Dalle Opere Treccani > Biografia dalla "Federiciana"

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Dalle Opere Treccani
Voce tratta dalla Federiciana, a cura di Norbert Kamp, 2005.
FEDERICO II DI SVEVIA, IMPERATORE, RE DI SICILIA E DI GERUSALEMME, RE DEI
ROMANI. - Nacque il 26 dicembre 1194, due giorni dopo che il padre, l'imperatore Enrico
VI di Svevia, era stato incoronato a Palermo re di Sicilia, a Jesi nelle Marche (provincia di
Ancona), dove la madre, la quarantenne imperatrice Costanza, figlia postuma di Ruggero
II di Sicilia, si era fermata quando il marito aveva intrapreso la sua seconda, vittoriosa,
spedizione per la conquista del Regno. Il fanciullo riunì nella sua persona l'eredità di due
dinastie che solo nel sec. XI erano salite al vertice della nobiltà europea: gli Svevi, ai quali
il legame matrimoniale con la casa imperiale salica aveva aperto la via all'Impero, e il
casato normanno degli Altavilla, i quali nel 1130 avevano fondato in Italia meridionale la
più giovane monarchia del continente. Grazie ai nonni, l'imperatore Federico I Barbarossa
e il re di Sicilia Ruggero II, F. poteva vantare legami di parentela con famiglie principesche
e nobili di tutta Europa.
Che Costanza pensasse di chiamare Costantino l'erede del trono di Sicilia e del Sacro
Romano Impero è tramandato solo da fonti posteriori. La scelta del nome, come è
testimoniata nel 1195, si orientò in realtà verso quelli dei nonni, Federico e Ruggero, e alla
fine prevalse quello del nonno paterno. Quando Costanza, nella primavera 1195, partì
verso Bari e Palermo per assumere la reggenza del Regno dopo la partenza di Enrico VI,
affidò il figlio alla cura della duchessa di Spoleto, consorte del duca tedesco Corrado di
Urslingen, residente a Foligno. La duchessa, la cui famiglia d'origine ci è ignota, allevò F. e
nel 1196 predispose anche il suo battesimo, che, contrariamente ai desideri di Enrico VI, il
quale avrebbe voluto che fosse celebrato dal papa, ebbe luogo ad Assisi (Schaller, 1957).
La nascita dell'erede della dinastia spinse Enrico VI a nuove iniziative per consolidare le
sorti del suo vasto dominio. Il progetto di trasformare l'Impero in una monarchia ereditaria
doveva assimilare la successione imperiale a quella sul trono di Sicilia, ma il piano fallì per
l'opposizione dei principi tedeschi e del papa Celestino III. I primi tuttavia nel dicembre
1196 elessero F., che si trovava sempre in Italia, re di Germania. Enrico VI a questo
punto, dopo aver regolato il problema della successione, avrebbe dovuto essere in grado
di intraprendere la prevista crociata, ma nel settembre 1197 morì a Messina, dove aveva
sedato una nuova pericolosa rivolta. Il sistema della successione che era riuscito a
costruire non riuscì comunque a scongiurare lo scoppio delle tensioni prodotte dalla sua
instancabile politica condotta su vari fronti.
Mentre il fratello di Enrico VI, il duca Filippo di Tuscia, che avrebbe dovuto condurre
l'erede al trono F. da Foligno in Germania, alla notizia della morte di Enrico VI rientrò
anticipatamente, i conti Pietro da Celano e Berardo da Loreto, su ordine dell'imperatrice
Costanza, poche settimane dopo portarono F. nel Regno. Già nel dicembre 1197 F. si
trovava a Messina. Con il consenso del nuovo papa Innocenzo III, Costanza il 17 maggio
1198 fece incoronare il figlio re di Sicilia. Il fatto che dopo questa investitura il titolo di re
dei Romani, fino ad allora attribuito a F., non sia più riportato nei documenti prova che
Costanza non rivendicò più i diritti che spettavano al figlio in base all'elezione del 1196: il
suo obiettivo politico era unicamente quello della successione in Sicilia. Nelle trattative con
Innocenzo III accettò le condizioni in materia di politica ecclesiastica imposte dal papa per
l'infeudazione sua e del figlio. I documenti erano già stati redatti, ma non ancora
consegnati, quando il 27 novembre 1198 Costanza morì.
Nel suo testamento aveva nominato papa Innocenzo III reggente del Regno e tutore di F.,
che allora aveva solo quattro anni. Come organo investito delle funzioni di governo fu
designato il collegio dei familiari a Palermo, composto da alti prelati e dal cancelliere
Gualtiero di Palearia; a quest'ultimo fu anche affidato l'incarico di provvedere
all'educazione del fanciullo. Contemporaneamente però Marcovaldo di Annweiler, il
principale sostenitore tedesco di Enrico VI, basandosi su una procura dell'imperatore fatta
passare per testamento, rivendicò per sé la reggenza e la tutela e queste sue pretese
furono riconosciute da Filippo di Svevia, fratello dell'imperatore defunto ed eletto re di
Germania dal partito svevo nel 1198. L'invasione di Terra di Lavoro effettuata da
Marcovaldo provocò una lotta per la reggenza che non conobbe vincitori, ma compromise
in maniera grave l'ordine dello stato e i diritti della Corona. Dopo i primi insuccessi in
Campania, nel 1200 Marcovaldo, con l'aiuto dei genovesi, sbarcò in Sicilia, si accordò con
una parte dei familiari e nel novembre 1201 nel Castellammare di Palermo si impadronì
della persona di F. con un colpo di mano. Da quel momento Marcovaldo di Annweiler
governò in nome del giovane re, anche se, nei fatti, la sua autorità fu limitata alla Sicilia.
Dopo la sua morte, nel 1202, gli successe un altro capitano tedesco, Guglielmo
Capparone, che tenne F. sotto il suo controllo fino al 1206 nel palazzo reale di Palermo,
ma estese il suo dominio anche ad alcune zone della Sicilia.
Nonostante il succedersi dei reggenti, F. ricevette a Palermo un'educazione cavalleresca,
che gli trasmise i molteplici stimoli che si agitavano nell'ambiente culturale aperto e
cosmopolita della metropoli siciliana, anche se egli (al contrario di quanto afferma una
tradizione più tarda) non si poteva muovere liberamente nella città. In momenti critici,
come ad esempio la cattura da parte di Marcovaldo, F. mostrò uno spiccato senso del
proprio rango e una suscettibile consapevolezza della propria dignità di sovrano. La viva
intelligenza, le doti cavalleresche, ma anche l'asprezza del giudizio e la determinazione
irremovibile colpirono gli osservatori già in questi primi anni.
Dal 1206 F. risiedette a Palermo sotto la diretta custodia del cancelliere Gualtiero di
Palearia, il quale, come antico fiduciario di Enrico VI, non aveva esitato ad affrontare il
conflitto con il papa per evitare rischi alla successione di F. sul trono di Sicilia. Con il suo
consenso Innocenzo III riprese vecchi progetti matrimoniali in funzione di un'alleanza con
gli Aragonesi e concluse il matrimonio di F. con Costanza d'Aragona, vedova di re Emerico
d'Ungheria, di dieci anni più anziana di lui.
Nel 1208 Innocenzo III lo dichiarò maggiorenne. Il giovane re, senza avere nelle sue mani
alcun mezzo concreto per promuovere una politica personale, si propose il compito di
restaurare l'autorità della monarchia nel Regno, a partire dalla periferica Palermo. La
speranza di potere disporre del seguito di cavalieri che accompagnò la moglie Costanza
d'Aragona a Palermo nell'estate 1209 svanì, dato che la maggior parte di essi morì in
quella stessa estate vittima di un'epidemia. Comunque F., con le prime revoche di
concessioni feudali, con il licenziamento del cancelliere Gualtiero di Palearia, sostenitore
di una politica filonobiliare, e con il deciso intervento nell'elezione controversa
dell'arcivescovo di Palermo diede i primi segnali di una nuova politica che provocò reazioni
non solo da parte del pontefice: rivolte e complotti si erano verificati tra i feudatari siciliani
e calabresi già nel 1209 e nel 1210 furono soffocati da Federico.
Questa politica preoccupò la nobiltà e spinse cavalieri tedeschi come Dipoldo di
Schweinspeunt e alcune famiglie, come ad esempio quella dei Celano, che vedevano
minacciata la loro concentrazione di potere realizzata negli ultimi decenni, a un'alleanza
con il nuovo imperatore Ottone IV. Questi, dopo la sua incoronazione, fu sollecito a
riprendere la linea politica di Enrico VI. La sua spedizione nel Regno, con i successi
militari che conseguì, dimostrò quanto fosse decaduta l'autorità del re durante il periodo
della reggenza, ma fu anche la prova della debolezza di F. nelle province del continente.
Papa Innocenzo III, che aveva sperato in uno sviluppo affatto diverso degli eventi, di fronte
all'invasione degli eserciti imperiali non ebbe altra scelta che privare Ottone IV del
sostegno dei principi tedeschi con l'aiuto dello stesso F. per garantire il mantenimento
della riacquisita libertà politica della Chiesa romana in Italia. Ma dopo i primi contatti con
Ottone, che avevano scontentato tutte le parti e ottenuto solamente di irritare il papa, F.
reagì agli attacchi dell'imperatore, penetrato fino in Calabria senza avere una strategia
precisa.
A Norimberga nell'autunno 1211 un gruppo di principi tedeschi, con l'appoggio politico del
re francese Filippo Augusto e con l'approvazione di Innocenzo III, elesse F. re dei Romani
e futuro imperatore. La notizia dell'elezione bastò perché Ottone interrompesse la
campagna nel Regno nel novembre 1211, cosicché la minaccia immediata fu scongiurata.
F. si trovava ora dinanzi alla scelta se proseguire o meno, pur non disponendo di mezzi
propri, la battaglia per impadronirsi della corona del padre, assumere l'eredità degli Svevi
e salire alla massima dignità del mondo occidentale, anche mettendo in gioco il Regno di
Sicilia, nel quale non aveva ancora imposto per intero la sua egemonia.
Contro il parere della moglie Costanza d'Aragona e di altri dignitari, F. decise di accettare
l'elezione dei principi tedeschi, certo anche in considerazione del fatto che una rinuncia
non avrebbe evitato lo scontro con Ottone IV per la Sicilia, ma lo avrebbe solo rinviato.
Con un piccolo seguito si recò in Germania passando per Gaeta e per Roma. Qui
nell'estate 1212 prestò il giuramento feudale ligio per il Regno, dove prima della sua
partenza, esaudendo il desiderio papale, egli aveva fatto incoronare il figlio Enrico, che
non aveva ancora compiuto l'anno, e nominato la moglie Costanza reggente. Innocenzo III
ottenne in cambio le garanzie richieste circa una duratura separazione tra Impero e
Regno. Sotto la protezione dei genovesi, F. attraversò quindi la Lombardia e proseguì per
vie secondarie attraverso l'Engadina fino a Costanza, dove giunse alla metà di settembre
1212, precedendo solo di poche ore Ottone IV.
Dopo il successo di Costanza F., il puer Apuliae, erede degli Svevi e speranza del loro
partito, riuscì a sobillare la rivolta contro Ottone e a estendere la sua supremazia sulla
Germania meridionale. Una nuova elezione da parte dei principi a Francoforte, il 5
dicembre 1212, sanò le mende della precedente elezione e preparò l'incoronazione,
celebrata a Magonza il 9 dicembre. Nel luglio 1213 F. emanò a Eger i diplomi per
Innocenzo III, il cui contenuto era già stato delineato da Ottone: riconobbe al papa le
proprietà recuperate nell'Italia e la libertà di elezione e di appellazione delle Chiese
tedesche, fatto che sottrasse completamente i principati ecclesiastici tedeschi all'influenza
del sovrano.
Il provvisorio equilibrio creatosi tra F., che controllava la Germania centrale e meridionale,
e Ottone IV, che prevaleva nelle regioni settentrionali, si concluse con la sconfitta di
quest'ultimo nello scontro anglo-francese per il controllo delle Fiandre a Bouvines, nel
luglio 1214. Filippo Augusto rese palese il suo orientamento con un gesto inequivoco:
l'aquila imperiale sottratta in battaglia a Ottone IV fu restituita a F.; Innocenzo III da parte
sua ratificò formalmente l'esito dello scontro per l'Impero nell'ultima sessione del concilio
lateranense, nel novembre 1215, quando riconobbe apertamente i diritti derivati a F.
dall'elezione dei principi tedeschi e con ciò la sua pretesa alla dignità imperiale.
Ottone rimase in possesso della corona e del tesoro imperiale, ma non riuscì a frapporre
ostacoli seri sulla strada di F. fino alla sua morte, nel 1218. Questi in seguito non tralasciò
alcuna occasione per accrescere la sua autorità e promuovere una politica improntata a
una piena consapevolezza dei suoi nuovi compiti. Quando Aquisgrana gli aprì le porte nel
1215, si fece incoronare di nuovo il 25 luglio nel duomo, nel quale tradizionalmente
venivano incoronati i re tedeschi. Salì sul trono di Carlomagno e chiuse di propria mano lo
scrigno d'oro nel quale le ossa di quel sovrano sarebbero state da allora in poi venerate.
Nella stessa occasione prese pubblicamente la croce, mostrando di volere portare a
compimento l'impresa che secondo la leggenda Carlomagno aveva intrapreso e suo
nonno Federico I Barbarossa e suo padre Enrico VI non erano riusciti a realizzare. L'atto
simbolico di riallacciarsi alla tradizione di Carlomagno e l'adesione alla crociata misero
chiaramente il giovane sovrano nella posizione di futuro imperatore. Il re di Sicilia, che
ancora nel 1211 era minacciato nella sua stessa sopravvivenza politica, in pochi anni si
era trasformato in monarca di livello europeo, i cui obiettivi e le cui iniziative dovevano
determinare in misura sempre più decisiva la politica dell'intero continente.
Se gli esordi della sua politica in Germania furono caratterizzati da una certa liberalità per
trovare e mantenere sostenitori tra i principi laici ed ecclesiastici, d'altro canto, per
compensare le perdite nel conflitto per il trono imperiale, F. si riallacciò ovunque gli fosse
consentito alla politica territoriale seguita dai suoi predecessori. In Alsazia, oltre alla sua
residenza favorita di Hagenau, fondò nuove città e nuove zecche, ma anche in altre
regioni ancora controllate dalla monarchia si sforzò di raggruppare i demani regi, i
ministeriali e le città in unità amministrative più efficienti. F. aveva compreso che queste
ultime in particolare, con il numero crescente degli abitanti e perciò del gettito fiscale,
potevano diventare un nuovo sostegno della monarchia in Germania.
La crociata, ma anche la coscienza sempre più acuta della grandezza dei compiti che gli
spettavano come sovrano, spinsero F. a mettere in discussione la divisione tra Impero e
Regno concordata nel 1212 con il pontefice. La Sicilia infatti aveva una funzione strategica
determinante e ineliminabile per la spedizione in Terrasanta. Subito dopo il concilio
lateranense F. fece venire la moglie Costanza e il figlio Enrico di cinque anni in Germania
senza nominare un nuovo reggente nel Regno. L'irritazione di Innocenzo III fu placata con
la dichiarazione resa a Strasburgo il 1o luglio 1216, con la quale F. si impegnò a rinunciare
alla corona di Sicilia a favore di Enrico e a nominare un reggente dopo l'incoronazione
imperiale. Quando Costanza ed Enrico arrivarono in Germania F. conferì però al figlio il
ducato di Svevia e nel 1219 anche il rettorato sulla Borgogna, ma non fece più parola della
corona di Sicilia, cosicché il suo obiettivo di mantenere concentrate nella sua persona la
corona imperiale e quella del Regno divenne chiaro a tutti.
L'occasione per fare marcia indietro rispetto agli accordi del 1212 e del 1216 fu creata
dall'elezione di Enrico a re dei Romani, settimo di questo nome, nella Curia di Francoforte
nell'aprile 1220. L'elezione, la cui iniziativa F. attribuì esclusivamente ai principi tedeschi,
sebbene avesse lavorato intensamente per questo obiettivo, gli consentì, durante le
trattative intercorse con Onorio III immediatamente prima dell'incoronazione imperiale, di
fare decadere il principio fin lì sostenuto di una divisione tra i due domini, e questo
avvenne senza che il papa sollevasse una formale opposizione all'unione del Regno e
dell'Impero realizzatasi di fatto nella persona di Federico. I vecchi piani venivano
rovesciati: la Germania ebbe come sovrano il minorenne Enrico, per il quale fu affidata la
reggenza all'arcivescovo Engelberto di Colonia, mentre in Sicilia F. governava come re in
virtù dei suoi diritti ereditari. Contemporaneamente era anche imperatore e sovrano della
parte italiana dell'Impero.
Il prezzo politico per l'elezione di Enrico fu la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis,
un privilegio che obbligava la giurisdizione penale temporale ad eseguire le sentenze
ecclesiastiche e ratificò l'evoluzione degli ultimi decenni, che tendeva a conferire ai
principati ecclesiastici autonomia territoriale. Riconoscendo il principio che nuovi diritti
emanati dal re non potevano danneggiare diritti preesistenti dei principi, F. garantì i
principati ecclesiastici anche contro i possibili abusi della politica territoriale del sovrano.
Nell'agosto 1220 F. poté quindi riprendere la strada per l'Italia. Già dalla Lombardia e
dall'Emilia ordinò la restituzione alla Corona di alcuni feudi nel Regno. Il 22 novembre
1220, a Roma, Onorio III lo incoronò imperatore. F. rinnovò al papa i suoi voti per la
crociata ed emise leggi imperiali per la tutela dell'immunità fiscale e giudiziaria del clero
minacciata nei comuni, nonché per la lotta all'eresia, concordandone il contenuto con la
Curia. Il testo delle leggi fu trasmesso all'Università di Bologna.
Dopo essere rientrato nel Regno, nel dicembre 1220 F. realizzò con le Assise di Capua
una svolta radicale nella politica interna. Risalendo indietro nel tempo per gli anni
equivalenti a una generazione stabilì la data del 1189 come termine legittimo per
l'esistenza di ogni diritto, consuetudine e proprietà e al contempo annunciò che tutti i diritti
nel paese provenivano dalla Corona e perciò potevano essere riorganizzati anche
ricorrendo alla revoca dei privilegi. Questa politica contava alcuni precedenti, ma nel 12201221 il preteso ritorno alle buone consuetudini di Guglielmo II rappresentò in realtà una
rivoluzione mascherata sotto forma di recupero della tradizione. Nobili e Chiesa persero
feudi e giurisdizioni, mercati e porti, terre e sudditi, e inoltre con la confisca di castelli e di
fortificazioni sottoposti direttamente all'autorità della Corona fu sottratta ad essi la loro
parte del potere. Le città furono private del loro spazio d'azione, di cui alcune avevano già
approfittato realizzando in proprio accordi politici e promuovendo iniziative commerciali
autonome. Le repubbliche marinare, Genova in primo luogo, persero i loro privilegi
commerciali e le basi in Sicilia che avevano acquisito durante il periodo della reggenza.
Le Assise di Capua miravano a un nuovo equilibrio nei rapporti tra monarchia e nobiltà.
Uffici che avevano consentito alla nobiltà comitale di partecipare al potere dello stato,
come ad esempio la carica di maestro giustiziere nelle regioni, furono aboliti in un sol
colpo. Ci fu però bisogno di diverse campagne militari negli anni 1223 e 1224 per domare
e costringere a emigrare la famiglia dei Celano, che dal Molise e dalla Marsica animava
l'opposizione alla nuova politica della monarchia. Conseguito questo primo successo, fu
possibile per F., con uno spiegamento di forze più modesto, esiliare altre famiglie comitali
e incamerare i loro feudi.
Contemporaneamente alla rivolta feudale F., per ristabilire l'autorità della Corona sull'isola,
dovette affrontare anche i saraceni siciliani in continua rivolta, trovandosi per qualche
tempo impegnato su un duplice fronte nel Nord e nel Sud del Regno. Anche per quest'altro
problema egli adottò una soluzione radicale: gli abitanti saraceni della Sicilia, sconfitti in
campagne pluriennali, dopo il 1224-1225 furono sistematicamente deportati a Lucera in
Capitanata. Qui i musulmani, che fino ad allora avevano abitato per lo più nelle campagne,
furono concentrati in un centro urbano: fatto che da un lato li isolò a lungo dal mondo
islamico, ma che, d'altro canto, garantì loro, sotto la protezione dell'imperatore, libertà
religiosa e condizioni favorevoli per lo sviluppo delle attività produttive, cosicché la nuova
città saracena nel corso dei decenni successivi avrebbe conosciuto una fioritura
economica in alcuni settori specifici dell'artigianato. Inoltre Lucera divenne la guarnigione
di un corpo militare d'élite che appoggiò la monarchia sveva anche dopo la morte di
Federico.
Altre riforme che modificarono radicalmente l'edificio dello stato seguirono in breve volgere
di tempo. Il sovrano decise con maggiore autonomia la nomina e il normale
avvicendamento dei funzionari provinciali. Giustizieri e camerari costituirono da allora in
poi una classe di funzionari che formò il nerbo di una nuova nobiltà formatasi al servizio
dello stato. Ancora più denso di conseguenze fu il fatto che il tribunale della Magna Curia
dal 1221 fu rinnovato con nuovi giudici e presto fu anche introdotto un nuovo ordinamento
destinato a sopravvivere all'epoca sveva. Da tribunale collegiale formato da maestri
giustizieri della Magna Curia con gli stessi diritti, divenne un tribunale organizzato
gerarchicamente, presieduto da un maestro giustiziere che proveniva dal ceto baronale e
perciò non era esperto del diritto; come giudici gli erano affiancati giuristi professionisti o
comunque laureati in questa disciplina. La nuova composizione del tribunale garantì una
diversa qualità nell'applicazione della giustizia e nell'efficienza dell'amministrazione. Esso
divenne una scuola in cui primeggiarono talenti come quelli di Pier della Vigna e Taddeo
da Sessa e in questo modo si aprì per gli specialisti del diritto la possibilità di una carriera
al servizio della Corona fino ai posti al vertice dello stato, nel Consiglio del re e nella
diplomazia, ma anche nelle province, dove già al tempo di F. dei giuristi trovarono una
solida sistemazione nell'amministrazione, come assessori dei camerari e dei giustizieri.
La riforma del tribunale della Magna Curia portò direttamente alla fondazione
dell'Università di Napoli nel 1224, che divenne la prima università statale in Europa. Il
nuovo Studio, da quando F. proibì ai sudditi di studiare all'estero, fu destinato a soddisfare
nel tempo il fabbisogno dello stato di giuristi preparati che provenissero dal Regno e, al
contempo, assicurò che i contenuti dell'insegnamento fossero orientati verso il diritto
pubblico e le leggi locali.
Con il ristabilimento della sovranità dello stato sulle fortificazioni la Corona acquisì oltre
cento tra castelli, torri di guardia portuali e costiere, ma si sobbarcò pure l'onere della
manutenzione, nonché quello di nuove costruzioni. La finalizzazione dell'attività edilizia
pubblica sulla sicurezza interna ed esterna limitò altre iniziative in questo settore.
L'amministrazione dei castelli fu riformata e F. all'inizio cercò di applicare esperienze
maturate in Terrasanta, dato che prima del 1228 nominò provisores imperialium castrorum
in Calabria un templare e un gioannita. Ai provisores provinciali furono affiancati in seguito
anche speciali collettori per soddisfare, con una procedura preferenziale, le crescenti
necessità finanziarie dei castelli. Uno statuto emanato dopo il 1240 obbligò invece i
feudatari, le chiese e le comunità locali a provvedere alla manutenzione.
Dopo l'espulsione dei genovesi, F. ordinò la formazione di una flotta autonoma, che fu
allestita in breve tempo e al comando della quale fu messo comunque un ammiraglio
genovese. La base del rapido rafforzamento militare della Corona fu una severa leva dei
feudatari sulla base del catalogo aggiornato dei baroni, che fornì il personale e i mezzi per
i vari servizi nell'esercito, nella manutenzione dei castelli, nella gestione dei cantieri e della
flotta.
Con la revoca dei vecchi privilegi e concessioni le Assise di Capua risolsero anche il
problema dello spopolamento dei territori demaniali; il rimpatrio degli abitanti comportò un
miglioramento della loro produttività, soprattutto in Puglia e in Sicilia. I nuovi insediamenti
decisi da F. furono popolati anche con il ricorso a trasferimenti coatti. Le nuove città di
Augusta, Eraclea, Altamura e Monteleone compensarono la distruzione delle città
avvenuta durante la repressione delle rivolte nobiliari: Celano e Sora, nonché Centuripe e
Capizzi.
Il fallimento nel 1221 della quinta crociata sotto le mura di Damietta, che la flotta inviata da
F. in Oriente non riuscì a scongiurare perché arrivò solo dopo la caduta della città
egiziana, ripropose in primo piano negli incontri con Onorio III il voto di intraprendere una
crociata, sempre rinviato dall'imperatore impegnato prima nei preparativi per la sua
incoronazione imperiale, poi nelle riforme in Sicilia. L'elezione di vescovi siciliani e
l'invasione del ducato di Spoleto, inoltre, crearono nuove tensioni nei rapporti tra
l'imperatore e il pontefice, nonostante il sincero desiderio di entrambi di trovare un
accordo. Nel settembre 1225 Onorio III decise di risolvere un lungo blocco nelle elezioni di
prelati siciliani, nominando cinque vescovi e arcivescovi di sua scelta. F. a sua volta
impedì il loro insediamento, ma dopo un ragionevole lasso di tempo poté mutare politica,
perché Onorio III aveva designato, trasferito e consacrato vescovi che l'imperatore poteva
accettare.
In accordo con il pontefice, nel 1225 F. sposò Iolanda (Isabella) di Brienne, erede del
Regno di Gerusalemme. Subito dopo le nozze assunse il titolo di re di Gerusalemme,
contestando al suocero Giovanni di Brienne i suoi diritti su quel Regno, con il risultato di
procurarsi un irriducibile avversario della propria politica in Oriente.
Dopo che insieme con Onorio III fu stabilito, come termine ultimo per effettuare la crociata,
l'anno 1227, F. invitò i principi tedeschi e i comuni italiani, nonché la nobiltà dell'Italia
settentrionale, a una dieta da tenersi a Cremona nella Pasqua 1226 e mise all'ordine del
giorno il ripristino dei diritti imperiali, la lotta contro l'eresia e l'organizzazione della
crociata. Sebbene la politica di F. nelle regioni italiane dell'Impero fosse stata fino ad allora
caratterizzata da una certa prudenza, l'invito, sicuramente anche in considerazione del
nuovo indirizzo intrapreso da F. in Sicilia, provocò un moto di resistenza tra i comuni,
preoccupati per la loro indipendenza; la stessa scelta della filoimperiale Cremona come
sede della dieta dovette sembrare non imparziale. Sotto la guida di Milano i comuni
rinnovarono dunque la Lega lombarda, che aveva sconfitto Federico Barbarossa
costringendolo a cambiare politica con la pace di Costanza. La dieta non ebbe luogo
perché le città lombarde impedirono ai principi tedeschi di recarsi a Cremona e F. non disponeva di forze sufficienti per rimuovere il blocco. Il bando imperiale emanato contro i
comuni con l'accusa di avere ostacolato la crociata non mutò l'entità degli eventi: la Lega
aveva inflitto uno scacco all'autorità imperiale, i cui effetti erano destinati a farsi sentire
ancora a lungo. La questione lombarda acquistava così un ruolo di primo piano nei
rapporti tra Papato e Impero, perché diveniva sempre più evidente che la libertà della
Chiesa romana era garantita dalla libertà dei comuni piuttosto che dal rispetto dell'integrità
territoriale dello Stato della Chiesa. La crisi del 1226 si concluse comunque senza uno
scontro frontale e Onorio III riuscì a ricomporla trovando un compromesso tra F. e la Lega.
Durante il suo soggiorno nell'Italia settentrionale nel marzo 1226 con la Bolla d'oro di
Rimini F. concesse all'Ordine dei Cavalieri teutonici, nella persona del loro Gran Maestro
Ermanno di Salza, l'investitura feudale per i territori che l'Ordine avrebbe potuto
conquistare nella Prussia. In maniera analoga l'elevazione di Lubecca a città imperiale nel
giugno 1226 era destinata a produrre effetti a lunga scadenza, non prevedibili in quel
momento: la nuova libertà imperiale costituì infatti un modello per altre città e fu la
premessa per l'affermazione di Lubecca come avamposto della Hansa nel bacino del
Baltico.
Nell'agosto successivo all'elezione del nuovo papa Gregorio IX (marzo 1227) F. salpò da
Brindisi a capo della crociata, ma la spedizione si interruppe subito per l'epidemia
scoppiata tra i crociati e i pellegrini; lo stesso F. si ammalò. Gregorio IX protestò,
ricordando che F. si era deciso a partire sotto pena di scomunica, e interpretò la malattia
come un pretesto per sottrarsi all'impresa: per questo il 29 settembre, nella cattedrale di
Anagni, scomunicava l'imperatore.
Senza badare alla scomunica, F. proseguì nell'organizzazione della crociata. Dopo la
partenza di un'avanguardia di cinquecento cavalieri s'imbarcò egli stesso a Brindisi nel
giugno 1228 e, dopo una sosta a Cipro, il 7 settembre dello stesso anno giunse a S.
Giovanni d'Acri con un piccolo esercito di crociati e accompagnato da numerosi pellegrini.
I cristiani in Terrasanta, il patriarca di Gerusalemme e la maggior parte degli Ordini
cavallereschi rifiutarono però ogni collaborazione a causa della scomunica e F., per il
successo della sua azzardata impresa, fu obbligato a ricorrere alle vie diplomatiche.
Attraverso trattative già preparate da una precedente missione e protrattesi per diversi
mesi egli si guadagnò la fiducia del sultano d'Egitto al-Kāmil, finché nel febbraio 1229
riuscì a concludere con lui un accordo decennale che prevedeva la restituzione ai cristiani
di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e di una fascia costiera, mentre ai musulmani
riservava l'area del tempio considerata sacra per la loro religione. Sebbene questo
risultato mettesse in ombra i successi di tutte le crociate successive alla caduta della Città
Santa, gli avversari colsero il pretesto per obiettare che la nuova libertà di Gerusalemme
poggiava solo su una tregua destinata ad avere fine. Dopo una messa di ringraziamento
sul S. Sepolcro, alla quale per via della scomunica non partecipò, F. cinse nella stessa
chiesa la corona di re di Gerusalemme. Poche settimane dopo Corrado, il figlio avuto nel
1228 da Iolanda di Brienne (morta in seguito al parto), fu creato re di Gerusalemme e al
suo posto venne nominata una reggenza.
L'andamento della crociata fu preso a pretesto da Gregorio IX per rinnovare la scomunica
nel marzo 1228, sciogliere i sudditi di F. dal giuramento di fedeltà e sostenere l'elezione di
un nuovo sovrano antisvevo in Germania.
Il reggente lasciato da F. a governare il Regno, Rainaldo di Spoleto, aveva effettuato di
sua iniziativa un attacco nella Marca di Ancona e nel ducato di Spoleto; Gregorio IX, in
risposta, nel gennaio 1229 inviò nel Regno milizie già reclutate per questo scopo da
tempo, sotto il comando di un legato, di Giovanni di Brienne e di fuorusciti siciliani. Le
truppe pontificie, dopo avere superato presso Montecassino l'iniziale resistenza
dell'esercito imperiale guidato dal maestro giustiziere Enrico di Morra, si spinsero
rapidamente fino in Puglia. Alla notizia dell'invasione F. interruppe immediatamente la
crociata, anche perché la sua posizione in Terrasanta, a causa delle resistenze opposte
dai cristiani locali, permaneva difficile. La spinta verso una rivolta generale nel Regno
provocata dall'invasione degli eserciti pontifici, anche grazie al diffondersi della notizia
della morte dell'imperatore in Oriente, cessò, dopo il ritorno di F. a Brindisi nel giugno
1229, con la stessa velocità con la quale si era propagata. La rapida riconquista delle
province fu accompagnata da processi contro le città e i feudatari traditori e da messe di
ringraziamento. D'altra parte F. fu attento a non oltrepassare i confini dello Stato della
Chiesa per mostrare la sua disponibilità alla pace. Dopo lunghe trattative, nelle quali il
Gran Maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza e il cardinale Tommaso di Capua
fecero da mediatori e anche i principi tedeschi intervennero in favore della riconciliazione,
si arrivò nell'estate 1230 alla pace di San Germano. Un incontro diretto tra F. e Gregorio IX
ad Anagni portò a un ulteriore riavvicinamento, sebbene F. avesse pagato caro l'accordo a
causa di una serie di concessioni a favore della Chiesa siciliana (concessioni comunque
meno incisive di quanto si sia a lungo ritenuto).
La profonda crisi dello stato che l'invasione aveva fatto emergere fu affrontata da F. con le
Costituzioni di Melfi e con riforme economiche su larga scala che occuparono quasi l'intero
decennio successivo. Le Costituzioni pubblicate a Melfi nell'agosto 1231 rappresentavano
in un certo senso la riedizione delle Assise di Ariano di Ruggero II, ma al contempo ne
costituivano l'ampliamento e il sistematico completamento. Una novità evidente era
rappresentata dalla concettualità filosofica e dall'eleganza del linguaggio, cui i dettatori
della cancelleria imperiale si applicarono con dedizione, ma anche da un'impostazione
sistematica, dietro la quale si intuiva l'affermazione del tribunale della Magna Curia e della
nuova scienza giuridica. Anche se l'immagine che le Costituzioni davano dei doveri del
sovrano e dei compiti dello stato, dell'autonomia dei magistrati e dei fondamenti giuridici
della loro azione era in evidente contraddizione con il reale sviluppo dell'amministrazione
della giustizia, della divisione dei poteri e del reclutamento dei funzionari ‒ ed era
inevitabile fosse così ‒, le Costituzioni anticiparono i tempi, perché tentavano di ordinare lo
stato e i suoi organi in un sistema coerente e perciò ampliavano in maniera cospicua
l'insieme degli obblighi che lo stato aveva nei confronti dei sudditi. Il diritto amministrativo
delle Costituzioni mirava, nel pieno recupero della tradizione, a un sistema che si
legittimasse da sé, andando ben oltre l'ordinamento normativo dei formulari e delle
consuetudini di cancelleria proprie di altre istituzioni, senza però trascurarlo del tutto. Le
Costituzioni non si fermavano davanti alla sfera privata, ma con l'ordinamento per i medici
e i farmacisti presagivano il moderno sistema sanitario. Non è perciò un caso che l'opera
legislativa di F. avesse una lunga durata e ancora dopo molte generazioni fosse elogiata
dai giuristi che si formarono sulle Costituzioni come il più grande e duraturo merito
dell'imperatore svevo. L'opera interpretativa dei giuristi successivi, che si orientarono in
prima istanza alle leggi, alla concettualità e al linguaggio delle Costituzioni, alimentò nei
posteri l'opinione, talora anche la convinzione, che la monarchia siciliana di F. dovesse
essere considerata come un'opera d'arte anticipatrice dei tempi o addirittura, come la
definì Antonio Marongiu, come stato modello.
Le riforme economiche introdotte con le Costituzioni fecero sì che la Corona si imponesse
nei commerci e nei mestieri come soggetto esclusivo o come potenziale monopolista. Le
condizioni materiali per il progresso del commercio e dei trasporti migliorarono grazie alla
creazione di nuovi porti, mercati e magazzini, ma l'obiettivo perseguito da F. di aumentare
le entrate della Corona attraverso il controllo dell'economia condizionò il loro sviluppo.
All'espansione dell'economia controllata dallo stato seguì l'espansione
dell'amministrazione finanziaria a causa della suddivisione dei compiti e della distribuzione
delle competenze a livello provinciale e locale, che promosse forme molto differenziate e
generò anche strutture irregolari, eliminate solo con la promulgazione di posteriori Novelle.
Questo intensificarsi del controllo statale sull'economia comportò una contrazione
dell'autonoma iniziativa commerciale e produttiva dei ceti borghesi, anche se i patrizi delle
città, in qualità di funzionari nei porti e nei magazzini, affittuari di sericulture e di monopoli
commerciali, dazieri e cambiavalute, affittuari di masserie e di colture specializzate,
prestarono alla prepotente economia statale il motore della loro intraprendenza, traendone
al contempo beneficio per i loro interessi. In contraddizione con le Costituzioni e con
affermazioni dello stesso F., l'appalto degli uffici e delle imposte registrò nel 1231 una
brusca impennata a partire dai dazi portuali fino all'affitto degli uffici di camerario e di
secreto nelle province. L'effetto concreto delle riforme economiche introdotte nel 1231 fu
che i mercanti di Amalfi, che da sempre avevano dominato le attività commerciali e
finanziarie nelle città del Meridione, si affermarono come partners privilegiati dell'economia
statale.
F. intuì per tempo anche la necessità di sottoporre a un regolare controllo i funzionari dello
stato, che con l'autorità loro conferita distribuivano pene e incameravano denaro, e di
assegnare a tale controllo uno spazio preciso nel regime amministrativo. Se pure la
procedura del sindacato usata nei comuni aveva potuto costituire un modello, la creazione
della corte dei conti nel 1240 e la sua composizione con funzionari esperti nel ramo
rappresentano un'innovazione pionieristica nella storia dell'amministrazione in Europa.
Con i rendiconti pretesi dai funzionari locali essa concentrò nella Magna Curia una
quantità di informazioni sull'andamento della gestione finanziaria dello stato che offriva alla
monarchia un'inedita possibilità di controllo sull'operato dei suoi funzionari, purché solo ne
sapesse fare un uso proficuo.
Le riforme del 1231 riguardarono anche la dotazione della Chiesa siciliana, sin dal periodo
normanno solidale con la Corona riguardo alla tassazione dell'economia, dato che la
decima di tutte le entrate dello stato costituiva di regola il grosso dei suoi introiti correnti.
Con i nova statuta F. eliminò in parte questa ipoteca ereditata dai suoi predecessori:
garantì alla Chiesa lo status quo patrimoniale, ma le sottrasse per il futuro il diritto a
partecipare all'incremento delle finanze statali, dopo che nel passato ne era stata
largamente partecipe. Con la riassociazione al demanio delle regalie godute dalla Chiesa
fu fatto valere lo stesso principio: il risarcimento corrispose al loro valore nominale, mentre
i vantaggi che derivarono dalla loro concentrazione e riorganizzazione toccarono alla
Corona. Dato che F., anche dopo la pace di San Germano, era riuscito ad orientare le
nomine ecclesiastiche secondo i suoi voleri, determinando in tale modo l'accesso alle alte
gerarchie di molti rappresentanti della nuova nobiltà di servizio, i duri attacchi ai beni
ecclesiastici, le prevaricazioni nell'amministrazione delle sedi vacanti, le richieste
esorbitanti di tributi e altre pressioni del genere non ebbero conseguenze negative: il
tradizionale legame della Chiesa siciliana con la monarchia rimase intatto e anche dopo la
seconda scomunica e la deposizione dell'imperatore le correnti ostili ebbero poco spazio.
L'impegno in quest'ampia opera di riforma del Regno si interruppe bruscamente quando il
figlio di F., Enrico (VII), maggiorenne dal 1228, nella sua politica in Germania non tenne
conto del fatto che i principi tedeschi, con la mediazione svolta per la pace di San
Germano tra F. e il papa, avevano acquisito dei meriti nei confronti dell'imperatore. La
politica aggressiva di Enrico, portata avanti con il sostegno dei ministeriali e delle città con
l'obiettivo di aumentare il suo controllo sul paese, unificò i principi in un fronte compatto
che costrinse il sovrano a un brusco cambiamento di rotta. Lo Statutum in favorem
principum, emesso nel maggio 1231 a Worms, fu una capitolazione dinanzi alle richieste
della controparte. Il documento equiparava infatti i principi laici ed ecclesiastici nella
sovranità territoriale, opponeva un rifiuto alle aspirazioni d'indipendenza delle città e con la
rinuncia da parte del re all'esercizio di alcuni dei diritti di sovranità sottraeva alla monarchia
i mezzi concreti per realizzare la politica di supremazia territoriale cui aspirava.
F. invitò Enrico a un colloquio a Ravenna: l'incontro ebbe luogo però solo nella Pasqua
1232 ad Aquileia e si concluse con la sottomissione di Enrico al padre e con
l'assicurazione del suo impegno a una politica di apertura verso i principi. F. si vide
comunque costretto a ratificare nello stesso anno a Cividale lo statuto, risultato della poco
avveduta politica del figlio in Germania, con poche correzioni migliorative di modesta
entità.
Il tentativo di F. di risolvere la questione lombarda in accordo con Gregorio IX, il quale era
stato peraltro cacciato da Roma da una rivolta, non portò nel 1233 ai risultati attesi, anche
perché il pontefice non poteva associarsi alle richieste dell'imperatore per lo scioglimento
della Lega e per la rinuncia ai diritti imperiali usurpati dalle città. Dopo un nuovo incontro a
Rieti, Gregorio IX si dichiarò tuttavia disposto a intervenire come paciere e a imporre alle
città l'obbligo di non bloccare più i collegamenti tra Germania e Italia.
Poiché Enrico in Germania, contrariamente agli impegni presi, era ritornato a una politica
antiprincipesca e aveva deviato dalla linea del padre anche nella persecuzione dell'eresia,
F. si vide costretto a ricorrere all'aiuto spirituale del papa, il quale nel luglio 1234 inflisse a
Enrico la scomunica. Il tentativo di quest'ultimo di formare un fronte di opposizione a F. in
Germania e di convincere le città lombarde a bloccare i passi alpini condusse alla crisi
definitiva. Nel maggio 1235 F. si recò personalmente in Germania, senza esercito ma con
la massima dimostrazione di pompa imperiale, e nel luglio dello stesso anno, a Worms,
costrinse Enrico a rinunciare alla corona e ai suoi possedimenti. Enrico fu incarcerato e
tenuto prigioniero per sette anni in alcuni castelli della Calabria, e nel febbraio 1242,
durante il trasferimento da un castello all'altro, avrebbe trovato la morte, forse per sua
stessa volontà.
Nel luglio 1235 F. si era intanto sposato per la terza volta. La nuova imperatrice Isabella,
sorella di re Enrico III d'Inghilterra, sarebbe morta nel 1241 dopo avergli dato un figlio,
Enrico (o Carlo Ottone), e una figlia, Margherita. Il matrimonio fu anche la premessa di una
riappacificazione con la casa dei Guelfi. Nell'agosto 1235 F. investì infatti il nipote di
Ottone IV, Ottone di Brunswick, del titolo del nuovo ducato di Brunswick-Luneburgo e lo
elevò al rango di principe dell'Impero. Sempre in agosto, nella dieta di Magonza fu
conclusa un'importante tregua, che l'imperatore fece pubblicare in tedesco e in latino. La
tregua regolamentò il diritto penale e l'applicazione delle pene. Stabilì per
l'amministrazione della giustizia un giudice della Curia imperiale (iusticiarius curiae), il
quale aveva solo il nome e non le funzioni dei giustizieri della Magna Curia; peraltro i diritti
di sovranità (come il diritto di battere moneta, di imporre dogane, di conductus e di
giurisdizione) ceduti ai principi furono di nuovo fatti derivare dalla Corona e ciò creò di fatto
la possibilità di controllare il loro esercizio da parte dei principi nell'interesse dell'Impero.
Nel complesso comunque la tregua non controbilanciò del tutto le concessioni della
Confoederatio e dello Statutum, ma garantì al sovrano nuovi spazi di manovra per una
politica autonoma.
Quando i principi tedeschi decisero per la primavera del 1236 una spedizione contro le
città lombarde che consideravano ribelli, Gregorio IX si sforzò con tutti i mezzi diplomatici
di evitare la spedizione imperiale. F., che nel maggio 1236 assistette all'elevazione delle
ossa di s. Elisabetta di Turingia a Marburgo e consacrò alla sua santa parente una corona,
durante il viaggio verso l'Italia settentrionale dovette dividere le sue truppe per reprimere la
rivolta del duca Federico d'Austria. Impiegò il suo soggiorno a Vienna nel febbraio 1237
per ottenere dai principi l'elezione del figlio Corrado di nove anni a re dei Romani e futuro
imperatore: con questo risultato la questione della successione nell'Impero, rimasta aperta
dal 1235 con la deposizione di Enrico, veniva di nuovo risolta.
Dopo il fallimento delle trattative tra rappresentanti delle città lombarde, del papa e
dell'imperatore, F. penetrò con un nuovo esercito da Verona in Lombardia tentando una
soluzione di forza. Nel novembre 1237 presso Cortenuova, a sud di Bergamo, sconfisse
l'esercito milanese già sulla via della ritirata. Nel fervore della vittoria F. fece esporre il
carroccio dei milanesi sul Campidoglio a Roma, respinse le offerte di pace di Milano e,
sopravvalutando la sua posizione strategica, puntò verso la completa sottomissione dei
comuni lombardi. Nel 1238 però un nuovo esercito, composto da mercenari e cavalieri
provenienti da diverse parti d'Europa, non riuscì ad espugnare Brescia.
Di fronte a questa situazione anche Gregorio IX intervenne nel conflitto, inviando in
Lombardia un legato esperto di guerra nel tentativo di scongiurare una supremazia militare
di F. e negoziando nel 1238 un'alleanza tra Genova e Venezia, alla quale aderì egli stesso
l'anno dopo, con l'obiettivo di preparare un'invasione del Regno. Il 20 marzo 1239 il
pontefice formalizzò la rottura con l'imperatore. Come motivo della scomunica furono
invocati gli attacchi alla Chiesa siciliana che avevano causato rimostranze ogni volta più
gravi da parte della Chiesa a partire dal 1236. Questo pretesto consentì di non
menzionare nell'atto di scomunica il vero motivo politico del conflitto che aveva portato il
pontefice e l'imperatore su posizioni inconciliabili.
La scomunica ebbe come effetto di alimentare una folta e duratura pubblicistica polemica
nella quale i migliori pamphlettisti del tempo diedero sfogo a invettive e calunnie, ma
anche a paure escatologiche o alla ferma convinzione della propria salvezza: lo scontro di
ideali si trasformò in un certo senso in una competizione letteraria tra maestri di ars
dictaminis che si combatterono a suon di figure retoriche. Gli avversari di F., richiamandosi
alle profezie di Gioacchino da Fiore, presentarono l'imperatore come il predecessore
dell'Anticristo (v.), contro il quale era lecito ogni parallelo di tono apocalittico e ogni
invettiva. I sostenitori dell'imperatore, sfruttando il repertorio di concetti e di immagini
legate all'Impero, al Regno di Davide ma anche a concezioni monarchiche orientali,
attribuirono alla persona di F. una missione provvidenziale, che dopo il 1245 si concretizzò
nell'obiettivo di contrapporre al Papato corrotto dei tempi presenti il cristianesimo primitivo.
La consapevolezza da parte di F. che per superare il conflitto con il papa e i comuni
lombardi sarebbe dovuto ricorrere alle risorse militari e finanziarie del Regno, fece sì che
egli proseguisse nell'opera di riforma dell'amministrazione, in maniera tale da garantirsi un
dominio effettivo sullo stato anche in caso di una lunga assenza. Così nel 1239 a due
capitani generali furono conferiti ampi poteri militari, politici e giuridici, pari a quelli di un
viceré, per le due parti del Regno. La pressione fiscale fu aumentata ancora una volta,
anche perché a causa della durata limitata del servizio militare feudale un numero sempre
maggiore di mercenari dovette essere reclutato nell'esercito imperiale.
Contemporaneamente F. espulse dal Regno gli antichi oppositori e rese più severe le
prove di lealtà da parte dei vescovi e dei funzionari nonché di tutti i sudditi.
Nelle regioni italiane dell'Impero, dopo la vittoria sui comuni, F. cambiò la politica adottata
fino ad allora di ricorrere a legati prevalentemente di origine tedesca, politica rivelatasi
poco efficace per riaffermare la presenza dell'Impero. Con l'istituzione di circa dieci
vicariati generali egli creò un nuovo sistema amministrativo imperniato su unità territoriali e
dotò i vicari generali di pieni poteri, senza il condizionamento di autorità superiori. Come
legato generale per le regioni italiane dell'Impero il figlio di F., Enzo, coordinò la politica e
le iniziative militari dei vicari generali. A questa importante carica furono destinati conti o
esponenti della nobiltà di servizio del Regno, figli e generi di F., e anche nobili ghibellini
dell'Italia settentrionale.
Per ristabilire il collegamento territoriale tra il Regno e le regioni dell'Italia settentrionale
così riorganizzate, F., dopo un formale preavviso nel 1240, penetrò nella Marca di Ancona
e nel ducato di Spoleto e quindi nei territori settentrionali del Patrimonium Sancti Petri.
Nello Stato della Chiesa egli si presentò come un liberatore e il suo ingresso nel paese fu
celebrato dalla propaganda imperiale con paragoni cristologici. Capitani generali
provenienti dal Regno con un seguito di funzionari siciliani sostituirono i rettori pontifici.
Il tribunale della Magna Curia assunse nel 1240 la giurisdizione per le regioni italiane
dell'Impero e di conseguenza nei suoi ranghi furono accolti giudici lombardi e toscani. Il
fatto però che la cancelleria, la camera e i principali consiglieri di F. cominciassero a
formare nella corte itinerante un autonomo organismo di governo, che aveva autorità su
tutte le parti dell'Impero, non consentì una reale omologazione delle strutture politiche e
amministrative tra le regioni italiane dell'Impero e il Regno: le due realtà politiche ed
economiche erano troppo differenti perché fosse pensabile di realizzare un'unificazione
che andasse oltre il semplice scambio di personale amministrativo.
La minaccia dell'attacco contro Roma fu scongiurata da Gregorio IX nel febbraio 1240
mediante una processione durante la quale la presenza dello stesso pontefice trasmise
nuovo slancio a resistere nei suoi seguaci. Quando però Gregorio IX nella Pasqua 1241
indisse un concilio generale a Roma, la flotta unificata dei siciliani e dei pisani bloccò le
navi genovesi che trasportavano i partecipanti al concilio nelle acque dell'arcipelago
toscano, presso l'isola del Giglio. La cattura dei prelati impedì il concilio ma non fu quel
giudizio di Dio preteso da F., dato che il sopruso attuato diede nuovo vigore alla
propaganda pontificia contro di lui. In questa situazione si arrivò alla morte di Gregorio IX il
22 agosto 1241.
F. rientrò in Puglia nell'attesa dell'elezione del nuovo pontefice. Dopo il primo concistoro
conclusosi con l'elezione di Celestino IV, morto dopo soli diciassette giorni di pontificato, i
cardinali fuggirono ad Anagni e la sede rimase vacante fino al giugno 1243, quando fu
finalmente eletto Innocenzo IV. Le speranze che F. riponeva nel nuovo pontefice furono
subito frustrate. Il cardinale Ranieri di Viterbo, che era diventato un accanito avversario di
F. e aveva adoperato toni di feroce invettiva nei suoi libelli antimperiali, cercò di bloccare
le prime trattative di pace con una sollevazione provocata deliberatamente a Viterbo nel
settembre 1243. I colloqui che comunque proseguirono portarono a un accordo provvisorio
sulla restituzione dei territori dello Stato della Chiesa occupati da F., nonché sulle
riparazioni da pagare a prelati, chiese e monasteri. Per la questione lombarda non si trovò
invece alcuna soluzione, dato che la pretesa del papa di fungere da arbitro era
inaccettabile per Federico.
Ma si trattava di una riconciliazione solo apparente. Quando F., per superare gli ultimi
contrasti, propose al papa un incontro a Narni, Innocenzo IV finse di aderire alla proposta,
mentre in segreto preparò la fuga con l'aiuto della flotta genovese. Nel giugno 1244 si
imbarcò a Civitavecchia per Genova e da qui alla fine dell'anno proseguì per Lione, dove
indisse un concilio generale per il giugno 1245. Una svolta sembrò profilarsi quando i
corasmi (v.) nel 1244 conquistarono Gerusalemme e F. si dichiarò disposto ad andare per
tre anni in Terrasanta. La revoca della scomunica nel maggio 1245 rimase tuttavia un
episodio isolato e temporaneo e rimangono tutt'oggi oscure le cause del fallimento di
quest'ultimo riavvicinamento.
F. si fece rappresentare al concilio dal suo più ferrato giurista e diplomatico, Taddeo da
Sessa, il quale, tuttavia non riuscì a evitare che Innocenzo IV nell'ultima sessione
dichiarasse F. colpevole di spergiuro, rottura della pace, bestemmia ed eresia e che lo
deponesse di fronte all'assemblea dal titolo di imperatore e re di Germania; una decisione
circa il Regno di Sicilia fu riservata al papa e al collegio dei cardinali, ma ebbe comunque
un esito sfavorevole a Federico. Questi si appellò contro la sentenza con grossi proclami
alla solidarietà dei principi europei, ma non ottenne la reazione sperata, perché Innocenzo
IV riuscì ad attrarre dalla sua parte l'incerto re di Francia Luigi IX, spianando la strada già
subito dopo il concilio al matrimonio del fratello di questo, Carlo d'Angiò, con Beatrice di
Provenza.
La deposizione di Lione costrinse sempre di più F. sulla difensiva, anche se egli fu sempre
fiducioso di poter volgere a suo favore la situazione con un intervento personale. In
Germania l'opposizione incoraggiata dal papa elesse l'uno dopo l'altro due antiré con
l'obiettivo di spodestare il giovane figlio di F., Corrado, reggente per conto del padre.
Costoro, anche con l'appoggio di legati pontifici, compromisero in realtà assai
modestamente l'autorità di Corrado, anche perché questi acquistò nuovo sostegno
mediante il matrimonio con Elisabetta di Baviera e pure la restituzione del ducato d'Austria
all'Impero, ordinata da F., ebbe un effetto favorevole. Nelle regioni italiane i conflitti ormai
radicati tra le fazioni filoimperiali e filopontificie nei comuni si mantennero a lungo in una
situazione di stallo, anche perché la scomunica e l'interdetto persero la loro efficacia come
armi spirituali a causa dell'abuso che ne era stato fatto a fini politici.
Nel Regno di Sicilia i partigiani di Innocenzo IV riuscirono però a reclutare tra i vertici
dell'amministrazione e della nobiltà gli adepti a una congiura che aveva come obiettivo
eliminare F. e insediare un nuovo sovrano. Dopo la scoperta dei congiurati il piano sfociò
in un tentativo di rivolta a Capaccio (v.), nel sud della Campania, che F. represse con
durezza spietata. Una parte non piccola della nobiltà di servizio, tra cui anche i due
capitani generali, aveva partecipato alla rivolta, pagando con la vita propria e dei propri
familiari. Questo scacco, che aveva colpito a morte il modello di una nobiltà cavalleresca e
di servizio, non modificò tuttavia l'atteggiamento del sovrano, che continuò a considerare il
Regno la base della sua strategia politica e militare. Con Novellae alle Costituzioni
promulgate a Grosseto e a Barletta nel 1246 intraprese, infatti, una nuova sistematica
riforma dell'amministrazione delle province; l'istituzione delle capitanie generali,
screditatesi per il tradimento dei detentori nel 1246, significativamente non appare più
menzionata negli ultimi anni del regno.
Nel 1247 F. decise di guidare da Cremona un esercito con l'intenzione di recarsi a Lione
per difendersi di persona contro le accuse mossegli e far valere così le sue ragioni. Da
Lione intendeva passare poi in Germania. Quando lo raggiunse a Torino la notizia della
defezione di Parma la spedizione però venne interrotta. La città fu cinta d'assedio, ma nel
febbraio 1248 i parmensi effettuarono una sortita nell'accampamento imperiale, chiamato
auguralmente Vittoria (v.), durante la quale le truppe degli assedianti furono sbaragliate e il
tesoro imperiale comprendente la corona e il sigillo cadde nelle mani degli assalitori. Tra i
caduti fu anche Taddeo da Sessa. Un ulteriore colpo di non minore impatto simbolico
toccò a F. nel febbraio 1249 con l'inspiegabile e oscuro tradimento di Pier della Vigna, il
cancelliere che per venticinque anni era stato il rappresentante e portavoce della politica
federiciana e aveva prestato alle lettere, ai proclami e ai discorsi imperiali le elegantiae
della sua arte oratoria. Inoltre, quando nel maggio 1249 rientrò nel Regno dopo una lunga
assenza, F. ricevette la notizia che il figlio Enzo, legato generale in Italia settentrionale, era
caduto prigioniero dei bolognesi presso Fossalta.
Solo nel 1250 si arrivò a una congiuntura favorevole agli imperiali, allorquando il vicario
generale delle Marche sconfisse il legato pontificio e i successi conseguiti dai vicari
generali in Lombardia e in Piemonte suscitarono nuove speranze. Stava ancora
progettando una spedizione in Germania attraverso la Borgogna, allorché nel novembre,
mentre si trovava nel suo luogo di soggiorno preferito, Castel Fiorentino (presso S.
Severo, nell'odierna provincia di Foggia), F. fu colpito da una malattia intestinale. Ivi, in
presenza di numerosi dignitari il 7 dicembre dettò il testamento; spirò il 13 dicembre 1250,
dopo avere vestito l'abito grigio dei Cistercensi e avere ricevuto l'assoluzione e l'estrema
unzione dall'arcivescovo di Palermo Berardo di Castagna, che gli era stato accanto dal
1209. La salma fu traslata a Palermo e composta in un sarcofago di porfido nella
cattedrale.
Nel suo testamento F. designò Corrado erede dell'Impero e del Regno; fino al suo arrivo
dalla Germania, Manfredi, figlio naturale avuto da Bianca Lancia, avrebbe dovuto svolgere
le funzioni di reggente in Italia. F. ordinò anche restituzioni alla Chiesa romana, con la
riserva del ripristino dei diritti imperiali, alla Chiesa siciliana e ad alcuni Ordini
cavallereschi. In considerazione dei gravosi oneri fiscali imposti al Regno, stabilì che le
tasse ritornassero al livello del tempo di Guglielmo II.
Con la morte di F. ebbe fine il grande Impero, il progetto che egli aveva concepito sin dal
suo primo viaggio, carico di incertezza, in Germania e che aveva coltivato fino alla fine,
con il favore della sorte, con un'attività indefessa e con non minore energia, nonostante le
sconfitte e le irriducibili opposizioni suscitate. La sua morte rappresentò anche la fine
dell'idea imperiale e di dominio degli Svevi, che con F. e i suoi ispiratori letterari e
intellettuali tra Palermo e Aquisgrana, Roma e Gerusalemme aveva acquisito forza e
concretezza. Dalla tradizione imperiale di Roma e dai culti orientali del sovrano era inoltre
derivato il principio della divinizzazione del principe, che suscitò in pari misura venerazione
e resistenza, e che le generazioni successive riuscirono a riproporre solo parzialmente
come ideologia del potere. Se la concezione imperiale basata su una nuova
sacralizzazione dell'azione del governo e il ritorno a concezioni antiche di una monarchia
universale non sopravvisse a F. come principio politico autonomo, d'altro canto le posizioni
di F., sostenitore di una concezione laica dello stato opposta alla supremazia dei papi
basata sul primato spirituale, erano destinate ad avere il sopravvento: per le generazioni
future F. avrebbe rappresentato un antesignano della concezione di uno stato moderno ed
emancipato dalla Chiesa.
Nell'orizzonte del suo tempo l'azione politica di F. fu condizionata in primo luogo dalla
tradizione e dalle esperienze del Regno di Sicilia e dei suoi antenati normanni. Questo
retaggio gli impedì di comprendere l'organizzazione corporativa dei comuni e la loro
determinazione nel difendere l'indipendenza e gli ideali repubblicani. Fu così inevitabile
che giudizi erronei e pretese esagerate accompagnassero la politica di F. nelle regioni
italiane dell'Impero. Aspirazioni a un'autonomia civica di questo tipo nel Regno di Sicilia
furono represse con durezza e anche in Germania, dopo il 1230, F. strinse un'alleanza
con i principi contro le città. Durante il suo primo soggiorno in Germania d'altro canto F.,
uniformandosi alla condotta dei suoi predecessori, aveva adottato una politica territoriale
in competizione con quella dei principi, motivo per cui dal 1220 era stato costretto a
cedere loro diritti appartenenti alla Corona, che furono la base per il futuro consolidamento
della sovranità territoriale dei principi stessi.
Il progetto politico attribuito a F. di integrare, mediante la creazione dei vicariati, le regioni
italiane dell'Impero con il Regno in un'unica grossa compagine politica che unificasse la
penisola italiana portò a un sistematico sfruttamento delle risorse del Regno al di là delle
sue possibilità, dato che esso non era in grado di fornire a lunga scadenza il personale per
il nuovo ordinamento, cooptato dai ranghi della nobiltà di servizio e del resto della
burocrazia, né poteva sopportare gli oneri di una guerra continua e dispendiosa contro i
comuni lombardi, inevitabile per i progetti palesatisi con l'istituzione dei vicariati e con la
soppressione delle frontiere.
Per quel che riguarda l'organizzazione interna della monarchia europea, con le riforme
attuate tra il 1220 e il 1246, F. realizzò, almeno nel Regno di Sicilia, un notevole progresso
sugli altri stati nel governo delle province e nella specializzazione dei funzionari impiegati
in esse, nell'introduzione di una tassa generale, nella legislazione e nella concentrazione
della giurisdizione e dell'interpretazione delle leggi nel tribunale della Magna Curia. Anche
la formazione dei giudici e dei funzionari in una università 'di stato' e il controllo
istituzionalizzato sulla loro attività mediante la corte dei conti erano passi verso il futuro
che in altri contesti politici potevano trovare appena tiepide premesse. Allo stesso tempo
però si manifestarono nel Regno contraddizioni e resistenze. L'arbitrio del sovrano nelle
punizioni sfociò non di rado in un contrasto con il diritto proclamato nelle Costituzioni; i
sudditi subirono peraltro gli svantaggi della pressione fiscale e dell'assorbimento delle
risorse economiche da parte della Corona, del controllo sulla vita civile, sull'espressione
spirituale e religiosa, della vigilanza e del sistema della delazione organizzata e delle
punizioni collettive; a ciò si aggiunse il controllo politico, crescente con il trascorrere degli
anni e attuato senza né un giudizio critico sulle informazioni ricevute né il ricorso a
periodiche amnistie per alleggerire le tensioni.
All'arte, alla letteratura e alla scienza F. si dedicò con un'intensità e un'apertura mentale
che generarono insieme stupore e fascino, anche se la coesistenza, non insolita in
quell'età, di proposizioni razionali e di teorie occulte diede luogo già durante la vita di F. a
malintesi e anche a deliberati travisamenti.
F. possedeva il dono di scoprire talenti, di conquistare con i suoi quesiti l'interesse di
filosofi, matematici e scienziati e di trasformare la sua sempre intatta sete di sapere,
insieme con la sua erudizione che non cessava di stupire, in forza d'attrazione
intellettuale. Michele Scoto, reclutato con l'incarico di astrologo di corte, o il traduttore
Teodoro di Antiochia furono ospitati alla corte imperiale per parecchi anni e non si
limitarono a dedicare al loro mecenate scritti o traduzioni: dialogando con loro F. dischiuse
alle sue conoscenze nuovi territori. Opere fino a quel momento sconosciute di Aristotele,
di Averroè, di Avicenna, attraverso le traduzioni dall'arabo o dal greco promosse da F. ed
eseguite da Michele Scoto, da Teodoro e da altri, trovarono di nuovo cittadinanza nel
dibattito filosofico del mondo occidentale. F. rivolse i suoi quesiti a dotti arabi, ebrei e greci
ma anche al matematico pisano Leonardo Fibonacci, dal quale egli si recò di persona nel
1226.
Con il trattato De arte venandi cum avibus F. ci ha lasciato una testimonianza di se stesso
anche come studioso di scienze naturali. L'opera riprendeva modelli e spunti dalla
letteratura precedente sulla caccia, ma l'assunto metodologico di "manifestare […] ea
quae sunt, sicut sunt" e la critica alle autorità tradizionali portarono in F. a un salto di
qualità, grazie al quale il suo trattato sulla caccia si trasformò in uno studio ornitologico di
ispirazione scientifica, corredato di illustrazioni che testimoniano un'impostazione
fortemente realistica, anche se nelle descrizioni degli uccelli F. si attiene a metodologie e a
un atteggiamento concettuale che altri scienziati avevano già superato, e pertanto nello
studio dei movimenti e delle posture dei corpi dei volatili rimane attardato rispetto a essi.
Ma pure con questi limiti il trattato appartiene ai grandi prodotti scientifici del sec. XIII.
Con notai della cancelleria, giustizieri e altri membri della nobiltà di servizio, nonché con
alcuni suoi figli, F. partecipò personalmente alla famosa Scuola poetica siciliana. Lo scopo
principale di questo cenacolo era di poetare in volgare italiano secondo lo stile della lirica
trobadorica. Anche se le poesie amorose composte da F. hanno un tono formale e
mancano di vitalità, il suo esempio incoraggiò letterati più dotati a sperimentare nelle loro
canzoni e sonetti le potenzialità del volgare siciliano come lingua poetica, dando vita così
al primo esempio di produzione letteraria in un volgare italico.
La cancelleria siciliana si ispirò ai modelli della scuola stilistica di Capua e recepì gli stimoli
della Curia di Roma e dei suoi notai. A partire dal rientro di F. nel Regno dalla Germania,
accanto alle sue funzioni tradizionali, acquistò un nuovo carattere, divenendo un'alta
scuola di stile latino. Con Pier della Vigna e i suoi discepoli gareggiò con la cancelleria
pontificia e F. stimolò questa competizione, dato che fece di Piero uno dei suoi più stretti
collaboratori e lo nominò suo portavoce. Nelle costruzioni sintattiche, nelle figure ritmiche
e retoriche della nuova scuola di dettatori la lingua latina acquistò un'inedita capacità
espressiva e una duttilità stilistica che assicurò ai proclami e alle lettere politiche
dell'imperatore l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri.
F. si era avvicinato all'arte antica anche prima di celebrare Roma come caput Imperii e di
accentuare il carattere romano del suo Impero in sempre nuove espressioni. Sin dai primi
tempi raccolse sculture e cimeli antichi. Scultori eseguirono per lui copie di opere del
passato, incisori cammei la cui iconografia riprendeva modelli dell'antichità classica. La
Porta del ponte a Capua (v. Capua, Porta di), il cui progetto fu approvato personalmente
da F., arricchita di sculture di ispirazione classica e di elementi antichi inseriti nella
struttura, testimoniava all'ingresso del Regno di Sicilia i valori cui si ispirava la sua
monarchia, mentre il nuovo Castel del Monte, con la sua pianta ottagonale, applicò in
maniera originale idee di F. in campo architettonico. Anche gli augustali (v.), la moneta
aurea messa in circolazione da F. nel 1231, destinata come moneta di pregio alle
esigenze economiche del mercato mediterraneo, al contempo serviva a rappresentare F.
come Cesare coronato d'alloro secondo l'iconografia classica, come egli voleva apparire.
F. fu considerato già nella sua epoca uno scettico, la cui tolleranza derivava dalla
concezione relativistica che egli aveva della religione e degli articoli della fede. Non fu
comunque un illuminista ante litteram. I suoi precoci rapporti con i Cistercensi, il cui
capitolo generale nel 1215 lo accolse nella comunità di preghiera dell'Ordine, i suoi
legami, sia pur temporanei, con un circolo di Francescani, la sua venerazione per s.
Elisabetta di Turingia, ma anche altri tratti del suo carattere, testimoniano che F. durante la
sua vita si considerò un cristiano conforme ai precetti della Chiesa. Anche se nella sua
concezione dell'Impero erano presenti elementi pagani e orientali, egli era convinto che i
suoi poteri di sovrano provenissero dal Dio dei cristiani. Nel conflitto con i pontefici in
nessun momento mise in discussione l'istituzione stessa del Papato, anche se ne contestò
il primato rispetto all'Impero e rivendicò per quest'ultimo la stessa plenitudo potestatis che i
papi a partire da Innocenzo III avevano preteso come loro attributo.
Dato che leggi e proclami, lettere e opere letterarie, prediche e profezie, ma anche i
pamphlets dei suoi avversari, riconobbero a F. qualità sovrannaturali, come l'ubiquità e
addirittura l'immortalità, in un mondo che accolse la perdita dell'immutator mundi e dello
stupor mundi ora con lutto ora con soddisfazione, sorse il dubbio sulla sua effettiva
scomparsa. Falsi Federico pretesero dapprima in Sicilia e poi in Germania nuova
ubbidienza e il loro seguito all'inizio non fu modesto. In Sicilia si sparse la voce che F. si
fosse gettato nell'Etna, in Germania invece che si fosse ritirato a dormire in una montagna
(che fu poi identificata con il Kyffhäuser in Turingia) e che si sarebbe ridestato alla fine dei
tempi per ridare al mondo il suo ordine. L'imperatore addormentato nella montagna perse
la sua identificazione con F. per la prima volta nel 1519: dal sec. XVI nel mondo delle
saghe tedesche l'imperatore addormentato nel Kyffhäuser in attesa del risveglio fu
identificato non più con F. ma con suo nonno Federico I Barbarossa.
Il giudizio su F. fu controverso in tutti i tempi, anche quando si elevò al di sopra delle lotte
tra le fazioni, nelle quali all'inizio era stato inquadrato. L'opinione di Jacob Burckhardt, che
vide in F. il primo uomo moderno salito sul trono, fu seguita da molti biografi dell'Ottocento
e anche del Novecento. Ernst Kantorowicz nella sua biografia valutò approfonditamente le
fonti in ogni loro aspetto ma innalzò F. al di sopra del suo orizzonte storico, in una
dimensione talora mitica, rintracciando in lui il punto focale e il catalizzatore di diversi
elementi tradizionali e di linee di sviluppo ideologico destinate a un ampio futuro,
trascurando la situazione generale politica e sociale del tempo. A differenza
dell'interpretazione congeniale e letteraria di Kantorowicz, la ricerca recente si è sforzata
di analizzare con maggiore attenzione le condizioni sociali e storiche della legislazione e
delle riforme statali, della politica della crociata e dei conflitti con la Chiesa, dello scontro
politico-teorico con i pontefici, nonché di esaminare più obiettivamente il naturalista e il
mecenate nei suoi debiti e nei suoi limiti. Con l'accento posto sulla descrizione della realtà
sociale, spirituale, religiosa, sulle tradizioni e le strutture politiche che influenzarono F. e
anche sulle contraddizioni del personaggio, questa ricerca corre tuttavia il pericolo di
perdere di vista il fascino e i timori di contemporanei e posteri, ai quali le imprese fuori del
comune e la statura eccezionale di F. suggerirono i giudizi che determinarono la lunga
sopravvivenza nel mito dell'imperatore svevo.
Discendenti diretti di F. furono dal primo matrimonio con Costanza d'Aragona (m. 1222):
Enrico (1211-1242), incoronato re di Sicilia nel 1212, poi re dei Romani fino al 1235; dal
secondo matrimonio con Iolanda di Brienne (m. 1228): Corrado IV (1228-1254), re di
Gerusalemme, dal 1237 re dei Romani, nel 1250 re di Sicilia; dal terzo matrimonio con
Isabella d'Inghilterra (m. 1241): Margherita (m. 1270) ed Enrico (o Carlo Ottone, m. 1253 o
1254). Dalla relazione con Bianca Lancia nacque Manfredi (m. 1266), principe di Taranto,
reggente del Regno, dal 1258 al 1266 re di Sicilia. Da altre relazioni nacquero Enzo, re di
Sardegna (m. 1272), Federico d'Antiochia (m. 1256), Riccardo di Chieti (m. 1249),
Selvaggia, moglie di Ezzelino da Romano, Violante (m. 1266 o 1267), moglie del conte
Riccardo di Caserta, Margherita (m. 1297 o 1298), moglie del conte Tommaso II d'Aquino
di Acerra. Altri discendenti sono segnalati in E. Maschke, Das Geschlecht der Staufer,
München 1943 (ma v. anche Federico II, figli).
FONTI E BIBL.: Opere: Friderici Romanorum imperatoris secundi De arte venandi cum
avibus, a cura di C.A. Willemsen, I-II, Leipzig 1942; 'Fridericus II, De arte venandi cum
avibus', Ms. Pal. lat. 1071, Biblioteca apostolica Vaticana, facsimile con commento, I-II, a
cura di C.A. Willemsen, Graz 1969. Canzoni: W.H. Thornton, The Poems Ascribed to
Frederick II and 'Rex Fridericus', "Speculum", 1, 1926, pp. 87-100; B. Panvini, La scuola
poetica siciliana, "Biblioteca dell'Archivum Romanicum", 43, 1955, pp. 139 ss.; Id., Le rime
della scuola siciliana, I-II, Firenze 1962-1964, ad indicem. Per le fonti e la letteratura critica
si rinvia alla bibliografia in T.C. van Cleve, The Emperor Frederick II of Hohenstaufen.
Immutator Mundi, Oxford 1972, pp. 541-598 (registra i titoli fino al 1970 circa), e a C.A.
Willemsen, Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. und der letzten Staufer,
Hannover 1986 (alle pp. 19 ss., nn. 52-212, c'è un elenco quasi completo delle fonti
narrative). Le lettere, i diplomi e le leggi emanate da F. sono pubblicate o registrate in
Epistolarum Petri de Vineis cancellarii quondam Friderici II imperatoris libri VI, a cura di S.
Schard, Basileae 1566 (rist. 1991); Constitutiones regum Regni utriusque Siciliae
mandante Friderico II imperatore, a cura di G. Carcani, Neapoli 1786; Historia diplomatica
Friderici secundi; Acta Imperii inedita; Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des
Kaiserreiches […], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901;
4, Nachträge und Ergänzungen, a cura di P. Zinsmaier, Köln-Wien 1983; M.G.H.,
Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, a cura di C. Rodenberg,
I-III, 1883-1894; ibid., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum
et regum, II, 1198-1272, a cura di L. Weiland, 1896; Die Konstitutionen Friedrichs II. von
Hohenstaufen für sein Königreich Sizilien, a cura di H. Conrad-T. von der Lieck-Buyken-W.
Wagner, Köln 1973. Tra i numerosissimi studi su F. si segnalano i seguenti titoli: E.
Winkelmann, Philipp von Schwaben und Otto IV. von Braunschweig, I-II, ivi 1873-1878
(rist. 1963); Id., Kaiser Friedrich II., I-II, Leipzig 1889-1897 (rist. 1963); C.H. Haskins,
Studies in the History of Medieval Science, Cambridge, Mass. 1924 (rist. 1960), pp. 242326; E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlin 1927 (trad. it. Federico II,
imperatore, Milano 1988); P. Collenuccio, Compendio de le istorie del Regno di Napoli, a
cura di A. Saviotti, Bari 1929 (contiene brani della biografia contemporanea di Mainardino
da Imola, oggi perduta); W.E. Heupel, Der sizilische Grosshof unter Kaiser Friedrich II.,
Berlin 1940; E. Klingelhöfer, Die Reichsgesetze von 1220, 1231-32 und 1235, Weimar
1955; H.M. Schaller, Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. Ihr Personal und ihr Sprachstil,
"Archiv für Diplomatik", 3, 1957, pp. 207 ss.; 4, 1958, pp. 264 ss.; A. Marongiu, Uno 'Stato
modello' nel Medioevo italiano. Il Regno normanno-svevo di Sicilia, "Critica Storica", 2,
1963, pp. 379-394; P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del
Regno di Sicilia al tempo di Federico II, Milano 1964; E. Mazzarese Fardella, Aspetti
dell'organizzazione amministrativa nello Stato normanno e svevo, ivi 1966; B. Gloger,
Kaiser, Gott und Teufel. Friedrich II. von Hohenstaufen in Geschichte und Sage, Berlin
1970; T.C. van Cleve, The Emperor Frederick II.; N. Kamp, Kirche und Monarchie im
staufischen Königreich Sizilien, I, 1-4, München 1973-1982; Probleme um Friedrich II., a
cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974; H. Dilcher, Die sizilische Gesetzgebung Kaiser
Friedrichs II.: Quellen der Constitutionen und ihrer Novellen, ivi 1975; Federico II e l'arte
del Duecento, a cura di A.M. Romanini, I-II, Roma 1980; Stupor Mundi, a cura di G. Wolf,
Darmstadt 1982; W. Stürner, Rerum necessitas und divina provisio. Zur Interpretation des
Proemiums der Konstitutionen von Melfi (1231), "Deutsches Archiv", 39, 1983, pp. 467554; M.J. Wellas, Griechisches aus dem Umkreis Kaiser Friedrichs II., München 1983;
Potere, società e popolo nell'età sveva. Atti delle seste giornate normanno-sveve, Bari
1985; R. Neumann, Parteibildungen im Königreich Sizilien während der Unmündigkeit
Friedrichs II. (1198-1208), Frankfurt a.M. 1986; Politica e cultura nell'Italia di Federico II, a
cura di S. Gensini, Pisa 1986; D. Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London
1988; W. Stürner, Friedrich II., I, Die Königsherrschaft in Sizilien und Deutschland,
Darmstadt 1992; G. Baaken, Ius Imperii ad Regnum, Köln-Wien-Weimar 1993; H.M.
Schaller, Stauferzeit: ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993; Federico II e il mondo
mediterraneo, Federico II e le scienze, Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert-A.
Paravicini Bagliani, Palermo 1994; Intellectual Life at the Court of Frederick II
Hohenstaufen, a cura di W. Tronzo, Washington 1994; W. Stürner, Friedrich II., II, Der
Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000.
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