Le origini di Roma

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La nascita di Roma
1. Le origini di Roma secondo la leggenda
2. Le fonti
3. Le probabili origini storiche
4. Le testimonianze archeologiche
1.Le origini di Roma secondo la leggenda
Gli antichi storici romani, seguendo un’antica leggenda, fissarono in un anno
corrispondente al nostro 753 a.C. la data ufficiale della fondazione di Roma. Ogni grande
città del mondo antico faceva risalire la propria nascita alla
volontà e all’intervento di un dio o di un eroe leggendario.
Era un modo di invocare la protezione degli dei e, nello
stesso tempo, di nobilitare la propria origine. In genere, la
leggenda era posteriore alla fondazione della città, per
spiegarne il successo, e veniva divulgata per motivi di
propaganda presso i popoli assoggettati o quelli rivali. A tal
fine i Romani avevano elaborato un complesso racconto
mitologico sulle origini della città e dello stato, che ci è
giunto attraverso le opere storiche di Tito Livio, e quelle
poetiche di Virgilio e Ovidio, tutti nell’età augustea. In quest’epoca le leggende riprese da
testi più antichi vengono rimaneggiate e fuse in un racconto quasi unitario, nel quale il
passato mitico viene interpretato in funzione delle vicende del presente.
1.1 Leggende della Storia romana
Il viaggio di Enea
Presa Troia, si fece scempio di tutti gli altri Troiani, ma verso Enea non usarono i Greci
alcun diritto della vittoria, sia per ragion di antica ospitalità, sia perché aveva sempre
consigliata la pace e la restituzione di Elena. Pertanto Enea, scortato dal destino a dar
principio a cose maggiori figlio della dea Venere, con il padre Anchise e il figlioletto
Ascanio, dicono che prima calasse in Macedonia, mentre la moglie Creusa, figlia del re
Priamo, perisce nell’incendio di Troia; indi cercando dove
stabilirsi, fosse balzato in Sicilia, e dalla Sicilia approdasse alle
terre di Laurentano. Sbarcati i Troiani e datisi a predare i campi
come quelli cui null'altro restava dalla loro quasi interminabile
navigazione che le armi e le navi, il re Latino e gli Aborigeni, che
tenevano allora quei luoghi, accorsero armati dalla città e dal
contado a respingere la violenza degli stranieri: alcuni dicono
che, vinto in battaglia, il re Latino stringesse pace, indi affinità
con Enea; altri che, come si muovessero gli eserciti, e prima
che suonassero le trombe, si avanzasse il re Latino in mezzo ai
suoi capitani e chiamasse a parlamento il duce degli stranieri;
indi, avendo chiesto chi mortali fossero mai, e da dove e per
quale ventura erano partiti dalla loro patria; poi inteso che era
gente troiana, che il capitano Enea, figlio di Anchise e di Venere, e che, arsa la patria,
andavano peregrinando, cercando dove restare e un sito dove fondarvi una città,
ammirando l'alta chiarezza della nazione e dell'eroe, pronto alla guerra del pari che alla
pace, porgendogli la destra, giurasse fede di futura amicizia. Quindi i due capi si strinsero
in lega, gli eserciti si salutarono. Enea fu accolto in casa dal re Latino, dove questi, davanti
agli Dei Penati, aggiunse alla pubblica la domestica alleanza, concedendogli in sposa la
propria figlia. In seguito i Troiani costruirono una città che Enea, dal nome della moglie,
chiamò Lavinio.
La guerra per Lavinia
Indi Turno, re dei Rutuli, a cui era stata promessa Lavinia innanzi la venuta di Enea, mal
soffrendo che gli fosse preferito uno straniero, fece guerra a un tempo ad Enea ed a
Latino. Nessuna parte uscì lieta da tale conflitto. I Rutuli furono vinti, i Latini ed i Troiani,
vincitori, vi perdettero il capo, Latino. Allora Turno e i Rutuli, temendo per le cose loro,
ricorsero alla potenza degli Etruschi, ch'erano in fiore ed al loro re Mesenzio; e questi, che
aveva la signoria di Cere, città a quei dì potentissima, sin da principio nulla contento della
fondazione della nuova città, vedendo che lo Stato troiano cresceva ormai troppo più che
non si convenisse alla sicurezza dei vicini, senza farsi pregare, alleò alle sue armi i Rutuli.
Enea, per conciliarsi l'animo degli aborigeni in mezzo al terrore di tanta guerra, e perché
avessero tutti non solo uno stesso governo, ma un nome stesso, chiamò Latini l'una e
l'altra nazione, né di poi gli aborigeni cedettero ai Troiani in devozione e fedeltà verso di
Enea.
Egli, affidatosi a tali disposizioni dei due popoli, che ogni giorno si univano insieme,
benché sì grande fosse la potenza dell'Etruria, che aveva già empito di sua fama non
solamente la terra, ma il mare ancora per tutta la lunghezza d'Italia, dall'Alpi al mar di
Sicilia, benché potesse dentro le mura ribattere il nemico, trasse fuori l'esercito a battaglia.
Fu questa la seconda guerra dei Latini, e fu anche l'ultima opera mortale di Enea. Egli
giace, comunque sia giusto o lecito chiamarlo, in riva al fiume Numide, col nome di Giove
Indigete.
Ascanio, figlio di Enea (e non si sa se della prima moglie di costui, Creusa, ovvero di
Lavinia), sovrabbondando già Lavinio di popolazione, lasciò alla madre, o matrigna che
fosse, il possesso della città, per quei tempi assai florida e doviziosa; egli ne fabbricò
un'altra sulla costa del monte Albano, che, dal sito, fu chiamata Albalunga (o Albalonga)
come quella che si stendeva lungo il declivio.
Dalla fondazione di Lavinio al trasporto della colonia in Alba passarono circa trent'anni; e
nello stesso tempo era cresciuta la potenza dei Latini, specialmente dopo la rotta degli
Etruschi, che né alla morte di Enea, né poi durante la tutela di una donna e la prima
esperienza di un re giovanotto, osarono mai muovere in armi contro di essi, né Mesenzio
con i suoi Etruschi, né alcun altro confinante.
Romolo e Remo
Si era con la pace convenuto che il fiume Albula, oggi Tevere, fosse il confine fra gli
Etruschi ed i Latini.
Dopo altri 10 re, tutti discendenti da Ascanio o Giulo, regnò Proca, che generò Numitore e
Amulio, e lasciò proprio a Numitore, maggiore di età, il regno. Riuscì peraltro più la
violenza che le disposizioni del padre o il riguardo all'età. Amulio, cacciò Numitore, usurpò
il regno, e, aggiungendo delitto a delitto, uccise i figli maschi del fratello; poi elesse a
Vestale, sotto pretesto di onorarla, la figlia di lui Rea Silvia, e, la costrinse a perpetua
verginità, togliendo ad essa ogni possibilità di prole.
Ma era ordinata dai fati l'origine di sì grande città, e il principio di un impero, dopo quello
degli Dei, il più possente.
La Vestale diede alla luce due gemelli, di cui ella disse padre il dio Marte. Ma né gli Dei,
né gli uomini sottrassero la madre e la prole alla crudeltà del tiranno Amulio; che fece
prendere la sacerdotessa per imprigionarla, e comandò
che i due bambini fossero gettati nella corrente dei fiume
Tevere.
Per fortunata sorte, e non senza consiglio divino, il
Tevere in quei giorni, straripando, si era sparso in una
quieta laguna; non ci si poteva da alcuna parte avvicinare
al vero letto e alla corrente del fiume, e quelli che vi
portavano i fanciulli credevano che si sarebbero potuti
annegare anche là, dove l'acqua invece languidamente
stagnava. Così pensando di aver adempiuti gli ordini del re esposero i bambini nella gora
più vicina, dov' è ora il fico Ruminale, e se ne andarono.
Allevati da una lupa
Erano quei luoghi a quel tempo vaste solitudini. Vuole la tradizione che, avendo l'acqua,
nel ribassarsi, lasciato in secco il canestro galleggiante, entro cui erano stati esposti i
fanciulli, una lupa vagante, scesa dai monti vicini, si accorgesse dei vagiti dei bimbi e
porgesse loro in un modo mansueto le
penzolanti mammelle; così raccontò un
pastore che li trovò in atto di lambirle con
la bocca. Vuole la tradizione che anche
un picchio portò loro del cibo.
Dicono che il pastore avesse nome
Faustolo e che li affidasse alla moglie
Larenzia, nella capanna situata sulla
sommità del Palatino, in modo da
allevarli per poi condurre le greggia Così nati, così allevati e chiamati Romolo e Remo,
appena crebbero in età, pur non trascurando le stalle e i pascoli, presero a cacciare per
boschi montani, e quindi, acquistando vigore d'animo e di corpo, non solo abbattevano le
fiere, ma coraggiosi si gettavano sui ladroni carichi di preda e spartivano il bottino coi
pastori; e con essi, crescendo ogni giorno di più lo stuolo dei giovani, celebravano feste e
giuochi.
I fratelli scoprono la verità
Faustolo sin da principio aveva in testa che quella che stava allevando in casa fosse una
prole reale; perché sapeva che erano stati esposti due bambini per ordine del re, e il
tempo, in cui li aveva raccolti, concordava perfettamente con quell'ordine; ma era deciso a
non rivelar la cosa prima del tempo, se non per favorevole congiuntura o per necessità.
La vendetta per il trono
Remo sotto l'imputazione di avere invaso le terre di Numitore, durante la festa dei
Lupercali, fu arrestato e consegnato a Numitore stesso, che tenne Remo in prigione. Ma
udendo che erano gemelli, confrontando l'età e la loro indole tutt'altro che volgare, fu
toccato nell'animo dalla memoria dei nipoti fatti uccidere dal fratello; cosicché venne al
punto da riconoscere Remo e lasciarlo andare.
Ma ormai Romolo per liberare Remo, con i suoi giovani a una data ora, piombò nella reggia
di Amulio. Dalla casa di Numitore, con altra gente appostatavi, uscì Remo a sostenerlo.
Numitore, nella prima confusione, gridando tutto intorno che i nemici erano dentro la città e
che avevano assalita la reggia, rivolse l'invito alla gioventù albana di difendere la rocca; e,
poiché vide i due giovani che, fatto il colpo, si congratulavano l'un l'altro, chiamato subito il
popolo a parlamento, espose le crudeltà usategli dal fratello, l'origine dei nipoti, come erano
nati, come allevati, come riconosciuti, indi la uccisione del tiranno, della quale si confessò
di essere autore egli stesso.
Avanzatisi il gruppo di giovani in mezzo all'assemblea del popolo e salutato l'avolo re, si
levò da ogni parte un grido concorde che gli raffermò il titolo e la regia podestà.
Il desiderio
Data così a Numitore la signoria di Alba Longa, venne il desiderio a Romolo e a Remo di
fondare e costruire una città in quegli stessi luoghi, dov'erano stati esposti ed allevati. E
già sovrabbondavano gli abitanti in Alba e nelle altre città del Lazio, accresciuti da molti
pastori; e tutti costoro facevano manifestamente prevedere che Alba sarebbe stata piccola,
e piccola Lavinio a confronto della città che si sarebbe fondata. Ma si frappose a tali
disegni la passione avita della smania di avere un regno, e dopo un principio abbastanza
tranquillo, sorse tra i due fratelli una sciagurata contesa.
Un solo Re per Roma
Poiché Romolo e Remo erano gemelli, né poteva il rispetto all'età far differenza, affinché
gli Dei tutelari di quei luoghi eleggessero con gli auguri quale di loro due dovesse dar
nome alla nuova città, e, dopo averla costruita, chi regnare su essa, Romolo scelse il
Palatino, Remo l'Aventino, come luoghi da prendere gli auspici. Si narra che prima a
Remo apparissero quale augurio sei avvoltoi, e che, dopo annunziato l'auspicio, un doppio
numero se ne mostrasse a Romolo; onde i rispettivi
partigiani li avevano entrambi salutati re, gli uni
aggiudicando il regno a Remo favorito dal tempo, gli
altri a Remolo favorito dal numero degli uccelli.
Affrontatisi prima a parole per questa contesa, nel
bollore della lite vennero alle mani e Remo nella
mischia cadde trafitto. Romolo, reduce dal favorevole
responso, traccia con un aratro tirato da una vacca e
da due buoi bianchi, il solco sacro che deve
delimitare il perimetro della nuova città (Roma quadrata), solco che nessuno potrà
oltrepassare. È tradizione più comune che Remo deridendo il fratello a mo' di sfida
varcasse d'un salto le nuove mura, e che Romolo sdegnato del gesto arrogante
l'uccidesse, aggiungendo anche queste minacciose parole. "tal fine sia di ognuno chi d'ora
in poi varcherà le mie mura".
Il Regno di Romolo
Sempre secondo la tradizione leggendaria, Romolo provvide all’aumento della
popolazione con la concessione del diritto di asilo ai fuggiaschi dai paesi vicini Combatté,
quindi, vittoriosamente contro Fidenti e Veienti e diede alle gentes della città-Stato una
costituzione politico-militare che suddivideva le tribù dei Tizi, dei Ramni e dei Luceri in
dieci curie ciascuna e istituiva un senato di 100 membri.
Il ratto delle Sabine
Romolo provvide a popolare la città, ma i nuovi abitanti erano tutti i maschi. Decise allora
di organizzare una festa, alla quale invitò i Sabini, con mogli e figlie. Mentre il festino si
svolgeva fra canti e danze, ad un segnale convenuto, i giovani Romani rapirono le donne
sabine e, armati di pugnali, misero in fuga gli uomini. Questi ritornarono, poco tempo dopo,
guidati da Tito Tazio, re della tribù sabina dei Curiti, con l'intento di liberare le loro donne e
di vendicarsi dell'affronto ricevuto.
Una fanciulla, Tarpea, aprì loro le porte della città: in cambio del tradimento chiese che i
Sabini le donassero ciò che portavano sul braccio (bracciali d'oro), ma pagò
immediatamente il suo gesto con una morte atroce, infatti finì schiacciata dagli scudi che i
Sabini portavano sul braccio insieme al bracciale e che le gettarono contro uno dietro
l'altro. Le generazioni future daranno poi il nome di lei alla rupe Tarpea, dalla quale diverrà
consuetudine gettare i condannati a morte per tradimento. Le Sabine rapite si interposero
poi fra i combattenti: si erano già affezionate agli sposi romani e non potevano tollerare la
vista di quella sanguinosa battaglia nella quale erano coinvolti i loro padri e i loro mariti.
La vicenda ebbe così una pacifica conclusione: Romolo e Tito Tazio regnarono in comune
sulla città: Sabini e Romani si fusero in un solo popolo. Dal nome della tribù di Tito Tazio,
quella dei Curiti, derivò poi ai Romani l'appellativo di Quiriti.
La scomparsa del Re
Scomparve misteriosamente durante una violenta tempesta nel Campo Marzio, mentre
passava in rassegna l’esercito: lo si disse asceso al cielo e pertanto fu venerato con il
nome di Quirino, ma non mancò il sospetto che fosse stato ucciso dai senatori.
2.Le fonti
I moderni studi storici e archeologici, che si basano sia su queste ed altre fonti scritte, sia
sugli oggetti e i resti di costruzioni rinvenuti in vari momenti negli scavi, tentano di
ricostruire la realtà storica che sta dietro al racconto mitico, nel quale man mano si sono
andati riconoscendo alcuni elementi di verità.
La formazione del mito
Le prime storie di Roma apparvero solo dopo il 200 a.C.; in quel periodo, le notizie sulla
città e sulla sua origine derivano essenzialmente da alcune iscrizioni e dalla narrazione
orale. Tutti gli storici romani descrissero, dunque le origini di Roma seguendo la leggenda
a cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente. Essi sapevano
bene che la storia ufficiale ha anche un importante ruolo di
propaganda; e gli stessi governanti sapevano che, per convincere
altre città e altri popoli ad accettare l’autorità di Roma, era opportuno
parlare di un’origine divina della città.
Inoltre, molte città italiane del Sud o della Sicilia erano di origine
greca; fondate da coloni greci, restavano ancora legate alla cultura
della loro madrepatria. Anche da questo punto di vista, quindi, il
collegamento dell’origine di Roma con la leggenda troiana si inseriva in una vera e propria
azione di propaganda, indirizzata verso tali città.Le leggende su cui si basavano le
ricostruzioni degli storici o dei poeti romani avevano dunque come scopo quello di stabilire
un rapporto diretto fra Roma e Grecia e di celebrare il ruolo straordinario di Roma nel
mondo antico come frutto dell’eredità del mondo greco.
Fra coloro che dettero autorevolezza a questi racconti mitici vi furono in particolare il
grande poeta Virgilio (70-19 a.C.), autore dell’Eneide, e lo storico Tito Livio (59 a.C17d.C). essi vissero all’incirca sette secoli dopo la fondazione di Roma, quando ormai
quella che era una città-stato, dominava gran parte del mondo allora conosciuto.
Virgilio
(Andes, odierna Pietole, Mantova 70 a.C. - Brindisi 19 a.C.), poeta latino, autore di uno dei
massimi capolavori della letteratura classica, l'Eneide.
Nato da una famiglia di modesti proprietari terrieri, studiò prima a Cremona e a Milano, poi
a Roma e a Napoli, presso il filosofo epicureo Sirone. Asinio Pollione, celebre uomo
politico e di cultura, lo esortò a dedicarsi alla poesia
bucolica; in seguito, entrato a far parte del circolo di
Mecenate, Virgilio divenne uno dei principali poeti della
corte di Augusto. Nel 19 partì per un viaggio in Grecia e
in Asia, con l'intenzione di lavorare al suo poema e di
consacrarsi per il resto dei suoi giorni agli studi di
filosofia. Ad Atene incontrò Augusto e fece ritorno in Italia
con lui; prima dell'imbarco tuttavia si ammalò e morì poco
dopo l'arrivo a Brindisi. In punto di morte diede istruzioni
affinché l'Eneide venisse distrutta, ma per ordine di Augusto il poema fu pubblicato.
Tito Livio
(Padova 59 a.C.-17 d.C.), storico latino. Nacque e morì a Padova ma trascorse la maggior
parte della vita a Roma, dove ottenne l'amicizia di Augusto. Tra il 27 e il 25 a.C. iniziò la
composizione della sua monumentale opera, Ab Urbe condita libri, una storia di Roma
dalla sua fondazione, in 142 libri; di questi, solo trentacinque ci sono pervenuti nella loro
interezza: i primi dieci, che abbracciano il periodo dalle origini alla terza guerra sannitica
(293 a.C.), e quelli dal XXI al XLV, che trattano degli avvenimenti dalla seconda guerra
punica (218-201 a.C.) alla fine delle guerre macedoniche (167 a.C.).
Il suo intento era offrire a Roma una storia che per concezione e stile fosse degna della
sua grandezza imperiale, disegnando uno scenario adatto a celebrare le glorie dell'età
augustea. L'idealizzazione dei tempi antichi è il tema dominante della storia di Livio, che è
eminentemente etica, tesa a indagare lo sviluppo di Roma nei suoi valori morali. L'autore
pone l'accento sull'uomo e sul significato ideale dei fatti, piuttosto che sulla loro
documentata ricostruzione, riportando spesso leggende, superstizioni e credenze
fantasiose, che ai suoi occhi hanno contribuito a indirizzare gli eventi. L'influsso dell'epica
e della tragedia si riconosce nell'amore per gli intrecci romanzeschi e patetici, e nel
carattere fortemente drammatico di alcuni episodi. La storia di Roma di Livio ebbe una
fortuna immediata e durevole, e fu di gran lunga la più letta e apprezzata fino all'epoca
rinascimentale: ispirò ad esempio a Machiavelli i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
3.Le probabili origini storiche
La leggenda come sfondo alla storia
Nell’arco di tempo compreso tra l’VII e il VII secolo a.C. nel piccolo Lazio la città di Roma
affrontava la prima difficile fase della sua lunga storia. Ma come sorse la città, destinata a
divenire la capitale del mondo antico e il centro d’attrazione di tutti i popoli mediterranei?
Chi prese l’iniziativa di fondarla? A queste domande non è facile rispondere, anche perché
i Romani (come molti altri popoli antichi) narrarono le più antiche vicende della loro storia,
modificandole spesso con la fantasia. Il racconto, che tratta dei due gemelli Romolo e
Remo e della fondazione della città avvenuta il 21 aprile del 753 a.C., è evidentemente
leggendario. Esso tuttavia (come tutte le leggende) contiene qualcosa di vero.
Un popolo di contadini e pastori
Gli storici infatti hanno provato che Roma alle origini altro non fu che un piccolo e
modestissimo gruppo di capanne erette per iniziativa di alcuni Latini.
Antichi abitatori della regione detta Lazio (dal latino latus = luogo largo, aperto), i Latini
praticavano l’agricoltura e la pastorizia, vivendo sparsi per le campagne e rifugiandosi in
luoghi alti ogni volta che dovevano difendersi da improvvise incursioni di nemici o sfuggire
all’aria malsana delle paludi e degli acquitrini.
Furono essi per l’appunto a dare origine al primo nucleo abitativo dell’antica Roma sul
Palatino, un colle sulla riva sinistra del Tevere, là dove il passaggio sull’altra riva era reso
facile dalla presenza di una piccola isola, ancora oggi esistente e nota sotto il nome di
Isola Tiberina.
Già da tempo infatti gli abitanti della regione, e noi soltanto essi, trovavano assai comodo
per i loro traffici commerciali attraversare il fiume in quel punto. Ben presto perciò ai piedi
del Palatino si costituì un fiorente mercato soprattutto di sale, prodotto indispensabile per
la stessa sopravvivenza, che le popolazioni dell’Italia centrale non avevano modo di
procurarsi altrove.
Inoltre i circa 25 chilometri che separavano quel luogo dal mare Tirreno potevano essere
percorsi sul Tevere, molto più ricco di acque di quanto non lo sia oggi e quindi facilmente
navigabile: alla sua foce giungevano tra l’altro
numerose le navi di Greci e di Fenici, recando merci
di ogni genere da tutto il Mediterraneo.
Queste le ragioni per le quali il villaggio, sorto sul
Palatino e allargatosi ai colli vicini (Capitolino,
Quirinale, Viminale, Esquilino, Celio e, in un secondo
momento, Aventino), divenne a poco a poco un
importantissimo punto di arrivo e di partenza per il
commercio di tutto il Lazio.
A favorire lo sviluppo di Roma fu però soprattutto l’intenso
traffico commerciale, che si svolgeva dalla Campania verso
la Tuscia (oggi Toscana) e viceversa ad opera degli Etruschi, che avevano saputo raggiungere un
livello tale di civiltà da dare vita alla più importante organizzazione politica ed economica della
penisola. Per un certo tempo infatti imposero la propria supremazia alla stessa Roma.
4.Le testimonianze archeologiche
La leggenda di Roma, fondata da Romolo, discendente di Enea, tramandataci dagli scritti
di Tito Livio e di Virgilio, univa le origini latine alla discendenza greca: un insieme che
piaceva molto ai Romani, orgogliosi della loro stirpe latina ma affascinati dalla cultura
ellenistica.
Ricostruire in modo certo le reali origini di Roma è cosa non facile, ma è sicuro che questa
città nacque e si sviluppò in modo progressivo, attraverso una serie di alleanze tra villaggi
presenti fin dall’anno 1000 a.c. su alcuni colli della sponda sinistra del Tevere, ed in
particolare il Campidoglio, il Palatino, l’Esquilino e il Celio.
La maggior parte di questi villaggi era di origine latina, ma
non è da escludere che ci fosse già una presenza sabina
e, addirittura etrusca (Roma era la centro delle rotte tra
l’Etruria e la Magna Grecia e non bisogna dimenticare che
al sud esistevano anche colonie etrusche quali Volturnum,
l’attuale Capua). Del resto sembra che il Celio derivasse il
suo nome dal nobile etrusco Celio Vibenna e lo stesso
nome di Roma potrebbe derivare dal termine “Romun” con
cui gli etruschi identificavano il fiume Tevere.
Altre fonti fanno risalire l’origine del nome Roma, al termine latino “Rumis” che indicava la
“mammella”, con chiaro riferimento all’allattamento dei gemelli da parte della lupa o addirittura al
latte dei fichi del famoso Fico Ruminale che fornì loro il nutrimento.
Un’altra ipotesi ancora attribuisce l’origine del nome al termine greco “Rhome” che
indicava la forza ed il coraggio dei suoi primi abitanti.
Molti anni più tardi, attraverso calcoli complessi e non esenti da errori, si stabilì in modo
convenzionale che Roma venne fondata il 21 aprile del 753 a.c.
Recenti scavi hanno confermato che sul Palatino era presente una fortificazione quadrata risalente
all’VIII secolo a.c.; in questo la storia leggendaria di Romolo che traccia un solco quadrato per poi
edificare
una
fortificazione
trova
una
conferma
nell’archeologia.
Scavi ancor più recenti effettuati sul Campidoglio, hanno
portato alla luce tracce di insediamenti risalenti addirittura
all’età del bronzo (1400 a.c.). Questo sconvolge ancora di più il
quadro della situazione, facendo supporre che il primo colle
abitato della zona sia stato proprio il Campidoglio,
probabilmente a causa della sua posizione strategica rispetto al
Tevere.
L'archeologia romana è stata suddivisa in diverse fasi: l'età del Ferro a Roma, che abbraccia
approssimativamente lo stesso periodo del mondo greco; il periodo arcaico in cui a Roma vigeva la
monarchia (fino al 509 a.C.); il periodo repubblicano, che si fa terminare convenzionalmente nel
31 a.C.; l'impero, la cui nascita coincide con la vittoria di Ottaviano (il futuro imperatore Augusto)
sui suoi rivali e il consolidamento del potere nelle mani di una sola persona. Per secoli l'attenzione
si è concentrata sulle vaste rovine della Roma imperiale e sulle numerose fonti letterarie, ma le
campagne di scavo del XX secolo hanno portato alla luce testimonianze dell'età del Ferro e dell'età
repubblicana. Sul colle Palatino è stato trovato un modesto insediamento composto di semplici
capanne che, unendosi gradatamente ad altri centri, formò una città in grado di spodestare gli
etruschi del controllo sull'Italia centrale.
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