Il transfert - officinaMentis

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I volti nuovi del transfert*
Angela Peduto
Una breve introduzione servirà da premessa al nostro lavoro e porrà alcune
questioni che fanno problema.
Conviene richiamarci alla genesi e all’evoluzione della teoria freudiana sul
transfert poiché essa restituisce meglio di qualunque altro discorso la
posizione e la natura contraddittoria del tema in questione. Sappiamo che
Freud comincia con l’individuare i transfert al plurale, fenomeni multipli,
“reimpressioni, copie di impulsi e di fantasmi”, e poi finisce col pensare al
transfert al singolare, per intenderlo come processo che struttura l’intera
cura sul prototipo dei conflitti infantili.
Il passaggio da un tempo all’altro è una disavventura clinica e porta il nome
di Dora. E’ lo scacco terapeutico, la prematura interruzione dell’analisi, a
rendere clamorosamente presente quel transfert che solo nell’après coup
della riflessione (datata quasi cinque anni dopo il trattamento) Freud
riconoscerà di aver mancato al momento giusto.
Se passa dai transfert al transfert è perché appare l’idea della “nevrosi di
transfert”, malattia artificiale intermedia tra la nevrosi e la guarigione che
replica la nevrosi infantile. Il transfert diventa a questo punto un processo
che struttura l’intera cura intorno alla relazione con l’analista sul prototipo
della nevrosi infantile. Ma questo passaggio non è senza problemi. Come
mette in luce Laplanche, l’idea di transfert multipli, al plurale, salvaguarda
l’idea di una apertura e di una ipercomplessità dove transfert di vario grado,
dagli oggetti primari via oggetti secondari, analista compreso, si riverberano
e si attraversano. “Il transfert, dice Laplanche, non è chiuso in se stesso, non
è una relazione a due, che semplicemente replica un’altra relazione a due;
il transfert è aperto su qualcos’altro da se stesso” , e questo sia nella
concatenazione cronologica, diacronica, degli oggetti, sia in quella
intersoggettiva, sincronica, degli stessi oggetti tra di loro. La perdita di
questa dimensione e la centralità della nevrosi di transfert avranno
conseguenze di enorme rilievo sul piano della prassi e della condotta della
cura.
*Relazione di apertura del convegno “I nuovi volti del transfert” svoltosi a Bologna il 12 Novembre 2011
organizzato da officinaMentis e da Ali (associazione lacaniana italiana)
Del resto la fiduciosa posizione di “Ricordare, ripetere, rielaborare” (1914),
dove la nevrosi di transfert appare a Freud “completamente accessibile” allo
sforzo analitico, sarà temperata in “Al di là del principio di piacere” (1920)
da una maggiore cautela e dall’indicazione per l’analista di una certa dose di
vigilanza affinché la nevrosi di transfert resti limitata e non prenda il
sopravvento.
Questo ci porta direttamente al secondo problema. Qual è la funzione del
transfert nella cura?
Sappiamo che Freud lo caratterizza insieme come “il più potente alleato” e
“il più grande ostacolo”, “la leva più potente del successo” e “il mezzo più
forte della resistenza”. Sappiamo anche che non cesserà mai di oscillare tra
una valutazione positiva e una negativa, intesa non come transfert positivo o
negativo, ma come effetto buono o cattivo del transfert nella cura, in
sostanza come possibilità o meno di portarla avanti.
La contraddizione viene dal fatto che, legato com’è alla ripetizione, il
transfert si oppone al ricordo e quindi a quella forma di rimemorazione
verbalizzata e condivisa che è l’analisi; ma, al tempo stesso, permette di
rivivere nel presente i desideri e i conflitti del passato e perciò, mentre mette
il soggetto davanti alla loro esistenza e alla loro permanenza, fa risorgere il
desiderio nell’attualità. Questione complicata, che coinvolge problemi
cruciali: la ripetizione, la persistenza e l’indistruttibilità del rimosso, le
possibilità di trasformazione attraverso la cura, le vie di questa
trasformazione, per citarne solo alcuni.
Il transfert comporta l’irruzione in seno a quella relazione intima e
asimmetrica che chiamiamo analisi di un reale inedito. Inedito e inaudito,
giacché l’essenza stessa del transfert è il suo carattere inattuale: esso
introduce di colpo nel cuore della situazione analitica la turbolenza della
passione, cioè del sessuale infantile: vertigine del passato e smisuratezza
dell’amore e dell’odio. Su questo carattere di ripetizione Freud non cesserà
mai di insistere.
Ripetizione significa ritorno impetuoso sulla scena dell’antico, cioè del
rimosso. Significa reinscrizione nell’attualità della congiuntura passata, che
però ora si impone al soggetto con la realtà indiscutibile e indubitabile di un
vissuto presente, come fosse un sogno della cui realtà, sognando, non
abbiamo ragione di dubitare. In rapporto a questa idea della ripetizione che
si oppone alla rimemorazione e tiene in scacco il sapere intorno al proprio
desiderio, Freud ha sempre mantenuto l’ideale di una cura volta alla
rimemorazione e al recupero del ricordo.
Ma che cosa dire della ripetizione vissuta? Che valore assegnarle? La
questione tocca, lo si capisce, il problema dell’agire e della sua capacità o
meno di comunicare.
Il transfert è dunque al tempo stesso implicato nel passato e nel presente;
sospeso tra il bisogno cieco di ripetizione e l’apertura verso possibilità
nuove; declinabile, cioè interpretabile, eppure anche affacciato su un nucleo
indeclinabile, punto d’arresto e di scacco, comunque di limite, dell’atto
interpretativo, come la clinica non smette di insegnarci.
Saldamente ancorato nei processi inconsci, obbedisce alla atemporalità e
alla indistruttibilità del fantasma, che vuole mettere in atto “senza tenere
conto della situazione reale”. Ma, ancora, come valutare la “realtà” della
situazione analitica? Quali ne sarebbero i criteri? A cosa può affidarsi
l’analista, interpellato e chiamato in causa dal transfert del paziente, che non
sia il confortante quanto illusorio ideale di un’ analisi personale completa?
Si comprende quanto questa materia incandescente e contraddittoria non
possa e non debba smettere di fare problema alla teoria come alla pratica.
E si comprende quanto grande possa essere la tentazione di farne a meno. O
di farne, al contrario, la verità ultima. Economia per difetto o per eccesso.
Le terapie di controllo del sintomo, mentre negano quella compromissione
col desiderio di cui il sintomo stesso testimonia, negano con lo stesso gesto
l’evenienza del transfert.
Sul terreno della psicoanalisi, il kleinismo ha spinto all’estremo il
meccanismo interpretativo del transfert, rendendo il transfert
sostanzialmente sovrapponibile alla proiezione e facendo dell’ ”arte
dell’interpretazione” , di cui parlava Freud, piuttosto una macchina
dell’interpretazione che non lascia vie d’uscita. Le teorie dell’attaccamento
hanno abolito il registro del sessuale e semplificato in senso psicologizzante
i tortuosi percorsi della domanda d’amore. E se nel cuore del travaglio
culturale francese si è sviluppato il pensiero di Lacan che, a partire da tali
percorsi e dalle loro aporie, è infine approdato al soggetto supposto sapere,
in America dalle deformazioni della prassi analitica è sorta la riflessione
indubbiamente originale di Kohut sul narcisismo e sulle sue proprie forme
di transfert.
E’ senz’altro degno di nota il fatto che molte delle elaborazioni
postfreudiane si siano imposte a partire da un allargamento del campo
dell’analisi, impegnata con i bambini, con le psicosi, o con il mutare della
sintomatologia.
E con questo approdiamo all’ultimo punto.
La clinica della contemporaneità, mentre ci costringe a ripensare il rapporto
del soggetto col suo desiderio, ci costringerà anche a ripensare il transfert? E
come ripensarlo là dove il linguaggio della malattia sembra mettere in
scacco le leggi del simbolico?
Incontrato (e mancato al primo colpo! questo è l’inquietante del transfert,
ieri come oggi, malgrado tutto), incontrato nell’appuntamento col corpo
parlante dell’isterica, come incontrarlo a partire dal corpo muto della
malattia somatica, corpo abbandonato dal soggetto alla medicina? E come
liberarlo, disancorarlo, dal rifugio corporeo?
E dove incontrarlo quando si è confrontati col cieco automatismo del
sintomo additivo?
E come tenere il timone dell’analisi quando essa rischia le acque pericolose
della distruttività, cuore tenebroso della clinica attuale?
Ho cercato di delineare un terreno di questioni aperte. Ciascuno dei nostri
ospiti vi si collocherà secondo la propria esperienza, le proprie inclinazioni e
i propri interessi.
Il nostro auspicio per questa giornata è che metta in moto curiosità e
riflessione. Antidoto al sonno del pensiero, che è la forma più subdola della
distruzione.
In una congiuntura storica in cui la psicoanalisi, e non solo, sembra destinata
a sparire, mi piace concludere citando l’ultimo lavoro di un filosofo e
storico dell’arte, Didi-Huberman. Vi si legge di un’etica della speranza e
della sopravvivenza e vi sono convocati Pasolini, W. Benjamin, G.
Agamben, Hanna Arendt e altri. Si intitola “Come le lucciole. Una politica
delle sopravvivenze” e le lucciole sono prese a metafora delle scintille di
umanità e creatività, sempre minacciate, sempre in via di estinzione.
“Ci sono tutte le ragioni per essere pessimisti (sulla sorte delle lucciole), ma
proprio per questo è necessario aprire gli occhi nella notte,continuare a
spostarsi,rimettersi in cerca delle lucciole……Sta a noi non vedere
scomparire le lucciole…Noi stessi..dobbiamo trasformarci in lucciole e
riformare così una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di
danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere”
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