Cellule pluripotenti: speranze nuove dal premio

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Incontri
Cellule pluripotenti:
speranze nuove dal premio Nobel
per la medicina 2012
di Paola Cavallero
Yvan Torrente, 42 anni, è co-fondatore del
Centro Interdipartimentale di Ricerca sulle Cellule Staminali - UNISTEM, all’interno dell’Università degli Studi di Milano.
Da anni Direttore del laboratorio di cellule staminali del Centro Dino Ferrari, presso il Dipartimento di Fisiopatologia medico-chirurgica e dei trapianti. Nel 2010 ha
ricevuto il Premio Sapio Junior per la Ricerca italiana per i suoi lavori nel campo
delle Biotecnologie. È inoltre Dirigente medico presso l’Unità di Neurologia dell’Ospedale Policlinico di Milano e Presidente
dello Spin-off universitario Ystem, operante nell’ambito della medicina rigenerativa.
Egli è Ricercatore in Neurologia. Da anni si
occupa della ricerca sulle cellule staminali quale nuova frontiera nella terapia di Patologie neurodegenerative. Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzatosi in Neurologia presso l’Università degli Studi di Milano, Yvan Torrente ha successivamente
Yvan Torrente
Shinya Yamanaka, MD, Ph. D., Direttore del Centro di Ricerca ed applicazioni su cellule IPS (Induced Pluripotent Stem Cells), Kyoto University, ha vinto il Premio Nobel 2012 per la Fisiologia e Medicina per la scoperta
che le cellule adulte possono essere riprogrammate per
diventare pluripotenti.
Perchè la scoperta di Yamanaka è importante e merita
un così prestigioso riconoscimento?
“La sua scoperta, fin dall’inizio, si è dimostrata essere
riproducibile e questo dal momento in cui egli ha pubblicato i primi dati relativi alla capacità di trasformare
cellule già differenziate, in particolare fibroblasti, ovvero cellule del tessuto connettivo che avevano ultimato
il loro percorso di differenziazione, in cellule staminali
embrionali. Da un punto di vista scientifico, è un ap-
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svolto attività di ricerca all’estero, aggiudicandosi un Ph.D. sulle distrofie muscolari
presso il laboratorio di genetica umana dell’Università del Québec e partecipando ad
un Dottorato di Ricerca dell’Università di Parigi sullo studio dei fattori di differenziamento
delle cellule staminali muscolari. Divenuto
Ricercatore nel 2004, negli anni immediatamente successivi al ritorno in Italia è
stato investito del coordinamento del primo progetto di Fase clinica I per la validazione del trapianto di cellule staminali in pazienti distrofici. “Milano è una piazza molto fortunata come Ricerca - sottolinea Torrente - poichè gode di centri di eccellenza, di ricercatori di fama, e gli studi procedono con capitali che provengono molto poco dall’Italia e molto di più invece da
Francia e Germania, ad esempio, ma anche Svizzera e Stati Uniti. Sono investimenti
mirati su ‘quel tipo di ricerca’, non sulla ricerca scientifica in generale.”
proccio fantastico. Tuttavia, come molto spesso accade nel campo della ricerca, le scoperte più importanti
devono essere validate, confermate, anche da altri gruppi di ricercatori, ad esempio un gruppo americano, un
gruppo europeo, in mani diverse, in un laboratorio diverso, magari anche non così avanzato come quello in
cui è stata fatta la scoperta, ma ci devono essere le ‘capacità’, da parte del collega che legge quel tipo di dimostrazione, di riprodurla. Ed è quello che è successo. È la significativa differenza con una scoperta un po’
‘tirata per i capelli’, che è difficile da realizzare, poiché
compiuta con un acceleratore di elettroni, di neutrini,
e resa quasi unica dato che esistono uno-due posti al
mondo dove si possa fare. Qui stiamo parlando di un
processo che è stato riprodotto in almeno un centinaio
di laboratori distinti tra loro, impostati su diversi filoni
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di ricerca, quindi è stata ‘utile’ a chi
si occupava di cellule staminali embrionali, ma anche a chi si occupava
di malattie neurodegenerative, di tumori, e così via.”
Lei non si riferisce al controllo che
viene affidato ad un consorzio indipendente ogniqualvolta una ricerca
destinata all’uso sull’uomo raggiunge l’outcome, l’obiettivo?
“No, intendo dire che quando un lavoro scientifico viene pubblicato sulla stessa prestigiosa rivista su cui
Einstein pubblicò la teoria della relatività, Nature, uno lo legge e pensa ‘è fantastico, voglio fare la stessa cosa nel mio ambito di ricerca’,
ad esempio le malattie neurodegenerative o la SLA (Sclerosi Laterale
Amiotrofica n.d.r.). E può farlo.”
Quando uno scienziato pubblica non
anticipa tutta la parte tecnica poiché, di solito, presenta richiesta di
brevetto.
la trasformazione di un fibroblasta in
cellula staminale. Questa metodologia è quanto egli regala, in termini di progresso. Da questo punto in
poi, gli approcci possono essere diversi: si può lavorare su cinque geni (ad esempio se vogliamo ottenere delle staminali più vicine al pancreas) o tre perché non interessa andare troppo indietro, ma fare solo un
passo a progenitore e non più a staminale embrionale. Qui si apre un
capitolo di modulazione di una cellula differenziata attraverso un ambiente esterno genetico ed epigenetico per promuoverla ad una differenziazione. Si può cominciare a
‘giocare’ anziché con dei geni, come ha fatto Yamanaka, con dei peptidi, allora verrà brevettato quel tipo
di peptidi. Oppure si possono unire
le due metodologie, e questo sarà il
brevetto. Ma è l’approccio che fa la
differenza. È come scoprire un nuovo modo di vaccinare: lo scienziato
non brevetta un nuovo modo di vaccinare, eventualmente brevetta dei
nuovi vaccini con la nuova metodologia. Poi cerca di rendere pubblica e diffondere quella conoscenza.”
“L’aspetto più
importante è
la riproducibilità:
il poter rendere
una cellula
che sembra aver
ultimato il proprio
cammino di
differenziazione,
molto simile
ad una cellula
embrionale
staminale.”
“La pubblicazione nega la richiesta
di brevetto successiva. La decisione di brevettare o no
la scoperta deve essere quindi presa prima.”
Yamanaka ha, quindi, regalato la scoperta all’umanità?
“No, sono veri entrambi gli aspetti. Egli ha reso pubblica una metodologia che non ha un brevetto. All’interno
di questa metodologia ci sono degli aspetti brevettabili
e brevettati, che però non tolgono la possibilità ad altri
di seguire quella metodologia, apparentemente semplice, ma che è il risultato di anni di ricerche fatte proprio
per andar a selezionare i geni più importanti nel promuovere quello che viene definito in termine tecnico il
differenziamento o differenziazione delle cellule, dunque
un cammino all’indietro seguendo una scala di maturazione al contrario. Yamanaka, partendo da migliaia di geni, con molta pazienza ne ha selezionati alla fine quattro importanti, sufficienti e necessari, per determinare
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In sintesi, la pubblicazione è stata fatta perché era un
risultato molto importante e non brevettabile? O Yamanaka è stato generoso donando il suo contributo al patrimonio comune della Scienza?
“Sul fatto che Yamanaka sia stato generoso o no, si possono avere pareri diversi poiché, di solito, si rende pubblica per prima la parte centrale dello studio ma rimangono altri ambiti che possono andare a costituire nuovi
filoni di ricerca ed essere donati con quello che egli ha
pubblicato, andando ad arricchire così la scoperta, o possono essere sfruttati con brevetto. Possiamo sintetizzare col definire tutto il percorso, dalla comunicazione della scoperta in avanti, molto consono e corretto. Tutte le
persone, quando finiscono sotto i riflettori, possono essere ammirate o criticate perché si può obiettare loro che
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dietro ci siano interessi economici come quelli derivanti
dai brevetti. Non è questo il caso: Yamanaka non ha costituito una società a responsabilità limitata per presentarsi sul mercato e vendere in monopolio il risultato della sua scoperta, non è uscito con un prodotto come farebbe invece un’azienda biotech che si occupa di un nuovo farmaco e lo immette sul mercato prima di pubblicare il lavoro scientifico. Ha seguito, invece, il percorso che
normalmente si presenta a qualsiasi ricercatore alle prese con una grande scoperta, e lo ha fatto, a mio avviso,
nel modo più corretto.
L’aspetto più importante è la riproducibilità: il poter rendere una cellula che sembra aver ultimato il proprio cammino di differenziazione, molto simile ad una cellula embrionale staminale. Questo porta enormi cambiamenti sia
dal punto di vista etico che dal punto di vista terapeutico: una persona di ottantacinque anni si ritrova ad essere potenziale donatore di se stesso, con cellule che normalmente si andavano a cercare nell’embrione umano.
Dal punto di vista etico, il vantaggio è che non si lavora
su cellule staminali embrionali ma su cellule adulte. Questa novità è molto importante proprio perché consente di
utilizzare una nuova fonte cellulare laddove prima si pensava fosse assolutamente non plausibile e non possibile; questo potrà avvenire anche in un contesto clinico,
dopo le migliorie che sarà necessario apportare alla metodica di questa scoperta. Per approssimazione, direi che
tra circa vent’anni potremo vedere un paziente anziano
che entra in ospedale colpito da un grave infarto, curato con cardiomiociti, cellule muscolari del cuore, ottenuti
in poche settimane dalle cellule della sua pelle e trapiantati
nel cuore stesso per aiutarlo a funzionare meglio.
Questa prospettiva presenta però alcune difficoltà perché queste cellule pluripotenti hanno effetti collaterali
importanti: formano dei tumori, i cosiddetti teratomi, una
volta iniettate. In più, sono difficili proprio da ‘maneggiare in vivo’, perché rimangono un po’ come puledri
che a volte si riescono a domare e a volte, invece, partono a tutta velocità senza una direzione precisa. Questo è il grosso lavoro della ricerca fatta oggi: ottenere
da queste cellule staminali embrionali like dei progenitori o, comunque, delle cellule già in certo qual modo
differenziate che possano esser utili per la patologia che
vogliamo curare. Devono essere molto specifiche per dar
vita ad applicazioni cliniche.
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Le cellule staminali embrionali like aiutano anche la sperimentazione di nuovi farmaci, permettendo di superare i problemi dei test su animali o su esseri umani consenzienti. Come? Mettiamo il caso che io sia portatore
di un’anomalia cardiaca, consento il prelievo dei miei
fibroblasti, ne ottengo ‘cellule staminali embrionali like’
che vengono trasformate in cardiomiociti, sottoposti ad
una serie di controlli genetici per verificare se ci sia un
gene che interferisce con questa malattia oppure possono essi stessi diventare un bersaglio di farmaci, dimostrandone l’efficacia. Ricapitolando, l’utilizzo che si
vuole fare di queste cellule è diviso in due grossi ambiti: terapeutico in vivo, direttamente sul malato, o diagnostico/colture terapie, per futuri trattamenti.”
Effetti collaterali?
“I tumori.”
Anche con le cellule staminali pluripotenti indotte?
“Le cellule staminali embrionali che si ottengono dai fibroblasti generano tumori. Ma si sapeva, è un problema aperto. Perciò la grossa sfida della clinica è come
‘controllare’ queste cellule. Magari non utilizzare le cellule staminali in vivo, ma farle diventare neuroni, cellule cardiache, renali, ecc., farle crescere fuori dal corpo umano, verificarle per vedere che non diano corso
a tumori e, se hanno dimostrato di non essere teratogene, iniettarle in vivo nel paziente.”
La spiegazione scientifica della pesante controindicazione
tumorale?
“Tutte le cellule staminali presentano questo rischio poiché sono capaci di trasformarsi nei diversi tessuti, il che
è una bellissima potenzialità dal punto di vista terapeutico. Ma all’interno di un tessuto, su dieci cellule staminali embrionali due vogliono essere neuroni, due vogliono trasformarsi in cardiomiociti, tre vogliono diventare qualcos’altro... e quello che manca è la coordinazione, che
invece c’è nell’embrione, che è molto delicato e selettivo, un coordinato tra le potenzialità e la differenziazione
delle cellule. È come se lo stesso stimolo che recepisce
una cellula staminale embrionale, a concentrazione diversa, per un’altra cellula staminale ‘sorella’ diventasse
lo stimolo a fare un’altra cosa. Ad esempio, abbiamo due
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cellule simili in partenza: la prima, mettiamo il caso, recepisce un segnale interleuchina 2, concentrazione due
unità, e lo recepisce per diventare cardiomiocita, l’altra
percepisce una concentrazione un poco variata della stessa citochina e diventa una cellula muscolare. Se si trovano nello stesso tessuto, compiono un’operazione che
è tipica del tumore, iniziano a differenziarsi in maniera
anomala, a proliferare in misura eccessiva, non controllata, dando vita a tessuti embrionali. Invece, nell’organismo, vi è un percorso definito: l’embrione diventa feto,
il feto diventa neonato... un passaggio graduale che è organizzato in maniera molto sofisticata, nel quale ogni cellula non solo segue la parte a cui è destinata in termini
genetici, ma è soggetta ad un’attività regolatoria esterna,
l’epigenetica, che modula il destino delle cellule. Yamanaka prende cellule adulte, le trasforma in cellule embrionali, e poi le re-immette in un adulto. Tutto quello che
le cellule ricevono dall’esterno, in qualsiasi tessuto, è molto diverso da quello che ricevono le ‘cellule embrionali like’, in concentrazioni che servono a farle maturare, orientare, distribuire. Sono uguali in partenza, ma poi, dovendo adempiere a compiti diversi, si differenziano. Questo
avviene anche se si prendono cellule staminali ottenute
da un embrione proprio perchè le inseriamo in un contesto che è completamente diverso, con altre regole e stimoli. Il rischio percentualmente è identico, con o senza
metodo Yamanaka. I vantaggi ottenuti da Yamanaka sono quelli descritti, ma nel momento in cui dalla selezione di geni si ottengono ‘cellule staminali embrionali like’,
si entra nell’alea degli effetti collaterali. Ed è lì che nascono,
eventualmente, nuovi brevetti. Ad esempio, con una stimolazione diversa e con geni diversi dai quattro selezionati da Yamanaka, si possono creare cellule non ancora
embrionali ma che siano capaci di generare neuroni con
minore rischio di produrre tumori. Da lì si lavora su come trovare applicazioni cliniche per questa scoperta.”
Dal punto di vista del paziente, che cosa cambia?
“È un passo avanti su un terreno di ricerca nel quale ci
sono molti filoni aperti, tanti cavalli che corrono: questo
è un cavallo in più, una sfida in più, e un’arma in più contro le malattie. Utile per conoscere meglio il comportamento
di queste cellule, per sapere qualcosa di più della genetica e dei meccanismi che regolano la differenziazione
cellulare. È uno strumento conoscitivo che, al di là di possibili applicazioni cliniche, è molto valido per la ricerca.”
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E a medio termine?
“Penso che nei prossimi dieci anni ci sarà una corsa nella ricerca di metodiche capaci di rendere possibile un utilizzo di queste cellule nella medicina rigenerativa.”
Nel mondo scientifico c’è molta competizione, accade
che più gruppi di ricercatori nel mondo lavorino seguendo
lo stesso filone, e non sempre chi ha avuto per primo l’intuizione su uno studio è colui che riesce ad arrivare a
risultati. Questa scoperta è avvenuta nei laboratori di Yamanaka anche grazie a tecnologie e finanziamenti che
altrove non ci sono?
“Yamanaka ha avuto un’idea o, se vogliamo, neanche
un’idea, piuttosto ha svolto un accurato screening, un’analisi molto lunga e sofisticata su moltissimi geni che,
uno per volta, sono stati messi in combinazione da due
a tre a quattro a cinque proprio per cogliere le caratteristiche e le potenzialità delle diverse combinazioni. Possiamo immaginare quanti tentativi, quanto tempo, questo processo abbia richiesto. Non è soltanto l’annuncio
ad un congresso: ”ho avuto l’idea di fare diventare i fibroblasti cellule embrionali”, questo si può dire in qualunque momento. Primo: devi avere la possibilità di intraprendere quel percorso di ricerca, possibilità intesa in termini di investimento di risorse. Secondo: come
ricercatore devi avere nel tuo background quel tipo di
specializzazione. Nessuno può improvvisarsi a fare lo
studio di più di centomila geni e poi combinarli... è impensabile. Infine, è anche un po’ una questione di fortuna. Dobbiamo dirlo chiaro: ogni scoperta ha una componente, almeno del settanta per cento, di casualità. Oltre all’intuizione e ai finanziamenti, occorre avere la capacità di fare bene gli esperimenti: a volte è un’impostazione non esatta della ricerca a comprometterne il
successo. Yamanaka è riuscito a vedere la combinazione
giusta come chi cerca di aprire una cassaforte, tentando
diverse combinazioni di numeri. Pensiamo che, al momento della pubblicazione sulla rivista Nature, dietro a
quei risultati ci fossero già tre anni di lavoro. A quel punto altri scienziati hanno capito, tutti noi ne abbiamo riconosciuto le potenzialità, qualcuno ha cercato di avvicinarsi alla metodica, altri sono rimasti a guardare perchè reperire capitali e riguadagnare terreno in un ambito dove altri hanno percorso un cammino più lungo,
non è affatto semplice.”
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