nascosto è molto importante: informa tutto l'ethos della vita religiosa e influenza tutte le manifestazioni della vita collettiva. La teoria dello Stato islamico sciita L'artefice della «reinterpretazione» della dottrina sciita dello Stato islamico fu il grande ayatollah Ruhollah Khomeini, il quale si formò nel più importante centro teologico dell'Iran (nella città santa di Qom), dove successivamente fu anche docente. Negli anni del regno di Reza Pahlavi questa scuola fu anche il maggiore centro di resistenza al progetto di «modernizzazione autoritaria», intrapreso a partire dagli anni Sessanta dal regime. La figura di Khomeini emerse sul piano pubblico soprattutto in seguito ai fatti del 1963, quando egli si oppose con forza a tutta una serie di riforme promulgate dal Governo di Teheran (la cosiddetta «rivoluzione bianca»). Queste riforme, ispirate a modelli filooccidentali, riguardavano la materia economica e la società civile, modificando modelli tradizionali da sempre controllati dal clero. Tra le altre cose, si prevedeva la concessione del voto alle donne (valorizzando il ruolo femminile nella società come fattore di modernizzazione) e la loro partecipazione al mondo del lavoro, nonché la proibizione di portare il velo nei pubblici uffici. Quasi tutte queste riforme furono avversate dal clero sciita, in quanto considerate antiislamiche e modellate su stili di vita occidentali. In occasione delle tradizionali festività religiose, le processioni degenerarono in manifestazioni contro il regime, dando luogo a scontri violenti tra manifestanti e polizia. La repressione colpì duramente tutti gli oppositori politici - comunisti, liberali e anche diversi esponenti del clero -, i quali poco alla volta abbandonarono il loro tradizionale atteggiamento quietista (e di sostegno all'autorità pubblica «illegittima») per divenire combattenti. Khomeini fu più volte arrestato dalla polizia dello shah e alla fine costretto all'esilio, prima in Turchia e poi nella città santa di Najaf, in Iraq, dove rimase fino al 1978. Durante il soggiorno nella città santa irachena il grande ayatollah assunse la leadership spirituale e politica del movimento di ribellione al regime dello shah, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 13 quaderno 3970 28 novembre 2015 divenuto sempre più oppressivo e poliziesco. Inoltre, fu proprio durante gli anni dell'esilio che Khomeini elaborò la sua teoria sullo Stato islamico, apportando nella dottrina sciita sui rapporti tra religione e politica un vero e proprio cambiamento di rotta. Questa teoria fu divulgata attraverso una serie di lezioni, poi raccolte nel libro intitolato Velayat-e faqih. Hokumat e-islami («L'autorità del giurisperita. Il governo islamico»), che fu diffuso in tutto il mondo islamico. Le tesi sostenute nel volume erano certamente dirompenti sul piano dottrinale: veniva apertamente condannata la teoria tradizionale del «quietismo politico», e si sosteneva che era compito dell'autorità religiosa, in particolare dei giurisperiti, assumere un ruolo guida nell'ambito politico (come avevano fatto Maometto e i suoi immediati successori); inoltre si attaccava l'istituzione della monarchia, definita come istituto non islamico, e si auspicava la creazione di una Repubblica popolare islamica, diretta e gestita dal giurisperito religioso, in quanto vero conoscitore della legge islamica. Queste tesi di Khomeini sul «governo islamico» costituivano una vera e propria rottura con la tradizione religiosa sciita. Esse proponevano la ricostruzione di un'autorità politica legittima in assenza dell'imam. Per Khomeini, infatti, era impensabile che Dio avesse abbandonato gli uomini a se stessi dopo la scomparsa del dodicesimo imam, o che avesse voluto lasciare la comunità dei veri credenti in mano ai nemici della fede. «I sapienti del clero, che conoscono la Legge e possiedono senso di giustizia, devono dunque raccogliere quell'eredità e governare con piena autorità. Tra loro sarà scelto il "Giusto faqih", leader politico e religioso che non ha la stessa autorità dell'imam, ma ne esercita la funzione». In questa figura il grande ayatollah ricomponeva il rapporto tra religione e politica, da secoli spezzato in seguito alla dottrina dell'occultamento. Questa teoria fu aspramente contestata dalla gerarchia tradizionale, che vi vide l'empio tentativo - portato avanti da un religioso, per motivi di ambizione personale - di sostituirsi illegittimamente all'autorità dell'imam nascosto. Ma, poco alla volta, il clero sciita (in particolare quello medio), anche a motivo della dura repressione che dovette subire da parte del regime, si orientò verso le teorie khomeiniste e parteggiò per l'ayatollah Khomeini, esiliato nella città santa di Najaf e divenuto così «combattente» per la causa rivoluzionaria. Va ricordato che questo dibattito - tutt'altro che teorico - sul ruolo del clero imamita nella società iraniana era iniziato già nei primi anni del XX secolo, sotto la dinastia dei Cagiari, e successivamente, a partire dal 1924, sotto la dinastia dei Pahlavi. In quegli anni si svolse una disputa religiosa tra due scuole o tendenze che in realtà sono sopravvissute anche dopo la rivoluzione del 1979: quella degli akhbari, che sosteneva la necessità di seguire, in modo stretto, la dottrina degli imam precedenti; e quella degli usali, che invece lasciava ai mujtahid un ampio margine nell'interpretazione e nell'aggiornamento della legge religiosa. Il prevalere degli usali rafforzò sul plano politico il clero, che divenne la forza trainante della società iraniana. Essi furono i principali oppositori dell'influenza degli stranieri sulla vita politicoeconomica nazionale, cioè degli ottomani sunniti prima, e L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 14 quaderno 3970 28 novembre 2015 degli inglesi e dei russi dopo; rovesciarono la monarchia e instaurarono una Repubblica costituzionale, che durò soltanto un breve periodo. È nella prospettiva di questo lungo processo di revisione dottrinale, scrive Roberto Gritti, «di autonomizzazione del potere politico, di difesa della tradizionale identità nazionale, e di radicamento e rappresentanza sociale, che va collocata la rivoluzione del 1979 e il ruolo che vi svolsero l'ayatollah Khomeini e il clero duodecimano». La nascita della Repubblica islamica sciita, da un lato impresse una svolta radicale nella millenaria storia degli imamiti iraniani, dall'altro allertò il mondo sunnita, che a partire da quel momento iniziò a guardare con sospetto le minoranze sciite presenti nei loro Paesi. Questo è successo in Arabia Saudita, e soprattutto in Iraq, dove sono presenti i centri religiosi più importanti dello sciismo. In questo Paese essi sono stati costretti da Saddam Hussein al silenzio, alla passività e all'emarginazione politica. La caduta del dittatore di Baghdad nel 2003 ad opera degli statunitensi è stata provvidenziale, soprattutto per gli sciiti, che sono arrivati al potere attraverso libere elezioni, divenendo gli arbitri della nuova situazione politica. Questo nuovo corso non soltanto ha «elettrizzato» gli sciiti iracheni, ma ha anche influenzato - scrive Giuseppe Anzera - le comunità imamite saudite, kuwaitiane, libanesi e del Bahrein, «che, con le loro richieste di riconoscimento, tutela e rispetto dello sciismo, hanno contribuito attivamente al revival». Inoltre, la possibilità di visitare liberamente, dopo tanti anni, le città sante di Najaf e Kerbala e di venerare le tombe dei martiri ha accresciuto notevolmente i legami pansciiti, specialmente tra la comunità iraniana e quella irachena. Va sottolineato che la teoria politico-religiosa di «Stato islamico» è del tutto moderna. Di fatto durante i secoli essa non trovò mai realizzatori, perché nessuno Stato, dopo l'esperienza medinese del profeta (e il breve periodo dell'imamato di Alì), è stato effettivamente fondato sulla sharia; anche i grandi teorici medioevali parlavano, più che di «Stato islamico», di «modelli islamici di Stato». La rivoluzione khomeinista, al contrario, per la prima volta ha instaurato uno Stato totalmente islamico, dove religione e politica sono intrinsecamente intrecciate anche a livello istituzionale, facendo parte dello stesso ordine secolare voluto da Dio. L'ideologia. khomeinista si diffuse ben presto in tutto il mondo islamico, e quindi anche in quello sunnita. A questa diffusione contribuirono anche le opere scritte da due intellettuali che in quel tempo ebbero grande successo: Jalal Al-e Ahmad, autore di uno scritto molto popolare intitolato L'intossicazione dall'Occidente; e il sociologo Ali Shariati, considerato il vero ideologo della rivoluzione iraniana (padre dell'«islam rosso»). Essi rilanciarono il ruolo dell'islam come ideologia che deve guidare l'azione politica e sociale, e come universo valoriale opposto e nello stesso tempo alternativo alle dottrine politiche prodotte dal marxismo, dal nazionalismo e dalle democrazie cosiddette «occidentali». Per Ali Shariati, che morì a Londra nel 1977 in circostanze misteriose, la passività sciita di fronte all'ingiustizia sociale è da addebitare al clero conservatore, che ha L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015 pagina 15 quaderno 3970 28 novembre 2015 trasformato la sharia da «religione della giustizia» a «religione della sconfitta». Per lui, l'attesa escatologica del Mahdi non deve portare alla passività o al rigetto del tempo presente. Gli sciiti, al contrario, hanno l'obbligo di costruire uno Stato e una società fondati sui valori dell'islam, e quindi devono operare per un mondo più giusto e rispettoso dei diritti di tutti. Nella dottrina khomeinista ha una grande importanza anche la figura del martire (shaid), che nella tradizione sciita ha un ruolo tutto particolare sia per la vicenda epicosacrale di Hussein, figlio di Alì e nipote del profeta - il quale, per riaffermare i diritti di Dio, si fece massacrare a Kerbala (680) insieme ai suoi compagni dall'esercito dell'«usurparore» del potere califfale - sia per le sanguinose persecuzioni che nei secoli passati gli sciiti hanno dovuto subire ad opera degli avversari religiosi e politici. Per gli sciiti, i martiri sono innanzitutto gli imam, le cui tombe diventano mete di pellegrinaggio: i riti di shura e di Muharram riattualizzano ogni anno il dramma di Kerbala. Le lacrime versate dai fedeli sciiti presso i mausolei degli imam - scrive Catherine Mayeur-Jaouen - danno forse un colore particolare alla pietà musulmana. Ma i martiri celebrati sono quelli del passato; quindi non si tratta di rivivere simbolicamente quelle esperienze, ma semplicemente di meditarle; non di imitarle, ma di venerarle, invitando «a un modello politico quietista, ben lontano dall'appellarsi ad un attivismo rivoluzionario». Il secolo XX ha cambiato tutto questo. Per Khomeini, addirittura il martire non è solo colui che accetta la morte per testimoniare la propria fede, come riteneva la tradizione antica, ma anche colui che si immola per la giusta causa rivoluzionaria. Egli non è soltanto espressione della santità e della sottomissione a Dio, ma anche del volontario sacrificio per una giusta causa, per l'instaurazione dello Stato islamico e per la sua diffusione. Il martirio, cioè, non è riservato esclusivamente agli imam e ai grandi personaggi della storia sacra, ma a tutti quelli che si immolano per la giustizia e per la causa rivoluzionaria. Questo pensiero, come mostra l'esperienza degli ultimi decenni, ha avuto una grande risonanza in tutto il mondo islamico - anche fuori del mondo sciita -, fondando «teologicamente» la teoria della guerra santa (il jihad) contro gli infedeli interni ed esterni dell'islam. Così l'«operazione martirio» (nonché tutta l'ideologia martiriale), nata in un contesto culturale e religioso sciita, è stata ben presta recuperata dagli jihadisti sunniti a proprio vantaggio, e alla fine - come è successo anche di recente in Arabia Saudita e Kuwait City ad opera degli adepti del «califfo nero» di Mosul - utilizzata per colpire gli «eretici» e idolatri sciiti. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015