Secondo Arco temporale.Il settecento Europeo e il Rif. Borbonico.

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SECONDO ARCO TEMPORALE
IL SETTECENTO EUROPEO E IL RIFORMISMO BORBONICO
Le riforme in Europa
Prima di analizzare il settecento nelle colonie spagnole e portoghesi, è necessario fare
riferimento ai processi di carattere culturale, politico, economico e sociale che si realizzano in
Europa nella seconda metà del settecento, ai quali il riformismo è fortemente legato. È
importante, perciò, contestualizzare le dinamiche coloniali all’interno delle più generali
trasformazioni europee.
Come conseguenza della ripresa economica a cui si assiste a partire dalla seconda metà del
XVII secolo - che coincide con il superamento di un periodo di crisi, dovuto essenzialmente agli
sconvolgimenti provocati dalla guerra dei trent’anni, dalle carestie e dalla diffusione della peste
– ha inizio un forte incremento demografico, che si ridurrà considerevolmente soltanto nel XX
secolo. Tra il 1700 e il 1800 la popolazione europea passa da 118 a 193 milioni di abitanti, con
un incremento del 66%.
Sebbene il dibattito sulle cause della svolta demografica settecentesca sia ancora aperto, è
certo che nel corso del XVIII secolo nella maggior parte dei paesi europei, sia pure con tempi e
modi diversi, si verifica una diminuzione della mortalità dovuta a guerre, epidemie e carestie, e
al tempo stesso si assiste all’abbassamento dell’età matrimoniale (fenomeno particolarmente
precoce e significativo in Inghilterra). Più in generale, si verifica un progressivo superamento
dell’andamento demografico ciclico tipico dell’ancien règime, basato sul rapporto e la reciproca
dipendenza tra popolazione e risorse.
L’incremento della domanda di prodotti agricoli, strettamente connesso con l’aumento
demografico, è uno dei fattori all’origine delle trasformazioni che investono il settore agricolo. Il
processo di privatizzazione delle terre demaniali e dei terreni aperti all’utilizzazione di tutta la
popolazione costituisce la premessa dello sviluppo di una agricoltura capitalistica e della
connessa razionalizzazione dell’impiego della forza lavoro. A questo processo segue una crescita
della produttività e un’eccedenza di manodopera, che, non avendo più la possibilità di trovare
sostentamento nelle forme tradizionali nelle campagne, si sposta nei centri urbani. La presenza
di un’abbondante forza-lavoro disponibile è uno dei fattori della trasformazione delle attività
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manifatturiere e dello sviluppo del capitalismo industriale (superamento della produzione
artigianale attraverso l’impiego di nuove tecnologie nelle grandi fabbriche).
Queste grandi trasformazioni, alle quali concorre come si è visto anche l’abbondanza
dell’oro e dell’argento americano, pongono nuovi problemi alla riflessione degli uomini di cultura
e all’azione dei governanti.
Contemporaneamente va affermandosi e diffondendosi in tutti i paesi europei quel
movimento intellettuale definito “illuminismo”, in riferimento al ruolo rischiaratore assegnato
alla ragione. Sebbene nell’illuminismo come movimento culturale siano ravvisabili posizioni e
orientamenti differenti, a unire il movimento è la volontà di incidere sulla società attraverso
l’educazione delle élites in vista del benessere e della “felicità pubblica”.
L’idea che la “ragione” debba costituire non soltanto lo strumento di analisi critica della
realtà, ma anche il mezzo attraverso cui governare, accomuna gli scritti dei pensatori che daranno
il loro contributo alla nascita del liberalismo, come Locke, Montesquieu e Voltaire, e più in
generale di quegli intellettuali che sottolineano la necessità di un disegno riformatore da
promuovere negli ambiti nevralgici della vita civile. Questo progetto riformista dovrebbe, a loro
avviso, mirare alla modernizzazione dello Stato, da raggiungere anche attraverso un processo di
riordinamento e trasformazione degli assetti amministrativi.
Il tentativo di tradurre in pratica questo disegno attraverso interventi nell’apparato
amministrativo e finanziario, nell’economia e nel commercio, e soprattutto nel campo delle
istituzioni ecclesiastiche, caratterizza la politica interna di molti paesi europei dalla metà del
secolo. All’origine di questa politica riformista vi è l’incontro tra potere e cultura, tra sovrani e
philosophes, espresso attraverso la formula “dispotismo illuminato”, coniata dagli storici
tedeschi nell’800 per definire la stagione collocata tra il 1763 (anno della conclusione della guerra
dei sette anni) e la rivoluzione francese.
Le guerre dinastiche della prima metà del ‘700 - guerre di successione spagnola (17001714), polacca (1738) e austriaca (1740) -, seguite dalla guerra dei sette anni (1756-1763),
costringono i sovrani europei a dirottare una parte cospicua delle entrate in direzione delle spese
militari, provocando così un dissesto delle finanze. Ovunque è sentita, dunque, l’esigenza di
introdurre maggiore efficienza nell’amministrazione finanziaria, in modo da evitare che
l’aumento delle imposte, necessario per sanare le finanze statali, finisca con il mettere in crisi
quei settori economici chiave, che devono pagare tali imposte.
Una via d’uscita per la crisi è individuata nella ridefinizione dei privilegi e
nell’abbattimento dei particolarismi, in modo da realizzare una distribuzione dei carichi fiscali
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più equa e meno penalizzante per le attività produttive, ma questa strategia incontra molte
resistenze e non è pienamente realizzata.
La razionalizzazione dell’apparato amministrativo, che in vari Stati porta alla nascita dei
Dipartimenti e dei Ministeri, si manifesta soprattutto in campo giuridico. Vengono elaborati
progetti miranti essenzialmente alla riorganizzazione della giurisdizione attraverso la
codificazione del diritto, al fine di unificare e razionalizzare gli ordinamenti legati al
particolarismo di origine feudale sostituendoli con una normativa unitaria dettata dal potere regio.
Ma ovunque il più deciso intervento è quello diretto contro il potere della Chiesa e degli
ordini religiosi, ossia i diritti e i privilegi ecclesiastici. Le proprietà terriere della Chiesa, sottratte
al libero circuito del mercato per il divieto di scorporarle e venderle, costituiscono, secondo gli
illuministi, un ostacolo alla libera circolazione delle ricchezze, ritenuta essenziale alla
realizzazione del benessere dei popoli. La lotta giurisdizionalistica portata avanti dai sovrani
nell’intento di rivendicare la piena sovranità contro la potenza temporale della Chiesa, attacca
dunque il fondamento dei privilegi del clero, ossia le immunità, soprattutto attraverso
l’emanazione di leggi contro la manomorta ecclesiastica.
Il risultato più importante consiste nell’espulsione della Compagnia di Gesù da molti
paesi europei.
I Gesuiti, invisi a molti per la stretta dipendenza da Roma, hanno accumulato nel tempo un
immenso patrimonio fondiario, grazie a donazioni e ad acquisti. Ritenuto pericoloso da molti è
anche il controllo esercitato sul sistema educativo e in particolare sulla formazione dei ceti
dirigenti. Per questi motivi, i Gesuiti diventano l’oggetto privilegiato degli attacchi e delle critiche
provenienti dagli ambienti intellettuali illuministi riformatori.
Il primo ad espellere la Compagnia è, come già accennato, il Marchese di Pombal (1759),
approfittando di un presunto coinvolgimento dell’Ordine in una cospirazione contro il governo
portoghese. Cinque anni più tardi è la volta della Francia, e nel 1767 i Gesuiti sono espulsi da
tutti i territori spagnoli. Le pressioni dei sovrani europei costringono il papa Clemente XIV a
sopprimere la Compagnia, che sarà tuttavia restaurata nel 1814.
Le critiche verso la mondanità della Chiesa non provengono soltanto dagli ambienti laici
illuministi, ma anche dai riformatori religiosi rigoristi e giansenisti.
E’ da sottolineare, a questo proposito, l’esistenza di una posizione interna al cattolicesimo
che, da un lato, accetta l’affermarsi della ragione come strumento del conoscere e del governare
e, dall’altro, introduce l’idea che i “sudditi”, ossia il popolo, debba pretendere dal sovrano la
soddisfazione dei propri bisogni. La scuola teologica di Salamanca, che mantiene viva la
riflessione aperta dal pensatore gesuita Francisco de Suarez, avrà una grande influenza
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nell’America spagnola e portoghese. Rifacendosi a San Tommaso d’Aquino, de Suarez, per
quanto convinto dell’origine divina del potere (che sarà concretamente messa in discussione solo
con la rivoluzione francese), sostiene che questa non possa prescindere dal dovere dei sovrani di
realizzare la “felicità” dei sudditi, i quali, di conseguenza, sono legittimati a ribellarsi in nome
della ragione nel caso in cui questo dovere venga disatteso.
I Borboni in Spagna e in America
La politica riformista in Spagna rappresenta una vera e propria svolta rispetto all’indirizzo
politico adottato dalla dinastia degli Asburgo fino a quel momento, che non è riuscita in alcun
modo a far fronte alla crisi attraversata dal paese.
Alla morte senza eredi di Carlo II (1700), con la designazione quale suo successore di
Filippo d’Angiò, un nipote di Luigi XIV, si apre una guerra che vede contrapposti i Borboni agli
Asburgo, che vogliono sul trono spagnolo l’arciduca Carlo. La creazione della Grande Alleanza
dell’Aia, alla quale partecipano anche Inghilterra, Olanda e alcuni principi tedeschi, dà origine
ad una guerra che ha come teatro la Germania, i Paesi Bassi e il territorio italiano, e che si
conclude soltanto con la firma dei trattati di Utrecht (1713) e Rastadt (1714). Filippo V (17001746) si vede riconosciuto quale primo sovrano della dinastia borbonica di Spagna, ma è costretto
a cedere all’Austria i domini italiani e le Fiandre, e all’Inghilterra Minorca e Gibilterra, nonchè
alcuni diritti commerciali; in particolare viene ceduto all’Inghilterra il monopolio della tratta
degli schiavi neri dall’Africa in America e si accorda la possibilità, sia pure con limitazioni, di
commerciare con le colonie americane. In questo modo viene ufficialmente meno il monopolio
spagnolo sul commercio con i suoi possedimenti d’oltremare.
La dinastia dei Borboni si mostra subito più dinamica rispetto alla precedente, e dotata di
una maggiore capacità di iniziativa derivante da una cultura di governo ispirata ai principi
dell’amministrazione francese. La politica di riforme avviata da Filippo V in Spagna come in
America, e continuata dai suoi successori, i figli Ferdinando VI (1746-1759) e Carlo III (17591788), assume infatti a modello il centralismo politico e amministrativo dell’assolutismo
francese.
Sebbene portato avanti nel quadro dell’assolutismo regio e dell’ortodossia cattolica, questo
processo di riforme provoca la forte reazione degli elementi più reazionari all’interno della
nobiltà e della Chiesa; di conseguenza, i Borboni reclutano la maggior parte dei propri ministri e
funzionari tra i ranghi della piccola nobiltà e della ristretta classe media, fortemente influenzate
dallo spirito razionalista degli Enciclopedisti francesi, sebbene lontane dalle loro posizioni deiste
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e anticlericali. Questo processo raggiunge l’apice con Carlo III, e sono le riforme da lui promosse
ad avere l’impatto più forte sulle colonie.
Lo scoppio della rivoluzione francese, avvenuto circa due mesi dopo la morte di Carlo III,
nel dicembre del 1788, mette fine alla stagione delle riforme. Carlo IV (1748-1826), impaurito
dalle vicende francesi, blocca del tutto il processo esiliando i riformisti e vietando la circolazione
delle opere francesi, e in particolare della letteratura rivoluzionaria.
Diversi storici hanno posto l’accento sui limiti del riformismo borbonico in Spagna,
affermando che in sostanza non attacca il fondamento dell’antico ordine, ossia il monopolio della
proprietà della terra detenuto dalla nobiltà, con la conseguenza della permanente arretratezza
dell’agricoltura, che impiega metodi produttivi altrove già superati.
In questa situazione, caratterizzata anche dalla mancanza di capitale da investire nello
sviluppo industriale e alla debolezza degli emergenti ceti borghesi, attratti per cultura più dalle
possibilità offerte dall’amministrazione che dall’attività imprenditoriale, si accentua il divario tra
la Spagna e gli altri paesi dell’Europa nord-occidentale. Tuttavia, è da sottolineare che alcuni
storici hanno fatto notare come nelle colonie americane le riforme borboniche, pur collocandosi
nell’arco temporale della colonizzazione, introducano un elemento di discontinuità rispetto al
periodo precedente, e come i loro effetti influiscano fortemente sull’attivazione del processo
d’indipendenza.
Riforme amministrative
La prima preoccupazione di Filippo V è quella di riprendere in mano le redini del governo
delle colonie, tentando di reagire alla decadenza spagnola attraverso l’attivazione di un processo
di riorganizzazione amministrativa mirante a ristabilire un vero controllo sui territori d’oltremare
e ad accrescere le entrate statali.
Il Consejo de Indias, massimo organo di governo dei possedimenti spagnoli in America,
perde a partire dal 1717 le sue competenze in campo politico, che sono assorbite dal re, ed
assegnate ad un apposito ministero nato dalla separazione del Ministero della Marina e delle
Indie, voluto da Ferdinando VII intorno alla metà del secolo.
L’incarico di vicerè è mantenuto, sebbene, soprattutto dopo l’istituzione della figura
dell’intendente coloniale, esso venga ridotto ad un ruolo meramente rappresentativo. Si creano
comunque nuove regioni giurisdizionali: il Vicereame di Nueva Granada (1717), con capitale
Santa Fe de Bogotá, comprendente i territori degli attuali Stati di Colombia, Venezuela, Ecuador
e Panama, e quello di Río de la Plata (1776), con capitale Buenos Aires, che comprende buona
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parte degli attuali Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia; nello stesso anno è istituita anche la
Capitaneria del Cile, dipendente dal Vicereame del Perù.
Questa ulteriore suddivisione amministrativa, necessaria anche per le difficoltà di
comunicazione dovute alla distanza tra le varie province, mira ad accentuare il controllo regio su
territori sempre più esposti al rischio di incursioni. Il pericolo viene dagli inglesi, che si sono
stabiliti nelle isole Malvinas (o Falkland), e dai portoghesi, i quali, avanzando verso sud dal
Brasile, stabiliscono l’insediamento di Sacramento sulle rive dell’estuario del Rio de la Plata,
minacciando da lì la navigazione.
Uno dei provvedimenti più importanti a livello amministrativo è l’estensione alle colonie
del sistema delle intendenze (istituito in Spagna nel 1718, sul modello di quello francese), tra il
1782 e il 1790. L’obiettivo di questa riforma è quello di centralizzare il potere regio ed accrescere
le entrate statali, ristabilendo il flusso delle imposte che non giunge più in Spagna, soprattutto a
causa degli abusi dei corregidores; la corruzione, infatti, costituisce, come si è visto, una delle
principali cause del mal funzionamento dell’amministrazione coloniale.
Vengono create in tutto 44 intendenze, che sostituiscono le antiche suddivisioni
amministrative. Gli intendenti coloniali, funzionari governativi nati e formatisi in Spagna, sono
sottoposti formalmente all’autorità del vicerè e alle audiencias del cui territorio fanno parte le
loro giurisdizioni. Gli intendenti hanno competenze sulla giustizia, sulla guerra e in particolare
sull’amministrazione finanziaria; tra i principali obiettivi loro assegnati vi è il rilancio dello
sviluppo economico del proprio distretto attraverso la promozione di nuove colture, lo sviluppo
dell’attività mineraria, la costruzione di infrastrutture e l’istituzione di consulados. Per evitare i
problemi presentatisi in passato, viene resa obbligatoria la temporaneità della loro permanenza in
America, sebbene presto si affermi la tendenza da parte di questi funzionari a sposarsi con donne
esponenti dell’élite creola e a stabilirsi definitivamente nelle colonie.
Sempre al fine di contrastare la corruzione, viene soppressa la vendita delle cariche
pubbliche, e vengono abolite le cariche di gobernador, corregidor e alcade mayor, sostituite da
nuove categorie di funzionari. Al governo delle città indigene sono posti i subdelegados, nominati
dagli intendenti, che, tuttavia, si rivelano, alla fine, non meno corrotti dei loro predecessori.
Continuano così le pratiche oppressive nei confronti della popolazione nativa, compreso il
mantenimento del repartimiento nonostante esso sia stato abolito dalla corona.
All’interno di questo contesto di riforma, con cui i Borboni mirano a ristabilire un effettivo
controllo sulle colonie, l’espulsione della Compagnia di Gesù nel 1767 costituisce un evento
particolarmente significativo. Nel corso del ‘700, infatti, i Gesuiti hanno consolidato la propria
posizione di grandi proprietari terrieri e il monopolio, quasi esclusivo, che detengono
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sull’educazione e l’istruzione della élite creola. Sebbene l’espulsione miri ad indebolire il potere
papale in America, riaffermando la supremazia del potere temporale, alcuni storici vedono in
questa decisione un attacco alle élites creole. D’altra parte, in mancanza di un’alternativa,
l’organizzazione delle scuole e delle università create in questo periodo dalla corona spagnola
non fa altro che ricalcare il progetto educativo dei Gesuiti, sia pure epurandolo dall’influenza
ancora esercitata dalla teoria consensualista del potere di Suarez.
Un’altra riforma importante portata avanti dai Borboni – soprattutto durante il regno di
Carlo III - è la riorganizzazione dell’ordinamento giuridico. In linea con quanto accade in altri
Stati europei, in Spagna e nelle colonie si procede ad un riordinamento dell’insieme delle leggi,
dei decreti e delle ordinanze emanate fino a quel momento, e che sono andate sovrapponendosi
in modo confuso e spesso contraddittorio. Alcune disposizioni riguardanti la giustizia, in
particolare, erano entrate in contraddizione con le precedenti, senza che fosse prevista
l’abrogazione esplicita e in assenza di un sistema di regole chiaro sulla successione delle norme
nel tempo.
L’amministrazione della giustizia è caratterizzata, inoltre, da un ampio grado di arbitrarietà
da parte dei funzionari coloniali, ognuno dei quali tende a rifarsi alle disposizioni che più ritiene
opportune, rivendicando una discrezionalità interpretativa del Corpus legislativo.
La riforma dell’ordinamento giuridico è di portata tale da costituire il riferimento per
l’amministrazione della giustizia degli Stati indipendenti latinoamericani per tutto il XIX secolo.
In molti di questi Stati, infatti, il processo di codificazione richiederà tempi estremamente lunghi;
in Cile, ad esempio, i nuovi codici di procedura civile e penale vedranno la luce, rispettivamente,
nel 1905 e nel 1907, a dimostrazione del fatto che, ancora per quasi un secolo dopo
l’indipendenza, la giustizia, e più in generale l’amministrazione delle Repubbliche, faranno
riferimento al sistema legislativo riordinato nel periodo borbonico. Non è un caso, dunque, che
molti giuristi o storici che si occupano prevalentemente degli ordinamenti giuridicoamministrativi, sottolineando il fatto che la struttura di uno Stato ha le sue fondamenta negli
ordinamenti giuridici, siano contrari ad attribuire al processo di indipendenza un carattere di
cesura rispetto al periodo coloniale, e, al contrario, tendano ad individuare una cesura proprio
nelle riforme borboniche.
Riforme economiche
Sin dai primi anni di governo gli sforzi dei Borboni sono diretti a contrastare il
contrabbando, che arricchisce i funzionari coloniali e reca vantaggi alle altre nazioni, riducendo
allo stesso tempo ulteriormente le entrate spagnole. A beneficiarne è soprattutto l’Inghilterra, che
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può sfruttare i privilegi ottenuti con il trattato di Utrecht. E’ noto, infatti, che le navi cariche di
schiavi della South Sea Company trasportano mercanzia di contrabbando, che dai porti americani
viene poi inviata nell’entroterra.
Sotto Filippo V il governo spagnolo tenta di porre un freno al contrabbando nell’area
caraibica incaricando delle guardacostas (navi da guerra private) di tenere sotto controllo le
principali rotte commerciali per bloccare le navi con merci di contrabbando. La Casa de
Contratación, trasferita da Siviglia a Cadice, perde progressivamente importanza, fino ad essere
soppressa del tutto nel 1789.
Con l’obiettivo di porre fine al monopolio del consulado di Cadice - i cui membri sono i
soli ad avere il diritto di gestire il traffico navale mercantile tra la Spagna e le colonie – viene
promossa la formazione di compagnie commerciali privilegiate. La prima ad essere creata è la
Real Compañía Guipuzcoana de Caracas, fondata nel 1728, che ottiene il monopolio del
commercio con il Venezuela, in cambio dell’impegno a contrastare il traffico illegale nell’area.
Altre compagnie simili vengono organizzate con capitale Basco e Catalano per il commercio con
le isole, ma ovunque la loro attività è ostacolata dall’ostilità di funzionari governativi, mercanti
locali e grandi proprietari terrieri, che difficilmente accettano la perdita dei benefici derivanti loro
dal traffico illegale.
La dura sconfitta subita dalla Spagna durante la guerra dei sette anni spinge Carlo III ad
accelerare il progetto di riorganizzazione dell’impero. Il commercio con le Indie occidentali viene
dapprima esteso ad altri sette porti oltre a quelli di Siviglia e Cadice, fino a che, con il decreto di
libero commercio del 1778 e con provvedimenti successivi, è ammesso il traffico tra tutti i
principali porti spagnoli e le province americane. Le riforme, comunque, non riescono ad
eliminare il ruolo dominante di Cadice nel commercio con le colonie.
Anche le restrizioni sul commercio intercoloniale vengono progressivamente abolite,
sebbene limitatamente ai prodotti non-europei. L’area che beneficia maggiormente di questo
cambiamento è quella del Rio de la Plata, autorizzata dal 1776 al commercio con il resto delle
Indie.
Nel complesso, questo indirizzo di politica economica contribuisce alla crescita del valore
degli scambi tra Spagna e America spagnola, che aumenta del 700 % circa tra il 1778 e il 1788,
ma non riesce ad eliminare il traffico illegale, che persisterà per tutto il periodo coloniale.
I Borboni, consapevoli dell’inevitabilità di una riforma della politica commerciale, e
sottoposti alle forti pressioni degli inglesi, mirava dunque a recuperare i mercati coloniali alla
Spagna. Questo obiettivo, però, non viene raggiunto. L’incapacità di rifornire i mercati americani
di beni di prima necessità nei periodi di guerra costringe il governo ad abolire nel periodo
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compreso tra il 1797 e il 1799, e poi ancora tra il 1808 e il 1809, il divieto di commercio per le
navi neutrali, apertura che rende possibile una forte crescita del commercio tra gli Stati Uniti e
l’area caraibica e del Rio de la Plata.
Uno dei risultati più significativi delle riforme in campo commerciale è lo stimolo che esso
dà all’attività economica dell’America spagnola. Nell’ultima parte del secolo si verifica un
aumento della produzione agricola, zootecnica e mineraria, provocato soprattutto dalla crescita
della domanda europea di zucchero, tabacco, cuoio e altre materie prime, oltre che di metalli
preziosi, la cui accumulazione, in un’ottica di tipo mercantilista, è considerata il pilastro della
ricchezza di uno Stato. Questo aumento della produzione non è però accompagnato da sostanziali
mutamenti qualitativi nell’economia delle colonie spagnole.
La prosperità agricola è comunque limitata alle aree che producono prodotti da esportazione
o con facile accesso ai mercati domestici. A questo bisogna aggiungere che, diversamente da
quanto accade in Europa, la crescita della produzione agricola è il risultato di un aumento
dell’estensione dei territori coltivati e delle ore lavorate piuttosto che di uno sviluppo degli
strumenti e delle tecniche agricole.
A causa della bassa produttività dell’agricoltura coloniale non è possibile far fronte a
disastri naturali quali siccità, gelo prematuro o piogge eccessive, che periodicamente mettono in
crisi l’equilibrio tra popolazione e risorse, provocando gravi carestie, come quella che si verifica
nel Messico centrale tra il 1785 e il 1787, a causa della quale perdono la vita migliaia di persone.
Nella seconda metà del XVIII secolo si assiste ad un’ulteriore concentrazione della
proprietà della terra nella Nuova Spagna e nelle Ande centrali che riflette il desiderio degli
hacendados di eliminare la competizione dei piccoli produttori, ai quali viene lasciato poco
spazio in tutta l’America spagnola e di mantenere alti i prezzi.
Nonostante le polemiche degli economisti contro la manomorta, i beni delle fondazioni
religiose e gli altri privilegi, le riforme finalizzate ad assicurare una distribuzione più razionale
falliscono in America così come nella penisola spagnola. La struttura semi-feudale della proprietà
agraria, basata sulla servitù e sullo sfruttamento estensivo della terra, si consolida
definitivamente nelle colonie, contribuendo a rafforzare la struttura gerarchica della società
latino-americana.
Il possesso della terra continua a rappresentare l’elemento principale che permette di entrare
a far parte della classe dominante, costituita da una minoranza che di fatto detiene il potere sociale
ed economico e il controllo di una massa di popolazione etnicamente e culturalmente diversa.
In determinate aree il potere economico e sociale deriva non tanto dal possesso della terra,
quanto dalla quantità dei capi di bestiame posseduti e che possono essere utilizzati per la
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produzione di cuoio, la cui domanda proveniente dall’Europa, dovuta allo sviluppo del settore
delle calzature, aumenta decisamente nella seconda parte del secolo. Nelle pianure rurali del Rio
de la Plata si va consolidando l’estancia quale unità economica, finalizzata ad uno sfruttamento
più razionale (seppure ancora arcaico) dell’allevamento bovino.
Così come in agricoltura, anche in campo minerario l’aumento dell’estrazione di metalli
preziosi è dovuto più all’apertura di nuove miniere e all’aumento della forza lavoro impiegata
che a miglioramenti delle tecniche estrattive. La corona sostiene fortemente l’attività mineraria,
promuovendo l’istituzione di un’associazione mineraria (1777), che ha il compito di provvedere
allo sviluppo del settore, e grazie alla quale nel 1792 è creata la prima scuola mineraria in
America, che, accogliendo esperti e tecnici di tutta Europa, svolge un’importante funzione come
mezzo di diffusione delle teorie illuministe in America. In questo periodo, l’oro e l’argento
proveniente dalle colonie spagnole e dal Brasile portoghese sostengono fortemente l’avvio della
rivoluzione industriale nell’Europa settentrionale e stimolano un’attività commerciale su scala
mondiale.
Un peggioramento si ha invece nella manifattura coloniale, che, dopo un periodo di crescita,
subisce l’impatto negativo dell’afflusso delle merci straniere di alta manifattura a basso costo,
con le quali essa è difficilmente in grado di competere. Le industrie tessili e la produzione di vino
dell’Argentina occidentale entrano in crisi, e lo stesso accade ai produttori tessili della provincia
di Quito, mentre meno gravi sono i danni provocati dalla concorrenza estera alle manifatture
tessili di Puebla e Querètaro. L’adozione da parte della corona di una legislazione di tipo
mercantilista volta a scoraggiare lo sviluppo dell’attività manifatturiera nelle colonie non è
l’unica causa dei problemi del settore; ad essa vanno infatti aggiunte la scarsità di capitale di
investimento, che viene per lo più indirizzato verso la terra e l’attività mineraria, e un sistema
lavorativo semi-servile, dannoso sia per i lavoratori che per la crescita della produttività.
E’ da sottolineare, comunque, che dalla Spagna e dall’Europa si importano per lo più
prodotti di lusso, mentre i beni di consumo quotidiano acquistati dai ceti popolari sono prodotti,
in buona misura, in America Latina.
Verso la fine del periodo coloniale il sistema lavorativo ispano-americano è ancora
caratterizzato dalla persistenza della schiavitù e della coercizione. Nonostante i Borboni si
manifestino contrari al lavoro forzato, di fatto essi cercano di rafforzare il sistema che lega i nativi
alle haciendas attraverso l’indebitamento (peonaje).
Quello dell’indebitamento è considerato un meccanismo essenziale per mantenere una
forza lavoro stabile, e l’importanza della difesa di questo meccanismo dipende dalla quantità di
forza lavoro disponibile in una determinata zona. Nella Nuova Spagna, ad esempio, la crescita
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della manodopera, dovuta in primo luogo alla crescita della popolazione, riduce progressivamente
la severità del sistema di indebitamento, ma lo stesso non può dirsi per altre zone. Nell’area
andina, infatti, la mita continua ad esercitare un ruolo importante nell’approvvigionamento del
lavoro minerario e agricolo fino alla fine del periodo coloniale, e in altre province, dove
teoricamente il lavoro è libero, l’imposizione del pagamento di pesanti tributi costringe i nativi a
cercare lavoro nelle haciendas, dove spesso sono costretti a prestare servizio anche nella casa
dell’hacendado, fatto che limita ulteriormente la loro mobilità.
Società
Dal punto di vista sociale, il XVIII secolo è caratterizzato da una definizione più netta della
fisionomia dell’élite creola rispetto agli spagnoli peninsulari, e da un’accentuazione del contrasto
tra i due gruppi.
Gli spagnoli peninsulari detengono il monopolio assoluto delle cariche amministrative e
giudiziarie del governo coloniale, considerano sè stessi rappresentanti assoluti della corona e in
virtù di questa rappresentanza rivendicano la facoltà di imporre decisioni e di applicare e
interpretare la legge. Essi costituiscono una minoranza chiusa nei confronti di coloro che sono
nati in America.
Oltre al monopolio delle più importanti cariche, bisogna aggiungere che, nonostante una
limitata presenza di membri dell’élite creola nel commercio estero e interno, i peninsulari
continuano a dominare l’attività commerciale. Il potere dei mercanti nati in Spagna è rafforzato
dalla loro organizzazione in consulados o in associazioni mercantili, attraverso le quali tutelano
i propri interessi e difendono la propria posizione; inoltre, essi giocano un ruolo chiave anche nel
finanziamento dell’attività mineraria, dalla quale traggono consistenti profitti, nonchè in quello
del repartimiento, attività che, come si è visto, continua ad essere praticata ai danni dei nativi dai
funzionari spagnoli.
Durante il XVIII secolo, il risentimento dei creoli non è diretto soltanto nei confronti della
classe costituita dai peninsulari, ma anche verso la politica riformista portata avanti dai Borboni.
Nella seconda parte del secolo questo risentimento è accentuato dalla svolta anti-creola
rappresentata dalla politica di Josè de Gálvez - ministro di Carlo III e interprete del dispotismo
illuminato settecentesco che ne caratterizza il regno - il quale si assicura che l’accesso alle alte
sfere della burocrazia imperiale sia possibile solo per i nati in Spagna. Nel 1804, al fine di
incrementare le entrate, viene presa una misura di emergenza da parte della corona che colpisce
duramente gli interessi e le tradizioni dell’élite creola, la Consolidación de Vales Reales.
Attraverso questo decreto, il governo spagnolo impone alle istituzioni ecclesiastiche presenti
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nelle colonie di ritirare i capitali investiti, i cui interessi vengono utilizzati per finanziare le opere
della Chiesa. Questi capitali dovevano andare alla corona, che avrebbe poi provveduto essa stessa
a finanziare le attività della Chiesa. Scopo di questo provvedimento - che colpisce i numerosi
hacendados, mercanti e proprietari di miniere che hanno preso in prestito ampie somme dalle
istituzioni ecclesiastiche ed ora si trovano a doverle restituire - non è soltanto quello di risolvere
il problema delle entrate, ma anche quello di liberare l’economia coloniale dal peso della
manomorta e promuovere così una maggiore circolazione della proprietà. A causa delle proteste
suscitate, questo decreto è applicato raramente al di fuori della Nuova Spagna, per poi essere
abrogato del tutto nel 1808. Tuttavia, esso contribuisce notevolmente a rafforzare il nascente
nazionalismo creolo, che, tuttavia, trova la sua espressione non tanto in campo politico, quanto
piuttosto in quello culturale e religioso.
Infatti, se è vero che le élites creole esprimono apertamente una forte ostilità nei confronti
delle riforme Borboniche, questa resistenza nei confronti della madrepatria non riesce a produrre
una forza eversiva comparabile a quella creatasi nelle colonie nordamericane nei confronti
dell’Inghilterra. I creoli manifestano insoddisfazione per le imposte, i dazi, le riforme del
commercio e l’espulsione dei Gesuiti; inoltre, essi subiscono l’influenza delle idee illuministe.
Ma tutto ciò, così come la sensibilità delle rivoluzioni americana e francese, raggiunge in realtà
in America Latina un gruppo molto ristretto.
Le stesse sommosse popolari che scoppiano in diverse parti dell’Impero nel corso del
secolo hanno poco a che fare con l’illuminismo; esse, infatti, sono rivolte più che altro
all’eliminazione degli abusi governativi o alla soddisfazione di esigenze locali.
Il culmine viene raggiunto con la sollevazione popolare guidata da Josè Gabriel Tupac
Amaru - che prende il nome dall’ultimo regnante Inca giustiziato nel XVI secolo dal vicerè di
Toledo - in Perù nella seconda metà del settecento, diretta contro gli abusi subiti da indios e
meticci. Questa rivolta, così come la maggior parte delle altre, nasce dalla richiesta di una
ristrutturazione del sistema amministrativo coloniale, e non di una totale indipendenza dalla
Spagna; ed infatti, nella maggior parte dei casi i ribelli proclamano la loro fedeltà alla corona e
alla Chiesa.
Infine, bisogna aggiungere che i Borboni non riescono ad esercitare il controllo sperato
sulle colonie. Gli Intendenti, come già accennato, una volta arrivati in America, tendono ad
integrarsi e, indifferenti ai divieti ed alle sanzioni cui possono essere sottoposti dalla corona, si
sposano piuttosto frequentemente con donne appartenenti all’élite creola, fanno fortuna e si
stabiliscono permanentemente nel nuovo paese.
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Sulla base di questi elementi alcuni storici ritengono opportuno non assegnare un ruolo
essenziale al conflitto tra élite creola ed élite peninsulare - che viene invece spesso enfatizzato
nei manuali di Storia dell’America Latina di carattere generale - e non individuano in esso la
causa ultima dell’innescarsi del processo di indipendenza delle colonie dalla madrepatria.
Le riforme di Pombal in Brasile
Durante il ministero del Marchese di Pombal (1750-1777) vengono promosse importanti
riforme che riguardano soprattutto il settore amministrativo, nel quale si registra una tendenza
alla centralizzazione simile a quella che caratterizza le riforme borboniche nelle colonie
spagnole. In particolare, Pombal abolisce le capitanerie ereditarie, restringe i privilegi speciali
delle municipalità e accresce il potere del vicerè.
Anche in campo economico si registra un’importante svolta grazie alla politica di Pombal,
il cui disegno consiste nel ricondurre interamente in ambito portoghese il commercio portoghesebrasiliano attraverso la creazione di una classe mercantile dotata di capitali che le permettano di
competere con quella inglese, nonchè di un’industria nazionale la cui produzione permetta di
estromettere i prodotti inglesi dal mercato brasiliano. Il programma di Pombal è attuato solo in
parte, soprattutto attraverso un deciso intervento dello Stato, ed ha come effetto quello di
recuperare al Portogallo gran parte del mercato coloniale: tra il 1796 e il 1802, il 30% di tutti i
beni trasportati in Brasile consistono in manufatti portoghesi (in particolare tessuti di cotone).
Tuttavia, l’invasione napoleonica del Portogallo e il successivo trattato stipulato con la
Gran Bretagna, che ripristina i privilegi commerciali del paese esistenti prima delle riforme,
smantella il sistema commerciale messo in piedi da Pombal, restituendo alla Gran Bretagna un
virtuale monopolio sui traffici con il Brasile.
Sul piano culturale, il ministro portoghese si trova a dover adottare una soluzione drastica
per il problema della presenza delle comunità Gesuite, che consiste, come si è più volte accennato,
nell’espulsione dell’Ordine (1759).
Pombal, in realtà, accetta la tesi dei Gesuiti relativa al diritto alla libertà degli indios, nonchè
la necessità della loro preparazione alla vita civilizzata, anche attraverso la concentrazione in
comunità sotto la supervisione di amministratori responsabili della loro educazione e del loro
benessere; tuttavia, la sua legislazione non prevede la segregazione degli indios, ma, al contrario,
incoraggia i contatti con la comunità portoghese e i matrimoni misti, il che, come già visto,
contribuisce alla nascita di una consistente popolazione meticcia.
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Principali riforme del periodo borbonico nell’America spagnola
Politiche e amministrative
Economiche e sociali
Culturali
 Trasferimento delle competenze politiche del Consejos de
Indias al nuovo Ministero delle Indie
 Creazione di nuove regioni giurisdizionali: Vicereame di
Nueva Granada (1717), con capitale Santa Fe de Bogotá;
Vicereame del Rio de la Plata (1776), con capitale Buenos
Aires, Capitaneria del Cile, dipendente dal Vicereame del Perù
 Istituzione del sistema delle intendenze tra il 1782 e il
1790, ed abolizione delle cariche di corregidor, gobernador e
alcade mayor
 Riforma dell’ordinamento giuridico
 Lotta al traffico di contrabbando
 Soppresione della Casa de Contratación nel 1789;
liberalizzazione del commercio tra madrepatria e colonie e
intercoloniale attraverso l’autorizzazione all’utilizzo di ulteriori
porti spagnoli e americani
 Consolidación de Vales Reales, divieto per le istituzioni
ecclesiastiche di concedere prestiti
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Espulsione della Compagnia di Gesù nel 1767
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