Riassunto Decolonizzazione

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LA DECOLONIZZAZIONE
L’ambiente
“Alla vigilia della seconda guerra mondiale la dominazione europea si estendeva su una gran parte
del pianeta. I possedimenti inglesi più vasti, abbracciavano 30 milioni di chilometri quadrati con
50 milioni di abitanti, quelli francesi coprivano 13 milioni di chilometri quadrati con 110 milioni
di individui “: questo ha scritto lo storico Franco Della Peruta.
Ora una breve considerazione: i territori della Gran Bretagna e della Francia insieme non superano
gli 800 000 chilometri quadrati; le due popolazioni nell’epoca indicata dallo storico, ammontano
a circa 90 milioni di persone.
Sulla base di questi dati e di quelli che emergerebbero raffrontando la situazione di Olanda,
Portogallo, Spagna e Stati Uniti con quella delle loro colonie africane e asiatiche, si può giungere
alla conclusione che un numero relativamente ridotto di colonizzatori sfrutta le risorse e le forze
di un’incredibile quantità di persone.
Inoltre, in molti casi, la maggior parte dei profitti ottenuti dalle imprese coloniali è confluita nelle
mani di un’esigua percentuale delle popolazioni degli Stati colonizzatori.
Per concludere, il fenomeno del colonialismo rappresentò nella storia, il più grandioso caso di
sfruttamento territoriale, ecologico umano.
Il tempo
1946
La Transgiordania e le Filippine ottengono l’indipendenza.
Inizia la guerra di liberazione dell’Indocina dai francesi.
Indipendenza dell’India. Si costituisce lo Stato del Pakistan.
1948
Israele si proclama indipendente.
In Sudafrica inizia l’apartheid.
Indipendenza di Corea del Sud e del Nord e della Birmania.
1949
Proclamazione della Repubblica Popolare cinese.
L’Indonesia diventa indipendente.
1951
Indipendenza della Libia.
1954
Indipendenza di Cambogia, Laos, Vietnam.
Inizia la rivolta antifrancese in Algeria.
1956-58
Indipendenza di: Marocco, Tunisia, Sudan, Ghana, Malasya, Guinea.
1960
Indipendenza di : Togo, Mali, Madagascar, Zaire, Niger, Somalia, Dahomey,
Nigeria, Alto Volta, Costa d’Avorio, Ciad, Gabon, Repubblica centrafricana.
1961
Il Kuwait diventa indipendente.
Inizia la guerra di liberazione.
In Nicaragua si forma il fronte sandinista di liberazione.
1962
Indipendenza di: Algeria, Manganica, Burundi, Giamaica, Uganda.
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1963-67
Indipendenza di: kenia, Malawi, Zambia, Gambia, Yemen del Sud
1973
La Guinea Bissau proclama l’indipendenza.
1975
Indipendenza di Angola e Mozambico.
Le vicende storiche
1. Il risveglio dei popoli coloniali
Il tema proposto ha un enorme valore storico: è la decolonizzazione, fenomeno opposto a
quello della colonizzazione. Quest’ultimo – sviluppatosi tra il XVII e il XIX- ha portato, spesso
nel più brutale dei mondi, un gran numero di genti dell’Asia, dell’Africa e dell’America sotto il
dominio di altre genti.
La decolonizzazione si svolge invece nel corso di pochi decenni del XX secolo e interessa interi
continenti; crea nuove nazioni, grandi e piccole, che entrano a far parte della famiglia dei
popoli liberi; viceversa, provoca la fine degli imperi coloniali.
Le premesse all’avvio dei movimenti di indipendenza. Tentativi di emancipazione dai
colonizzatori si erano già verificati nei secoli precedenti. Ricordiamo due importanti episodi: i
coloni americani impugnano le armi contro il re inglese, proclamano l’indipendenza e si danno
una Costituzione; due avventurosi generali, Simon Bolivar e Josè de San Martin, liberano
l’America Latina dagli spagnoli e portoghesi (dal crollo dei due imperi coloniali nascono ben 16
stati!).
Solo intorno alla metà del Novecento, però, si creano le condizioni idonee al decollo del
movimento anticolonialista, di cui sono protagoniste le popolazioni indigene di Asia e Africa.
Accenniamo allora ad alcune di tali condizioni:
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La prima guerra mondiale ha coinvolto sui fronti europei molti soldati di colore,
appartenenti ai reggimenti coloniali, i quali sono stati messi a contatto con una realtà
economica e sociale diversa, specie con la libertà di cui gode in Occidente;
Con la partecipazione alla seconda guerra mondiale le truppe coloniali (ben due milioni
gli arruolati solo dall’India) hanno potuto assumere una coscienza politica, anche perché
questo conflitto ha avuto tra i suoi obiettivi la vittoria della democrazia: tornati al lavoro
– nelle piantagioni dell’Indocina o nelle miniere del Congo – i reduci hanno trasmesso ai
loro connazionali le loro esperienze e i nuovi principi acquisiti;
L’occupazione, da parte dei giapponesi, di vaste porzioni di imperi coloniali che
sembravano invincibili (di Francia, Gran Bretagna, Olanda) ha dimostrato alle
popolazioni indigene che la terribile forza dei colonizzatori stava diventando una “tigre
di carta”;
Detengono la direzione e la guida (leadership) gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: le
vedute sul colonialismo delle due superpotenze sono diverse da quelle delle nazioni
colonialiste europee.
Le spinte ideologiche. Nei vari paesi sottomessi, esistono movimenti e partiti clandestini, che
seguono ideologie (cioè concezioni politiche e sociali) diverse: i nazionalisti aspirano alla
riunificazione nazionale del proprio paese; i socialisti e i comunisti sostengono il principio
dell’uguaglianza tra i popoli; gli aderenti ai gruppi di tendenza antimperialista auspicano una
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liberazione totale, cioè sia dal colonialismo sia dal capitalismo, da ottenere con una rivoluzione
a livello mondiale. Tutti, però, qualsiasi veduta abbaiano, sostengono con manifestazioni e
iniziative di vario genere le lotte che si sviluppano localmente; a queste partecipano anche
nuclei della borghesia locale.
Le lotte in Asia e in Africa. Le lotte si svolgono nel giro di una trentina d’anni. L’india è tra i
primi paesi (1947) a liberarsi dal dominio straniero.
In diversi casi, le potenze coloniali europee reagiscono rabbiosamente ai tentativi delle
popolazioni sottomesse di ottenere l’indipendenza. Stragi disumane insanguinano il
Madagascar, l’Indonesia, l’Algeria e il Vietnam.
Nel 1975 tutti i popoli dei continenti asiatico e africano hanno ottenuto l’indipendenza politica.
Più difficile è il raggiungimento dell’emancipazione economica. Infatti molti dei nuovi Stati
continueranno a restare dipendenti dalle nazioni occidentali per quanto riguarda le loro finanze e
le risorse tecnologiche.
2. Il nuovo volto dell’Asia
Il popolo indiano verso la libertà. “Io credo che la razza britannica sia la più grande delle razze
dominatrici che il mondo abbia mai visto”: è quanto afferma uno statista britannico negli anni
in cui la sterlina, la flotta e colonie inglesi sono d’esempio agli altri paesi. Eppure cinquanta
anni dopo tutto questo non sarà più vero, smentito dalla lotta del popolo indiano, privo di armi,
di denaro, di ogni potere. E che pure intraprende la strada per la sua emancipazione.
Certo si tratta di una via lunga e aspra. A condurre gli indiani alla liberazione è una duplice
guida: il Partito del Congresso (costituitosi nel 1920); il suo leader Mohandas Gandhi, che in
Sudafrica ha difeso gli immigrati indiani dalle vessazioni dei bianchi. Tra il 1921 e il 1942, per
l’influenza esercitata da Gandhi – chiamato dal popolo Mahatma (grande anima) -, il
movimento anticolonialista assume la forma della disobbedienza civile del boicottaggio
economico.
Vi è, però, un aspetto che rende ancor più difficile questa situazione: alcuni dei capi del
movimento indipendentista sono musulmani, altri di religione induista; tra loro esiste un
antagonismo che ne viene fomentato in tutti i modi dagli inglesi.
Nell’immediato dopoguerra (1946), la tensione degli indiani verso la liberazione diventa
estremamente alta, la pressione popolare fortissima. Così, quando in Gran Bretagna va al
governo il Partito laburista, questo prende una decisione storica: rinunciare all’Impero,
accordare all’indipendenza all’India.
1947: l’’anno dell’indipendenza e della tragedia. Il 15 agosto, giorno della proclamazione
dell’indipendenza, è grande festa. Ma il giorno successivo tra la popolazione esplode la
violenza, dovuta a risentimenti razziali e religiosi.
Gli scontri tra i fanatici indù e musulmani diventano furiosi, le minoranze etniche sono costrette
a drammatiche migrazioni: la tragedia si esprime con due cifre: oltre 1 milione di morti, 14
milioni di profughi.
I capi politici arrivano allora alla decisione di separare il paese in due parti: l’Unione Indiana,
abitata in prevalenza da indù; il Pakistan, musulmano.
Tra i due nuovi Stati, che faranno comunque parte del Commonwealth britannico, inizia una
difficile convivenza.
L’indipendenza di altri paesi asiatici. Le Filippine, dominate dagli Stati Uniti sino a quando i
giapponesi le hanno occupate, si rendono indipendenti subito dopo la fine della guerra; di lì a
poco, le seguono l’Indonesia (già colonia olandese), la Birmania, Singapore, la Malasya.
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3. il “Risorgimento africano”
All’’indomani della seconda guerra mondiale i popoli africani si impegnano in un movimento
per la liberazione che, data la sua ampiezza e continuità, è stato chiamato dagli studiosi
“Risorgimento africano”.
L’Africa Settentrionale – Libia, Marocco, Tunisia, Algeria – si libera tra il 1951 e il 1962.
La Gran Bretagna, accortasi di non poter più frenare la spinta delle popolazioni coloniali verso
la libertà, dapprima decide di non fare ricorso alle carcerazioni e alle stragi, poi, agli inizi degli
anni Sessanta, concede l’indipendenza. Diventano liberi la Costa d’Oro, il Sudan, il Kenia, il
Gambia, la Nigeria, la Somalia e l’Uganda.
In quello stesso periodo quattordici tra colonie e mandati francesi finiscono per conquistare
l’indipendenza (Mali, Camerun, Madagascar, Congo, Costa d’Avorio).
Nel decennio successivo è la volta della Guinea Bissau, dell’Angola e del Monzambico, già
sotto dominio portoghese, che dopo una lunga lotta armata riescono ad ottenere l’indipendenza.
4. L’America latina
E’ corretto parlare di colonizzazione per l’America latina?
Le opinioni degli studiosi sono discordi; tutti, però, riconoscono che in questa parte del
continente americano è stato esercitato l’imperialismo da parte degli Stati Uniti. Questa
nazione controlla alcuni governi per motivi politici e per interessi economici.
Perciò, in questi paesi la reazione popolare è antimperialista.
La lotta consiste nel ripetersi di azioni compiute da formazioni armate, i quali cercano di
ottenere condizioni di vita più civili nel loro paese.
In molti casi, appena un governo democratico riesce a stabilirsi, l’intervento statunitense diretto
o indiretto lo rovescia.
In due paesi dell’America centrale i movimenti antimperialisti hanno già maggiore fortuna:
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In Nicaragua il Fronte sandinista di liberazione nazionale prende il potere rovesciando
il regime tirannico di Anastasio Somoza;
L’isola di Cuba viene liberata dalla dittatura di Fulgencio Batista dai combattenti
guidati da Fidel Castro ed Ernesto “che” Guevara.
5. Limiti e conseguenze della decolonizzazione
Una colonia, conquistata l’indipendenza, diventa uno Stato; deve quindi darsi un
ordinamento, una legislazione (cioè un complesso di leggi), un governo. Ma tutto ciò
comporta un rischio: che l’ordinamento statale, le leggi, il governo non siano democratici,
ma anzi oppressivi e repressivi.
In effetti, diverse popolazioni africane e asiatiche ottengono la liberazione ma non la
libertà, non la democrazia.
Un altro limite, meno grave, è costituito dalla mancanza di quella che possiamo chiamare
l’emancipazione economica. Diversi dei nuovi Stati infatti continuano a dipendere
economicamente dalle potenze occidentali più ricche. Tra l’’altro sono privi di industrie e
di finanziamenti per crearle; come pure di conoscenze tecnologiche per farle funzionare e
produrre degnamente.
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Un altro tragico problema è costituito dalle lotte tribali e religiose. In Africa, specialmente
nella regione dell’ex Congo belga, si ripetono episodi tragici di tipo analogo. La differenza
etnica delle popolazioni chiamate a convivere nei nuovi Stati provoca terribili odi e gelosie,
ma anche dissidi furibondi riguardanti i rispettivi interessi. E tutto ciò causa ben presto
guerre civili intermittenti e sanguinosa tra diverse tribù.
Queste tragiche vicende hanno fatto ritenere certi studiosi che, probabilmente,
l’emancipazione coloniale in alcuni casi fu troppo rapida, e trovò le popolazioni locali
impreparate ad affrontare problemi vasti e complessi.
6. la Repubblica popolare cinese
Durante la guerra contro il Giappone invasore, il kuomintang (cioè il partito nazionalista, al
governo dal 1928) capeggiato da Chiang Kai-shek e il Partito comunista cinese hanno
riunito le loro forze.
Battuti i nipponici, l’accordo si rompe; i nazionalisti, riforniti abbondantemente di
materiali bellici dagli Stati Uniti, tentano di mettere fuori combattimento i loro antichi
antagonisti; ma l’Armata Rossa, guidata da Mao Tse-tung, è forte dell’aiuto della gente
delle campagne.
La battaglia decisiva tra le due parti si combatte nel gennaio 1949. I seguaci di Mao hanno
la meglio e possono conquistare Pechino, Shanghai e Canton, le più importanti città cinesi.
Viene infine proclamata la Repubblica popolare cinese; seguono numerosi processi ai
controrivoluzionari e agli sfruttatori del popolo, che vengono giustiziati.
Chang Kai-shek e i resti della sua armata si rifugiano nell’isola di Taiwan e vi insediano,
con la protezione statunitense, un governo dittatoriale che sino al 1971 sarà riconosciuto
dall’Onu come il legittimo governo cinese.
I primi anni della Repubblica. Riforma agraria, industrializzazione costituiscono i
primi obiettivi della Repubblica popolare. Sull’esempio sovietico, si attuano piani
quinquennali, che dovrebbero risolvere anche i primi problemi della fame e raggiungere
l’autosufficienza alimentare: un compito difficile uno di uno Stato di mezzo miliardo di
persone. Infatti i risultati disuguali, tanto vero determinarono forti carestie.
A partire dal 1956, poi, la Cina si trova in dissidio proprio con l’Unione Sovietica perché
rivendica alcune regioni di frontiera che l’Urss non vuole sostituire e perché intende
attuare un proprio modello di socialismo, diverso da quello russo.
Anni sessanta: tra il 1966 e il 1967 si sviluppa la cosiddetta rivoluzione culturale. È un
movimento condotto dalle “guardie rosse” giovanili – e approvate dal leader Mao Tsetung – che condanna perseguita intellettuali e rivoluzionari pubblici a causa del loro
presunto revisionismo(allontanamento dell’ideologia maoista). Il movimento degenera in
anarchia lo stesso maoista a porvi fine.
7. I paesi “non allineati”. Il sottosviluppo
1955: a Bandung si riuniscono ventinove delegazioni di tanti paesi; rappresentano la metà
della popolazione del mondo, ma nell’insieme il loro reddito è appena l’8% di quello
mondiale. Sukarno, il presidente dell’Indonesia, che presiede l’assemblea, si riallaccia alle
parole del primo ministro indiano Jawaharial P. Nehru: “Noi vogliamo essere compagni
e amici delle altre nazioni e guide di nessuno, come noi non vogliamo guide sopra di noi”.
Sono cinque i punti stabiliti nella conferenza: nel rispetto dalla sovranità di ogni Stato; non
ingerenza nei suoi affari interni; non aggressione; coesistenza pacifica; solidarietà.
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Infine i paesi assumono la seguente posizione né con gli Stati Uniti, né con l’Unione
Sovietica.
Negli anni successivi a Sukarno e Nehru si aggiunge il presidente egiziano Gamal Nasser,
che rappresenta il mondo arabo.
Al movimento dei paesi “non allineati” aderiscono negli anni Sessanta, esponenti socialisti
di prestigio: il maresciallo Tito, presidente della Repubblica iugoslava, e Fidel Castro.
Sottosviluppo: la condizione delle nazioni povere. Tra i paesi “non allineati” parecchi sono
poverissimi, appartengono all’area del cosiddetto sottosviluppo. Ecco un concetto e una
realtà tuttora, per molti aspetti, validi.
Secondo molti studiosi si può parlare di sottosviluppo quando esistono:
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Un’agricoltura a bassa produttività, un’industria debole, un settore terziario quasi
inesistente;
L’insufficienza alimentare, derivante dalla scadenza di risorse a disposizione e la
consistenza della popolazione;
Una forte disoccupazione, che spinge emigrare verso energie migliori;
Un’elevata diffusione dell’analfabetismo e di malattie gravi;
La concentrazione nelle città di masse di persone poverissime e disperate;
Una notevole dipendenza economica e politica da altri paesi.
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