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LeStrade Subappalto, lavorazioni e prezzi unitari

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Contratti d’Appalto
Subappalto, lavorazioni
e prezzi unitari
UNA SENTENZA (NON APPELLATA) DEL TAR LAZIO LEGITTIMA LA PRASSI DI SUBAPPALTARE
SOLTANTO ALCUNE DELLE PRESTAZIONI RICOMPRESE IN UNA DETERMINATA LAVORAZIONE
PREVISTA NEL CONTRATTO D’APPALTO. IL RISCHIO, IPOTIZZATO DALL’AUTORITÀ DI
VIGILANZA, È QUELLO DI ISTITUZIONALIZZARE UN INSIDIOSO STRUMENTO DI ELUSIONE
DELLE NORME CHE VIETANO LA CESSIONE D’APPALTO.
C
on sentenza n. 32134/2010, il TAR Lazio ha affermato che “l’art. 118, comma 4, del codice dei contratti
(secondo cui l’affidatario deve praticare per le prestazioni affidate in subappalto «gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento») non presuppone una necessaria e totale
corrispondenza tra le voci di prezzo unitari del contratto principale e quelle del subappalto e che pertanto, nel caso in cui
l’appaltatore affidi in subappalto soltanto una parte delle lavorazioni oggetto dei prezzi unitari posti a base di gara sarà
necessario (nda possibile) scomporre il prezzo unitario delle
singole lavorazioni indicando i prezzi unitari delle prestazioni ricomprese nelle suddette lavorazioni e calcolando il limite del 20% sul prezzo di queste ultime”.
La sentenza (anche per il fatto di non essere stata opportunamente appellata e quindi sfuggita al vaglio del Consiglio di
Stato) è passata quasi del tutto inosservata nonostante le devastanti conseguenze e le pericolose implicazioni che potrebbero derivarne; e ciò non tanto per l’esplicita legittimazione della prassi (diffusissima tra le imprese di costruzioni
del settori stradale, ferroviario ed immobiliare ed inopinatamente tollerata dalle relative committenti) di subappaltare
soltanto alcune delle prestazioni ricomprese in una determinata lavorazione prevista nel contratto d’appalto quanto,
invece, per l’implicita istituzionalizzazione di un insidioso strumento di elusione delle norme poste a garanzia del divieto di
cessione d’appalto.
Vediamo perché.
La sentenza
La controversia portata all’attenzione del Giudice
Amministrativo aveva ad oggetto l’impugnazione di un provvedimento di diniego adottato a fronte dell’istanza con
cui la società ricorrente aveva chiesto di poter subappaltare una delle prestazioni (posa in opera) ricomprese in
una delle lavorazioni (fornitura di materiale e relativa posa
in opera) facenti parte dell’appalto di cui era risultata aggiudicataria.
A sostegno della contestata determinazione la stazione appaltante - nel far presente che il contratto derivato (il richiesto subappalto) non dimostrava un’esatta e totale corrispondenza tra le lavorazioni e le voci di prezzo unitari
dedotti dal contratto principale - aveva opportunamente
richiamato un parere appositamente reso dall’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
nel quale, sulla base dell’incontrovertibile disposto dell’art.
118, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, era stato precisato che “il singolo prezzo unitario viene individuato sulla
base della singola voce di lavorazione e la corrispondenza
tra questi due fattori non può essere alterata dall’aggiudicatario nè dall’affidatario; in caso contrario non verrebbe rispettato il dettato normativo venendosi ad eludere uno
dei principi cardine dell’istituto”.
Occorre precisare, a tale ultimo riguardo, che in sede di richiesta di parere la pubblica amministrazione aveva espressamente richiesto all’Autorità di conoscere “se, nei casi sopra prospettati, (nda ossia quando l’appaltatore intenda
pattuire con il subappaltatore l’esecuzione di lavorazioni
che, ancorché rientrati nelle categorie indicate nel bando
e strumentali per la realizzazione del progetto, risultino costituire parti, disaggregate o aggregate, delle lavorazioni
appaltate e così anche i relativi prezzi unitari) possa considerarsi legittimo un comportamento della stazione appaltante volto al rigetto delle istanze di subappalto i cui
contratti non dimostrino un’esatta e puntuale corrispondenza tra le lavorazioni ed i prezzi del contratto principa-
Roberto Troccoli
Dottore Commercialista
Anas SpA
Si precisa che le dichiarazioni e le opinioni espresse dall’autore nel presente contributo hanno natura personale e quindi
non vincolante per l’Ente di appartenenza
del medesimo.
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le e quelle del contratto derivato”.
Richiesta di parere avanzata al fine di correttamente operare nella fase di istruttoria tecnica-amministrativa prodromica al rilascio dell’eventuale autorizzazione al subappalto e giustificata dal ruolo riservato all’Autorità cui
dovrebbe competere, ai sensi dell’art. 6 del DLgs 163/2006,
la vigilanza sui contratti pubblici al fine di garantire l’osservanza dei principi di cui all’articolo 2, l’economicità di
esecuzione dei contratti pubblici, la segnalazione di fenomeni particolarmente gravi di inosservanza o di applicazione distorta della normativa sui contratti pubblici, ……
Ebbene, nonostante il chiaro indirizzo fornito dall’Autorità, il
GA ha, invece, ritenuto “suscettibili di favorevole esame” le
doglianze della società sulla base delle seguenti sintetiche
considerazioni:
1. il comma 2 dell’art. 118 del D.Lgs 163/2006 (secondo
cui tutte le prestazioni nonché le lavorazioni a qualsiasi categoria appartengono sono subappaltabili e affidabili in cottimo), data la sua estrema genericità, non sembra supportare la tesi della stazione appaltante (rectius dell’Autorità di
Vigilanza …) che restringe la possibilità di subappaltare solamente le lavorazioni o parti delle stesse integralmente considerate;
2. la medesima disposizione subordina l’affidamento in subappalto solamente al ricorrere delle condizioni elencate nel
citato comma 2 per cui in presenza di tali condizioni l’autorizzazione al subappalto costituisce un atto dovuto, essendo escluso qualsivoglia profilo di discrezionalità da parte della stazione appaltante nell’adottare il relativo
provvedimento autorizzatorio, dovendo quest’ultima limitarsi a svolgere una funzione meramente ricognitiva in ordine alla sussistenza di tale condizioni;
3. la finalità perseguita del comma 4 del ripetuto art. 118
(applicazione degli stessi prezzi unitari) é quella di evitare che siano affidati in subappalto a prezzi troppo bassi lavorazioni o prestazioni facenti parte del contratto di appalto
onde assicurare la corretta esecuzione delle stesse e non
può di per sé precludere la possibilità di ricorrere a tale forma contrattuale solamente per delle prestazioni facenti parte delle lavorazioni previste nel bando.
Sulla base di tale innovativa interpretazione (giovi ribadirlo, assolutamente antitetica rispetto all’ignorato percorso
logico sistematico sviluppato dall’Autorità a tutela delle finalità antielusive sopra richiamate), il GA si è spinto poi ad
illustrare le attività che dovrebbero essere espletate dalle
stazioni appaltanti per “venire incontro” alle pretese degli
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appaltatori. A tal fine, prosegue la sentenza in argomento,
“é necessario scomporre il prezzo unitario delle singole lavorazioni indicando i prezzi unitari delle prestazioni che erano ricomprese nelle suddette lavorazioni, al fine di consentire alla stazione appaltante di verificare il rispetto della
previsione di cui al citato quarto comma per le prestazioni subappaltate. In altre parole, deve ritenersi che qualora l’affidatario intenda subappaltare singole prestazioni contrattuali, il limite del 20% deve essere riferito al prezzo di
queste ultime come specificatamente indicato in sede di
offerta, per cui in presenza di tale presupposto e delle altre condizioni indicate dal secondo comma, la stazione appaltante é tenuta ad autorizzare il subappalto anche di singole prestazioni.”
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I prezzi unitari e le lavorazioni
della progettazione esecutiva
La sentenza che qui si discute, probabilmente a causa dell’ormai immanente timore di ledere il principio costituzionale della libera iniziativa economica, sembra essere stata tanto negativamente influenzata dalle suggestive argomentazioni
difensive poste a sostegno del ricorso da determinare un’involontaria alterazione del giusto approccio tecnico-giuridico
alla questione portata all’attenzione del giudice amministrativo.
Il dato essenziale che si ricava leggendo la decisione del TAR
Lazio è quello di uno svilimento di fatto (proprio perché sicuramente involontario) della funzione progettuale quale processo di sintesi teso ad ottimizzare contestualmente i diversi parametri tecnici ed economici utili alla realizzazione di
un’opera pubblica secondo il grado di soddisfazione che si intende raggiungere per ciascun parametro.
Come è noto, il progetto esecutivo rappresenta una delle fasi
della progettazione nell’ambito dell’ingegneria civile, ed in
particolare è la terza ed ultima delle fasi in cui è comunemente suddiviso un progetto e la sua stesura. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 33 del nuovo Regolamento di esecuzione
ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
(d.PR n. 207/2010) il progetto esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e pertanto deve definire,
compiutamente ed in ogni particolare architettonico, strutturale ed impiantistico, l’intervento da realizzare.
Ed è proprio in questa fase che il progettista traduce i contenuti morfologici e tecnologici degli elaborati progettuali in disposizioni operative (lavorazioni), scelte in relazione a criteri
di ottimizzazione dei tempi e dell’uso delle risorse, ordinate
in progressione logica-cronologica (scelta organizzativa) e
definite in funzione delle modalità prescelte per l’esecuzione (scelta costruttiva).
Il progettista, in ragione delle scelte organizzative e costruttive di sua esclusiva competenza, scompone il sistema costruttivo in parti fisiche fino ad individuare le singole lavorazioni che, da quel momento in poi, rappresentano il livello
massimo di scomposizione dell’opera edilizia/infrastrutturale da appaltare: un ulteriore sottolivello di scomposizione riguarderebbe, infatti, i singoli fattori produttivi (materiali, mano
d’opera, noli e trasporti).
Successivamente, sempre il progettista procede ad indivi-
duare, in modo sintetico o analitico, le voci di costo necessarie per la realizzazione di ogni singola lavorazione, facendo
riferimento tanto alle risorse elementari necessarie per compierle (come detto manodopera, materiali, noli e trasporti)
quanto alle relative spese generali ed all’utile d’impresa.
L’insieme delle lavorazioni e dei rispettivi prezzi unitari rappresenta l’elenco prezzi unitari.
Va da sé che l’approccio ermeneutico che sottende la decisione in commento rischia, invece, di non annullare l’essenza stessa delle scelte progettuali sulle quali si basa il più importante documento economico del progetto e di determinare
una serie di effetti negativi che, con tutta probabilità, non
sono stati adeguatamente valutati in sede di stesura della
sentenza.
La tesi affermata dal TAR Lazio circa la sussistenza, addirittura, di una necessità di “scomporre il prezzo unitario delle
singole lavorazioni” e di indicare “i prezzi unitari delle prestazioni che erano ricomprese nelle suddette lavorazioni” appare minare le fondamenta stesse della teoria dell’estimo applicata all’elaborazione del computo metrico estimativo.
Ma non solo.
Legittimare l’idea di una meccanica scomposizione e ricomposizione del computo metrico, in base ad un’ipotetica atomizzazione delle lavorazioni, dà l’impressione di concepire
l’attività di separazione del processo produttivo in partizioni
di lavoro (imprescindibilmente legate alla soggettività del progettista) come semplice puzzle, risolvibile allo stesso modo
e da chiunque. E ciò che, sinceramente, appare più triste risiede nell’implicita idea che pare si abbia dell’esercizio in concreto di questa specifica ed importantissima attività progettuale. Verrebbe da credere che, in definitiva, la figura del
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progettista viene fortemente assimilata a quella del contemporaneo farmacista (e, spero, non me ne voglia quest’ultimo
per il brutale esempio) intento, nell’immaginario comune, ad
aprire una serie di cassetti, a prendere il pacchetto giusto e
“materializzare”, così facendo, la cura diagnosticata dal medico curante. Poco importa se talvolta al farmacista si sostituisce l’assistente di magazzino: la cura è quella e chiunque
può scomporre la ricetta nelle sue componenti essenziali.
Si proprio così.
Senza voler infatti contravvenire al doveroso rispetto per l’arresto giurisprudenziale in commento, ritengo che la similitudine non sia del tutto fuori luogo e che, con tutta probabilità,
ci si sia troppo frettolosamente abbandonati al sillogismo
“prezzi unitari - lavorazione” dimenticando (sull’assunto che
i primi sono strutturati da una serie di componenti finite e definite) l’inscindibilità di quelle parti fisiche di base nelle quali
è stata scomposta, dal progettista, l’opera appaltata.
Se così non fosse occorrerebbe chiarire (e su questo punto i
passaggi della motivazione della sentenza sono troppo veloci perché il lettore possa farsene un’idea compiuta) perché due progettisti diversi nell’elaborare i relativi documenti
tecnico-economici per un medesimo lavoro possano, ad esempio, prevedere l’uno la “fornitura e la posa in opera del conglomerato bituminoso” quale unica parte elementare del sistema costruttivo e l’altro la “fornitura” e la “posa in opera”
(dello stesso materiale) quali differenti lavorazioni da compensare con altrettanti voci di costo.
Appaltore o general contractor?
Tra i principali elementi di novità introdotti nel nostro ordinamento dalle Legge 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d.
“Legge Obiettivo”), vi fu la possibilità di affidare ad una
nuova figura imprenditoriale, il contraente generale, l’esecuzione “con qualsiasi mezzo” di un’opera rispondente alle
esigenze indicate dal soggetto aggiudicatore. La normativa in questione, rivisitata dal Codice dei contratti pubblici
(D.Lgs n. 163 del 2006), stabilisce, in armonia con quanto previsto dalla direttiva CEE n. 93/37, che il contraente
generale, a differenza dell’appaltatore di lavori pubblici,
può realizzare l’opera commissionatagli essendo libero di
stabilirne le modalità esecutive, nel senso che egli può
affidarne l’esecuzione - in tutto o in parte - a terzi, da lui
prescelti e coordinati, essendo peraltro tenuto a rendere al
proprio committente i servizi collaterali (progettazione, acquisizione di aree, rapporti con i terzi, ecc.), necessari alla
realizzazione integrale dell’opera.
In definitiva, al general contractor occorre richiedere soprattutto una grande capacità organizzativa, poiché le funzioni
che è chiamato a svolgere consistono essenzialmente nel coordinamento generale e nell’attività di altri soggetti (progettisti, esecutori, appaltatori, fornitori). Un ulteriore, fondamentale elemento di novità introdotto dalla legge obbiettivo
è costituito dalla privatizzazione dei rapporti, per così dire,
a valle del contraente generale nel senso che i rapporti di quest’ultimo “con i terzi”, comunque coinvolti nell’esecuzione dell’opera, “sono rapporti di diritto privato, cui non sono applicabili le norme della legge quadro e del relativo regolamento”.
Ebbene, effettuate queste brevi precisazioni (argomentate in
modo diffuso nel parere n. 2064/03 reso dal Consiglio di Stato,
Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nell’Adunanza del
9 giugno 2003, sullo schema di regolamento avente ad oggetto “Istituzione del sistema di qualificazione dei contraenti generali ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 190 del 2002”),
non può non cogliersi un ulteriore stridente conseguenza che
la “legittimazione” operata dalla sentenza in commento comporta.
Affermare la possibilità di disgregare le lavorazioni individuate
dal progettista (per effetto della disapplicazione di quegli “stessi prezzi unitari” che il chiaro dettato normativo continua ad
imporre in modo adamantino) determina di fatto l’immotivata condanna a morte del contratto di appalto di sola esecuzione a causa della forzata sovrapposizione, su di esso, dell’istituto del contraente generale.
Ma, anche qui, l’attenzione sulle conseguenze che una decisione del genere determina non deve ritenersi, quantomeno,
adeguata alle preoccupazioni che l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici aveva esplicitato nel parere posto a supporto del
diniego di autorizzazione al subappalto.
Il pessimo c(ottimo)
Taluni potrebbero eccepire che, in realtà, sussiste una “sponda normativa” alla prassi avallata dalla sentenza del Tar Lazio:
quella operata dalla disposizione dell’art. 170, comma 6,
del DPR 207/2010 ove viene fornita la definizione del cottimo di cui all’art. 118 del codice. Tale norma afferma che il
cottimo “consiste nell’affidamento della sola lavorazione relativa alla categoria subappaltabile ad impresa subappaltatrice in possesso dell’attestazione dei requisiti di qualificazione necessari in relazione all’importo totale dei lavori affidati
e non all’importo del contratto, che può risultare inferiore per
effetto della eventuale fornitura diretta, in tutto o in parte, di
materiali, apparecchiature e mezzi d’opera da parte dell’esecutore”. Sembrerebbe a prima vista che il legislatore abbia
riconosciuto, indirettamente, la possibilità di frazionare ulteriormente le prestazioni elementari in cui, come detto, viene scomposta dal progettista l’opera da realizzare.
A nostro modesto avviso la disposizione normativa crea soltanto ulteriori problemi ed origina dubbi e perplessità molto
più numerosi di quelli che riesce a fugare.
Se il cottimo (della cui riesumazione, dopo anni di incorporea presenza nell’ “Era Merloni”, non si avvertiva francamente il bisogno) è cosa diversa dal subappalto, perché mai la
norma crea ulteriore confusione allorché lo definisce quale
affidamento della sola lavorazione “ad impresa subappaltatrice” e non, più propriamente, “ad impresa cottimista”?
Se l’appaltatore provvede alla fornitura diretta di tutte i materiali, le apparecchiature ed i mezzi d’opera (affidando al cottimista/subappaltatore la sola lavorazione) può liberamente
affermarsi che il legislatore ha fornito un escamotage normativo per eludere il divieto generale di intermediazione ed
interposizione nelle prestazioni di lavoro sancito dall’art. 1,
comma 1, della Legge n. 1369/1960 e confermato dalla giurisprudenza anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs 276/2003
(cd. Legge Biagi)?
Quali sono i caratteri distintivi (se ve ne sono) tra il contratto di cottimo definito dal comma 6 dell’art.170 ed un fittizio
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contratto di appalto (cd. “appalto di manodopera”), che maschera una interposizione illecita di manodopera, quando lo
pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello
pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest’ultimo, il quale detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali?
Ed ancora, considerando che il citato comma 6 fa riferimento “alla categoria subappaltabile”, lo smembramento delle lavorazioni ipotizzate dal progettista resta confinata alla quota
indicata al comma 1 dell’art. 170 (30% della sola prevalente) o può spingersi fino a coinvolgere anche quelle appartenenti alla quota non subappaltabile (eccedente il 30%) delle scorporabili super specializzate (se ovviamente di importo
superiore al 15% dei lavori)?
Quale forza può attribuirsi ad una disposizione del genere già
solo per il fatto di appartenere ad un corpus normativo che
ha, deliberatamente, ignorato molte delle argomentazioni
espresse nel parere del Consiglio di Stato e non neppure
superato il vaglio della Sezione di controllo di legittimità della Corte dei Conti?
Ed infine, quanto viene minata la credibilità dell’Autorità di vigilanza secondo cui a prescindere dal nomen juris attribuito
al rapporto negoziale dalle parti, deve considerarsi vietato
ogni sub-contratto che, nella sostanza, aggira il divieto legislativo di esecuzione di tutti o parte dei lavori oggetto dell’appalto senza l’autorizzazione della stazione appaltante.
Autorizzazione al subappalto:
atto dovuto o no?
Esaminando in controluce la sentenza n. 32134/2010, emerge un’ulteriore aspetto degno di approfondimento. Il TAR Lazio
afferma che la legislazione vigente subordina l’affidamento
in subappalto solamente al ricorrere delle condizioni elencate nel comma 2, dell’art.118 del Codice per cui “in presenza di tali condizioni l’autorizzazione al subappalto costituisce un atto dovuto, essendo escluso qualsivoglia profilo di
discrezionalità da parte della stazione appaltante nell’adottare il relativo provvedimento autorizzatorio, dovendo quest’ultima limitarsi a svolgere una funzione meramente ricognitiva in ordine alla sussistenza delle condizioni di cui al
predetto comma 2”.
Ebbene, fermo restando quanto sin qui argomentato, non può
non cogliersi, sul punto, la palese contraddittorietà del percorso logico-sistematico seguito dall’estensore della sentenza. Se,
infatti, si dovesse condividere la tesi secondo cui non sussiste
“qualsivoglia profilo di discrezionalità da parte della stazione appaltante nell’adottare il relativo provvedimento autorizzatorio”
e ci si dovesse arrendere all’idea di una “funzione meramente
ricognitiva” non si comprende come e perché, poi, la medesima stazione appaltante debba impegnarsi, secondo lo stesso
TAR di poc’anzi, nello “scomporre il prezzo unitario delle singole lavorazioni” e nel “verificare il rispetto della previsione di
cui al quarto comma dell’art. 118”.
Attività che, com’è evidente, non possono considerarsi né meramente ricognitive né scevre da qualsivoglia profilo di discrezionalità.
Anzi.
La discrezionalità che inevitabilmente connatura le attività
immaginate dal Giudice Amministrativo, impone la necessità, questa si, di instaurare il contraddittorio ex art. 10bis della Legge n. 241/1990.
L’art. 10-bis in parola, rubricato «Comunicazione dei motivi
ostativi dell’accoglimento dell’istanza», statuisce espressamente, infatti, che “Nei procedimenti ad istanza di parte (ndr
quale appunto il procedimento autorizzatorio al subappalto)
il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni
dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni eventualmente
corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che
iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione
delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente
articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a
seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali”.
Conclusioni
La sentenza qui brevemente commentata offre, come abbiamo potuto vedere, una serie quasi infinita di dubbi, spunti di approfondimento e timori per la devastante portata dei
suoi potenziali effetti che sinteticamente possono essere ricompresi nella definizione di cessione non autorizzata, totale o parziale, di appalto.
Dubbi, approfondimenti e timori ancor più condivisibili se correlati alla palese e inconfutabile divergenza tra la posizione
assunta dal TAR Lazio (che, peraltro, in un primo momento
aveva ritenuto che la controversia esulasse dalla giurisdizione del giudice amministrativo e che, con ampia e motivata decisione, aveva dichiarato la propria incompetenza in
favore del giudice ordinario) e quella dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici richiesta di esprimere il proprio autorevole parere prima dell’assunzione della gravata determinazione di diniego.
E superfluo appare, in questa sede, ogni commento circa il
conseguente stato di incertezza in cui versano gli operatori
delle stazioni appaltanti allorché si incorra in indirizzi tanto
contrastanti da apparire ispirati da finalità diametralmente
opposte.
E’ un vero peccato, tuttavia, che una così particolare sentenza
non sia stata - opportunamente e prontamente - appellata.
D’altronde la questione, quanto meno ragioni semantiche,
non avrebbe motivo di esistere: se è normativamente previsto che l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli «stessi» prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, non si comprende perché si debba creare un
sofisma giuridico (smentito dalla logica ancor prima che dall’estimo) per consentire l’applicazioni di prezzi unitari che
«stessi» non sono (e non potranno mai essere) in quanto afferenti a lavorazioni diverse. nn
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