La cittadinanza europea - Campus

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La teoria dello Stato
La cittadinanza europea
Con il progresso della costruzione dell’Ue si è fatta strada l’idea di una cittadinanza
europea comune, in modo da agevolare i cittadini europei nell’esercizio dei loro diritti in
tutti i luoghi dell’Europa in cui si trovino a vivere. Il Trattato sull’Unione europea e il
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dedicano all’argomento una particolare
attenzione.
Innanzitutto la cittadinanza dell’Unione spetta a chiunque abbia la cittadinanza di uno
Stato membro, e si aggiunge ad essa. Ai cittadini dell’Unione spetta il diritto di circolare e
soggiornare liberamente in ogni parte dell’Europa. Con il trattato di Schengen si è poi
stabilita l’eliminazione dei controlli alle frontiere (i passaporti), per favorire la circolazione
delle persone. I cittadini dell’Unione godono del diritto di voto (attivo e passivo) nelle
elezioni comunali e nelle elezioni per il Parlamento europeo, nello Stato in cui risiedono,
anche se non ne sono cittadini. Infine tutti i cittadini europei all’estero godono della tutela
diplomatica da parte di tutte le Ambasciate e dei Consolati di ciascuno degli Stati
membri. Possono indirizzare petizioni al Parlamento europeo e possono rivolgersi al
Mediatore europeo, una sorta di “difensore civico”.
Il contenuto civile, politico e sociale della cittadinanza europea è stato recentemente
ampliato da alcune sentenze della Corte di giustizia, che ha esteso il godimento di alcuni
diritti. Tuttavia la cittadinanza resta uno status derivato (occorre cioè essere cittadini di
uno Stato membro) e non autonomo, e ciò pone alcuni problemi che dovranno essere
risolti in via legislativa (per esempio, non vi sono norme relative all’acquisto e alla perdita
della cittadinanza europea).
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La tripartizione degli organi statali
La più importante classificazione degli organi statali è quella che – in base al tipo di
attività che svolgono – li distingue in organi legislativi, esecutivi e giudiziari.
Gli organi legislativi sono quelli cui spetta deliberare le leggi, cioè le massime fonti del
diritto del nostro ordinamento (dopo la Costituzione). L’attività legislativa è riconducibile al
Parlamento (per lo Stato centrale) e ai Consigli regionali (per le Regioni).
Gli organi esecutivi sono quelli cui spetta eseguire le leggi nei casi concreti, in quella
catena dall’astratto al concreto in cui si esprime la vita dell’ordinamento giuridico. Gli
organi esecutivi formano, nel loro insieme, il potere esecutivo o Pubblica Amministrazione
(P.A.) e sono organizzati secondo una piramide con a capo il Governo.
Gli organi giudiziari, o giudici, costituiscono una organizzazione complessa (il potere
giudiziario o magistratura) cui spetta applicare le leggi per risolvere le controversie che
sorgono tra i diversi soggetti del diritto.
La distinzione degli organi e delle funzioni statali in tre categorie assume un’importanza
decisiva nella “teoria della separazione dei poteri” propria del c.d. “Stato di diritto”. Essa
è alla base della nostra Costituzione.
I diritti dei singoli nello Statuto albertino
Lo Statuto albertino, essendo una Costituzione liberale, garantiva alcuni diritti. In
particolare: l’uguaglianza di fronte alla legge e la parità di accesso alle cariche pubbliche
(art. 24); la libertà personale, vietando gli arresti e i processi arbitrari (art. 26); la libertà di
domicilio (art. 27); la libertà di stampa (art. 28); la libertà di riunione, a eccezione per le
riunioni in luogo pubblico che la polizia poteva limitare discrezionalmente (art. 32); la
libertà religiosa, riconosciuta però in misura diversa alla religione cattolica e alle altre
religioni (artt. 1 e 28). La religione cattolica era proclamata la sola religione dello Stato e
veniva protetta vietando le pubblicazioni religiose non conformi alla dottrina cattolica. Le
religioni diverse erano semplicemente «tollerate, conformemente alle leggi» (ciò che
peraltro era già un progresso rispetto alle secolari persecuzioni contro gli ebrei e i
valdesi).
In tutti i casi, però, lo Statuto prevedeva la possibilità di limitare tali diritti e, a questo
fine, rinviava a leggi successive. Per comprendere il significato di questo rinvio, occorre
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considerare che la legge non era la volontà di tutti, ma della borghesia. La garanzia dei
diritti non valeva quindi a favore di tutti, ma solo della classe che disponeva del potere
legislativo. I diritti garantiti a tutti avrebbero potuto agevolare la sovversione sociale e
l’instaurazione della democrazia o del socialismo (le “bestie nere” della borghesia) e per
questo potevano essere limitati. Lo Statuto sembrava garantire la libertà ma, in realtà,
dava con una mano ciò che, con l’altra (la legge), si apprestava a togliere, o quanto meno
si riservava di togliere.
I rapporti economici in epoca liberale
Nell’Ottocento la vita sociale era vista essenzialmente come una competizione tra
individui sul terreno economico.
Il diritto di proprietà era il diritto principale. Esso permetteva infatti ai capitalisti
l’accumulazione di capitali privati da investire nelle imprese per competere tra loro sul
mercato.
All’epoca della Rivoluzione francese, la proprietà privata si considerava condizione della
libertà e dell’uguaglianza di tutti (art. 17 della Dichiarazione del 1789). Senza la
disponibilità di una certa misura di beni materiali, infatti, gli uomini sarebbero stati schiavi
della necessità o di altri uomini che avrebbero potuto approfittare del loro stato di
bisogno. Nell’Ottocento, invece, la proprietà divenne strumento di potere dei capitalisti.
Essa incominciò addirittura a prescindere dal rapporto diretto di uso o sfruttamento tra il
proprietario e il bene, diventando quota di potere in imprese impersonali. L’esempio più
chiaro è costituito dalle società per azioni nelle quali si possono investire ricchezze (in
azioni). Queste producono altra ricchezza che si forma non dal lavoro proprio ma dal
lavoro dei dipendenti dell’impresa.
I meccanismi dell’economia capitalistica, lasciati a se stessi senza regole, ebbero
conseguenze sociali crudeli. Per produrre a costi inferiori e così sconfiggere la
concorrenza, il lavoro venne trattato come una merce da vendere (da parte dei lavoratori)
e acquistare (da parte dei capitalisti) al prezzo più basso possibile. I salari dei lavoratori
vennero così ridotti al limite della sopravvivenza. Questa competizione economica divise
la società dell’Ottocento in due: i proprietari-capitalisti da un lato, i proletari-lavoratori
dall’altro, gli uni contrapposti agli altri. La drammatica spaccatura è la caratteristica più
importante della società liberale. I proprietari (la borghesia) erano la classe dominante,
godevano pienamente delle libertà riconosciute dallo Statuto, agivano per mezzo dello
Stato. I proletari erano la classe subalterna, ridotta a estrema indigenza, esclusa dai diritti
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e dallo Stato. Tra queste due classi esisteva un conflitto permanente. L’ordine pubblico
era perennemente minacciato.
In tale contesto di estrema conflittualità e instabilità sociali, il compito principale dello
Stato liberale venne a essere quello di preservare le condizioni della libera concorrenza
nell’economia e della libertà del mercato. Cioè, in concreto, impedire la violazione dei
meccanismi di funzionamento del mercato da parte delle imprese (derivanti per esempio
dalla creazione di monopoli onnipotenti, sottratti alla legge della domanda e dell’offerta), e
soprattutto reprimere le agitazioni sociali dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalista e
per il miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Gli Stati dittatoriali di sinistra (gli Stati sociali)
Lo Stato socialista mirava al superamento della divisione della società in classi, la
borghesia e il proletariato. Secondo la concezione marxista, la divisione della società e lo
sfruttamento del proletariato da parte della borghesia derivano dalla proprietà privata dei
mezzi di produzione e dallo sviluppo dell’economia capitalista, basata sulla concorrenza
tra i privati imprenditori. Pertanto, lo Stato socialista vietò la proprietà privata (dei mezzi di
produzione), diritto che nell’Ottocento si considerava sacro e inviolabile. I mezzi di
produzione vennero così assunti dallo Stato (cioè “nazionalizzati” o “socializzati”).
Per il marxismo (la dottrina economica e sociale ispiratrice della Rivoluzione sovietica),
l’eliminazione della divisione della società in classi avrebbe determinato in futuro la
scomparsa (l’estinzione) dello Stato stesso. Lo Stato, infatti, considerato strumento
dell’oppressione di una classe sull’altra, eliminate le classi, sarebbe diventato inutile. La
società senza classi non avrebbe più necessità di apparati di coercizione e quindi si
potrebbe reggere spontaneamente da sé.
In uno stadio intermedio, il partito comunista avrebbe dovuto imporre la “dittatura del
proletariato” per sconfiggere la borghesia capitalista. La dittatura del proletariato era,
come tutte le dittature, un regime che non garantiva i diritti e le libertà individuali. Non
esisteva pluralismo dei partiti, ma il partito unico; non era ammessa la creazione di
sindacati diversi da quelli controllati dal partito e lo sciopero era vietato. I diritti individuali
erano ammessi solo se usati in modo conforme agli interessi dello Stato.
Alla separazione dei poteri venne sostituito l’opposto principio dell’unità del potere, in
mano al partito. Dovendosi poi dirigere dall’alto tutta la vita sociale ed economica,
attraverso la pianificazione di Stato, si formò negli Stati socialisti un immenso apparato di
dipendenti pubblici incaricati di controllare ogni aspetto della vita e dell’attività dei
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cittadini. Ciò finì per favorire l’emergere di una “nuova classe” di burocrati (detta anche
“nomenklatura”), attaccata ai suoi privilegi e quindi contraria all’evoluzione del regime in
senso più libero.
Da queste condizioni derivarono corruzione, inefficienza, ingiustizia e povertà diffuse e
quindi la progressiva avversione delle popolazioni ai loro governi, causa del crollo
improvviso di tutti i regimi comunisti europei, avvenuto simbolicamente con
l’abbattimento del Muro di Berlino nel 1989.
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