Le rappresentazioni sociali dei diritti dei minori[1]

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Le rappresentazioni sociali dei diritti dei minori1
CLAUDIO BARALDI
1. Aspetti metodologici
Nel discutere le rappresentazioni sociali dei diritti dei minori, dobbiamo anzitutto tenere
in considerazione che i nostri dati riguardano due categorie diverse: i bambini
(soprattutto in età prescolare, ma in parte anche in età scolare) e gli adolescenti
(soprattutto tardo adolescenti, dai 16 ai 18 anni).
L’osservazione della cultura dell’età minorile che oggi domina nella società, che
si colloca in un rapporto non lineare ma significativo con la cultura scientifica2, è
importante per capire i presupposti dell’attuazione dei diritti dei minori. La cultura
dell’infanzia e dell’adolescenza è particolarmente rilevante nei contesti nei quali i
bambini e gli adolescenti comunicano con gli adulti.
La concezione del minore e dei suoi rapporti con la società è un presupposto
fondativo dell'intervento di attuazione dei diritti alla protezione e alla partecipazione,
nonché dell’offerta di servizi. Il minore infatti risulta comprensibile soltanto insieme
alla società che lo circonda.
I riferimenti per questa discussione sono le interviste somministrate ad educatrici
degli asili nido ed insegnanti della scuola dell’infanzia (per un totale di 303 operatrici),
le interviste somministrate ad operatori, insegnanti e famiglie dei bambini coinvolti
nell’esperienza del Laboratorio città dei bambini di Fano (110 complessivamente), le
interviste somministrate agli operatori che si dedicano ad attività per adolescenti
promosse dalla legge 46 (50 interviste a 97 persone) e agli operatori che si dedicano agli
adolescenti nei gruppi formali (131 interviste).
Nonostante la mole decisamente rilevante di interviste, si tratta di un materiale
soprattutto qualitativo che riguarda la concezione della condizione minorile (distinta tra
infanzia e adolescenza), il rapporto tra tale età e la società e il significato dell’intervento
rivolto a bambini ed adolescenti.
Per alcune questioni specifiche utilizzeremo inoltre i dati provenienti dai brevi
questionari che abbiamo chiesto di compilare alle educatrici e alle insegnanti nelle
istituzioni educative per la prima infanzia3. Sono stati raccolti complessivamente 319
questionari, le cui caratteristiche saranno meglio illustrate nel capitolo 3.1
1
Il testo si basa sui rapporti preliminari realizzati da: Sabrina Carotti (§ 3), Barbara Raspugli (§ 4), Maria
Del Grosso (§ 5), Sabina Rapari (§ 6)
2
Per questo rapporto, in senso generale, si leggano le considerazioni sulle rappresentazioni sociali,
formulate da Serge Moscovici in Farr e Moscovici 1989.
3
Mancano le informazioni relative alle scuole dell’infanzia di Pesaro, dove ha avuto luogo la fase
pilota della ricerca che non prevedeva l'utilizzo di questo strumento quantitativo.
1
2. Il Bambino Protagonista
Come abbiamo detto nell’Introduzione, è oggi diffusamente riconosciuto che il
significato dell’infanzia è socialmente costruito. Abbiamo anche detto che una
questione centrale, in questa costruzione, riguarda la concezione del bambino come
autonomo oppure eteronomo: a seconda che il bambino venga osservato come più o
meno autonomo, più o meno esposto all'influenza sociale, più o meno da proteggere,
l’attuazione dei diritti dei bambini assume forme diverse.
L’importanza dei bambini nella società, soprattutto nella prospettiva di
istituzioni educative ad essi indirizzate, è un dato scontato sul quale raramente ci si
sofferma: «E’ l’essere più importante che ci sia, lo vedo come un essere da rispettare e
da ascoltare» (AP, scuole dell’infanzia). Questa banale osservazione sulla centralità del
bambino cela un mondo di interessanti significati.
Già negli asili nido si mette in particolare evidenza l’esistenza di differenze tra i
bambini, i quali mostrano una propria individualità che deve essere rispettata. Vengono
sottolineate l’originalità e l’autenticità del bambino, che viene rappresentato come una
persona, vitale ed attiva, con cui interagire. L’unica eccezione è stata riscontrata nel
caso di un’educatrice che, nel definire il bambino, ha fatto riferimento alla definizione
di un suo ex professore secondo il quale “il bambino è un incrocio tra una spugna e una
macchina fotografica” (SBT, asili nido), nel senso che assorbe ogni cosa con cui viene a
contatto e fotografa ciò che un adulto non si sognerebbe nemmeno di osservare.
Allo stesso tempo, il bambino viene anche descritto come un essere che esige la
massima cura e protezione, in parte proprio per potergli conservare queste sue
caratteristiche di spontaneità. Questa descrizione è particolarmente evidente nei nidi di
Pesaro.
E’ anche affermato il principio che il bambino deve essere riconosciuto come
soggetto di diritti, come persona, come individuo accettato e rispettato nella sua
specificità. Esistono di conseguenza obiettivi comuni da perseguire, ma con modi e
tempi diversi, commisurati ad individualità che vanno rispettate. C’è un’univocità di
risposte da parte delle educatrici ed il loro intervento sembra orientarsi in primo luogo
verso la ricerca e l’individuazione di questa diversità. Questo processo di identificazione
delle specificità dovrebbe avere come esito l’assecondamento delle caratteristiche
individuali, in modo da favorirne la massima estrinsecazione.
Nonostante questo accento sulla sua diversità, il bambino viene comunque
spesso rappresentato come “potenzialità”: la società, la famiglia, l’ambiente influiscono
su di lui e lo modellano (o provano a modellarlo) secondo una certa immagine, come è
evidente soprattutto ad Ancona.
Al di là degli accenti diversi, le educatrici condividono comunque una
concezione dell’infanzia che richiama le idee diffuse dalla psicologia dello sviluppo.
Cardine di questa concezione è l’idea che vi sia una precisa sequenza di fasi di sviluppo,
la stessa per ogni essere umano, sebbene il periodo in cui si verificano i passaggi tra le
diverse fasi possa variare molto da bambino a bambino. Ed è proprio su questo
succedersi delle varie fasi che pongono l’accento le educatrici, sottolineando che nella
crescita del bambino tutte le esperienze sono importanti, perché tutto entrerà nel
bagaglio delle sue conoscenze. In questa prospettiva, è giusto parlare non di problemi
2
dello sviluppo, ma di “momenti di passaggio”, come il distacco dalla madre e
l’acquisizione dell’autonomia.
Poiché, comunque, a numerose educatrici i bambini appaiono marcati da
diversità “naturali” irriducibili, l’influenza dell'ambiente sociale è spesso percepita
come negativa, perché quest’ultimo, essendo invece uniforme, tenderebbe alla
“omologazione” di chi nasce non solo “puro” ed “incontaminato”, ma anche
assolutamente unico e diverso. Torneremo su questo punto nel prossimo paragrafo.
Anche per le insegnanti delle scuole dell’infanzia, in generale (pur con qualche
eccezione) i bambini sono diversi tra loro. Tuttavia, qui si insiste maggiormente sul
fatto che la diversità deriva dal fatto che ognuno è il risultato del bagaglio di esperienze
che si porta dietro, come si insiste in modo particolare ad Urbino.
Il rapporto tra autonomia individuale e influenza sociale compare in questa
osservazione delle differenze tra bambini: per quasi tutte le insegnanti, tali differenze
derivano dal bagaglio culturale, dalla storia personale, da vicende familiari. Nelle scuole
dell’infanzia, possiamo così osservare che si mette maggiormente l’accento sulla storia
sociale del bambino, che risulta assai più evidente rispetto al nido. Sebbene vi sia
qualche osservazione sulle caratteristiche innate o genetiche del bambino,
concettualizzate come il “carattere”, è ampia la convergenza sull'idea che il bambino sia
primariamente un prodotto sociale. Si tratta peraltro di un prodotto sociale unico e
irripetibile : ogni bambino giunge alla scuola dell'infanzia con la sua specifica storia,
con il proprio bagaglio di esperienze culturali: ha già avuto occasione quindi di formarsi
e di costruire la propria storia mentale.
Il bambino viene inteso come storia e cultura, come prodotto delle relazioni con
il suo ambiente e con i suoi interlocutori, come “potenziale” che si sviluppa attraverso
l'ambiente socioculturale. Se anche esiste “in atto”, l’individualità biologica non ha
immediata rilevanza, né per spiegare la storia del bambino, segnata in modo radicale da
famiglia, televisione e società, né per spiegare l’intervento della scuola, che ha un forte
potere di socializzazione. Anche qui, qualche insegnante, sebbene sia un approccio
minoritario, si spinge a citare la teoria della “spugna”, cioè di un bambino facilmente
influenzabile, che assorbe tutto quello che trova nell'ambiente sociale, dunque un
bambino in fondo molto fragile, molto esposto: "Il bambino è come una spugna che
assorbe tutti gli stimoli che gli vengono inviati" (P, scuole dell’infanzia). Solo poche
insegnanti, invece, osservano un’autonomia cognitiva del bambino in senso non
relativo.
Compare, come negli asili nido, l’idea di sviluppo del bambino. Si sottolinea
soprattutto il carattere in divenire, l’espressione in potenza del bambino. E’ considerato
ovvio che il bambino tra i 3 ed i 5 anni non abbia propri “mezzi”. Il bambino è quindi
osservato come un essere che ha tutto in sé, ma ancora a livello “embrionale”: è un
essere da formare, che va aiutato “a sviluppare quello che ha”. (SBT, scuole
dell’infanzia). Questa visione è più accentuata nelle istituzioni della parte meridionale
della regione, dove, come vedremo, anche nei confronti dell’adolescenza si riscontra un
atteggiamento più educativo e mirato allo sviluppo delle potenzialità.
Nelle scuole dell’infanzia, più che negli asili nido, appare dunque frequente il
paradosso dell’eteronomia (v. Introduzione): il bambino è costruito socialmente, ma è
anche autonomo e protagonista, capace di costruire i significati delle proprie esperienze,
come si sottolinea con particolare evidenza a Pesaro. Nei programmi didattici di San
3
Benedetto del Tronto, ad esempio, capita di trovare il temine autonomia inteso come
«scoperta e interiorizzazione dei valori e dei comportamenti». In questa realtà, più che
in altre, compare l’idea che il bambino prima dell’intervento educativo non sia una
persona in senso pieno, quanto piuttosto una potenzialità da sviluppare.
Presupposto fondativo dell’intervento è l’immagine del bambino come una
persona non solo portatrice, ma anche destinataria di valori. Compito della scuola non è
solo quello di valorizzare quello che il bambino possiede e rispettare la sua persona, ma
anche quello di riprodurre la regolazione della società.
In alcune scuole il paradosso viene meglio evidenziato: una persona piena, ma
da aiutare perché "non può" da sola. Anche per questo aspetto, al di là degli accenti, c’è
dunque una visione comune. Da una parte, si tratta di un bambino unico, specifico,
diverso dagli altri (idea prevalente, pur non essendo del tutto generalizzata), di una vera
e propria persona, concetto utilizzato proprio per indicare che la sua individualità viene
socialmente riconosciuta, accettata e rispettata in senso pieno. Come afferma il progetto
educativo delle scuole pesaresi, i bambini debbono essere “visti”, riconosciuti e
nominati. Si tratta di un bambino dotato di diritti: all’acquisizione di autonomia, al
rispetto, all’ascolto, alla costruzione dell’identità personale, alla valorizzazione della
persona, con tutte le sue capacità e le sue competenze, a non vivere passivamente ciò
che vogliono gli adulti. Si tratta, insomma, di un bambino “cittadino”, protagonista delle
relazioni con gli altri, di un bambino “vivo” ed attivo, non di un passivo ripetitore della
norma sociale. Dall’altra parte, però, si tratta anche di un bambino che può essere vivo
ed attivo soltanto se riceve gli input della società, perché la sua unicità e la sua
differenza (da tutti gli altri) sono comunque il risultato di costruzioni sociali. Dunque, il
bambino è sì unico e specifico, autonomo e protagonista, ma anche dipendente dalle
relazioni con gli altri, che costituiscono il marchio che qualifica il suo protagonismo e la
sua autonomia. Senza tali relazioni, non ci sarebbe neppure la specificità del bambino. Il
bambino ha bisogno delle relazioni sociali, per crescere e diventare autonomo.
Le scuole dell’infanzia, così come gli asili nido, sono dunque coerenti con un
modello più generale costruito nella società che incontra molto successo tra gli esperti
ed i tecnici. Si tratta di un’idea di bambino che contiene una forte valenza pedagogica
positiva: diventato modernamente soggetto, il bambino deve anche acquisire a pieno
titolo i requisiti della cittadinanza ed essere rispettato (il termine “rispetto” è uno dei più
frequenti nella semantica delle scuole dell’infanzia) come qualsiasi altro individuo. Il
bambino è "al centro di tutto", protagonista principale del sociale. Il senso in cui ciò
viene inteso dalle insegnanti investe l’intera concezione della società.
L'accentuazione dell'idea dei diritti può anche portare a sottolineare un’idea di
bambino meno capace di autoaffermazione e quindi che necessita maggiormente del
rispetto della sua specificità e peculiarità, e quindi di protezione, come tipicamente
accade negli asili nido. Anche in questo quadro solo molto raramente si osserva il
bambino da una prospettiva completamente tradizionale di passività e dipendenza: “E’
un bambino piccolo che ha bisogno di una guida ben precisa” (AP, scuole dell’infanzia).
La diversa connotazione che viene assegnata al rapporto con l’ambiente sociale produce
effetti sul piano della rappresentazione sociale complessiva: in questi casi, il bambino
risulta essere meno autonomo e più legato alle relazioni. Il paradosso
dell'argomentazione emerge soprattutto quando si accostano la completezza del bambino
e la sua incapacità di autosviluppo, che richiede un aiuto, una guida. Emerge così una
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differenza di prospettive tra chi sottolinea primariamente l’autonomia del bambino e chi
invece sceglie di porre l’accento primariamente sull’influenza sociale.
In alcuni casi, l'idea di differenza viene ricondotta a quella di disuguaglianza e
trattata come problema, sottolineando come l’intervento debba ridurne l’impatto. In tali
casi, le differenze possono essere osservate con riferimento alle classi sociali, alle
aspettative dei genitori, alle etnie, alla religione, oppure alle difficoltà specifiche dei
bambini (aggressività, isolamento, rifiuto del cibo, ecc.), spesso originate nell'ambiente
familiare, o ancora all’handicap. Parlando di differenze tra bambini, dunque, emergono
anche prospettive diverse: ciò accade dove l'intervento risulta più difficile, dove cioè
risulta più evidente la difficoltà di trattare comportamenti o atteggiamenti “anomali”,
rimodellandoli nella logica della “positività” delle differenze. Questa osservazione si
accompagna ad una concezione del bambino meno incentrata sull'autonomia e più tesa a
sottolinearne la posizione di “portatore di socialità” e di essere “in fieri”.
Riassumendo, la storia specifica del bambino si realizza come una paradossale
autocostruzione sociale. In questa storia, il bambino è protagonista ma anche prodotto,
sviluppa un'autonomia che presuppone un'eteronomia, è già, ma non è ancora, capace di
autonomia. Le scuole dell’infanzia si dibattono nel dilemma tra autonomia individuale e
determinismo sociale, seguendo la modalità attualmente egemone di risolvere la
questione in modo paradossale, cioè legittimando entrambe le posizioni.
3. Una società nemica dei bambini?
In modo complementare alla narrazione del bambino protagonista, viene prodotta una
narrazione della società che possiamo riassumere sotto l'etichetta di “società ostile” ai
bambini, priva di considerazione per loro. Soprattutto tra esperti ed operatori
dell'infanzia, è diffusa l'idea di un’esigenza di cambiamento nei rapporti tra società e
bambino. La dimensione attiva e personale, il protagonismo del bambino non
caratterizzano effettivamente la sua attuale posizione sociale: in questa prospettiva,
nonostante le apparenze, attualmente, il bambino non viene rispettato pienamente. Il
rispetto per la persona del bambino è un obiettivo per il futuro, la cui realizzazione è
ostacolata da imponderabili forze sociali. Le “componenti” della società ostile, secondo
questa prospettiva, sono fondamentalmente tre: la famiglia, i mass media e la società
politica.
L’impostazione più estrema di questo approccio può essere osservata nelle
istituzioni di Ancona, come mostra la seguente citazione: “Se mi chiedessero vuoi
tornare bambina? Direi sicuramente no; no in questa scuola, no in questa società. Io mi
ricordo di quando ero bambina, di tutto il tempo passato in cortile insieme ai bambini di
tutte le età, della serenità sia a casa che a scuola, non c'erano tante attività extrascolastiche, per cui io mi troverei a disagio in questa società… e penso a questi bambini,
che non hanno più il cortile, non hanno più la strada, non hanno più una famiglia, anzi, a
volte deludono le aspettative dei genitori, perché il ruolo del bambino di oggi sembra
proprio soddisfare i desideri dei genitori, non i propri. Il fatto è che i tempi dei bambini
non sono quelli degli adulti… eppure è a questo che si devono adeguare, e dare
adeguate risposte” (AN, scuole dell’infanzia).
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Secondo questa versione, il bambino di oggi, in realtà, non è protagonista della
sua vita, non è l’attore principale, ma solo una comparsa, non è soggetto. Non è più
abituato a vivere i suoi momenti, ma a farsi vivere; non fa, ma lascia fare; sa molte
cose, ma in realtà non conosce nulla. In questa maniera di concepire la condizione
dell’infanzia, oggi, i bambini sembrano essere subito inseriti in circuiti propri di una
società adulta che non rispettano i suoi tempi: non è più l’adulto che si adatta al
bambino e ne rispetta i tempi, ma è il bambino che si adatta ai tempi dell’adulto. Il
bambino è un piccolo "computer programmato", con degli orari fissi, stabiliti: è
iperstimolato, ma privato di fantasia e creatività, non sa neppure più giocare
semplicemente, cosa che dovrebbe essere per lui naturale. Quest’idea è ampiamente
condivisa anche nelle istituzioni di Urbino, dove si ritiene che si crei per il bambino una
necessità di adattamento subordinato ad un mondo degli adulti che presenta propri
tempi e propri spazi. Questo adattamento, che in se stesso presenta molti limiti e fa
emergere difficoltà di socializzazione, è però anche accompagnato da una stimolazione
cognitiva più ricca, anche se, o proprio perché, meno “spontanea” ed assai più
organizzata.
Questa concezione può anche essere drammatizzata, esasperando il significato di
“negazione” del minore: “Dire magari ad un bambino se vai a scuola mamma ti compra
un gioco, quella è violenza, perché bisogna capire perché il bambino non vuole andare a
scuola, che ha, non mandarlo per liberarsene, accontentarli in tutte le richieste, quella è
violenza, perché il bambino si rovina in questo modo” (AP, scuole dell’infanzia).
La famiglia, come abbiamo visto, è il “bersaglio” preferito delle critiche delle
istituzioni educative. Ciò è particolarmente evidente, ancora, ad Ancona. Più in
generale, è opinione diffusa che la famiglia non renda il bambino partecipe e
protagonista della comunicazione affettiva e ludica e crei norme sbagliate nel rapporto
con esso.
La famiglia è dunque fondamentale come ambito accogliente ed amorevole, ma
anche in quanto ostacolo per la socializzazione e l’educazione. Anche l'affetto della
madre è sì considerato il fondamento del benessere del bambino, ma anche visto come
l'ostacolo per un suo inserimento pieno nella società: infatti, crea dipendenza. A causa
delle modalità interattive in famiglia, il bambino non è più capace a fare da solo. Il
bambino è circondato da mamme e nonne che si sostituiscono completamente a lui ed è
quindi incapace di fare anche le cose più semplici. I bambini sono dipendenti dalla
famiglia sia perché hanno un attaccamento morboso nei confronti dei genitori (motivato
da una ferquente effettiva lontananza fisica dagli stessi), sia perché non svolgono
autonomamente con i genitori quelle attività che sono invece in grado di svolgere
tranquillamente all’interno della scuola (“A casa non mangiano da soli, non si lavano da
soli ecc.”). Questo potrebbe essere il risultato, da una parte, dell’atteggiamento dei
genitori che permettono solo raramente al proprio figlio di esercitare le proprie capacità
e, dall’altra, dell’atteggiamento del bambino che attraverso queste reazioni costringe il
genitore ad una maggiore attenzione nei suoi confronti.
L’attribuzione di dipendenza dalla famiglia ai bambini è estremamente evidente
dai dati del questionario compilato da 319 tra educatrici ed insegnanti. Soprattutto nelle
scuole dell’infanzia, l’osservazione di dipendenza è quasi generalizzata. Negli asili
nido, invece, assume un certo peso quella della sfida e dell’aggressività, forse legata
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all’idea che i bambini ricattino i genitori nella fase dell’inserimento o comunque per
essere lasciati nell’istituzione.
Tabella 1
Come definirebbe l’atteggiamento dei bambini nei confronti della famiglia
Autonomia
Dipendenza
Sfida
Competizione
Aggressività
Silenzio
Totale
v.a.
Scuole
10,7
Asili
16,5
Totale
13,0
80,9
2,8
1,7
2,2
1,7
61,7
13,9
0,9
7,0
0,0
73,4
7,2
1,4
4,1
1,0
100
178
100
115
100
293
Nelle testimonianze rese durante le interviste emerge che, in aggiunta alla dipendenza
creata nei bambini, la famiglia presenta altri aspetti negativi, dovuti essenzialmente alla
fretta (dimensione temporale) ed al consumismo (dimensione materiale), che insieme
distruggono le “buone” relazioni affettive (dimensione sociale). Dunque, è evidente che
la dipendenza è per molte educatrici ed insegnanti il risultato di questa situazione
familiare e non di un "eccesso" di affettività.
Come abbiamo detto, in questa visione complessiva le due dimensioni
fondamentali del problema “famiglia”, condivise da quasi tutte le educatrici e le
insegnanti interpellate, sono la fretta ed il consumo, che sono all’origine di una
dipendenza, oppure anche di sfide e aggressività, per i più piccoli.
La fretta: i genitori lavorano molto, vanno sempre di corsa, non hanno tempo per
i bambini; non c'è rispetto per i tempi del bambino, che viene coinvolto in vicende
troppo grandi per lui, oppure lasciato solo, al cospetto dei mass media (la baby-sitter
elettronica), o alla gestione dei nonni (osservati da una parte come membri di diritto di
una famiglia allargata felicemente relazionale e dall'altro come area di parcheggio
inadeguata). A questa gestione affettivamente povera viene imputata anche la richiesta
proveniente dai genitori di prolungare il tempo passato a scuola, che, come abbiamo
visto, viene osteggiata dalle insegnanti.
Il consumismo: senza tempo per i bambini, senza poter dare affetti, assillati da
ansie e sensi di colpa, i genitori compensano comprando ai figli tutto e di tutto, cedendo
immediatamente ad ogni insistenza del bambino, non creando alcun tempo di latenza, o
di attesa, sregolando in tal modo ogni aspettativa e così spingendo il bambino ad
elaborare pretese sempre più elevate, prive di autocontrollo. I bambini mancano di
regole perché non vivono tempi sereni e tranquilli, non sono abituati ad aspettare per
avere e, quindi, rimangono egocentrici. L'egocentrismo si prolunga a causa di una
socializzazione anaffettiva e materialistica.
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La fretta ed il consumismo sono indicatori della superficialità: i rapporti non
sono affettivamente significativi, non sono intensi e profondi, ma superficiali, giocati in
tempi stretti, assenti, compensatori. La dimensione sociale viene così marginalizzata dal
consumo e dalla mancanza di tempo, oppure dall'imposizione di un tempo inadeguato.
Questo accento critico è molto evidente ad Ascoli Piceno, dove i problemi della
famiglia vengono particolarmente sottolineati.
L'iperorganizzazione della vita del bambino è un aspetto complementare di
questa marginalizzazione paradossale, dell'immagine di un bambino che è al centro
dell’attenzione ed insieme reso incapace di esprimersi e di essere effettivamente
autonomo: i genitori compensano anche con una gestione fuori misura dei tempi del
bambino, mandandolo a destra e a manca perché si educhi, tra lezioni di pianoforte e
attività sportive. L'adulto diventa direttivo e programmatore, gestisce tutta la vita del
bambino senza lasciargli spazi e tempi autonomi. Questa iperorganizzazione e questa
gestione fuori misura dei tempi si accompagnano ad aspettative eccessive dei genitori,
di crescita affrettata, di cognitivizzazione estrema.
Bombardato di stimoli di ogni sorta, il bambino deve essere, e spesso è,
ipercompetente: ma, in realtà, si impoverisce, si riducono la sua fantasia ed il corretto
sviluppo delle sue competenze. I bambini hanno perso il potere di desiderare: di fronte
ai bisogni relazionali ed affettivi, al bambino si offrono delle risposte materiali o
orientate alla mera cognitivizzazione. Questa forma di socializzazione produce bambini
più disorientati che in passato, in quanto pressati da molti stimoli ben confezionati, ma
troppo poco stimolati, invece, a creare, ad inventare, a fantasticare. Si tratta di bambini
ansiosi, sottoposti a ritmi frenetici, bambini che sono per lo più figli unici e quindi
idealizzati, bambini dai quali ci si aspetta tutto e subito.
Si riscontra un legame tra un’autonomia soltanto di superficie ed un’insicurezza
emotiva profonda, che viene scaricata nel contatto con gli altri, un’aggressività non
rivolta all’Altro, ma dovuta al bisogno di scaricare le proprie inquietudini nascoste. Il
disinteresse per la creatività e la produzione di una realtà preconfezionata minano la
"vera" competenza del bambino, che diventa sempre più insicuro, perché incitato alla
prestazione e all'ipercompetenza, senza rispetto per i suoi tempi e per le sue esigenze di
rassicurazione, di tranquillità, di serenità.
Il bambino è isolato socialmente, anche quando è apparentemente circondato da
genitori che lo accudiscono, nonni disponibili a "tenerlo", associazioni che organizzano
il "tempo libero" (che così libero non è).
In questo panorama, soltanto in rare occasioni, e quasi soltanto nei nidi, la
famiglia viene osservata positivamente.
L’assedio e l’isolamento del bambino vengono completati dai mass media, che
contribuiscono ad alimentare pretese (attraverso l'inno al consumo che quotidianamente
innalzano con la pubblicità), a surrogare gli affetti e ad impoverire in generale la
personalità, incluse le abilità manuali e manipolative. I mass media omologano, quindi
impoveriscono, riducono gli spazi di autonomia, incentivano la dipendenza dagli altri. I
bambini sono abituati ad essere piazzati davanti alla televisione o a guardare una
videocassetta: tutti giochi preparati pronti per l'uso, giochi intellettivi, ma poco creativi.
D'altra parte, lo spazio urbano non offre risorse adeguate per il tempo libero dei
bambini, non offre opportunità di socializzazione esterna alla scuola, con coetanei ed
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adulti. La società politica non sa creare spazi adatti ai bambini, neppure in città che
vantano un impegno sociale elevato, come Pesaro.
In sintesi, il disagio che secondo insegnanti ed educatrici caratterizza l’infanzia nella
società attuale può essere classificato secondo quattro modalità :
1) aggressività ed insicurezza (che si manifesta con l'isolamento), comportamenti che
indicano una scarsa capacità di condividere gli spazi e di mettersi in relazione con gli
altri;
2) solitudine, «bambini soli, soli psicologicamente, perché abituati a stare soli, a giocare
soli e con giochi che non possono che essere fatti da soli» (AN);
3) stress, per i troppi impegni voluti dai genitori;
4) scarsa autonomia, per la dipendenza dalla famiglia e perché la giornata è organizzata
nei minimi particolari e ciò comporta che i bambini non sappiano più organizzarsi, con
conseguente rallentamento della conquista dell’autonomia e aumento delle difficoltà
nell’affrontare i problemi.
Solo raramente si osserva una maggiore ambivalenza nel prospettare il rapporto
tra bambino e società, come in queste affermazioni di un'intervistata : “Tutte le cose che
ci sono oggi, la televisione, i libri, le cassette, hanno arricchito molto i bambini. Ci sono
conseguenze positive e negative. Positive: imparano prima, conoscono prima le cose,
hanno più mezzi. Negative: che oggi li trovo un po’ troppo aggressivi, forse saranno i
programmi, sarà che per forza oggi devono essere uno superiore all’altro, questa
competitività…acquistano un po’ di aggressività, quando un bambino fa qualcosa che
non va ad un altro questo lo aggredisce, non ci sono più quei modi “no, è mio e adesso
me lo ridai”, vediamo subito botte, pugni dietro la schiena” (AP, scuole dell’infanzia).
Sempre da Ascoli Piceno provengono le voci che ancora meno frequentemente si levano
contro questa visione e che dissentono apertamente dal modello di gran lunga
prevalente: “Si parla tanto del bambino violentato dai mass media…però i bambini che
io conosco li vedo normali. Io proprio queste grandi tracce di violenza non le vedo,
chiaramente sono influenzati dal modo di vivere che è diverso da quello che è stato il
mio e dei loro genitori, però non li vedo così traumatizzati. Siamo forse noi che ci
poniamo più problemi di quelli» (AP, scuole dell’infanzia); “I bambini di adesso sono
più spigliati, più autonomi, i bambini di prima erano un po’ più sprovveduti, un po’ più
spaventati, adesso invece…” (AP, asili nido).
4. La funzione delle istituzioni educative
In questo panorama sociale l’istituzione educativa si propone come baluardo contro il
consumismo, la fretta, l'iperorganizzazione, le aspettative di crescita affrettata,
proponendo i valori dell'autonomia personale, del protagonismo del bambino, del
rispetto per i tempi, della relazionalità interpersonale, del corretto sviluppo delle
competenze. La preoccupazione per l’eccesso di aspettative viene legittimata in base
alla concezione di un bambino che deve essere autonomo e protagonista, in una fase di
sviluppo che ha esigenze peculiari di protezione e di orientamento. Su queste basi, si
propone un modello di sviluppo alternativo a quello proposto dalla società esterna: nelle
istituzioni educative per l’infanzia si forma la “vera” competenza del bambino.
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L’istituzione interviene a ridare quei punti fermi che il bambino non ha più,
perché sottoposto ad un regime di fretta e di insicurezza. I bambini non hanno difficoltà
di apprendimento, ma hanno bisogno di maggior ordine, di ridimensionare le troppe
cose che fanno o che sono costretti a fare: “I bambini di oggi hanno bisogno di fare
poche cose, ma fatte bene. Fanno troppo di tutto, ed hanno troppo di tutto… anche i
troppi giochi sono sinonimo di caos, perché alla fine non sanno come usarli; non sanno
cosa fare e come fare” (AN, scuole dell’infanzia).
L’istituzione, soprattutto, rispetta le differenze tra i bambini e promuove
l’autonomia.
Sulle differenze tra i bambini, si interviene "adeguandosi in tutto e per tutto alle
loro esigenze", poiché “imporre equivarrebbe ad una violenza” (UR, Asilo Nido).
Soprattutto le educatrici dei nidi dichiarano di cercare di adeguarsi al carattere del
singolo bambino, non solo nel rapporto relazionale, ma anche nella programmazione
della giornata, come nel gioco e nella routine.
I bambini non devono essere trattati tutto allo stesso modo, ma a tutti va prestata
la dovuta attenzione: “se ne hai 18, tutti e 18 devono andare via che sono soddisfatti”
(AN, asili nido). Le differenze “ammissibili” nel trattamento devono rispondere, quindi,
alle diverse esigenze dei bambini: “Se capita il piccolino che vuole stare in braccio, e
non ho altri bambini che vogliono stare in braccio .. se posso farlo lo faccio” (AN, asili
nido).
L’istituzione tenta di valorizzare le differenze, mettendo in evidenza come tutti i
bambini, anche i più svantaggiati o problematici, possono essere apprezzati per lati
positivi e possono manifestare tali aspetti ove vengano messi nelle condizioni di farlo:
la valorizzazione delle differenze produce nel bambino sicurezza e fiducia nelle proprie
capacità. L’istituzione deve dunque rafforzare le capacità, partire dal fatto positivo che
il bambino possiede già delle competenze.
L’autonomia è un punto di partenza considerato essenziale praticamente in tutte
le interviste realizzate. Si tratta di un concetto chiave che non può essere eluso
nell’attuale società, per quel che riguarda i risultati attesi per i bambini. Per questo
motivo, tra le linee guida che improntano l’azione delle educatrici e delle insegnanti ha
un particolare peso il riconoscimento e la promozione dell’autonomia come valore
positivo, al cui conseguimento viene attribuito un particolare significato educativo.
Quando parlano di autonomia, le educatrici e le insegnanti si riferiscono a
concetti differenti a seconda dell’età, o meglio, della fase di sviluppo raggiunta o da
raggiungere. Quale che sia l’età del bambino, viene comunque evocata una nozione
complessa, che si gioca su una pluralità di ambiti e di valenze: quella fisiologica (ad es.,
essere puliti, mangiare e vestirsi da soli), quella psicologica (concepita come possibilità
e capacità di fare da soli delle scelte, delle esperienze o di pensare con la propria testa) e
quella affettiva (intesa come “indipendenza” graduale dai genitori).
Si considera essenziale per l’educazione di tutti i bambini sviluppare il senso
dell’attività autonoma. Quest’ultima è concepita come una conquista grazie alla quale i
bambini possono accumulare esperienze che favoriscono uno sviluppo armonioso,
motorio ed intellettuale, che appare come l’esito “naturale” della sperimentazione di
situazioni varie e stimolanti e della capacità di padroneggiare nuove esperienze. Così si
sviluppano le attitudini per una crescita creativa e responsabile. La capacità di essere
autonomo è quindi considerata fondamentale per l’avvenire del bambino, nella
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prospettiva dello sviluppo e della crescita: tutti i bambini devono essere messi fin dalla
più tenera età in condizioni tali da poter scoprire il piacere che può derivare dal fare le
cose da soli.
L’autonomia dunque è un cammino che il bambino intraprende con l’aiuto
dell’educatrice e dell'insegnante, per passare dal “mamma ti fa”, all' “io faccio”. Si tratta
del passaggio dall’essere oggetti all'essere soggetti del proprio vivere.
Negli asili nido, si sottolinea che, essendo l’autonomia un traguardo da raggiungere con
gradi diversi a seconda dell’età, l'aspetto essenziale è quello dell’atteggiamento
stimolato dalle educatrici, le quali si rendono conto che in presenza di bambini così
piccoli è inevitabile un grado di dipendenza fisica maggiore rispetto agli altri gradi
scolastici.
In considerazione del contesto del nido, si intendono per “autonomia” soprattutto
azioni elementari, come quelle che riguardano l’assunzione del cibo, l’igiene, ecc.,
azioni che si evolvono nel corso degli anni. Ancora nella scuola dell’infanzia
l’autonomia è considerata ad un livello “elementare”, sia sul piano personale, nel
disbrigo delle piccole cose quotidiane, sia nel rapporto che il bambino instaura con gli
altri per il rispetto delle regole del grande e del piccolo gruppo ; il traguardo finale è
rappresentato dall'autonomia di giudizio.
L’autonomia si consegue sia a livello fisico, sia soprattutto a livello mentale,
dove significa essenzialmente imparare a vedere le cose sotto più punti di vista ; si tratta
di un obiettivo cui si perviene tramite l'attività manuale, la lettura, la drammatizzazione.
Si tratta, quindi, di un’autonomia non solo fisica, ma anche psicologica, propria di chi
impara dalle piccole cose a “badare a sé, perché non c'è sempre chi lo può fare al posto
suo” (AN, scuole dell’infanzia). Questi aspetti vengono messi particolarmente in
evidenza ad Ascoli Piceno, dove questo piano doppiamente cognitivo dell’autonomia è
particolarmente accentuato.
Nelle scuole dell’infanzia autonomia significa non dipendere dagli altri, riuscire
a risolvere i problemi da soli, senza rivolgersi sempre all’insegnante, avere fiducia nelle
proprie possibilità, essere responsabili e coscienti delle cose che si fanno. Autonomia
significa sapersi muovere nell'ambiente che si ha a disposizione, significa rispetto dello
spazio “mio” e dello spazio “altrui”. Autonomia è sapere vivere lo spazio, muoversi
nell'ambiente, un ambiente in cui non si è soli, in cui per ogni attività c'è un angolo
predisposto, dove non serve l’insegnante per guidare, perché “io so” e so anche che per
muovermi in determinati spazi ci sono delle regole da rispettare.
Inoltre, autonomia è anche imparare a prendersi le responsabilità delle proprie
azioni, sapere riconoscere la propria identità, autocontrollo, organizzazione, elasticità
mentale.
Nel complesso, l’autonomia non è tanto un orientamento presente dei bambini,
quanto un orientamento delle educatrici e delle insegnanti per il futuro, che le
contrappone in modo evidente alla prospettiva osservata nei genitori. Infatti, le
educatrici tendono a contrapporre il proprio atteggiamento a quello che esse ritengono
tipico dei genitori. Una misura di dipendenza è comunque inevitabile per ogni bambino,
come quella che i bambini manifestano nei confronti delle educatrici stesse nel loro
quotidiano rapporto. Ma questa dipendenza appare per così dire fisiologica, non
patologica come quella che si creerebbe in famiglia.
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Anche nelle scuole dell’infanzia si sottolinea che la dipendenza dalla famiglia
deve diventare autonomia nei confronti delle insegnanti, perché questo è il fine cui
tende la scuola ; si riconosce peraltro che per certi aspetti permangono anche inevitabili
forme di dipendenza dalle insegnanti.
I risultati “provvisori” del lavoro educativo sono illustrati nella tabella 2, che
registra l’opinione delle 319 educatrici ed insegnanti sull’atteggiamento del bambino
verso di loro ; si segnala un consistente aumento dell’osservazione dell’autonomia
rispetto a quanto si vede in famiglia, anche se comunque per molte intervistate tale
autonomia non è realizzata, poiché complessivamente essa viene osservata da meno
della metà delle intervistate. Un fatto interessante è che l’autonomia è segnalata assai
più frequentemente al nido che non alla scuola dell’infanzia, dove si osservano più
spesso dipendenza, sfida, aggressività e silenzi.
Tabella 2
Come definirebbe l’atteggiamento dei bambini nei confronti degli insegnanti
Autonomia
Dipendenza
Sfida
Competizione
Aggressività
Silenzio
Totale
v.a.
Scuole
40,5
Asili
60,2
Totale
48,3
39,3
9,2
1,7
3,5
5,8
30,1
4,4
0,9
0,9
3,5
35,7
7,3
1,4
2,4
4,9
100
173
100
113
100
286
Che i problemi non siano completamente risolti per questi bambini, è resto evidente
anche dal dato relativo ai rapporti con i coetanei che, lungi dall’essere caratterizzati da
autonomia, sono primariamente rappresentati come competitivi o aggressivi (tab. 3).
Ancora una volta, è nella scuola dell’infanzia che si assumono la competizione e
l’aggressività come atteggiamenti dominanti: complessivamente ben il 72% delle
insegnanti osserva comportamenti di questo tipo. Invece, l’autonomia viene osservata
assai più frequentemente negli asili nido
Tabella 3
Come definirebbe l’atteggiamento dei bambini nei confronti degli altri bambini
Autonomia
Dipendenza
Sfida
12
Scuole
21,2
Asili
31,8
Totale
25,3
3,9
2,8
2,7
8,2
3,5
4,8
Competizione
Aggressività
Silenzio
38,8
33,5
0,6
30,0
26,5
0,9
34,9
30,8
0,7
Totale
v.a.
100
179
100
110
100
289
Come si può notare, l’osservazione diretta dei rapporti tra bambini accentua, anziché
ridurre, i dubbi e le perplessità delle educatrici e delle insegnanti sulla loro
socializzazione. Anziché il bambino protagonista e lieto che racconta la favola moderna
dell’infanzia, le insegnanti soprattutto osservano un bambino aggressivo e competitivo,
che sembra proprio il risultato della dipendenza familiare, molto più che della
promozione e dell’educazione all’autonomia operate nella scuola.
Infatti, soprattutto nella scuola dell’infanzia (dove i dubbi sono più accentuati),
più che di bambini autonomi, si parla di necessario raggiungimento di un fine di
autonomia, o comunque di autonomia intesa come atteggiamento differenziato dei
bambini verso le insegnanti, e verso i genitori. Quando si parla di bambini di tre anni
della scuola dell’infanzia, si riconosce che la situazione di dipendenza è ancora normale,
o “naturale”, perché "sono bambini che devono superare ancora la fase dell'inserimento
(anche per quelli che hanno frequentato il nido, perché comunque è una scuola nuova),
perché devono imparare a socializzare, a rendersi conto degli altri" (PS, Scuole
dell’Infanzia). Si conferma che le educatici dell’asilo nido riscontrano problemi di
dipendenza e di relazione con meno frequenza rispetto alle insegnanti delle scuole
dell’infanzia. Torneremo su questo punto in sede di conclusioni del capitolo.
Nelle scuole dell’infanzia di Ascoli Piceno, che nuovamente fanno emergere
elementi di differenziazione rispetto alle altre sedi, abbiamo riscontrato uno scetticismo
particolarmente diffuso nei confronti della possibilità che i minori di raggiungano una
condizione di autonomia e, dunque, anche della capacità scuola di promuoverla, come si
può notare da un’affermazione come la seguente: “A cinque anni sono più autonomi che
a tre, certo, però un’autonomia nel senso profondo, di fronte ad un problema saperlo
risolvere, sia pratico, sia organizzativo nei giochi, sia di iniziativa di una attività, sia
nella gestione dei rapporti, sia anche un controllo delle proprie emozioni, questi non ci
arrivano e non ci arrivano neanche da adolescenti, gli adolescenti di adesso sono fragili”
(AP, scuole dell’infanzia).
In sintesi, al di là del caso delle scuole di Ascoli Piceno, il bambino viene sì
considerato autonomo ed attivo, ma l'autonomia viene osservata come una conquista.
L’autonomia è in divenire: non esisterebbe, quindi, una linea di confine tra dipendenza
ed indipendenza e si osserva piuttosto un graduale processo che cerca di potenziare la
seconda e di ridurre la prima, peraltro senza che sia possibile prospettare nella vita di
una persona l’effettivo conseguimento di un chiaro ed univoco livello ultimo di
autonomia,. Il raggiungimento di un'identità e di un'autonomia personale vengono
considerati in molte scuole come i momenti fondamentali della crescita per i bambini.
Si tratta spesso dell'autonomia “di poter fare ed essere libero di fare anche con
tranquillità e con sicurezza” (PS, scuole dell’infanzia), attraverso la quale il bambino
“riesce a fare le proprie esperienze da solo, sia nei contatti con i coetanei, che con gli
adulti” (PS, scuole dell’infanzia).
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Il fatto che l'autonomia sia intesa come un momento di crescita implica che
esista una condizione precedente non autonoma. Il bambino non nasce autonomo, ma lo
diventa, grazie ad un’influenza sociale positiva. Per spiegare questo fenomeno evolutivo
in alcune scuole di Pesaro si ricorre ad un’idea accessoria, che accentua la paradossalità
della concezione: si tratta dell'idea di egocentrismo. L'egocentrismo è il punto di
partenza che deve essere superato nel rendersi conto, da parte del bambino, di essere un
individuo e una persona a sé, con i propri sentimenti. Si tratta della teoria del bambino
egocentrico che passa al decentramento. Il ricorso a tale teoria rende conto del carattere
acquisitivo dell'autonomia e costituisce una sfida implicita al modello del bambino
attivo e protagonista: il bambino è protagonista soltanto da un certo punto in poi della
sua vita. Sono le relazioni che permettono di uscire dall'egocentrismo ed in questo
l’istituzione educativa ha una funzione decisiva. La famiglia, invece, sembra costituire
spesso un ostacolo. E' infatti la relazione materna che si accompagna all'egocentrismo
ed è dalla relazione materna che l’istituzione educativa, implicitamente o
esplicitamente, dichiara di prendere le distanze. Le nuove relazioni sociali che
eliminano l'egocentrismo creano anche condizioni di distacco dalla madre, favoriscono
un ingresso nel mondo sociale più complessivo, nel rispetto dei tempi e dei bisogni del
bambino, sono incentrate sull'ascolto e sulla promozione della capacità di espressione.
La prospettiva dell’istituzione
Dal punto di vista sociologico, osserviamo un problema nella prospettiva delle
educatrici dell’asilo nido e, ancor più, delle insegnanti della scuola dell’infanzia. Tale
problema riguarda la prospettiva di un’osservazione dall'esterno del mondo e della
cultura dell’infanzia: quanto viene descritto (in negativo) non tocca le istituzioni
educative, le quali si collocano come baluardo a difesa dei bambini situandosi
all'esterno di una società che si presume ostile nei loro confronti. Tali istituzioni si
autoosservano come un alleato prezioso per il bambino, un alleato che sta sempre dalla
sua parte e che non ha nulla da spartire con quanto di negativo viene osservato nel resto
della società.
Questa autocollocazione appare alquanto improbabile. Non solo un osservatore
neutrale può legittimamente dubitare della compatta e coerente positività delle
istituzioni educative, senza per questo dubitare della professionalità delle educatrici e
delle insegnanti, ma inoltre risulta assai improbabile che il bambino stesso non
identifichi l’istituzione come parte costitutiva di quella società che l’istituzione stessa
critica. Detto in altri termini, l’istituzione si autocolloca fuori dal medesimo contesto in
cui, invece, viene presumibilmente collocata dal bambino.
Le educatrici e le insegnanti non prendono con il bambino una posizione
apertamente ostile alla società, astenendosi soprattutto dal muovere critiche esplicite
alla famiglia; ciò appare loro inopportuno sul piano educativo. In tal modo, la loro
posizione critica può facilmente apparire come una sterile petizione di principio e, forse,
anche come un’autoesclusione da processi sociali su cui si può lavorare anche “dal di
dentro”, come da altre parti si suggerisce.
Questa posizione rispecchia forse, almeno talvolta, la nostalgia di un bambino (e
di un ambiente sociale) che appartiene alla storia delle educatrici e delle insegnanti,
come rivela la seguente osservazione: “Io, all'inizio della mia carriera, avevo anche
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trenta bambini, ma era più semplice, perché il bambino era più semplice: oggi i bambini
ti arrivano a scuola con tanti problemi, problemi psicologici, affettivi… e con genitori
che non facilitano il compito dell'insegnante” (AN, scuole dell’infanzia).
Come spesso accade, soprattutto dopo il tramonto delle illusioni per il progresso
futuro, la minore complessità sociale di un passato che si presume felice ("il mondo che
abbiamo perduto") può diventare la sirena suadente che porta ad osservare
negativamente una serie di processi altrimenti concettualizzabili come il risultato di
un’evoluzione nella quale aspetti positivi e negativi sono sempre e comunque
concomitanti. Il passato diventa tanto migliore nel (falso) ricordo, quanto più
contemporaneamente si rende negativa o addirittura si demonizza la visione del presente
e la prospettiva del futuro. La posizione espressa da educatrici ed insegnanti può essere
ricondotta alla più generale prospettiva antimoderna, che tanta parte ha occupato
nell'immaginario collettivo di un paese come il nostro, in cui si è sempre ritrovata in
posizione di minoranza se non addirittura di marginalità la fiducia illuminista e
positivista nel progresso sociale.
Forse osservando criticamente i rischi impliciti in questa linea di ragionamento,
peraltro maggioritaria, un’insegnante osserva anche che, anche per ottenere risultati
“educativi”, il bambino viene raccontato dagli adulti secondo stereotipi sociali generali
che lo incasellano in categorie: “Ognuno dal suo punto di vista se ne prende un
pezzettino e si arroga il diritto di dire "Dovrebbe essere in questo modo" e allora diventa
scuola terapeutica, scuola educante, scuola confessionale” (PS; scuole dell’infanzia).
Chi avverte questo rischio di parcellizzazione del bambino ritiene per lo più che
possa essere compensato attraverso un distacco tecnicizzato, che non significa
disattenzione o disinteresse, ma diverso modo di comunicare: “Questi bambini hanno la
fortuna di vivere in ambienti dove lo sguardo non è sempre presente su di loro e hanno
l'opportunità di fare questa crescita individuale e soggettiva, nonostante gli adulti siano
presenti, ci siano, ma non condizionino completamente lo sviluppo e la crescita del
bambino. Diciamo che ci sono questi piccoli meandri di salvaguardia” (PS, scuole
dell’infanzia).
In queste affermazioni sono contenute due prese di posizione interessanti. Da
una parte, si riconosce che è la stessa narrazione sul bambino a costruire molti dei suoi
problemi, con particolare riferimento a quella specifica narrazione che poi si
materializza in educazione (implicitamente, ciò ricolloca le istituzioni all'interno della
società “problematica”). Dall'altra parte, si offre però anche una via d'uscita non
paradossale: una “salvaguardia” attiva, ma non stereotipizzante, che non getta
costantemente il proprio “sguardo” sul bambino, e che è capace di creare un contesto
protettivo ed insieme non invasivo.
5. Famiglie ed istituzioni educative
Uno degli aspetti che vengono messi in maggiore evidenza, soprattutto nelle interviste
ai responsabili dei servizi educativi, è quello del rapporto con le famiglie. Si insiste sul
fatto che è necessario ripensare il bambino nel quadro della famiglia ed offrire servizi
che siano rivolti alle famiglie stesse e non al bambino isolato.
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Soprattutto al nido, si sottolinea che un buon rapporto con la famiglia e la fiducia
del genitore nei confronti degli educatori sono considerati fondamentali per la serenità
del bambino. E’ quindi l’attenzione al minore che porta alla ricerca del dialogo e della
disponibilità “a tutti i costi”.
Le parole d’ordine sono disponibilità ed ascolto. Tuttavia, la comunicazione tra
istituzione e famiglia è difficile da gestire in quanto il ruolo dell’educatore si scontra
con la dimensione intima e privata del nucleo familiare. E' difficile entrarci ed
altrettanto difficile è uscirne. La prima precauzione è stabilire dei confini: la famiglia
decidere di “aprirsi” solo in base alla rilevanza del proprio figlio e l’educatore di
“ascoltare” in funzione di un lavoro più attento alla persona e alla storia del bambino.
Una collaborazione tra genitori ed educatori permette di capire meglio certi
comportamenti. Non sempre, però, i confini di cui si parla vengono rispettati. Il caso più
frequente è “l’errore di lasciarsi coinvolgere dalle problematiche familiare, di voler
risolvere anche a casa” (AN, asili nido), di entrare quindi in un rapporto di assistenza
sociale.
In generale, si richiedono ai genitori collaborazione e fiducia. Tuttavia, abbiamo
anche visto che in queste istituzioni educative l’immagine della famiglia non è
particolarmente positiva: vediamo ora se e come questo aspetto ha delle ripercussioni
sui reciproci rapporti.
L’inserimento
L’inserimento è il primo contatto significativo tra scuole e famiglie, che mette subito in
evidenza il tipo di rapporto tra questi due sistemi e crea le prime forme importanti di
comunicazione tra di essi. Su questa idea c’è un pieno accordo in asili nido e scuole
dell’infanzia che attribuiscono analogo peso all’inserimento, poiché viene osservato
come determinante per instaurare un rapporto significativo e fiduciario con le famiglie.
L'inserimento dei bambini, attraverso il quale avviene il rito di passaggio dalla società e
dalla famiglia alla scuola, rappresenta così il principale banco di prova dei rapporti tra
scuole e famiglie. La costruzione dell'inserimento rispecchia la concezione del bambino
e del rapporto tra famiglia e bambino che abbiamo visto caratterizzare insegnanti ed
educatrici : tranquillità e fiducia sono le due richieste primarie rivolte alle famiglie.
In tutti i casi presi in esame, si attua un inserimento graduale, mettendo “al
primo posto” il bambino come persona, con i suoi tempi, le sue esigenze, la sua
individualità. L’accoglienza è considerata particolarmente importante al nido, perché
rappresenta il momento del primissimo distacco e la sfida verso l’ambientamento in un
contesto sociale extrafamiliare.
Generalmente, il primo passo dell'inserimento consiste in colloqui preliminari
con i genitori, svolti diversamente nelle varie scuole, ma sempre presenti. In alcune
istituzioni si richiedono ai genitori informazioni sui propri figli, allo scopo di instaurare
un dialogo, facendo sentire il genitore ascoltato e, quindi, più vicino alle insegnanti;
nello stesso tempo, non lo si obbliga a dare alcuna informazione, dunque non fornendo
l'impressione di un controllo. Si tratta di un approccio che intende facilitare la
narrazione della storia del bambino e alleviare il senso di ansia e la paura del distacco
da parte dei genitori: si affida il figlio a qualcuno al quale si è già raccontata la sua
storia. Le informazioni spontaneamente e liberamente fornite dai genitori consentono
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poi alle insegnanti non solo di capire fin dall'inizio eventuali comportamenti anomali
del bambino, ma anche di verificare subito il livello di cooperazione dei genitori. Esiste
anche un’interpretazione più strategica di questo dialogo, dove lo si intende come uno
strumento atto ad acquisire un quadro più completo della situazione del bambino: anche
attraverso le attività (ad esempio, ricostruendo la storia della famiglia attraverso
disegni), la conoscenza e l'informazione indiretta così ottenuta permettono di “entrare”
nella storia familiare.
La seconda fase dell'inserimento consiste nell'ingresso graduale e per piccoli
gruppi dei bambini. Generalmente ai genitori viene fornita l’indicazione di portare i figli
sistematicamente, senza cedere ad eventuali richieste o pressioni di “pause” nella
frequenza, e di rimanere per un po' di tempo a scuola con il bambino per i primi giorni
o, in alcuni casi, per le prime settimane. La durata di questo percorso è il fattore di
maggiore variazione tra le istituzioni (da alcuni giorni ad alcuni mesi).
Talvolta negli asili nido l’inserimento avviene in gruppi molto piccoli (due o tre
bambini al massimo), per dare modo alle educatrici di seguirli da vicino. Seguendo una
metodologia piuttosto diffusa, al genitore viene chiesto di stare un’ora il primo giorno, e
poi a scalare, fino alla sua “messa da parte”, per fare subentrare l’educatrice, che prende
in mano pienamente la situazione. L'opinione generale, comunque, afferma che più si
prolunga la presenza del genitore a scuola, più lungo sarà il periodo di inserimento del
bambino, perché sarà per lui più difficile abituarsi all’assenza del genitore. Nelle scuole
dell’infanzia, invece, lo schema può prevedere l'inserimento sia con i genitori, sia senza
di essi. L’asilo nido “Primo Incontro” di Ancona ha applicato un nuovo metodo di
inserimento che prevede la presenza di gruppi di genitori, per dare ad essi la possibilità
di condividere i timori e le esperienze, e di stringere amicizie.
I problemi dell’inserimento vengono quasi sempre esplicitamente ricondotti
all’atteggiamento dei genitori (generalmente le madri), coerentemente con il modello
del rapporto di dipendenza tra madre e bambino. Giocano però un ruolo importante
l’educatrice e l’insegnante, che devono saper instaurare un rapporto di rispetto e fiducia
non solo (e non tanto) con il bambino, quanto soprattutto con i genitori, in virtù del fatto
che ad un genitore sereno corrisponde un bambino sereno, che tranquillamente
affronterà questa prova: “Un genitore sereno e fiducioso trasmetterà, di conseguenza,
serenità e fiducia al figlio” (UR, scuole dell’infanzia). Secondo questa prospettiva, i
genitori debbono essere “educati” anche più dei figli alla nuova esperienza. Infatti, è
ampiamente osservato che un buon rapporto di partenza con i genitori permette un
lavoro successivo adeguato: favorire la tranquillità dei genitori, quindi, significa
favorire la tranquillità del bambino e, soprattutto, potremmo osservare, quella delle
educatrici e delle insegnanti.
La questione presenta diversi aspetti. Da una parte, c'è il problema di creare
fiducia nelle madri e di convincerle a “cedere” i bambini alle insegnanti, superando i
sensi di colpa derivanti da quello che viene percepito come un abbandono: "Nessun
genitore ammette che è meglio lasciarlo a casa che mandarlo a scuola, però magari
dentro di sé ha dei timori" (PS, scuole dell’infanzia). Si sottolinea anche, più
sporadicamente, che, talvolta, i problemi insorgono anche quando il bambino non
piange o non ha particolari difficoltà, poiché le madri si sentono “sostituite” dalle
insegnanti e ciò suscita qualche gelosia. Nelle scuole dell’infanzia di Ancona non
sempre è richiesta la presenza del genitore, poiché — si sostiene “non ha senso la loro
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presenza, perché abbiamo notato che il bambino è sempre in ansia fin che c'è il genitore,
mentre si calma ed è più se stesso non appena se ne è andato; anche se, naturalmente, la
permanenza a scuola avviene in maniera graduale, lasciando come ultimo scoglio, il
pranzo” (AN, scuole dell’infanzia).
Dall'altra parte, c'è il problema opposto di convincere i genitori a non delegare
completamente, a non lasciare subito il bambino in balia della scuola, ma a seguirlo per
un po’. Questo secondo problema è diffuso soprattutto nelle famiglie in cui entrambi i
genitori lavorano, che hanno più premura di completare subito l'inserimento.
Le difficoltà hanno dunque la duplice caratteristica del silenzio e della
dipendenza. Per il successo dell'intervento della scuola sono essenziali il superamento
da parte dei genitori tanto dell'atteggiamento silenzioso, di disinteresse per la delicata
fase di inserimento del bambino, quanto dell'atteggiamento di dipendenza, di ansia per
le sue sorti. L'inserimento è quindi un banco di prova del successo educativo della
scuola: se l'inserimento funziona, si fissano già delle premesse, poiché vengono almeno
in parte interrotti dei percorsi silenziosi e dipendenti, in vista di un primo passo verso
l'autonomia.
Complessivamente, prevale l’osservazione di un processo di “delega” da parte
dei genitori, che può derivare da entrambi i percorsi e profilarsi pertanto non solo come
pura e semplice consegna di un “pacchetto” (silenzio), ma anche come accredito
incondizionato di fiducia sostitutiva (dipendenza).
Poiché i bambini che entrano per la prima volta nell’istituzione al momento
dell’ingresso nella scuola dell'infanzia non sono pochi, si spiega l’osservazione diffusa
delle ansie materne e dei processi di delega fiduciaria anche nelle scuole dell’infanzia.
Alcune insegnanti non sembrano però attribuire un grande peso neppure all'esperienza
del nido, anche perché la teoria del bambino prevede spesso che tre anni sia l’età giusta
per il distacco dalla madre.
In generale, ai genitori non vengono date consegne e, di fatto, si lascia libero il
singolo genitore di assumere atteggiamenti ed adottare comportamenti personalizzati
durante l'inserimento. La tesi secondo cui è primariamente rilevante “inserire” i genitori,
piuttosto che i bambini (“Si è inserita la mamma? Allora, si è inserito anche il
bambino”), spinge educatrici ed insegnanti ad attribuire peso all'acquisizione di fiducia,
alla tranquillità e alla serenità dei primi, in base all'idea che quella dei secondi ne
deriverà direttamente e che ciò permetterà di interrompere percorsi silenziosi e
dipendenti. In questa accezione, sono i genitori più che i bambini ad essere in carico per
i problemi di distacco.
I rapporti tra famiglie e istituzioni educative sono dunque contrassegnati fin
dall'inizio da una certa ambivalenza. Soltanto in un caso, ad Ascoli Piceno, è stato
riscontrato un giudizio completamente positivo, determinato da un impegno
“straordinario” delle insegnanti.
Informazione e partecipazione
Dopo l’inserimento i rapporti con le famiglie presentano due aspetti primari: a)
l'informazione, soprattutto dalla scuola alla famiglia; b) la creazione di rapporti
partecipativi basati sulla riflessione dell'esperienza del bambino e, dunque, sulle
aspettative dei genitori verso la scuola.
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Secondo molte educatrici ed insegnanti, far conoscere ai genitori la vita
all’interno dell’istituzione è un passo importante per sconfiggere un atteggiamento di
passività, sostanzialmente riconducibile alla logica della delega e quindi
all’assistenzialismo. Per controbattere questa tendenza si sostiene che si cerca
innanzitutto di potenziare e di diffondere le informazioni.
In quasi tutte le istituzioni educative che abbiamo esaminato, le informazioni
vengono fornite sia attraverso incontri periodici (spesso, anche se non sempre, secondo
una periodizzazione prestabilita, per un totale medio di tre o quattro incontri all'anno),
sia attraverso la frequentazione quotidiana della scuola. L’unica eccezione è quella degli
asili nido della parte meridionale della regione (Ascoli Piceno e San Benedetto del
Tronto), dove gli incontri periodici non erano ancora stati introdotti all’epoca della
ricerca, anche se erano in fase di progettazione a San Benedetto del Tronto.
In taluni casi si usano anche altri strumenti, come le videocassette che
documentano le attività, oppure l’esposizione dei materiali prodotti dai bambini. Da
quest’ultima modalità, secondo alcune educatrici dei nidi di Pesaro, molti genitori
traggono anche ispirazione per il gioco con i bambini a casa, creando così una linea di
continuità pedagogica tra nido e famiglia.
La disponibilità delle educatrici e delle insegnanti è sempre dichiaratamente alta
e non paiono emergere particolari problemi, sebbene si registri una certa variabilità
nelle disponibilità temporali delle scuole. Generalmente si ritiene che l'informazione sia
importante nel rapporto con le famiglie, sulla base del presupposto che un genitore
informato sia anche in grado di valutare correttamente l'operato dell’istituzione e quindi
di crearsi aspettative adeguate nei suoi confronti. Ad Ascoli Piceno si mette in
particolare rilievo l’aspetto “psicologico” del rapporto. E' però importante segnalare che
l’informazione si configura, per il modo in cui viene presentata dalle educatrici e dalle
insegnanti, in un apporto che l’istituzione fornisce in modo unidirezionale alle famiglie,
non come un percorso di scambio attivo in entrambe le direzioni. Ciò non significa che
le educatrici e le insegnanti non siano generalmente interessate ad instaurare un buon
rapporto con i genitori ed a coinvolgerli nella vita dell’istituzione. In questa prospettiva,
anzi, esse segnalano che la partecipazione è un aspetto fondamentale di questo rapporto.
Nella maggior parte dei casi, comunque, la gestione sociale non viene enfatizzata dalle
educatrici e dalle insegnanti, mentre in alcuni casi vengono invece sottolineati l’aiuto
pratico e la partecipazione nella realizzazione di feste o altre attività non direttamente
educative, esaltata soprattutto negli asili nido.
Anche le attività con il bambino, infine, vengono utilizzate come modalità di
rapporto con le famiglie, come fonti di informazione sul significato della famiglia,
oppure come occasioni di stimolazione della partecipazione dei genitori.
Le aspettative dei genitori
L’ambivalenza della prospettiva delle istituzioni educative ricompare con maggiore
evidenza per quel che riguarda l’osservazione delle aspettative dei genitori.
Tali aspettative appaiono alle insegnanti spesso piuttosto semplici e lineari.
Durante il primo periodo, esse si concentrano soprattutto sugli aspetti più materiali ed
immediati . Soprattutto inizialmente, all’asilo nido, per quasi tutti i genitori sono più
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importanti le aspettative strettamente collegate al soddisfacimento dei bisogni primari:
mangiare, bere, dormire, e così via.
Nella scuola dell’infanzia, soprattutto nell'ultimo periodo, le aspettative dei
genitori paiono concentrarsi, all’estremo opposto, sulla preparazione del bambino per la
scuola elementare, in un'interpretazione della scuola dell'infanzia come “prescuola”
(saper leggere e scrivere, in sostanza), che viene gentilmente, ma fermamente rifiutata
dalle insegnanti. Secondo alcune insegnanti delle scuole dell’infanzia, l'aspettativa di
prestazioni adeguate al futuro scolastico si riduce con il tempo, in base alla
consapevolezza che, comunque, anche se non adattata alle pretese specifiche della
scuola elementare, la preparazione cognitiva del bambino è largamente soddisfacente e
consente di affrontare senza difficoltà le future richieste, o comunque in base al dialogo
con le insegnanti che spiegano i significati dell’istituzione.
Le insegnanti dichiarano di sollecitare i genitori, disincentivando le aspettative
più banali (pianto, sonno, ecc.), oppure più fuorvianti (insegnamento tradizionale o
delega), nonché l'idea di scuola assistenziale. E’, in particolare, nelle scuole
dell’infanzia di Ascoli Piceno che si insiste su questo mutamento di aspettative, verso
un approccio più sensibile alle attività educative della scuola dell’infanzia.
La sensibilità per l’educazione fornita dall’istituzione viene talvolta osservata
anche all’asilo nido, soprattutto a Pesaro, nei termini di un interesse primario per il
processo di socializzazione con gli altri bambini: all’asilo si va per imparare a stare con
gli altri (coetanei), un’esigenza molto sentita da genitori di bambini che sono spesso
figli unici.
Nel caso delle scuole dell’infanzia, la conversione di aspettative verso gli aspetti
educativi viene facilitata dall’istituzione con un atteggiamento più morbido verso
l'approccio cognitivista (“noi spieghiamo allora che il nostro compito è preparare il
bambino alla scuola elementare e non insegnare a leggere e scrivere”). Su questo punto
vi sono punti di vista contraddittori, diversi modi di intendere aspetti cognitivi ed aspetti
affettivi, ed i rapporti con le scuole elementari.
Nelle scuole dell’infanzia di Ancona, invece, la totalità delle insegnanti ha
parlato di scarso interesse delle famiglie: “Quello che intendiamo è una sorta di
indifferenza verso i risultati di queste attività, che sono poi i traguardi raggiunti e i passi
in avanti compiuti dai loro figli” (AN, scuole dell’infanzia). E questo viene spiegato con
la mancanza di tempo che potrebbe sottendere una ben più grave mancanza di rapporto
con il bambino, o con una mancanza di considerazione per il ruolo della scuola
dell’infanzia (elemento sottolineato anche ad Ascoli Piceno).
Un tipo di aspettativa citato più sporadicamente riguarda il controllo
dell'aggressività (“ci ritengono non sufficientemente punitive verso chi è così”), la
richiesta di un’educazione direttiva, tradizionale (“più si è direttivi e più la famiglia
appunto ci legge dietro la salvaguardia, l'incolumità del bambino”) e la fissazione delle
regole. Anche questa aspettativa viene generalmente rifiutata dalle insegnanti (anche se
ciò non significa, come vedremo, che vengano rifiutate o ritenute scarsamente rilevanti
le regole), sebbene non tutte le insegnanti siano compatte in questo rifiuto.
In questo contesto, il problema delle regole viene riferito esclusivamente alla
famiglia, poiché la scuola è solo portatrice di positività del bambino.
Come abbiamo detto, generalmente, il rapporto con la famiglia è ritenuto
centrale e tutti gli sforzi protendono verso una sempre maggiore conoscenza reciproca e
20
verso una fattiva collaborazione. Questi sforzi producono risultati positivi soprattutto
negli asili nido, dove si dichiarano quasi sempre ottimi rapporti con i genitori: si osserva
che i genitori collaborano, sono partecipi alle diverse iniziative, hanno fiducia
nell’istituzione. Possiamo quindi dire che, secondo le educatrici, il processo educativo è
ben riuscito ed i genitori hanno svolto bene la parte che ci si aspetta da loro: nella
sostanza, comprendere il progetto del nido ed aderire ai suoi punti fondamentali. Più
raramente, invece, si dichiara di avere un rapporto “ideale” nelle scuole dell’infanzia (il
maggiore ottimismo è stato riscontrato ad Ascoli Piceno).
Soprattutto nelle scuole dell’infanzia, molte insegnanti si dichiarano o si
mostrano parzialmente insoddisfatte della strutturazione delle aspettative dei genitori e
desidererebbero da loro una maggiore capacità di discernimento, soprattutto
nell’attenzione per le attività e i significati della scuola. Si riconosce soltanto a
minoranze di genitori un interesse adeguato al tipo di impostazione della scuola,
sebbene quest’ultimo, in realtà, vari: da una parte, è orientato alla creatività del bambino
e alle attività (Pesaro), dall’altra parte alla creazione di uno stadio di pre-lettura e di prescrittura (San Benedetto del Tronto).
Sulle aspettative dei genitori esistono comunque opinioni decisamente
discordanti. Sebbene la maggioranza si aspetti collaborazione e partecipazione, ci sono
anche recriminazioni abbastanza diffuse per l'eccesso di aspettative. Un'altra presa di
distanza rispetto alle aspettative dei genitori proviene dalle équipe che rifiutano un
rapporto troppo intimo con i genitori.
Complessivamente, le insegnanti delle scuole dell’infanzia di Pesaro si
dichiarano quasi all'unanimità soddisfatte dei rapporti instaurati con i genitori, fatte
salve le solite eccezioni, e paiono essere convinte che, a loro volta, i genitori siano
altrettanto soddisfatti. In un solo caso, si sottolinea il problema degli effetti radicali
della discrepanza di aspettative: “Nei casi in cui c'è stata completa dissonanza tra la
nostra proposta e quella che è invece la richiesta prevalente della famiglia, in genere c'è
quella che si chiama la mortalità scolastica, cioè il bambino viene ritirato, viene portato
in un'altra struttura” (PS, scuole dell’infanzia).
Invece, la situazione sembra meno positiva a San Benedetto del Tronto, dove
l’aspettative di collaborazione è forte ma anche disattesa: “Qui si tratta sempre piano
piano di coinvolgerli ma è molto difficile” (SBT, scuole dell’infanzia). Le famiglie
tendono a delegare alla scuola ogni conquista del bambino. La famiglia potenzia sempre
di più una dimensione affettiva che mal si sposa con quella normativa. La
collaborazione manca nel momento in cui si auspica una coerenza educativa. Il risultato
è quello di avere dei bambini sempre più intolleranti verso le regole che si impartiscono
a scuola. In realtà, le insegnanti trovano delle carenze anche rispetto alla sfera affettiva,
per motivi che si attribuiscono alla "fretta", con la preoccupazione che il rapporto
genitori/figli rischi di ridursi in concessioni materiali: “I genitori non hanno il tempo per
parlare con i loro figli. E’ molto più semplice lasciarli fare quello che vogliono che
stargli dietro” (SBT, scuole dell’infanzia).
La situazione, poi, è decisamente ambivalente ad Ancona, dove, a fronte di un
ampio riconoscimento astratto dell’importanza e della positività dei rapporti con i
genitori, si riscontrano critiche e lamentele in grande quantità per aspetti più specifici
(come già abbiamo annotato). Anche ad Ascoli Piceno si riscontra una contraddizione
tra critiche e soddisfazione per i rapporti: tuttavia, qui la costruzione sociale è
21
rovesciata, poiché si osservano la concretezza dei buoni rapporti e l’astrazione delle
critiche.
6. La cultura della Città dei Bambini
Rispetto alla semantica educativa delle istituzioni per la prima infanzia, le idee che
guidano le attività del Laboratorio Città dei bambini di Fano divergono parzialmente.
Questa divergenza non è giustificata soltanto o primariamente dalla diversa età di
riferimento dei bambini (6-10 anni), bensì da un approccio all’infanzia che si discosta in
parte da quello tradizionalmente educativo ed è invece coerente con quello della nuova
sociologia dell’infanzia che abbiamo illustrato nell’Introduzione e che si discosta quindi
dal modello dello sviluppo e della protezione che risulta dominante nell’educazione.
Queste idee sono state illustrate nel modo più compiuto ed esaustivo da Francesco
Tonucci (1996a)4.
Tonucci parte dal presupposto che, negli ultimi decenni, la città abbia cambiato
radicalmente la propria identità. In passato, la nascita delle città aveva creato la
possibilità di incontri tra i soggetti, in un territorio comune, nel quale lo spazio veniva
condiviso da persone di ceti sociali diversi, era dunque un luogo di incontro, di scambio,
di sicurezza. Oggi, invece, si sono stravolti i principi di equilibrio e di qualità della vita
nella città. I più poveri vivono nelle periferie, che sono cresciute in fretta, sotto la spinta
della speculazione edilizia, e sono state costruite come dormitori, diventando tutte
uguali, senza piazze, senza verde, senza luoghi di incontro e di socializzazione. Il centro
storico è stato adibito a negozi, uffici, sedi di rappresentanza e abitazioni di pochi
privilegiati: di giorno è affollato, ma di notte diventa vuoto e pericoloso. Il principio che
guida la realizzazione delle città è quello della specializzazione e della separazione degli
spazi, delle funzioni e delle competenze: si creano luoghi per i bambini (asilo, parco
giochi, ludoteca), luoghi per gli anziani (ospizio, centro sociale), luoghi specializzati per
funzioni (dove si studia, dove si fanno acquisti, dove ci si cura). Ciascuna di queste
strutture assume i connotati di un mondo a se stante, mentre la città "come ambiente
unitario (…) sta scomparendo, sta diventando sempre più la somma di luoghi
specializzati, autonomi ed autosufficienti" (Tonucci 1996a). Questa separazione degli
spazi crea nelle persone lacerazioni con la propria storia e con i propri affetti,
ostacolando comunicazione e solidarietà. Essa crea anche il problema dell’accudimento
di bambini ed anziani, mentre gli adulti lavorano. Gli amministratori più sensibili hanno
trovato una soluzione nella politica dei servizi, che consentono agli adulti di sopportare
meglio le conseguenze negative dello sviluppo, contrabbandate come sua conseguenza
inevitabile. La politica dei servizi è, però, soltanto un palliativo per alleviare i disagi di
alcuni cittadini. Essa ha prodotto due conseguenze. La prima è che le città non sono più
piene di persone, ma di mezzi di trasporto, che ne modificano la struttura e l’aspetto
estetico. La seconda è che la città risulta impraticabile per alcuni dei suoi cittadini di
diritto: gli anziani, i bambini, i disabili, particolarmente esposti ai pericoli del traffico e
senza mezzi di trasporto pensati per loro.
4
Si vedano, inoltre, Tonucci (1994, 1995, 1996b, 1997a, 1997b) e Consoli e Tonucci 1993.
22
Secondo Tonucci, i bambini subiscono i maggiori svantaggi di questa situazione
generale. Nel parlare di bambini, Tonucci aderisce ad alcuni modelli che già abbiamo
incontrato, ma introduce anche aspetti nuovi. I bambini soffrono per la loro solitudine:
sono privati della compagnia di altri bambini, sono investiti di un affetto soffocante dai
genitori, rimangono molto tempo chiusi in casa, con la televisione per baby-sitter, che
espone a programmi per adulti, "con la violenza dello spettacolo e la crudeltà
dell’informazione" (Tonucci 1996a, 28), e che sottopone ad un continuo
bombardamento pubblicitario, mancano di spazi adeguati per giocare, soprattutto al di
fuori dell'abitazione, dove, in passato, i bambini potevano giocare sulle strade, nelle
piazze o negli spazi non costruiti. Seguendo il principio della specializzazione, si sono
creati i parchi gioco, che però sono costruiti secondo le esigenze degli adulti 5. Ma anche
la casa è diventata inospitale per i bambini: per difenderli, gli adulti trasformano le loro
abitazioni in fortezze inespugnabili, ma in tal modo la casa diventa un luogo paradossale
di pericolo perché i bambini ci passano troppo tempo e spesso vi si annoiano. La vita
quotidiana dei bambini è caratterizzata dalla mancanza di tempo autogestito. Fino a
qualche anno fa, il tempo dei bambini era suddiviso fra il dovere della scuola ed il
piacere del gioco, che "era il tempo delle esperienze personali, quelle che portavano ad
esplorare l’ambiente circostante" (Tonucci 1996a, 53). Oggi questo tempo è scomparso:
i bambini non possono più uscire da soli e vengono iscritti a corsi ed iniziative
organizzate, che, sommati ai rientri pomeridiani a scuola e ai compiti a casa, fanno sì
che essi abbiano pochissimo tempo a disposizione, che di solito, come detto, dedicano
alla Tv.
La conseguente mancanza di esperienze di autonomia crea difficoltà nello
sviluppo. Infatti, che il bambino possa uscire da solo, assumendosi il rischio e il piacere
di abbandonare le sicurezze domestiche, superando ostacoli e affrontando e risolvendo
conflitti, è fondamentale per lo sviluppo. Si può anche ipotizzare che l’attuale “cultura
del rischio”, diffusa tra gli adolescenti, sia collegata alla mancanza di queste esperienze
durante l’infanzia, che produce un bisogno eccessivo di fare esperienze.
Mezzi di comunicazione, psicologi, educatori e consulenti giustificano questa
situazione come conseguenza necessaria del progresso e raccomandano ai genitori di
stare più tempo con i figli, ma la società impone però loro una vita di corsa e li invita ad
acquistare beni per compensare la mancanza di tempo per i figli. Si blinda la casa, al cui
interno si accumula tutto quanto serve per vivere tranquilli e soli per molto tempo, per
chiudersi ad una città che diventa sempre più violenta e pericolosa. In alternativa,
Tonucci propone una soluzione sociale basata sulla partecipazione, che considera i
problemi non come personali, ma come sociali e politici, e invita a non rinunciare a
valori come la socialità, la solidarietà, la felicità, o la qualità della vita. In questa
prospettiva, Tonucci propone di cambiare la città, utilizzando il bambino come
parametro: non propone un miglioramento specifico delle strutture per l’infanzia, bensì
il cambiamento generale della prospettiva delle Amministrazioni locali, sulla base del
principio secondo il quale una città che impara a progettare tenendo conto delle
esigenze del bambino, sviluppa sensibilità per tutti i cittadini. Il problema fondamentale
è imparare a tenere conto del “diverso”, assumendo così una prospettiva nuova nel
5
Si veda, in proposito, anche Sennet 1992.
23
progettare la città. L’idea fondamentale della Città dei Bambini è, dunque, quella di
utilizzare i bambini per cambiare la società.
Città dei bambini, famiglie e scuole
Questa teoria si confronta una società che produce rappresentazioni sociali sui bambini,
sulla loro condizione sociale e sui significati dei rapporti con loro. Le idee sulla
centralità dell’infanzia che la Città dei Bambini propone sono ampiamente condivise da
genitori ed insegnanti, che si ritrovano a proprio agio nell’aderire ad una prospettiva che
sta “dalla parte dei bambini”, come peraltro le educatrici che si occupano dei bambini in
età prescolare.
La teoria della Città dei Bambini ritiene che il bambino abbia "diritto alla sua
diversità" (Tonucci 1996a) e che tale diversità richieda rispetto, riconoscimento ed
ascolto. Questa idea trova corrispondenza nel fatto che la principale componente della
rappresentazione dell’infanzia di genitori ed insegnanti, coerentemente con quanto
abbiamo visto per le istituzioni educative per la prima infanzia, è data dalla diversità e
dall’autonomia attribuite ai bambini.
Dai risultati delle interviste alle famiglie, emerge che i genitori condividono
l'idea che ciascun bambino ha una propria personalità specifica e distinta, per carattere,
gusti, attitudini, interessi, nel modo di vedere le cose e nel modo di pensare: "Hanno
personalità distinte"; "Ognuno ha un bagaglio personale di esperienze, ognuno è un
qualcosa a sé"; "Un bambino si può definire una persona, neppure un essere umano,
perché persona è di più, quindi con un suo modo di sentire, di vedere le cose, di
pensare". Anche le insegnanti sottolineano che i bambini sono unici e specifici, per le
diverse esperienze familiari, per carattere, sensibilità, modo di porsi, maturazione
intellettiva. Su questo sfondo, genitori ed insegnanti manifestano all’unanimità
l’intenzione di valorizzare l’individualità e le differenze tra bambini.
La valorizzazione della diversità viene da tutti associata a quella dell’autonomia:
il bambino deve conoscere la realtà e sapersi districare in essa, per cui si debbono far
fare al bambino le esperienze affinché acquisisca fiducia in sé e nelle proprie capacità.
L'autonomia è sempre il risultato di una crescita graduale, che deriva dal rapporto con
gli adulti. Più in specifico, nella visione dei genitori, autonomia può significare sia
capacità di gestirsi in modo pratico (lavarsi, vestirsi, uscire, andare a scuola, ecc.), sia
capacità di produrre e manifestare le proprie idee. Per le insegnanti, invece, autonomia
significa primariamente capacità di valutare e scegliere, di organizzare il pensiero, che
determina anche la capacità di gestirsi e di lavorare da soli. Anche la scuola elementare,
come quella dell’infanzia, si pone l’obiettivo primario dello sviluppo dell’autonomia del
bambino per favorire la formazione integrale della sua personalità: come si esprime
un’insegnante, anche nella scuola elementare non è più di moda l’immagine del
bambino come “foglio bianco”, su cui poter scrivere a piacimento, ma si è affermata
quella di bambino come persona che deve essere valorizzata per quello che è.
Anche un altro aspetto da cui prende avvio la Città dei Bambini, cioè le
difficoltà dell’infanzia nella società, viene confermato da genitori ed insegnanti, così
come era stato confermato nell’educazione prescolare: genitori ed insegnanti
concordano sul fatto che i bambini soffrono per la solitudine e che i loro bisogni
vengono compensati soltanto con palliativi di tipo consumistico e sul fatto che i bambini
24
soffrono a causa della fretta, della superficialità e del materialismo che caratterizzano la
società. Qui si innesta però una differenza significativa rispetto all’osservazione
presente nell’educazione prescolare; si osserva, infatti, che i bambini sono insicuri, privi
di fantasia, annoiati e scontenti; di conseguenza, sono anche spesso superficiali, ansiosi,
viziati ed aggressivi.
A partire dalla condivisione di questi aspetti dell’autonomia e della deprivazione
dell’infanzia, si spiega il terzo e fondamentale aspetto che trova concordi la Città dei
Bambini e gli adulti intervistati: l’importanza della promozione dell'autonomia e del
protagonismo dei bambini, che porta a progettare un nuovo rapporto tra i bambini e la
città.
Nella visione della Città dei Bambini, la promozione della partecipazione
permette al bambino di appropriarsi di spazi e tempi che gli sono normalmente negati
dal mondo adulto e dai modelli educativi che lo caratterizzano, per cui è da privilegiare
nei confronti della protezione dei bambini: “Protezione è un atteggiamento di negazione
dell’infanzia: non significa che non si deve essere protettivi con i più deboli, ma
certamente riduce le sfere di autonomia dei bambini, impoverisce profondamente le
possibilità di esperienza del bambino”. Anche i genitori e gli insegnanti caldeggiano la
promozione della partecipazione dei bambini: “Promuovere la partecipazione è farli
crescere”; “Partecipazione è dare la possibilità di avere stima e fiducia in se stessi,
quando ti ritieni una persona importante ritieni giusto dare il tuo contributo, e questo a
qualsiasi livello”. Le insegnanti, in particolare, si pongono l’obiettivo di “mettere a
disposizione i mezzi necessari per affrontare le difficoltà”, “proporre una gamma di
attività diversificate in cui ognuno può esprimersi”, “motivare il bambino ad esprimere i
suoi particolari interessi», «favorire lo sviluppo delle capacità ed abilità specifiche del
bambino”. Promuovere la partecipazione significa “far sì che il bambino trovi lo spazio
per essere protagonista”, fargli acquisire fiducia in se stesso.
Così come nelle scuole dell’infanzia, una protezione in eccesso viene invece
paventata, prima di tutto nelle famiglie: “Molti proteggono in modo eccessivo, mettendo
i figli sul piedistallo o sotto una campana, ma questo è diseducativo perché non
imparano ad affrontare le cose della vita fin da piccoli, che è la migliore protezione”;
“Tutti i genitori vorrebbero che i propri figli girassero nel circondario di casa, ma questo
è quanto il nostro egoismo di genitori ci fa pensare; è giusto che non sia così, la
protezione è fargli conoscere cosa c’è dietro quella porta”. Soltanto la promozione
dell'autonomia personale può creare le condizioni per una protezione “corretta”, che
consiste nel preparare i bambini ad affrontare la vita, essere al loro fianco per sostenerli
ed aiutarli, educarli a pensare per permettere loro di trovare con i propri mezzi le
soluzioni ai propri problemi: “Proteggere il bambino è renderlo autonomo, dargli
un’autoprotezione”; “Proteggere significa dare fiducia ai bambini perché siano coscienti
di avere le capacità di superare le difficoltà”; “Proteggere significa creare le condizioni
perché il bambino possa crescere autonomamente, significa spiegargli i pericoli e
aiutarlo a sviluppare un senso critico che gli permetta di adattarsi e superare qualsiasi
situazione problematica”.
In sintesi, per quel che riguarda la diversità e l’autonomia dei bambini e
l’importanza dell’intervento di promozione della loro partecipazione sociale, la Città dei
Bambini e le rappresentazioni sociali di genitori ed insegnanti convergono in modo
significativo. Questa convergenza culturale chiarisce anche i motivi della convergenza
25
più specifica sulle attività del Consiglio dei Bambini e della Progettazione Partecipata,
nonché la semantica generale in favore del progetto di autonomizzare i bambini ed
anche di mandarli a scuola da soli, rendendoli più autonomi. Tuttavia, questa
convergenza ha delle basi in parte ambivalenti e problematiche, che riguardano
l’interpretazione dei ruoli degli adulti che interagiscono con i bambini. La Città dei
Bambini parte dal presupposto che le difficoltà dell’infanzia siano dovute alle
inadempienze della società adulta: da questa prospettiva, non esiste, né in famiglia, né
nella scuola, la capacità di promuovere l’autonomia dei bambini, cioè di “riconoscere le
competenze, le capacità dell’individuo” (Tonucci 1996a). Per quel che riguarda questa
osservazione, però, si riscontrano alcune significative differenze culturali nelle posizioni
di genitori ed insegnanti.
Come le educatrici dei bambini più piccoli, anche i genitori e le insegnanti
intervistati in questa ricerca sulle carenze della famiglia nella società attuale: “Il
bambino oggi è molto viziato e trascurato allo stesso tempo, hanno tutto ma non sanno
gestire quel che hanno, perché c’è sempre un adulto che gli è vicino quando gestisce le
cose, è trascurato perché i genitori spesso non ci sono, stanno soli o con i nonni, spesso
sanno tutto e niente, sono superficiali abituati troppo al linguaggio delle immagini”; “I
bambini non hanno tempo per loro stessi. Questo fargli fare tante cose è una sorta di
abbandono da parte dei genitori che passano troppo poco tempo con i figli”. L’infelicità
dei bambini sarebbe causata dagli errori e dall’egoismo dei genitori che, troppo
concentrati sulle proprie esigenze, non ascoltano i figli e non svolgono adeguatamente il
proprio compito educativo, soffocandone l’aspetto affettivo e limitando così la loro
crescita come persone. Indifferenza ed iperprotezione sono i fattori paradossalmente
simultanei che vengono sottolineati per le famiglie. Secondo le insegnanti, la
socializzazione familiare condiziona tutti gli altri momenti importanti nella crescita del
bambino, incluso quello scolastico: «I problemi non nascono a scuola, ma a casa; sono
problematici quei bambini che riportano e manifestano a scuola le problematiche
familiari, che nascono spesso dal fatto che non c’è tempo per loro, o non c’è qualità in
questo tempo; magari hanno mille giocattoli ma rimangono infelici”; “Il bambino nella
scuola si carica e scarica queste sue frustrazioni interne; a casa vorrebbe essere al centro
dell’attenzione non lo è, allora lo diventa a scuola creando spesso problemi”.
Tuttavia, mentre il giudizio delle insegnanti sulle famiglie è spesso generalizzato
(“i genitori insegnano ad ottenere il risultato con l’astuzia o prepotenza o l’inganno, mai
con i propri mezzi”, “la condizione è grave perché i genitori non sanno fare più i
genitori”), i genitori intervistati, pur condividendo l’idea generale che le famiglie sono
oggi inadempienti, non si riconoscono affatto in questa tipologia di famiglie,
dichiarando la propria diversità. Questi genitori ritengono di dover essere guida,
modello, conforto per i figli, di dover trasmettere loro i valori giusti e di doverli
rispettare come persone libere di fare proprie scelte: “Il genitore deve rimanere un
esempio sempre, che deve rispettare sempre e comunque la libertà dei figli, ponendosi
come esempio e confrontandosi con loro”; “Bisogna essere un esempio, un modello, un
punto fermo, guida, aperti verso gli altri e la società, comprensivi”; “Il genitore deve
essere guida, sostegno, punto di riferimento, amico, tutto insieme”. Per un ruolo così
“sfaccettato”, come molti si esprimono, la qualità principale è la disponibilità:
all’ascolto, al dialogo, al confronto, alla comprensione. Attraverso questa disponibilità,
ci si propone di promuovere la partecipazione e di educare i figli, trasmettendo valori e
26
modelli di vita, nel rispetto della loro autonomia come persone. Per questi genitori, i
figli e la loro educazione hanno un grande valore, sono il centro dell’esistenza privata
ed il prodotto del desiderio di ancoraggio e di senso esistenziale. Quasi tutti gli
intervistati dichiarano di avere un rapporto interpersonale soddisfacente con i propri
figli. Viene dunque osservata in modo generalizzato la forma primaria della
comunicazione interpersonale, che valorizza la comprensione e l'affetto nei confronti
dei figli: «Importante è il dialogo in famiglia, se non c’è non si cresce normali, il volersi
bene, l’interessamento vero al figlio, il fargli sentire che lui è importante». Nelle
famiglie intervistate, il dialogo ha un’importanza primaria e la centralità del figlio nella
vita affettiva dei genitori è dimostrata dall’attenzione per le sue esigenze ed i suoi
bisogni: secondo tutti i genitori intervistati, è importante non solo la disponibilità di
tempo da dedicare alla cura dei figli, ma anche la qualità di questo tempo, caratterizzata
dalla capacità di confermare la persona del figlio.
Come abbiamo visto nell’Introduzione, questa forma di comunicazione è
considerata il presupposto primario per la formazione dell'autonomia personale dei
bambini nella società, attraverso la quale il bambino impara gradatamente a pensare a se
stesso come sé autonomo personalizzato e a riconoscere la rilevanza delle altre persone.
La personalizzazione viene promossa dal contesto familiare, in base ad una forma di
comunicazione che valorizza l’autonomia personale.
Tuttavia, benché la centralità della persona del figlio sia sempre evidente, le
aspettative dei genitori nei suoi confronti sono spesso anche normative, cioè rivolte alla
sua acquisizione di valori, e cognitive, cioè rivolte al suo sviluppo e alla sua carriera, e
non soltanto rivolte al fatto che cresca come persona serena, responsabile, libera di fare
le proprie scelte. Questa combinazione è legata alla struttura familiare. L’amore per i
figli può combinarsi generalmente sia al valore del consenso e dell’unità, sia al valore
della diversità e dell’autonomia delle persone (Baraldi 1999): dunque, in una famiglia
può prevalere il valore dello “stare insieme” e del Noi unitario, oppure il valore
dell’autonomia personale e del rispetto della diversità. Nelle famiglie intervistate in cui
prevale il Noi, che sono una decina, i figli vengono prevalentemente osservati come
completamento della famiglia, e, quindi, ci si aspetta che si conformino ai suoi modelli,
mentre in tutte le altre famiglie, nelle quali si osserva il prevalere delle diversità, dai
figli ci si aspetta un maggiore grado di autonomia.
Fermo restando che, in tutte le famiglie da noi intervistate, l’attenzione ed il
rispetto per le esigenze dei figli sono un fattore primario, il ruolo di genitore presenta
così alcune differenze di accento. Nelle famiglie più orientate al Noi, l'importanza del
dialogo è affiancata da un’attenzione particolare per il rispetto delle regole e per la
conformità alla cultura familiare, mentre la persona del bambino viene osservata “in
formazione” e si produce una maggiore rilevanza del ruolo educativo del genitore. Nelle
famiglie in cui viene maggiormente valorizzata la diversità, il riferimento al ruolo
educativo è, invece, meno marcato e prevalgono gli orientamenti affettivi più
personalizzati.
A fianco a quella della famiglia, c’è anche la questione della funzione della
scuola. La teoria della Città dei Bambini attribuisce pesanti responsabilità alla scuola,
che non saprebbe riconoscere e valorizzare la diversità, le competenze e le capacità dei
bambini, in quanto legata al modello della trasmissione delle conoscenze, per il quale
chi mantiene la propria diversità è escluso. La scuola non assumerebbe, dunque, un
27
atteggiamento di ascolto, di attenzione e di rispetto dei bambini: “La scuola dovrebbe
avere bisogno di quello che i ragazzi sanno fare, ma spesso è considerato solo un
fastidio quando intervengono” (Tonucci 1996a). La scuola non creerebbe neppure
un'esperienza piacevole per i bambini, né li aiuta, perché crea modelli competitivi, non
partecipativi, non democratici. Le regole della scuola sono lontane da quelle che
potrebbero formulare i bambini stessi: non corrispondono ai loro desideri e ai loro
bisogni.
Le insegnanti, invece, considerano la scuola come luogo di socializzazione
positiva, poiché abitua il bambino ad uscire progressivamente dal contesto
primariamente affettivo, introducendolo alle responsabilità sociali e preparandolo così a
far fronte alle esigenze di una società sempre più complessa. In generale, le insegnanti
non interpretato il ruolo educativo come "trasmissione di nozioni", bensì come guida,
modello, nella formazione della personalità complessiva dei bambini. In questa
prospettiva, l’insegnante fornisce una formazione globale, nella quale sono essenziali il
dialogo, l'ascolto, l’attenzione, per cogliere le esigenze dei bambini e renderli
protagonisti, tenendo conto delle loro persone: “L’obiettivo dell’azione educativa è
quello di creare un bambino che abbia autostima, che sappia mettersi in relazione con
gli altri. Questa è la cosa basilare a cui io guardo, perché per me è importante il
bambino come persona”; “Siamo d’accordo tutte nel valorizzare l’aspetto
dell'esperienza che i bambini sono chiamati ad elaborare personalmente”; “Cerchiamo
di parlare molto con loro, rapportarci a loro tenendo presente la loro storia personale”;
“Cerchiamo di fargli capire l’importanza di pensare autonomamente, essere critici”. Una
“brava insegnante” si contraddistingue per la disponibilità e per la comprensione,
facendo attenzione alle esigenze, agli interessi, ai problemi dei bambini.
La crisi dell’idea di insegnamento come trasmissione lineare di conoscenze
determina un cambiamento significativo: l’educazione assume l’obiettivo primario di
rendere i bambini autonomi, valorizzandone e promuovendone le potenzialità e
l’espressione critica. Questa personalizzazione dell'educazione porta ad osservare un
rapporto indissolubile tra educazione ed affettività: “Deve esserci affettività, è un
aspetto fondamentale. Se c’è un rapporto, un legame forte tra adulto e bambino è più
facile mettersi in un rapporto educativo, è più facile per noi e per loro apprendere";
"Senza affetto, non c’è educazione; per il bambino è importante vedere e sentire la
nostra partecipazione, sia quando ci si arrabbia in buona fede con loro, che quando lo si
gratifica”; “Non si può riuscire ad educare senza partecipare affettivamente"; "Con i
bambini si crea un legame affettivo perché non puoi rimanere estraneo ai problemi del
bambino, per poterlo comprendere nella sua globalità e educarlo”.
Secondo le insegnanti, si creerebbe con i bambini un’interazione affettiva,
caratterizzata da reciprocità di aspettative: “Si aspettano affetto, protezione”; “Per loro,
l’insegnante deve sapere tutto, non deve sbagliare mai, soprattutto nell’essere rispettosi
nei loro confronti, essere umili e sinceri con loro”; “C’è in loro la ricerca di un rapporto
aperto al dialogo e affidabile, di fiducia”. L’insegnante che non è attenta e interessata a
comprendere e a rapportarsi alla situazione dei bambini, li delude irrimediabilmente e
non può entrare in sintonia con loro.
Pur mantenendo l’obiettivo di formare competenze da usare nella vita e
l’aspettativa di acquisizione di abilità, l’insegnamento, secondo la larga maggioranza
delle insegnanti intervistate, è caratterizzato dalla sensibilità per gli interessi, le esigenze
28
e i problemi di ciascun bambino, dal sostegno ed dal conforto affettivo, utilizzati anche
per la costruzione di aspettative normative e per stimolare le competenze cognitive. La
persona del bambino è diventata un riferimento fondamentale nel contesto scolastico.
Soltanto poche insegnanti (meno del 10% delle intervistate), rifacendosi ad un modello
educativo più tradizionale, interpretano il proprio lavoro come aiuto nell'acquisizione
delle norme e delle competenze cognitive, dichiarandosi più orientate all’impersonalità:
“I bambini si aspettano che io guidi la loro attività; nella lezione frontale, il ruolo
dell’insegnante è quello di guidare le attività”; “Il mio primo obiettivo è far capire al
bambino i sani principi che uno deve avere dentro, siccome vedo che ogni anno che
passa questi mancano nei bambini”; “Il mio lavoro è altamente educativo perché noi
dobbiamo formare i futuri cittadini, dobbiamo mettere in moto quei processi mentali dal
punto di vista comportamentale, cognitivo e relazionale”.
Data questa rilevanza generale della persona del bambino in campo educativo,
nella posizione di queste insegnanti diventa particolarmente evidente il paradosso
dell’eteronomia (v. Introduzione), che è chiaramente espresso nell’affermazione di una
di esse: “Il nostro obiettivo è rendere i bambini autonomi, creare menti divergenti, non
menti standard, perché i bambini non sono uguali”. L’azione didattica mira infatti ad
educare i bambini per renderli autonomi: “All’insegnante si richiede si seguire il
processo naturale di trasformazione del bambino e di saperlo anche guidare, magari in
maniera indiretta, perché ognuno deve essere libero nella propria personalità”. Rimane,
quindi, aperta la difficoltà nell’intrecciare l’universalità dell’educazione con la
specificità dell’orientamento alla persona, cioè nel trattare il paradosso dell’eteronomia.
7. La cultura dell’adolescenza
Per quanto possa apparire sorprendente, la costruzione sociale dei significati
dell’infanzia non si discosta molto da quella dei significati dell’adolescenza. Anzi, per
certi aspetti, possiamo osservare nella cultura dell’adolescenza persino una sorta di
“regressione” rispetto alla parte più avanzata della cultura dell’infanzia.
La rappresentazione della condizione adolescenziale che emerge più
diffusamente dalle interviste a progettisti, operatori e politici contattati nell'ambito della
ricerca sulla legge 46/95 della Regione Marche ed agli operatori dei gruppi formali, è
difatti quella di un’età caratterizzata da crescita incerta, ricerca dell'identità e
disorientamento, a causa di un ambiente sociale problematico.
Gli adolescenti vengono osservati prevalentemente come soggetti in fase di
transizione e di cambiamento. Vengono osservate soprattutto le difficoltà nella crescita e
nella ricerca dell'identità: il disorientamento è la caratteristica attribuita in modo
generalizzato agli adolescenti, considerati insicuri e dotati di identità fragile. Dunque,
la condizione adolescenziale è difficile, disagiata, sofferente.
In questa visione, l’autonomia viene ancora considerata una caratteristica
importante della crescita, che coincide con la consapevolezza di sé, il senso di
responsabilità e la competenza nelle decisioni e nelle scelte. Tuttavia, anche per gli
adolescenti, e non soltanto per i bambini, si tratta di un traguardo da conseguire, non di
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un fatto compiuto6. Ciò crea problemi di sviluppo, che si manifestano in disagi e
devianze molto maggiori rispetto all’infanzia: pur essendo ancora in “crescita”,
l’adolescente ha meno margini di devianza accettabile ed è quindi in una posizione più
scomoda del bambino, in quanto da lui ci si aspetta comunque maggiore senso di
responsabilità.
Il contesto sociale viene osservato in modo negativo esattamente come per i
bambini: i fattori problematici sono gli stessi (la famiglia, la disattenzione degli adulti, i
mass media), soprattutto nella visione degli operatori dei gruppi formali.
Da questa impostazione, deriva anche la richiesta di una maggiore attenzione per
l’adolescenza da parte degli adulti, come figure significative di riferimento e guida, che
debbono fornire strumenti per l’acquisizione dell’autonomia. E’ evidente che per questi
intervistati anche l’autonomia degli adolescenti, come quella dei bambini, è un prodotto
dell’eteronomia, cioè dell’orientamento e della formazione degli adulti. Nel quadro di
queste rappresentazioni, si sottolinea anche la necessità del trattamento del disagio.
Una minoranza degli intervistati tra gli operatori dei progetti promossi dalla
Legge 46 (intorno al 20%), concentra invece la propria attenzione sulla partecipazione
sociale e sul protagonismo degli adolescenti, che vengono osservati in modo “positivo”:
gli interventi, infatti, sono concepiti come offerta di opportunità di espressione, allo
scopo di incentivare la manifestazione attiva della loro positività nella società. In questa
prospettiva gli adulti vengono considerati carenti in quanto non permettono agli
adolescenti di esprimersi in modo adeguato, non mettendo a loro disposizione
sufficienti opportunità di partecipazione. L’autonomia, come capacità di scelta e di
decisione, è riconosciuta come un dato di fatto, la cui espressione dovrebbe essere
promossa nella società. Si tratta però di un orientamento minoritario nell’attuale
osservazione della condizione adolescenziale, anche se presente pure in altri operatori,
quelli dei gruppi formali culturali adolescenziali, che però sono una piccola minoranza
se confrontati con i gruppi religiosi e sportivi. In questi ultimi, è vero che gli adolescenti
vengono generalmente definiti come “una risorsa”, ma soltanto a livello potenziale e
non certamente per il loro “protagonismo” presente.
Infine, in alcune situazioni si mette l’accento, in modo più tradizionale,
sull’assunzione di ruoli responsabili e sulla formazione degli adolescenti in senso
stretto. In questi casi si invoca un’assunzione adeguata di ruoli sociali da parte degli
adolescenti, per la quale la società deve approntare le condizioni organizzative.
Autonomia significa dunque acquisizione delle competenze per l’assunzione di tali
ruoli.
Come quelle dei bambini, anche queste rappresentazioni degli adolescenti sono
collegate all’osservazione dei loro problemi, che sono indicati soprattutto come
problemi relazionali ed affettivi, di comunicazione con coetanei ed adulti, associati a
famiglie considerate distratte ed iperprotettive e ad una scuola disattenta ed inefficace,
soprattutto dal punto di vista relazionale. Questa visione, oggi molto diffusa, tende ad
amplificare l’osservazione dei problemi degli adolescenti, attraverso l’attribuzione di
responsabilità o mancanze alle tradizionali agenzie di socializzazione.
6
In questo senso, e non a caso, i giovani vengono trattati in modo analogo ai bambini, come si evince
da una ricerca che abbiamo svolto a Fano. Si veda Baraldi e Maggioni 1997.
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Infine, nonostante non vi siano lamentele specifiche particolarmente diffuse nei
confronti del contesto sociale locale, spesso la società viene comunque osservata come
disattenta nei confronti dei bisogni e degli interessi degli adolescenti e questi ultimi
vengono comunque osservati come immersi nella solitudine, a causa della carenza di
luoghi di incontro nei quali aggregarsi in modo sano e privo di rischi. Una conseguenza
di questo approccio, come vedremo in seguito, è il favore per i centri di aggregazione: la
rappresentazione più diffusa dell’intervento rivolto agli adolescenti è coerente con
questa rappresentazione e la scarsa varietà di interventi corrisponde alla scarsa varietà di
rappresentazioni della condizione adolescenziale, dei suoi problemi e dei suoi rapporti
con la società.
In questo quadro si inserisce il significato assegnato all’intervento di attuazione
dei diritti degli adolescenti. Si esprime, anzitutto, un consenso quasi unanime per la
promozione della partecipazione, nella convinzione che promuovere la partecipazione
significhi creare opportunità. L’idea di promozione della partecipazione presenta però
due versioni diverse.
Da una parte, se ne osserva una versione “pura”, che consiste nell’idea che
l’adulto debba limitarsi a promuovere opportunità autogestite: “La funzione dell'adulto
dovrebbe essere di promuovere l'espressività tipica dell'adolescenza e del suo
linguaggio”; “Una specie di catalizzatore delle potenzialità e delle risorse che i ragazzi
hanno”; “Deve aiutare il giovane ad acquisire, conoscere gli strumenti per creare lui
stesso il prodotto che considera importante”; “Sviluppare la centralità del giovane quale
soggetto della comunità”; “Promuovere le loro iniziative, ascoltare e recepire le cose
che vengono da loro, ma non cercando di indirizzarle affinché rientrino in un progetto,
cogliere le loro esigenze”.
Dall’altra parte, assai più frequentemente, si osserva l’idea che promuovere la
partecipazione significhi intervenire attivamente, in un ruolo organizzativo significativo,
sebbene non direttivo o coercitivo: “L'adulto ha una funzione guida, deve dimostrare al
giovane molte cose, deve essere d'esempio per la crescita dei giovani”; “Il giovane ha
bisogno di avere punti fermi e persone con cui dialogare”; “Gli adulti devono essere una
guida per i giovani, devono dare le giuste indicazioni affinché non si perdano”; “Deve
essere guida e amico allo stesso tempo”; “Dare loro gli spazi dove possano crescere,
dove si autoresponsabilizzano, “da soli”, con un occhio vigile, per esempio con degli
operatori di strada che dovrebbero instaurare un rapporto di fiducia, dando loro la
sensazione di autogestire delle cose, ma allo stesso tempo essere vigili e presenti”.
In questa seconda versione viene enfatizzata la funzione di orientamento adulto,
svolta per lo più in modi non direttivi, come sostegno e consiglio, ascolto e capacità di
stimolare la crescita del giovane.
Il ruolo dell'adulto è sempre di stimolazione dell’adolescente, non di protezione.
L’idea di protezione viene infatti rifiutata in modo quasi generalizzato se assume il
senso di impedimento dell'autonomia, poiché pochissimi intervistati sottolineano
l’importanza della protezione dai rischi, mentre viene accettata se significa stimolazione
di un'autonomia che ha per base la promozione, l’informazione, l’ascolto, il rispetto, la
creazione di spazi per la creatività: “Proteggerli no, io non li proteggerei, ma li aiuterei a
fare le scelte migliori”; “Tendiamo a proteggere perché è difficile insegnare ad una
persona a risolvere e a difendersi: è un trattenere nell'infanzia l'adolescente”;
“Proteggere significa fargli sapere delle cose, dargli delle informazioni e degli strumenti
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di partecipazione”; “Possiamo proteggere i giovani consentendo loro di aggregarsi con
maggior libertà, dandogli la possibilità di accedere a strumenti e strutture”; “Significa
valorizzarli, nel dare la possibilità di progettare e dare fiducia”; “Protezione significa
promuovere la consapevolezza, le risorse: rendere la persona capace di scegliere”;
“Proteggere i giovani significa dare loro degli spazi per stare insieme liberamente”;
“Dare loro gli strumenti, le condizioni attraverso cui possono scegliere e agire con
autonomia”; “Proteggere significa lasciare la possibilità di crescere, di esprimere la
potenzialità, senza incanalarla necessariamente dentro dei percorsi”.
Anche per questi aspetti, possiamo osservare una assonanza di idee tra coloro
che si occupano di bambini e coloro che si occupano di adolescenti.
Complessivamente, dunque, l’adolescenza si colloca in un quadro di sorprendente
continuità con l’infanzia: la vera e propria discontinuità appare soltanto tra età (e
condizione) minorile ed età (e condizione) adulta. Ciò legittima una lettura unitaria della
situazione minorile, che scientificamente è profondamente equivoca, ma nella società
complessiva ha un significato assai pregnante.
Per questo motivo, i prossimi capitoli potranno essere impostati proprio sulla
differenza tra minori ed adulti e potranno trattare in modo sorprendentemente unitario la
complessa questione dei diritti di cittadinanza dei minori — bambini, preadolescenti ed
adolescenti.
8. Conclusioni
Questo insieme di osservazioni porta a sottolineare che l’attuazione di diritti di
cittadinanza dei minori, benché sia una componente significativa della cultura
dell’infanzia che si è andata sviluppando nella società in anni recenti, incontra in questa
stessa cultura due importanti ostacoli.
Il primo ostacolo consiste nel fatto che coloro che sono “tecnicamente” incaricati
di tale attuazione e che, dunque, ricoprono una posizione estremamente importante per
essa, nutrono una sfiducia sconfinata nella società attuale e si atteggiano a difensori
dell’infanzia in un mondo ostile. Benché comprensibile, questa posizione produce degli
importanti svantaggi: da una parte, impedisce lo svilupparsi di coordinamenti e alleanze
in favore dei bambini nella società, fomentando al suo interno posizioni
“etnocentriche”; dall’altra parte, trasforma l’intervento in un senso di crociata contro i
mali dell’infanzia, accentuandone gli aspetti di protezione ed educazione. Vedremo nei
prossimi capitoli entrambi questi aspetti.
Il secondo ostacolo consiste nel fatto che l’autonomia dei bambini, che sulla
carta costituisce l’aspetto fondamentale del loro “protagonismo” sociale, viene osservata
assai più come un risultato rinviato al futuro che non come un aspetto del presente.
Questa posizione verso l’autonomia, che rispecchia l’atteggiamento protettivo ed
educativo di cui abbiamo parlato, in quanto permette ai tecnici di assumerlo in favore
del futuro dei bambini, comporta un effetto veramente significativo, che vale la pena di
sottolineare con forza.
Si tratta del fatto paradossale che, all’aumentare dell’età dei minori, aumenta
l’osservazione dei problemi e delle mancanze di autonomia, anziché l’osservazione dei
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“progressi” su questa strada. Detto in altri termini, si nota più autonomia in un bambino
di due anni che non in un adolescente di diciassette. Naturalmente, chiunque sarebbe
pronto ad obiettare che queste idee sono relativizzate rispetto all’età. Ma questa
obiezione non coglie il punto, che consiste nel fatto che i minori vengono osservati
come gamberi che camminano all’indietro, cioè che perdono terreno sul piano della
“conquista” dell’autonomia, a mano a mano che crescono nella società ostile e, fatto
raramente osservato con autoconsapevolezza, nonostante l’intensa attività educativa ad
essi rivolta. Ciò fa sì che coloro che sono addetti alla attuazione dei diritti di
cittadinanza finiscano con lo squalificare tale attuazione, considerandola non soltanto
sempre insufficiente, fatto che è comprensibile tra coloro che si dedicano al progresso
dell’umanità, ma addirittura del tutto inefficace.
Ci si può chiedere se questa osservazione possa essere sorretta soltanto dalla
constatazione dell’ostilità della società esterna, nonostante gli sforzi immani di
quest’ultima per costruire sistemi educativi sempre più estesi e raffinati, che hanno per
protagonisti proprio coloro che ne vedono i risultati negativi.
Dove sta allora il problema? E’ in una visione falsamente pessimistica della
società, che poi non è in realtà così ostile ai bambini? Oppure, in una visione
falsamente ottimistica dell’intervento protettivo ed educativo, che non è poi così
efficace nel favorirne l’autonomia? O in entrambe le cose?
Riferimenti bibliografici
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Consoli, V., F. Tonucci. 1993. Ridateci la nostra città! Quaderno di educazione
ambientale 24.
Farr, R.,. S. Moscovici. 1989. Rappresentazioni sociali. Bologna. Il Mulino.
Maggioni, G., C. Baraldi, C. (eds.). 1997. Cittadinanza dei bambini e costruzione
sociale dell’infanzia. Urbino: Quattroventi.
Sennet, R. 1992. La coscienza dell’occhio. Progetto e vita nelle città. Milano:
Feltrinelli.
Tonucci, F. 1994. Rivogliamo la paura del bosco. Il Mese 11.
Tonucci, F. 1996a. La città dei bambini. Roma: Laterza.
Tonucci, F. 1996b. Una scuola di democrazia. dattiloscritto.
Tonucci, F. 1997a. Il bambino come motore di cambiamento. In Cittadinanza dei
bambini e costruzione sociale dell’infanzia. Eds. G. Maggioni e C. Baraldi.
Urbino: Quattroventi.
Tonucci, F. 1997b. Io e la mia città: Io rifiuto i rifiuti, tu ricicli, lui riusa, noi cerchiamo
di consumare meno. Indicazioni metodologiche. Laboratorio “Fano la città dei
bambini”.
Tonucci, F.1995. Appunti sull’educazione. Quaderni del Reparto n. 18. Roma: Istituto
di Psicologia del CNR, Reparto di Psicopedagogia.
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