"Sulla relazione" Servitium 2/2003

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Il luogo dell’estetico
A proposito del Convegno Il corpo del Logos. Pensiero
estetico e teologia cristiana
I
l convegno che si è svolto lo scorso anno presso la sede della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, a Milano (17-18 febbraio 2009), su Il corpo
del Logos. Pensiero estetico e teologia cristiana, del quale sono ora disponibili
gli atti nel quarto volume della collana “Aesthetica” (cfr. P. SEQUERI (ed.), Il
corpo del Logos. Pensiero estetico e teologia cristiana, Glossa, Milano 2009,
pp. 197, € 28,00), ha sanzionato positivamente non soltanto il lavoro svolto
proficuamente oramai da più di dieci anni nella collaborazione tra l’Accademia
di Belle Arti di Brera e la stessa Facoltà Teologica, ma anche l’assunzione teorica del nodo estetica/teologia, ravvisandovi un possibile incremento non solo
per la fecondità dell’interconnessione tra diverse istanze istituzionali e culturali, ma per lo stesso pensiero teologico. Esso va dunque salutato come un
evento che ha consentito di riconoscere e nello stesso tempo di promuovere la
questione allusa dal nesso estetica e teologia, la cui formulazione originaria
deve essere riconosciuta all’intuizione e al lavoro di P. Sequeri, che – di fatto,
avviando se non inventando la problematica stessa –, l’ha imposta
all’attenzione in Italia e oltre, non soltanto ad un destinatario più vasto, ma
alla stessa comunità teologica.
1. Si tratta, se si considera il progetto nel suo aspetto più generale e nella
sua formulazione iniziale, della giustificazione teologica della qualità spirituale
dell’esperienza sensibile, che, nell’intenzione, ha prodotto insieme una proposta disciplinare e un inventario dei luoghi dove emerge la necessità teologica
del rapporto.
Questo deve essere ritrovato non soltanto sul piano più propriamente teologico di una fenomenologia della rivelazione e della fede, ma anche su un
piano più specificamente ecclesiologico, che non si interroghi solamente su
quale manifestazione artistica sia la più adatta ad esprimere un contenuto in
ipotesi già noto a monte, ma sull’intelligenza della qualità cristiana
dell’esperienza e della forma di chiesa. Esso riguarda inoltre il rapporto alla
società civile, qualora questa torni a frequentare i luoghi dell’estetica, delle relazioni e delle composizioni dei tempi e degli spazi, in un modo non pregiudizialmente disgregante, come appare invece quello tipico della post-modernità
che teorizza l’anacronismo e il carattere ex-temporaneo come costitutivi della
contemporaneità, ma ne assuma piuttosto i tratti come pertinenti a disegnare
lo spazio proprio della coscienza cristiana e della sua specifica differenza (VIIXII).
È questa l’ipotesi che costituisce lo sfondo condiviso per le diverse riflessioni proposte dal convegno e ora dal volume. Le ultime tre relazioni e i testi
corrispondenti producono affondi differenti che riguardano soprattutto il secondo aspetto evidenziato, quello cioè dell’incidenza di un’estetica teologica
sulla forma ecclesiae e sulla società civile (P. BARCELLONA, “Ostensione del corpo” e scomparsa del sacro, 101-124; S. DIANICH, Immagine di Chiesa: la percezione della forma ecclesiae nello spazio della città postmoderna, 125-178;
J-A. PIQUE I COLLADO, L’attimo fuggente/sfuggente: l’universo sacramentale
della musica dalla forma estetica all’evento empatico, 179-195). Compete invece ai primi due contributi (P. SEQUERI, Il corpo del Logos. Prospettive teologiche dell’estetico, 7-28 e M. CACCIARI, L’azzardo dell’estetica fra idealismo e
nichilismo, 29-43) il compito di mostrare quale direzione imprimono alla questione il pensiero filosofico e la riflessione teologica, dato che non ci si occupa
solo delle manifestazioni dell’estetico, ma anche della sua verità, del fatto cioè
che quella estetica non è soltanto una dimensione facoltativa della verità, ma
è costitutiva di essa, ossia della qualità antropologica e teologica dell’atto
dell’uomo e di Dio. Tra la dimensione affettiva/sensibile della coscienza e la
qualità fenomenologia della rivelazione, l’estetico è il luogo del nesso.
Ci limitiamo qui soprattutto a queste due prime relazioni, che forniscono il
quadro teorico che permette di inquadrare e di apprezzare anche gli altri interventi.
La tesi portante della relazione di P. Sequeri è quella del ricupero
dell’etico che l’approccio estetico è in grado di promuovere. Rispetto alla contrapposizione tra un logos astratto e un cosmo senza affetti, accomunati entrambi da una razionalità assoluta e dalla rimozione della sensibilità, il ricupero di una drammatica dell’affettività, evocata già da Nietzsche e da Kierkegaard al termine del percorso della modernità e del dibattito interno che essa
fa registrare, consentirebbe di ritrovare il punto di incontro tra la dimensione
costitutiva della trascendenza dell’uomo – l’antropologia – e la singolarità della rivelazione cristiana – la teologia –. Non si tratta solo di integrare il logos
con il pathos, il primato o l’esclusività della ragione con l’istanza irrazionale
della passione o dell’emozione, bensì di ritrovare il loro intreccio originario
nella «integrazione del logos e dell’ethos» (12). Per pensare questo nesso «le
categorie accumulate dall’estetico sono metafisicamente e fenomenologicamente indispensabili. “Il corpo del Logos” allude al prototipo escatologico della
forma veritatis» (23). Si tratta non della «ingenua allusione alla bellezza immanente al divino», ma prima e più ancora della «sensibilità di Dio per la bellezza della sua creatura» (ivi) e perciò del principio etico «dell’amabilità e
dell’abitabilità della vita» (13). Accanto al «movimento della discesa del Logos» e della «umanizzazione del Figlio», che rimane pur sempre ancora conciliabile con il dispositivo platonico, si afferma «il movimento contrario», quello,
cioè, della «risurrezione» e della «ascensione della carne del Logos presso
Dio» (24). Allo scopo, occorre mostrare il «vantaggio di una metafisica
dell’affezione», la quale, mentre mutua da certa fenomenologia contemporanea il codice, intende cambiarne il segno, poiché lo ascrive, piuttosto che ad
un’evidenza originaria dell’autoaffezione, alla forma stessa del compimento.
Il profilo della relazione di M. Cacciari è quello di una ricostruzione e di
una lettura del tutto pertinente della linea dominante che percorre l’estetica
moderna prima, post-moderna poi. Essa fa registrare la fine o la dissoluzione
dell’istanza stessa del compimento. È messa in luce l’ambivalenza e/o
l’ambiguità che sembra appartenere all’esperienza estetica, la quale si collocherebbe al punto di divisione tra due possibilità contrarie: quella della manifestazione della verità e quella del simulacro che ne rappresenta il sostituto. Il
passaggio dall’idealismo al nichilismo post-moderno, che viene privilegiato
come momento dell’indagine, compreso in modo non oppositivo ma come intervallo tra la verità e la menzogna, costituisce la “cosa” di cui si tratta in tutta la tradizione filosofica e teologica, la quale non è che uno sviluppo di Kant e
del suo schematismo, che procede dai due poli – il bello e il sublime – privilegiando, già idealisticamente, il secondo rispetto al primo, del quale pure produce una analitica. Sotto questo profilo, la dialettica idealistico/nichilistica non
rappresenta la crisi dell’estetica, ma il suo inveramento: la dialettica verità/menzogna è superata o inverata nel carattere di contraddizione
dell’estetica, la quale mantiene una funzione meramente didattica, non veritativa. Il contemporaneo non rappresenta nulla, poiché si tratta di rappresentare il soprasensibile in quanto irrappresentabile; consiste in ciò l’inter-esse essenziale dell’arte contemporanea. In questo modo la questione specifica
dell’estetico rimane quella della possibilità/necessità di comporre due istanze
diverse, istruite separatamente. «E questo non è semplicemente un residuo,
una resistenza; è […] un gran contrattacco teoretico-filosofico alla pretesa, al-
la hybris idealistica della sintesi e della conciliazione» (43). È questa l’eredità
idealistica, che realizza la fine dell’estetico classico e la morte dell’arte, e che
ravvisa nel trapasso al teologico il passaggio all’unico discorso adeguato a ciò
che l’arte non potrà mai rappresentare, cioè alla «unità tra umano e divino»
che «solo il teologo-filosofo, o meglio […] solo il teosofo sa» (39). Di qui il rilievo tragico e impotente dell’atto del soggetto, collocato «al centro di una circonferenza a raggio infinito, di cui parla l’attualismo» (41).
Emerge la convergenza e/o la complicità tra le due prospettive nella comune posizione del problema che solleva un’estetica filosofica e/o teologica
come della necessità della comprensione dei due poli dell’antropologico e del
teologico e nel segnalare così insieme il duplice rischio di un estetico solamente antropologico e o univocamente teologico.
Sotto questo profilo si può notare anche come la provocazione di P. Barcellona possa essere colta precisamente in quanto esprime l’istanza della insuperabilità dell’antropologico nella resistenza e nell’ostensione del corpo a
fronte della scissione dalla questione del sacro; laddove S. Dianich, seppure in
direzione diversa da quella propria della Riforma (126), accentua il rilievo del
teologico, cui assegna il compito critico nei confronti della riestetizzazione della fede. La duplice istanza è pertinente, ma il modo della sua esecuzione è
problematico; rimane cioè inevaso il problema del nesso, poiché la sintesi rischia di essere compresa da entrambi i lati come utopica.
Non si sa leggere la contemporaneità, perché questa è vista solamente in
termini negativi, che cioè, di fatto, destituiscono di portata veritativa il rilievo
dell’antropologia; laddove precisamente una critica dell’arte contemporanea e
del suo sistema esigerebbe la sua contestualizzazione, che permetterebbe di
comprenderla non come un mero citazionismo, successivo alla rinuncia e alla
perdita delle grandi narrazioni, ma come un ricupero del materiale per
un’opera ogni volta unica e indeducibile e in quanto tale costitutivamente religiosa precisamente in quanto contemporanea (A.-B. DEL GUERCIO, Il sistema
contemporaneo dell’arte: nuovi intrecci fra soggettività e tradizione, 67-99).
In un’ottica ancora separante, invece, anche l’appello al cristologico, che
risulterebbe necessario, nella sua triplice dimensione misterica, storica e morale (T. VERDON, Primi piani del figlio di Dio. Codici iconici del volto di Cristo,
45-65), rischia di risultare formale, sulla base di un modello presupposto.
2. L’attitudine dell’estetico a valere quale rimedio alla divaricazione tra il
logos e l’etico, cioè quale ricupero del pratico come costitutivo, non può essere riconosciuta senza problematizzarne il principio.
In quanto rivendica il carattere essenziale della dimensione sensibile della
coscienza, il guadagno proprio del paradigma estetico consiste nell’istituire insieme la struttura della manifestazione e della coscienza. Esso si prefigge di
mediare i due estremi o i due poli della correlazione, dicendo in unum il rilievo
del Dio incarnato e dell’uomo in Dio. In questo modo, quello estetico si pone
come un modello correttivo del tendenziale oggettivismo di una fenomenologia teologica, anche declinata in chiave estetica.
La dialettica deve essere mantenuta, istituendo la distinzione come interna all’unità. Ciò non è possibile se non in una teoria per la quale l’estetico non
ha portata veritativa se non nell’atto della coscienza; è necessaria cioè
un’ontologia fondata antropologicamente. Perciò il riferimento costitutivo deve
essere non all’antropologico presupposto e/o al teologico separato – al senso
spirituale e alla verità incarnata/umanizzata –, ma al cristologico e al rilievo in
esso dell’uomo effettivo. Ma si deve evitare di assimilare o di scambiare i due
registri – il teologico e antropologico – e di introdurre l’estetico come il surrogato del cristologico.
I rischi della divaricazione e della assimilazione possono essere superati
solo tramite un approccio decisamente antropologico, che nella distinzione
dell’antropologia e della teologia consenta di giustificare la cristologia come il
principio della loro unità.
La ricognizione della modernità ha una sua pertinenza di tipo euristico,
che permette di capire il tipo di sviluppo che si è prodotto; ma essa mette in
evidenza un codice equivoco, che rimane sostanzialmente monistico, che riafferma cioè l’impossibilità del compimento ovvero la sua separatezza, congiungendo il gesto unilateralmente teologico dell’hegelismo e del barthismo, dove
non c’è spazio per l’umano effettivo.
È possibile mostrare come la grande estetica sia e rimanga quella premoderna, come del resto la grande teologia; ma la domanda verte sulla specifica necessità della modernità alla teologia, dato che in essa si tratta del soggetto e poiché l’antropologico risulta essenziale al teologico.
L’abbandono o la perdita del bello a favore del sublime, che costituisce il
gesto tipico del post-moderno, significa la perdita dell’antropologia; in ciò il
post-moderno
risulta
radicalmente
post-umanistico,
poiché
senza
l’antropologico non vi è l’estetico. Se si sopprime il bello si sopprime anche
l’estetico.
L’altra possibilità – rispetto alla linea evidenziata e praticata dalla modernità e dalla post-modernità – è quella del ricupero dell’antropologia, cui concorre precisamente la questione dell’estetico, ma più precisamente dell’arte.
Questa ha sempre la qualità di un’opera, la cui verità consiste nell’atto. È questo – cioè il rilievo dell’atto o dell’opera – il luogo vero dell’estetico, non invece l’immediata identificazione dello spirituale con il sensibile o con l’affettivo
e/o dell’assimilazione dell’estetico con il corporeo.
L’arte ha una sua originalità, poiché ha sempre il carattere di una innovazione; e in questo senso essa può rappresentare il luogo adeguato per una
teoria della fede o della coscienza credente, che sola può corrispondere alla
evidenza propria della rivelazione. Ma, a questo scopo, essa non può limitarsi,
nella sua paradossalità, a predisporre lo spazio per l’autoevidenza della fede,
divenendo così sostitutiva della rivelazione. Una teoria oggettivante, che la
giustifica come possibilità di apparizione di una visione non scientifica o politeistica del mondo, la separa radicalmente dall’etico, che invece si intende ricuperare. Occorre piuttosto che essa, proprio mentre non può essere istruita
che su base antropologica, sia ricondotta alla dimensione originaria dell’atto,
che come tale costituisce una figura reale del compimento.
Il rilievo dell’atto suppone l’affectus, altrimenti non vi è la totalizzazione di
sé nell’anticipazione che l’atto realizza, poiché solamente la trascendenza rende l’uomo capace di senso, cioè di un senso vero; questo consiste nella ripresa ogni volta nuova del compimento che si anticipa nella sensibilità. La dialettica attività/passività risulta qui assolutamente essenziale per restituire lo
spazio proprio dell’antropologico e del teologico, poiché la qualità veritativa
dell’estetico o la sua dimensione veramente antropologica consiste nella ripresa attiva della passività. La trascendenza rende l’uomo capace di senso, non
immediatamente della verità; e, tuttavia, lo rende capace di un senso vero,
proprio in quanto autorizzato dalla sensibilità. È questo il significato autentico
del codice dell’affezione e del suo significato antropologico, non immediatamente teologico.
Perciò l’alterità dell’uomo da Dio o la sua consistenza propria non può significare l’esteriorizzazione di Dio, bensì il ritrovamento della distinzione e della relativa autonomia della creazione per rapporto alla incarnazione, poiché tra
l’origine e il compimento vi è la bellezza, ossia la parola poetica che non differisce semplicemente l’azione, ma che costituisce essa stessa un atto.
Secondo la formulazione kantiana, la bellezza è una finalità senza fine;
ossia è un fine in sé, non subordinato ad un senso esterno. Ciò significa che
essa non è funzionale ad altro; essa esibisce un carattere fenomenologico,
non perché abbia a monte una causa, ma perché porta in sé la sua giustifica-
zione e mostra dal suo interno il proprio fondamento.
L’arte è un’opera, la cui verità sta nell’atto, nella poiesis, che congiunge
senza confonderle, ma nemmeno separandole, la verità del sublime e
l’effettività del bello. Solo così è possibile restituire il significato pertinente
della esteriorità di Dio.
Forse tra l’icona della trasfigurazione, che corregge un umano insensibile
ed estetizzante, e quella dell’ascensione, che iscrive l’umano nel sensibile di
Dio, occorre restituire lo spazio proprio della bellezza e della unicità della Croce; ossia la singolarità della storicità e dell’evento del Crocifisso, cioè di Gesù,
che costituisce la sua poesia, il suo capolavoro. Il luogo vero dell’estetico, del
quale è costitutivo l’aspetto pratico, è la Croce, nella quale il logos è operante
in quanto è un atto di Dio essendo l’opera di Gesù.
Secondo la formula iniziale della Prefazione di Sequeri, «l’estetica teologica
che ci manca è prima di tutto quella che ci serve per pensare e vivere il dogma,
non semplicemente per arredarlo e conservarlo» (VII). È quanto ha cercato di
verificare, nella medesima direzione, il successivo, più recente, convegno del
23-24 febbraio 2010 (Esteriorità di Dio. La fede nell’epoca della perdita del
mondo ), che si è prefisso un affondo ulteriore nell’ambito del plesso di questioni individuato con il precedente.
GIOVANNI TRABUCCO
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